In estate andò in Jugoslavia per quattro settimane. I primi tempi stava sempre nella sua camera d’albergo, al buio, tastandosi la testa. Non poteva leggere niente, perché i suoi pensieri si sovrapponevano sempre alla lettura. Continuava ad andare in bagno a lavarsi.
Poi si azzardò a uscire e sguazzò un pochino in mare. Era in vacanza per la prima volta, e per la prima volta al mare. Il mare le piacque, di notte era spesso tempestoso, ma non importava se lei era sveglia. Si comprò un cappello di paglia per il sole e lo rivendette il giorno della partenza. Ogni pomeriggio si sedeva al bar e beveva un espresso. Scriveva a tutti i conoscenti cartoline e lettere che parlavano di lei solo incidentalmente.
Le ritornò il senso del trascorrere del tempo e del mondo esterno. Spiava con curiosità i discorsi dei tavoli vicini, cercava di capire quali legami unissero le varie persone.
Verso sera, quando non faceva più così caldo, attraversava quei paesini, e guardava dentro alle case senza porta. La sua era una meraviglia concreta; perché non aveva mai visto una miseria così estrema. Il mal di testa cessò. Non doveva pensare più a niente, a tratti era completamente fuori dal mondo. La noia che provava, era piacevole.
Di ritorno a casa, per la prima volta dopo molto tempo parlò senza essere interrogata. Raccontò molto. Permise che io la accompagnassi nelle sue passeggiate. Andavamo spesso a mangiare fuori, lei si abituò a bere prima un Campari. Il gesto di toccarsi la testa era ormai ridotto quasi a un tic. Le venne in mente che un anno prima, in un caffè, era stata persino abbordata da un uomo. «Ma era molto educato!» L’estate successiva voleva andare al Nord, dove non faceva poi tanto caldo.
Si impigriva, stava seduta in giardino con le vecchie amiche, fumava e cacciava le vespe dal caffè.
C’era il sole e il tempo era mite. I pini sulle colline intorno erano velati di vapore tutto il giorno, per qualche tempo non furono più così cupi. Lei metteva in conserva frutta e verdura per l’inverno, pensava di prendersi in casa un bimbo abbandonato.
Io conducevo già una vita troppo autonoma. A metà agosto ritornai in Germania e la abbandonai a se stessa. Nei mesi successivi scrissi una storia, e lei di tanto in tanto dava notizie.
«Ho la testa un po’ confusa, certe giornate sono dure da sopportare.
«Qui è freddo e brutto, la mattina c’è la nebbia. Dormo molto, e quando poi mi tiro fuori dal letto, mi manca la voglia di fare qualsiasi cosa. Per il bambino abbandonato, niente da fare per il momento. Siccome mio marito ha la tubercolosi, non me lo danno.
«A ogni pensiero piacevole la porta si chiude, e mi ritrovo sola coi miei pensieri paralizzanti. Mi piacerebbe tanto scrivere cose più simpatiche, ma non c’è niente. Mio marito è stato qui per cinque giorni, e non avevamo più niente da dirci. Quando io comincio un discorso, lui non capisce che cosa voglio dire, e allora preferisco non dire niente. Eppure, in qualche modo, ero contenta che lui venisse, ma quando è qui, non posso neanche guardarlo. Lo so, dovrei trovare da me un modo per rendere sopportabile questa situazione, e ci penso sempre, ma non mi viene in mente niente di ragionevole. È meglio che tu legga questa merda e te la dimentichi in fretta.
«A stare in casa non resisto, e così corro di qua e di là. Adesso mi alzo un po’ prima, è l’ora più difficile per me, devo costringermi a fare qualcosa per non tornare a letto. Non so cosa fare del mio tempo. C’è una grande solitudine in me, non mi va di parlare con nessuno. Spesso ho voglia di bere qualcosa alla sera, ma non posso, perché la medicina non farebbe effetto. Ieri sono andata a Klagenfurt e sono stata in giro un po’ qua e un po’ là per tutto il giorno, poi alla sera ho preso l’ultimo autobus per un pelo.»
