Capitolo 2
Il mio interesse per i sordi - per la loro storia, la drammaticità della loro situazione, la loro lingua, la loro cultura - incominciò quando dovetti recensire il libro di Harlan Lane. In particolare, non riuscivo a togliermi dalla mente la descrizione di quei sordi che non avevano mai imparato una lingua, quale che fosse: le loro evidenti menomazioni intellettuali e, altra cosa gravissima, le distorsioni cui può andare incontro il loro sviluppo emotivo e sociale in assenza di una qualsivoglia autentica possibilità di comunicazione. Che cosa ci è indispensabile, mi chiedevo, per diventare esseri umani completi? La nostra cosiddetta umanità dipende in qualche misura dal linguaggio?
Che cosa ci accade se non siamo messi in grado di apprendere una lingua? Il linguaggio si sviluppa spontaneamente e naturalmente, oppure richiede il contatto con altri esseri umani?
Un modo, invero drammatico, di studiare questi problemi è osservare gli esseri umani che sono stati privati del linguaggio; e la privazione del linguaggio, sotto forma di afasia, è un tema centrale della neurologia fin dalla metà del secolo scorso; su di essa hanno scritto abbondantemente Jackson, Head, Goldstein e Lurija, e anche Freud vi ha dedicato una monografia, nel 1891. Ma l'afasia è la privazione del linguaggio (in seguito a un ictus o a un altro incidente cerebrale) in una mente già formata, in un individuo compiuto. Si può dire che in questi casi il linguaggio aveva già fatto la sua parte (se una parte gli compete nella formazione della mente e del carattere). Chi intende esplorare il ruolo fondamentale del linguaggio deve studiare non già la sua perdita dopo l'acquisizione, ma i casi in cui tale acquisizione non è avvenuta.
Eppure mi era difficile immaginare una situazione simile: avevo pazienti colpiti dalla perdita dell'uso della parola, pazienti afasici, ma non riuscivo a concepire che cosa significasse non avere mai acquisito neanche i rudimenti del linguaggio.
Due anni orsono, alla Braefield School for the Deaf, conobbi Joseph, un ragazzo di undici anni che aveva cominciato allora a frequentare la scuola - un undicenne assolutamente privo di linguaggio. Era nato sordo, ma fino ai quattro anni nessuno se n'era accorto (1). Il fatto che nonostante l'età non parlasse e non capisse quello che dicevano gli altri era stato attribuito a un «ritardo», poi ad «autismo», e queste diagnosi gli erano rimaste appiccicate. Quando alla fine la sua sordità fu evidente, venne considerato come un «sordomuto» di poca intelligenza e mai fu fatto alcun vero tentativo di insegnargli a parlare.
Joseph bramava di comunicare, ma non poteva farlo. Non sapeva parlare, né scrivere, né esprimersi con i segni: solo la pantomima e i gesti gli erano accessibili, oltre al disegno, per cui aveva una marcata disposizione. Che cosa è accaduto a questo ragazzo? seguitavo a chiedermi. Che cosa succede nella sua testa, come è arrivato a questo punto? Appariva vivace e animato, ma profondamente sconcertato: i suoi occhi erano attirati dalle bocche che parlavano e dalle mani che segnavano, le dardeggiava di sguardi interrogativi, straniti, ma anche, mi parve, bramosi. Egli avvertiva che in quei momenti tra noi «passava» qualcosa, ma non riusciva a capire di che cosa si trattasse - non possedeva, fino ad allora, la minima idea di una comunicazione simbolica, di che cosa fosse possedere una moneta simbolica, scambiarsi dei significati.
Privato in precedenza di ogni opportunità (non era mai stato esposto ai Segni) e menomato nelle motivazioni e negli affetti (soprattutto, defraudato della gioia che devono dare il gioco e il linguaggio), Joseph cominciava solo ora a impadronirsi dei primi rudimenti dei Segni, ad avere un accenno di comunicazione con gli altri. La cosa gli procurava, manifestamente, una grande gioia; sarebbe voluto restare a scuola tutto il giorno, tutta la notte, tutti i fine settimana, insomma sempre. La sua angoscia, quando doveva lasciare la scuola, era straziante, perché ritornare a casa significava, per lui, ritornare al silenzio, ritornare a un disperante vuoto comunicativo, in cui non poteva aver alcuno scambio con i genitori, i vicini, gli amici; significava essere ignorato, tornare ad essere una non persona.
Era una situazione toccante, straordinaria - di cui non avevo un esatto parallelo nella mia esperienza. Mi faceva in parte ripensare a un bambino di due anni fremente sulla soglia del linguaggio - ma Joseph aveva undici anni, e sotto tanti altri aspetti era come tutti i bambini della sua età. Mi richiamava anche alla mente un animale, ma nessun animale ha mai dato quell'impressione di ardente bramosia del linguaggio. Mi ricordai che Jackson una volta paragonò gli afasici ai cani - ma i cani sembrano completi e appagati nella loro mancanza di linguaggio, mentre gli afasici soffrono di una tormentosa sensazione di perdita. Anche Joseph ne soffriva: era evidente che provava la pena angosciosa di un vuoto, che si sentiva come mutilato e manchevole di qualcosa. Mi faceva pensare ai bambini selvaggi, bambini ferini; e tuttavia non era certo un «selvaggio», ma una creatura della nostra civiltà, con i nostri costumi - una persona, però, radicalmente isolata.
Joseph non era in grado, per esempio, di comunicare come aveva passato il fine settimana, e non si poteva chiederglielo, neanche con i Segni; non era in grado di afferrare il concetto stesso di domanda, e quindi tanto meno di formulare una risposta. Ma non era solo il linguaggio a mancargli: era evidente che non possedeva un senso chiaro del passato, della differenza tra «un giorno fa» e «un anno fa». Questa strana assenza del senso storico dava l'impressione di una vita priva di spessore temporale, della dimensione autobiografica, di una vita che esisteva solo nell'attimo presente.
La sua intelligenza visiva - la sua capacità di risolvere rompicapo e problemi visivi - era buona, in radicale contrasto con le gravi difficoltà che incontrava nei problemi di natura verbale. Disegnava bene e molto volentieri: faceva buoni schizzi della stanza, gli piaceva disegnare le persone; capiva le vignette, afferrava i concetti visivi. Fu questo soprattutto a darmi la sensazione della sua intelligenza, un'intelligenza, però, in gran parte confinata al mondo visivo. Imparò in un baleno a giocare a «filetto», e divenne ben presto molto bravo; ebbi la sensazione che avrebbe imparato facilmente a giocare a dama o a scacchi.
Joseph vedeva, distingueva, categorizzava, usava; non aveva problemi nella categorizzazione o generalizzazione "percettiva", ma non sembrava in grado di andare molto al di là di questo, di avere idee astratte, di riflettere, elaborare, progettare. Sembrava completamente «letterale»: incapace di manipolare immagini, ipotesi o possibilità, incapace di penetrare in un regno immaginativo o figurativo. Eppure dava la sensazione di avere un'intelligenza normale, a dispetto di tutti questi limiti evidenti delle funzioni intellettive. Non che gli mancasse la mente; solo che non la "usava in modo completo".
E' evidente che pensiero e linguaggio hanno origini (biologiche) del tutto distinte, che l'esplorazione e l'interiorizzazione del mondo e l'interazione con esso precedono abbondantemente l'avvento del linguaggio, che esiste un'ampia gamma di forme di pensiero - negli animali, nei bambini piccoli - assai prima che il linguaggio emerga. (Nessuno ha studiato queste cose meglio di Piaget, tuttavia esse sono evidenti per tutti i genitori, e per chiunque abbia in casa un animale). Un essere umano privo di linguaggio non è privo della mente o mentalmente deficiente, ma l'orizzonte delle sue capacità di pensiero è gravemente limitato, e lo confina, in pratica, in un mondo angusto, immediato (2).
Per Joseph si schiudeva adesso una comunicazione, un linguaggio, e la cosa lo faceva fremere di entusiasmo. A scuola avevano capito che non gli occorreva solo un'istruzione formale, ma che aveva bisogno di giocare con le parole, fare giochi linguistici, come fa il bambino piccolo quando impara a parlare. In tal modo, si sperava, egli avrebbe cominciato ad acquisire il linguaggio e il pensiero concettuale, ad acquisirlo nell'atto di compiere un gioco intellettuale. Mi vennero alla mente i gemelli descritti da Lurija, che in un certo senso erano tanto «ritardati» perché parlavano tanto male, e il loro enorme miglioramento dopo che ebbero imparato a parlare scorrevolmente (3).
Poteva accadere la stessa cosa anche a Joseph?
Il termine «infante» significa letteralmente «che non parla», e molte cose fanno pensare che l'acquisizione del linguaggio segni un progresso qualitativo assoluto nello sviluppo della natura umana.
Malgrado fosse un undicenne ben sviluppato, attivo, intelligente, Joseph sotto questo aspetto era ancora un infante; gli era negato il potere, il mondo, a cui il linguaggio dà accesso. Per citare Joseph Church:
«Il linguaggio apre nuovi orientamenti e nuove possibilità di imparare e di agire, di dominare e trasformare le esperienze preverbali ... Il linguaggio non è solo una funzione tra altre funzioni ... ma una caratteristica che pervade l'intero individuo, facendone un "organismo verbale" (del quale tutte le esperienze, le azioni e le idee sono ora alterate in funzione dell'esperienza verbalizzata, o simbolica).
«Il linguaggio trasforma l'esperienza ... Attraverso di esso ... si può introdurre il bambino in un regno puramente simbolico dove esistono passato e futuro, luoghi lontani, rapporti astratti, eventi ipotetici, una letteratura basata sull'immaginazione, entità immaginarie che vanno dai lupi mannari ai mesoni p greco ...
«Al tempo stesso l'apprendimento del linguaggio trasforma l'individuo in modo tale da consentirgli di fare cose nuove, o di fare le cose vecchie in un modo nuovo. Il linguaggio ci dà l'accesso a cose che sono lontane, ci permette di agire su di esse senza che vi sia alcun contatto fisico. Innanzitutto, possiamo agire su altre persone, o su oggetti tramite le persone ... In secondo luogo, possiamo manipolare i simboli in modi che sarebbero impossibili con le cose che essi rappresentano, e così arrivare a versioni della realtà nuove e persino creative ... Possiamo riorganizzare verbalmente situazioni che nella realtà non si presterebbero a una riorganizzazione ... possiamo isolare aspetti che non sono concretamente isolabili ... possiamo confrontare oggetti ed eventi che sono distanti nello spazio e nel tempo ... possiamo, se vogliamo, rovesciare simbolicamente l'universo come se fosse un guanto» (4).