In ottobre non scrisse affatto. Nelle belle giornate d’autunno la si incontrava per la strada, dove veniva avanti molto lentamente, e si cercava di indurla a camminare un po’ più in fretta. Invitava chiunque conoscesse a bere un caffè con lei e farle compagnia. La invitavano anche continuamente a fare delle gite la domenica, e lei si lasciava condurre volentieri dappertutto. Visitò le ultime fiere dell’anno. Andò persino a qualche partita di calcio. Stava seduta con aria indulgente tra la folla, che si entusiasmava al gioco, e non apriva quasi più la bocca. Ma quando, durante la campagna elettorale, il cancelliere si fermò al paese e distribuì dei garofani, improvvisamente si fece fuori e chiese un garofano anche lei: «E a me non me lo dà?» «Scusi, signora!».
Ai primi di novembre ricominciò a scrivere. «Non sono abbastanza coerente da pensare tutto sino in fondo, e la testa mi fa male. Qualche volta ronza e fischia tanto che non riesco a sopportare nessun altro rumore.
«Parlo da sola, perché non riesco più a dire niente a nessun altro. Qualche volta mi sembra di essere una macchina. Mi piacerebbe andare da qualche parte, ma’ quando si fa buio mi viene la paura di non ritrovare più la strada. La mattina c’è una nebbia fitta, e tutto è così silenzioso. Ogni giorno faccio gli stessi lavori, e al mattino c’è daccapo disordine. È un cerchio infernale senza fine. Mi piacerebbe proprio essere morta, e per la strada ho voglia di lasciarmi cadere quando passa una macchina. Ma poi la cosa riuscirà al cento per cento?
«Ieri ho visto alla televisione La mite di Dostoevskij, per tutta la notte ho visto cose terribili, non ho sognato, le ho viste davvero, degli uomini che passeggiavano nudi e al posto del sesso penzolavano gli intestini. Il 1°-12 mio marito viene a casa. Ogni giorno divento più inquieta e non ho idea di come sarà ancora possibile vivere con lui. Ciascuno guarda in un angolo diverso, e la solitudine diventa ancora più grande. Ho freddo e farò ancora qualche giretto.»
Spesso si chiudeva in casa. Se gli altri, al solito, si lamentavano davanti a lei, li zittiva bruscamente. Era molto severa con tutti, si schermiva, rideva un momento. Gli altri non erano che dei bambini, la disturbavano, e tutt’al più la commuovevano un po’.
Poteva anche essere scostante. Si veniva rimproverati aspramente da lei, in sua presenza ci si sentiva persino ipocriti.
Se la fotografavano, non era più capace di assumere un’espressione. Corrugava la fronte e rialzava le guance per un sorriso, ma gli occhi guardavano con pupille che erano scivolate via dal centro dell’iride, in una tristezza inguaribile.
Il semplice esistere diventava una tortura.
Ma altrettanto orrore aveva della morte.
«Faccia delle passeggiate nel bosco!» (il neurologo).
«Ma nel bosco è scuro!» disse con sarcasmo, dopo la sua morte, il veterinario del paese, suo confidente occasionale.
La nebbia ristagnava giorno e notte. A mezzogiorno provava a spegnere la luce, e la riaccendeva subito dopo. Dove guardare? Incrociare le braccia e posare le mani sulle spalle. Di tanto in tanto invisibili seghe a motore, un gallo che per tutto il giorno aveva creduto che fosse l’alba e aveva continuato a cantare sino a pomeriggio inoltrato, poi le sirene dell’uscita dal lavoro.
Di notte la nebbia si srotolava contro le finestre. A intervalli irregolari sentiva una nuova goccia scorrere sul vetro esterno. Per tutta la notte restava acceso il termoforo sotto il lenzuolo.
Al mattino il fornello continuava a spegnersi. «Non voglio fare uno sforzo.» Non riusciva più a chiudere gli occhi. Nella sua coscienza si realizzò il GRANDE CASO (Franz Grillparzer).
(Da questo momento devo stare attento che la storia non si racconti troppo da sola.)