Noi possiamo fare tutte queste cose, ma Joseph no. Joseph non poteva raggiungere quel plano simbolico che è un diritto di nascita dell'essere umano normale fin dalla primissima infanzia. Sembrava fissato nel presente, come un animale, come un neonato, confinato in una percezione letterale e immediata, e tuttavia reso cosciente di tutto ciò da una consapevolezza che nessun neonato potrebbe avere.
Cominciai a riflettere e ad interrogarmi su altri sordi che avessero raggiunto l'adolescenza, magari l'età adulta, senza possedere linguaggio di sorta. Ce n'erano stati, e in numero considerevole, nel Settecento: tra i più famosi, Jean Massieu. Privo del linguaggio fino a quasi quattordici anni, Massieu fu uno dei più grandi successi educativi della scuola di Sicard; questi scrisse su di lui un intero libro, per illustrare come fosse possibile «liberare» una persona priva di linguaggio, facendone un essere affatto diverso (5). Nella scuola, Massieu imparò a esprimersi con notevole eloquenza sia nella lingua dei segni sia nel francese scritto, lasciandoci anche una breve autobiografia, in cui racconta della sua infanzia e adolescenza in una fattoria con otto tra fratelli e sorelle, cinque dei quali erano come lui sordi dalla nascita.
«Fino all'età di tredici anni e nove mesi rimasi a casa, senza ricevere alcuna istruzione. Ero completamente analfabeta. Esprimevo le mie idee con segni manuali e gesti ... i segni che usavo per comunicare quello che pensavo ai miei familiari erano completamente diversi dai segni dei sordomuti istruiti. Gli estranei non ci comprendevano, quando ci esprimevamo con i segni, ma i vicini sì ... I bambini della mia età non volevano giocare con me, mi guardavano dall'alto in basso; ero come un cane. Passavo il tempo da solo, giocando con una trottola o con una mazza e una palla, o camminando sui trampoli».
Non è facile stabilire che cosa succedesse nella testa di Massieu in assenza di un vero e proprio linguaggio (ma non v'è dubbio che egli fosse in grado di comunicare ampiamente, anche se in una forma primitiva, mediante i segni «privati» escogitati da lui e dai suoi fratelli, che costituivano un sistema gestuale complesso, ma sostanzialmente privo di grammatica) (6); Massieu racconta:
«Vedevo buoi, cavalli, asini, maiali, cani, gatti, piante, case, campi, vigne, e dopo aver visto tutte queste cose me le ricordavo bene».
Aveva anche un'idea dei numeri, pur mancando dei nomi per indicarli:
«Prima di ricevere un'istruzione formale non sapevo contare; le dita furono il mio maestro. Non conoscevo i numeri; contavo sulle dita, e quando il conto andava oltre al dieci facevo delle tacche su un bastone».
E ci racconta, in toni commoventi, come invidiasse gli altri bambini che andavano a scuola; come più volte avesse preso in mano un libro, senza riuscire a farsene nulla, e come avesse cercato di copiare le lettere dell'alfabeto con una penna di un'oca, sapendo che dovevano avere un qualche strano potere, ma incapace di dar loro un significato.
Il racconto fatto da Sicard sul modo in cui educò Massieu è affascinante. Avendo osservato che il ragazzo aveva occhio (cosa che anch'io avevo notato in Joseph), cominciò con il disegnare alcuni oggetti, invitando Massieu a fare lo stesso. Poi, per iniziarlo al linguaggio, scrisse su ogni figura il nome dell'oggetto corrispondente. Sulle prime l'allievo «restò completamente interdetto.
Non riusciva a capire come quelle linee, pur non riproducendo figurativamente un oggetto, potessero fungere da immagini di quell'oggetto e rappresentarlo con tanta precisione e rapidità». Poi, all'improvviso, il velo cadde e Massieu afferrò il concetto di rappresentazione astratta e simbolica: «In quel momento, comprese tutti i vantaggi e la difficoltà della scrittura ... [e] da quel momento in poi bandimmo i disegni, sostituendoli con la scrittura».
Ora che Massieu aveva capito che si poteva rappresentare un oggetto, o un'immagine, con un nome, gli nacque una fame di nomi violenta e insaziabile. Andavano a fare passeggiate insieme, e Massieu non si stancava mai di chiedere e di annotare il nome di tutto quello che vedeva:
«Visitammo un frutteto per dare un nome a tutti i frutti. Andammo in un bosco per distinguere la quercia dall'olmo ... il salice dal pioppo, e infine tutti gli altri abitanti ... Fogli e matite non gli bastavano mai, per tutti i nomi di cui io andavo riempiendo il suo dizionario, e la sua anima pareva espandersi e crescere insieme con queste interminabili denominazioni ... Le visite di Massieu erano quelle di un proprietario terriero che vede per la prima volta i suoi ricchi domini».
Con l'acquisizione dei nomi, di una parola per ogni cosa, avvenne, osserva Sicard, un cambiamento radicale nel rapporto di Massieu con il mondo - era diventato una specie di Adamo: «Questo nuovo venuto sulla terra era uno straniero nei suoi possedimenti, che gli venivano restituiti via via che ne imparava i nomi».
Domandiamoci: perché Massieu chiedeva tutti quei nomi? E perché lo fece Adamo, che era ancora solo? Perché dare un nome a un oggetto suscitava in Massieu tanta gioia, e faceva espandere e crescere la sua anima? In che modo i nomi mutarono il suo rapporto con le cose prima senza nome, così da fargli sentire che ora le possedeva, che erano diventate il suo «dominio»? A che cosa serve dare dei nomi?
Sicuramente deve avere a che fare con il potere primordiale delle parole di definire, enumerare, padroneggiare e manipolare; di passare dal regno degli oggetti e delle immagini al mondo dei concetti e dei nomi. Il disegno di una quercia rappresenta un particolare albero di quercia, ma il nome «quercia» denota l'intera classe delle querce, un'identità generale - la «quercità» - che vale per tutte le querce.
Dare un nome, allora, era per Massieu, mentre passeggiava per i boschi, conquistare per la prima volta un potere di generalizzazione capace di trasformare il mondo intero; così, a quattordici anni, egli faceva ingresso nei possedimenti umani, poteva riconoscere il mondo come la propria dimora, il proprio «dominio», in un modo che in precedenza egli non aveva mai conosciuto (7). Vygotskij scrive:
«Una parola non si riferisce a un singolo oggetto, ma a un gruppo, o classe, di oggetti. Ogni parola è quindi già una generalizzazione. La generalizzazione è un atto verbale di pensiero, che riflette la realtà in un modo del tutto diverso dal modo in cui la riflettono la sensazione e la percezione» (8).
Più avanti Vygotskij parla del «salto dialettico» tra sensazione e pensiero, un salto che richiede il raggiungimento di «un riflesso "generalizzato" della realtà, che è anche l'essenza del significato della parola».
Così, per Massieu, sostantivi, nomi, espressioni nominali vennero per primi. Occorrevano anche gli aggettivi qualificativi, ma qui si presentava qualche problema.
«Massieu non aspettò di conoscere gli aggettivi; per attribuire a un oggetto una particolare qualità, si serviva del nome di un altro oggetto nel quale ravvisava la presenza saliente di tale qualità ... per esprimere la velocità di un compagno nella corsa, diceva: "Albert è uccello"; per esprimere la forza diceva: "Paul è leone"; per la gentilezza, diceva: "Deslyons è agnellino"».
Sulle prime Sicard permise e anzi incoraggiò questo sistema, ma poi, «con riluttanza», cominciò a proporre l'introduzione degli aggettivi (sostituendo «agnellino» con «gentile», «colombella» con «dolce») e aggiunge: «Lo risarcii dei beni che gli avevo sottratto ...
[spiegandogli] che le nuove parole che gli offrivo erano [equivalenti] a quelle che gli chiedevo di non usare» (10).
Anche i pronomi sollevarono problemi del tutto particolari: «egli» fu scambiato in un primo momento per un nome proprio; «io» e «tu» vennero confusi (come accade spesso ai bambini piccoli), ma alla fine furono compresi. Difficoltà speciali si presentarono con le proposizioni, ma una volta che Massieu ebbe afferrato il concetto, imparò a usarle con forza esplosiva, tanto che improvvisamente scoprì di esser capace di «proposizionare» (per usare la terminologia di Jackson). Le astrazioni geometriche - costrutti mentali invisibili - furono la conquista più difficile. Per Massieu era facile mettere assieme oggetti di forma quadrata, ma afferrare l"idea" di quadrato come costrutto mentale geometrico, cogliere la «quadratità» fu un'impresa ben più laboriosa (11). Quando si concluse con il successo, Sicard non poté contenere l'entusiasmo: «E' stata conquistata l'astrazione! Un altro passo!
Massieu capisce le astrazioni!» esultava Sicard. «E' un essere umano».
Qualche mese dopo il mio incontro con Joseph, mi accadde di rileggere la storia di "Kaspar Hauser", che ha come sottotitolo: «Cronaca di un individuo tenuto in una prigione sotterranea, isolato da qualsiasi comunicazione con il resto del mondo, dalla prima infanzia fin quasi ai diciassette anni» (12). La situazione di Kaspar era certamente molto più bizzarra e drammatica, ma sotto un aspetto mi ricordò quella di Joseph. Kaspar fu trovato un giorno del 1828 (era allora un ragazzo di circa sedici anni) mentre procedeva incespicando per una strada di Norimberga. Portava addosso una lettera che narrava in parte la sua strana storia: quando Kaspar aveva sei mesi, la madre - rimasta vedova, senza un soldo - lo aveva affidato a un bracciante, che aveva dieci figli. Per ragioni mai chiarite, questo padre «adottivo» rinchiuse Kaspar in una cantina, dove era tenuto incatenato, e in modo tale che non poteva nemmeno alzarsi in piedi. In tale segregazione rimase per più di dodici anni, escluso da qualsiasi comunicazione o contatto anche fuggevole con altri esseri umani. Quando era necessario lavarlo o cambiargli indumenti, il padre-carceriere metteva dell'oppio nel suo cibo, lo puliva e lo rivestiva mentre Kaspar era in stato di incoscienza, immerso in un sonno profondo.
Una volta «entrato nel mondo» (Kaspar usava spesso questa espressione per «alludere alla sua prima uscita a Norimberga, al primo germogliare della consapevolezza di una vita mentale»), apprese rapidamente che «esistevano uomini e altre creature», e in soli sette mesi si impadronì dei rudimenti del linguaggio. Questo risveglio al contatto umano, a un mondo di significati condivisi, al linguaggio, fece fiorire d'un tratto mente e anima, in una irrefrenabile esplosione delle sue facoltà mentali. Ogni cosa lo stupiva, lo affascinava, lo riempiva di gioia; la sua curiosità ardente e infinita toccava ogni cosa, ogni manifestazione: «una storia d'amore con il mondo». (Tale rinascita, una vera e propria nascita alla vita psicologica, come fa notare Leonard Shengold, altro non era che la riproduzione in forma speciale esaltata, quasi esplosiva, di quel che accade normalmente nel terzo anno di vita, allorché nel bambino avviene la scoperta e la progressiva acquisizione del linguaggio) (13). In un primo tempo Kaspar mostrò prodigiose capacità di percezione e di memoria, ma entrambe erano concentrate sui particolari, cosicché egli appariva da una parte brillante, dall'altra incapace di pensiero astratto. Ma, via via che si impadroniva del linguaggio, acquisiva anche la capacità di generalizzare; in tal modo, a una miriade di particolari sconnessi si sostituiva un mondo coerente, intelligibile e intelligente.
Questa improvvisa, irruenta esplosione del linguaggio e dell'intelligenza è simile, nella sostanza, a quanto accadde a Massieu - ed è ciò che accade quando si spalancano d'un tratto le porte della prigione nella quale mente e anima sono state segregate (ma senza essere completamente distrutte) (14).
Casi come quello di Massieu devono essere stati di gran lunga più frequenti nel Settecento, quando non esisteva l'istruzione scolastica obbligatoria. Ne capita ancora oggi qualcuno, di tanto in tanto; probabilmente soprattutto in località rurali isolate, oppure quando un bambino, in seguito a una diagnosi sbagliata, è stato ricoverato, in ancor tenera età, in un istituto di assistenza (15). Io stesso nel novembre del 1987 ricevetti da San Francisco una lettera straordinaria nella quale Susan Schaller, interprete e studiosa della lingua dei segni, mi scriveva:
«Sto scrivendo la storia di un sordo prelinguistico, oggi ventisettenne, e della sua conquista del linguaggio. Questo mio allievo, sordo dalla nascita, non era mai stato esposto ad alcun linguaggio, neppure a quello dei segni: così per ventisei anni di vita non aveva mai potuto comunicare con un altro essere umano (salvo che per esprimere mediante la mimica bisogni concreti e funzionali).
Eppure è miracolosamente sopravvissuto alla "segregazione in isolamento" senza che la sua personalità ne risultasse disintegrata» (16).
Ildefonso era nato in una fattoria nel sud del Messico; nella famiglia, e nell'intera comunità, gli unici membri sordi erano lui e un suo fratello (sordo congenito), che perciò non ebbero mai un'istruzione scolastica, né alcun contatto con i Segni. Assieme ad altri parenti, andava e tornava dagli Stati Uniti, dove lavorava come bracciante. Malgrado fosse un ragazzo di buon carattere, restava sostanzialmente un solitario, perché non poteva quasi comunicare (salvo che gesticolando) con un altro essere umano. All'epoca in cui la Schaller lo conobbe, le sembrò sveglio e vivace, ma timoroso e disorientato, come se fosse in ansiosa ricerca di qualcosa - lo stesso atteggiamento che mi aveva colpito in Joseph. Come Joseph, anche Ildefonso era un attento osservatore («guarda tutto e tutti»); ma, per così dire, osservava dal di fuori, affascinato dal mondo interiore del linguaggio, e tuttavia ignaro di esso. Quando la Schaller gli chiese «Come ti chiami?» nella lingua dei segni, egli si limitò a ripetere il segno; e fu tutto quello che seppe fare in un primo tempo, senza sospettare minimamente che si trattava di un "segno".
La ripetizione puramente imitativa di movimenti e suoni continuò per tutto il tempo in cui la Schaller tentò di insegnare a Ildefonso i Segni, senza che lo sfiorasse l'idea che movimenti e suoni avessero un «contenuto», un significato - sembrava che Ildefonso non avrebbe mai potuto superare questa «ecolalia mimetica», che non sarebbe mai entrato nel mondo del pensiero e del linguaggio. E poi, all'improvviso, del tutto inaspettatamente, un giorno vi riuscì. La cosa affascinante è che furono i numeri a dargli la prima, folgorante rivelazione: tutt'a un tratto egli comprese che cosa fossero, come andassero adoperati, il loro "senso"; ne seguì una sorta di esplosione intellettuale, la capacità di afferrare, nel giro di giorni, i princìpi cardinali dell'aritmetica. Con questo non era arrivato ancora a possedere il concetto di linguaggio (il simbolismo aritmetico forse non costituisce un linguaggio, in quanto non è denotativo nello stesso senso in cui lo sono le parole). Ma l'acquisizione dei numeri e le operazioni mentali dell'aritmetica diedero l'avvio a processi mentali mai sperimentati in precedenza, crearono una regione di ordine entro il caos, e lo orientarono per la prima volta verso una forma di comprensione e di speranza (17).
La svolta vera avvenne il sesto giorno: dopo che per centinaia o migliaia di volte aveva ripetuto le stesse parole, in particolare il segno corrispondente a «gatto», questo d'improvviso non fu più un movimento da imitare, ma un segno denso di significato, che poteva essere usato per simbolizzare un concetto. Una seconda esplosione intellettuale, ancora più profonda e sconvolgente, perché questa volta non gli rivelava una pura astrazione (come i princìpi dell'aritmetica), ma il senso, il significato del mondo:
«Il volto si apre, teso per l'eccitazione... dapprima piano, poi sempre più avidamente, risucchia entro di se qualsiasi cosa, come se non l'avesse mai vista prima di ora; la porta, le sedie, i tavoli, i compagni l'orologio, la lavagna verde e me... E' entrato nell'universo dell'umanità, ha scoperto la comunione delle menti. Adesso sa che lui e il gatto e la tavola hanno un nome».
La Schaller fa un parallelo tra il «gatto» di Ildefonso e l'«acqua» di Helen Keller: la prima parola, il primo segno, quello che porta a tutti gli altri, che apre la mente e libera l'intelligenza imprigionata.
Da quel momento, per tutte le settimane che seguirono Ildefonso visse un periodo di nuova e incantata attenzione verso il mondo: egli si ridestava, nasceva allora al pensiero e al linguaggio, dopo decenni di esistenza puramente percettiva. Nei primi due mesi, come aveva fatto Massieu, si dedicò soprattutto a dare nomi, a definire il mondo, con il quale instaurava un rapporto completamente nuovo. Restavano, come era accaduto a Kaspar Hauser, problemi tutt'altro che trascurabili: in particolare, osserva la Schaller, «sembrava che gli fosse impossibile afferrare qualsiasi concetto che fosse legato al tempo: le unità di tempo, le relazioni temporali, i tempi dei verbi, anche la sola idea di misurare il tempo in funzione degli eventi; per insegnargli tutto ciò ci vollero mesi» e una paziente gradualità.
Parecchi anni sono trascorsi dall'epoca di questi avvenimenti; oggi Ildefonso ha acquisito una buona padronanza dei Segni, ha conosciuto altre persone sorde che li usano, è entrato a far parte della loro comunità linguistica. Con ciò egli ha acquistato, come disse Sicard di Massieu, «un nuovo essere».
Joseph e Ildefonso, completamente privi di linguaggio, costituiscono casi estremi (anche se molto illuminanti); in realtà tutti o quasi tutti i sordi prelinguistici acquisiscono un qualche linguaggio durante l'infanzia, benché spesso ciò avvenga in ritardo e con gravi deficienze. Lo spettro delle competenze linguistiche dei sordi è molto ampio; Joseph e Ildefonso si trovano a un estremo di tale spettro. Ad esempio, avevo constatato che era impossibile rivolgere domande a Joseph, ed è probabile che questo tipo di lacuna linguistica sia frequente tra i bambini sordi, anche tra quelli che hanno una certa competenza nella lingua dei segni. A questo proposito è importante riflettere sulla seguente osservazione di Isabelle Rapin:
«Molti bambini [sordi] presentano una notevole deficienza linguistica: non possiedono lo strumento linguistico consistente nella forma interrogativa. Me ne resi conto dopo avere più volte rivolto domande a bambini sordi su argomenti che avevano appena letto. Non è che non conoscano la risposta a una data domanda, è che non capiscono le domande... Un giorno chiesi a un ragazzo: "Chi vive in casa tua?". (Un insegnante traduceva nella lingua dei segni). La risposta fu uno sguardo vacuo. Allora osservai che l'insegnante trasformava la domanda in una serie di proposizioni dichiarative: "Nella tua casa, tu, tua madre, ...". Sul volto del ragazzo brillò un lampo di intelligenza, e subito mi fece un disegno della sua casa, con tutti i membri della famiglia, cane incluso ... In seguito potei osservare molti altri casi in cui gli insegnanti mostravano una certa esitazione nel porre domande ai loro allievi; più spesso preferivano evitarle, e formulavano gli interrogativi ricorrendo a frasi incomplete, nelle quali i bambini sordi dovevano riempire i vuoti» (18).
La mancanza della forma interrogativa, come fa notare la Rapin, è particolarmente perniciosa, in quanto conduce a una mancanza di informazione ma non è l'unica carenza che colpisce i sordi. Mancano le capacità linguistiche, in sostanza la competenza linguistica; una mancanza che è tanto lessicale quanto grammaticale, ed è particolarmente frequente e accentuata negli scolari sordi prelinguistici. Molti dei bambini che osservai nella scuola di Joseph mi colpirono per la povertà del loro vocabolario, per la loro rozza semplicità. Impacciati nella lettura e nella scrittura, incapaci di pensieri che non avessero un oggetto concreto, manifestavano un'ignoranza del mondo inimmaginabile in un bambino udente dotato di intelligenza normale. E per la verità in un primo momento pensai che "non" avessero un'intelligenza normale, che soffrissero di una qualche forma di deficienza mentale, associata alla sordità. Mi fu invece assicurato (e le mie stesse osservazioni me lo confermavano) che questi bambini non erano deficienti mentali nel senso usuale del termine; avevano, per così dire, la stessa gamma di intelligenza della norma, ma tale intelligenza era in qualche modo intralciata, almeno in certi suoi aspetti. E non solo l'intelligenza: molti di questi bambini erano passivi o timidi, poco spontanei, insicuri, impacciati nei rapporti con gli altri; apparivano meno animati, meno desiderosi di giocare e di scherzare di quanto ci si potesse aspettare.
Bastò una rapida occhiata alla scuola di Joseph per lasciarmi sgomento. Come Joseph, anche la Braefield School for the Deaf è in un certo senso un caso estremo (benché sotto altri aspetti sia desolatamente vicina alla media). La maggior parte dei bambini che la frequentano proviene da famiglie disagiate, prive di radici sociali, colpite dalla disoccupazione e dalla miseria. E' importante osservare, inoltre, che da qualche tempo la Braefield non è più una scuola residenziale: alla fine della giornata gli allievi devono tornare a casa, da genitori che non sono in grado di comunicare con loro, o davanti a un televisore che trasmette programmi privi di sottotitoli e perciò incomprensibili. Tornati a casa, sono esclusi da ogni informazione sul mondo.
Vi sono per la verità altre scuole che mi hanno dato un'impressione del tutto diversa. In quella di Fremont, che è una scuola prevalentemente residenziale, molti allievi sanno leggere e scrivere in modo quasi paragonabile a quello di studenti udenti di pari età - gli allievi della Braefield School, invece, al momento del diploma raggiungono in media un livello di lettura pari alla quarta classe soltanto. Molti bambini di Fremont hanno un vocabolario piuttosto ricco, usano bene i segni, sono pieni di curiosità e di domande, parlano (o più spesso segnano) liberamente e in modo completo, danno una sensazione di sicurezza e di forza che di rado ho potuto osservare a Braefield. Non mi stupì l'apprendere che il loro profitto scolastico era più che buono (molto migliore della media dei sordi, scolasticamente ritardata).
Sembra che questo risultato sia dovuto all'intervento di molti fattori. In primo luogo, i bambini di Fremont provengono in generale da famiglie e da ambienti più stabili. Inoltre, una percentuale relativamente alta degli stessi docenti è costituita da sordi: Fremont è una delle poche scuole degli Stati Uniti in cui vige la politica di impiegare insegnanti sordi, i quali non soltanto conoscono la lingua dei segni fin dall'infanzia, ma possono trasmettere ai bambini la cultura dei sordi e un'immagine positiva della sordità. Al di là e al di sopra dell'istruzione scolastica, a Fremont vi è una vera comunità di bambini che vivono insieme, usano i segni tra loro, giocano insieme, hanno abitudini e aspirazioni comuni: proprio quello che manca, e con effetti tanto drammatici, a Braefield. Infine, a Fremont è eccezionalmente alta la percentuale di bambini che sono figli di genitori sordi - mentre sulla popolazione totale dei bambini sordi tale percentuale è inferiore al 10 per cento. Fin dall'infanzia questi bambini hanno acquisito i Segni come lingua nativa, e mai si sono trovati nell'impossibilità di comunicare con i propri genitori - la tragedia che così spesso affligge i sordi profondi. In una scuola residenziale, essi sono i principali ambasciatori del mondo dei sordi, coloro che ne portano la lingua ai figli sordi di genitori udenti; per questa ragione a Fremont non vidi quell'isolamento che tanto mi aveva colpito a Braefield.
Se alcuni bambini sordi sono molto più bravi di altri, malgrado siano affetti da sordità più profonda, ciò indica che non può essere la sordità in sé la causa di tante disgrazie, ma piuttosto qualcuna delle "conseguenze" della sordità - in particolare le difficoltà e le distorsioni che compromettono fin dall'inizio la vita di comunicazione. Pretendere che Fremont rappresenti la media è un'illusione; purtroppo è Braefield, invece, che illustra la condizione media dei bambini sordi. Ma Fremont mostra quali conquiste siano alla portata dei bambini sordi, seppure in circostanze ideali; e mostra anche che le loro facoltà innate, linguistiche o intellettuali, sono integre; sta piuttosto negli ostacoli frapposti allo sviluppo normale di tali facoltà la spiegazione degli esiti infelici.
La visita alla Lexington School for the Deaf, nello Stato di New York, mi diede un quadro ancora diverso. In questa scuola trovai una situazione in qualche modo intermedia: non così svantaggiata come a Braefield, ma nemmeno favorita come a Fremont da un'alta proporzione di genitori sordi e dalla presenza di una vasta comunità di sordi.
Pure vidi a Lexington molti adolescenti sordi prelinguistici che, a detta dei loro insegnanti, da bambini erano stati quasi del tutto privi di linguaggio oppure linguisticamente non competenti, e ora mostravano ottime capacità - per esempio in fisica o nella composizione letteraria, rivelandosi quasi altrettanto bravi dei compagni udenti. Questi ragazzi erano stati colpiti dalla sordità molto da piccoli, cosicché avevano corso il serio rischio di una menomazione permanente, linguistica e intellettuale; ciò nonostante, grazie a un'istruzione intensiva, erano riusciti a raggiungere un buon livello di linguaggio e di comunicazione.
Dalle storie di Joseph e di Ildefonso, e di altri come loro, emerge la sensazione di un pericolo - quel particolare pericolo che minaccia lo sviluppo umano, sia intellettuale sia emotivo, se viene a mancare la benefica acquisizione del linguaggio, fino ai casi estremi di totale assenza, di completa incomprensione del concetto stesso di linguaggio.
Questo, come ci ricorda Church, non è soltanto un'altra facoltà o una capacità in più; il linguaggio è ciò che rende possibile il pensiero, che separa il pensiero dal non pensiero, che separa l'umano dal non umano.
Nessuno può ricordare come ha «acquisito» il linguaggio; la descrizione di sant'Agostino è solo un pregevole mito (19). E neppure è vero che, da genitori, siamo chiamati a «insegnare» il linguaggio ai nostri figli; essi lo acquisiscono nel modo più automatico, o almeno così sembra, in virtù della condizione stessa di figli, nostri figli, in seguito agli scambi comunicativi che avvengono tra noi.
In linguistica si distinguono la grammatica, i significati verbali, l'intento comunicativo (la sintassi, la semantica e la pragmatica del linguaggio); ma, come ci fanno osservare Bruner e diversi altri studiosi, questi aspetti sono presenti tutti assieme durante l'apprendimento e l'uso del linguaggio; perciò non è il linguaggio che dobbiamo studiare, ma il suo uso. La prima comunicazione avviene di solito tra la madre e il bambino, ed è dallo scambio "tra" queste due figure che il linguaggio scaturisce e ne comincia l'acquisizione.
Ciascuno nasce dotato di sensi, i sensi «naturali». In modo naturale ciascuno può sviluppare da solo le proprie facoltà motorie; il linguaggio, invece, non lo si può acquisire da soli: "questa" facoltà costituisce una categoria a sé. Una capacità innata è certo essenziale, ma tale capacità può essere attivata solo da un'altra persona che già possiede la competenza linguistica, in un processo di interazione che Vygotskij chiama «negoziazione». (Wittgenstein scrive in termini generali dei «giochi linguistici» che tutti dobbiamo imparare a fare, e Brown parla del «gioco originale della parola» giocato tra madre e bambino).
La madre - o il padre, o l'insegnante, o chiunque parli con il bambino - lo conduce passo dopo passo fino ai livelli via via più elevati del linguaggio, e in tal modo gli rivela l'immagine del mondo che quel linguaggio incorpora (l'immagine del mondo "di lei", perché di lei è il linguaggio, ma anche, in una prospettiva più ampia, l'immagine del mondo propria della cultura a cui ella appartiene). Sempre la madre deve trovarsi un passo più avanti, in quella che Vygotskij chiama la «zona di sviluppo prossimale», per poterla comunicare al bambino, il quale altrimenti non potrebbe neppure concepirla, tanto meno dirigervisi.
Il bambino ha un'esperienza propria, indipendente, del mondo, che gli è data dai sensi e che forma una correlazione con il linguaggio della madre, confermandolo e al tempo stesso ricevendo da esso un significato. Se le parole della madre, e il mondo che esse adombrano, non corrispondessero a qualche cosa che appartiene all'esperienza del bambino, per lui non avrebbero senso. E' il linguaggio della madre, interiorizzato dal bambino, che gli consente di passare dalla sensazione al «senso», di salire dal mondo percettivo al mondo concettuale.
L'interscambio sociale, quello emotivo e perfino quello intellettuale, cominciano dal primo giorno di vita (20). Questi stadi prelinguistici, preintellettuali, della vita sono stati studiati con grande attenzione da Vygotskij; ma egli si è interessato soprattutto del linguaggio e del pensiero, del modo in cui procedono assieme nello sviluppo del bambino. Vygotskij non dimentica che il linguaggio ha sempre, e immediatamente, una funzione sia sociale sia intellettuale, né dimentica, neppure per un istante, la relazione tra intelletto e affetto, il fatto che qualsiasi comunicazione, qualsiasi pensiero, è anche emotivo, poiché riflette «i bisogni e gli interessi personali, le inclinazioni e gli impulsi» dell'individuo.
Ne discende come corollario che, se qualcosa nella comunicazione non va nel modo giusto, ciò si ripercuoterà sulla crescita intellettiva, sullo scambio sociale, sullo sviluppo del linguaggio e sugli atteggiamenti emotivi, e tutto ciò contemporaneamente, inseparabilmente e immediatamente. Proprio questo può accadere, e di fatto accade, fin troppo spesso, al bambino sordo congenito. Hilde Schlesinger e Kathryn Meadow iniziano il loro libro, "Sound and Sign", con la seguente affermazione:
«La sordità profonda nell'infanzia è più che una diagnosi medica; è un fenomeno culturale nel quale si legano inestricabilmente quadri e problemi sociali, emotivi, linguistici e intellettuali» (21).
Dobbiamo alla Schlesinger e ai suoi collaboratori le osservazioni più profonde e più complete fatte negli ultimi venti anni sui problemi che opprimono il sordo dall'infanzia all'età adulta, per studiarne la relazione con le primissime comunicazioni tra madre e figlio (e più tardi tra insegnante e allievo) comunicazioni che troppo spesso sono grossolanamente carenti o distorte. La Schlesinger ha posto al centro dell'analisi il modo in cui i bambini - e in particolare i bambini sordi - sono indotti a passare da un mondo percettivo a un mondo concettuale, l'importanza cruciale del dialogo perché il passaggio possa avvenire. Il «salto dialettico» del quale parla Vygotskij (il salto dalla sensazione al pensiero) implica, come mostra la Schlesinger, non solo il parlare, ma il giusto modo di parlare, in un dialogo ricco di intenti comunicativi, di reciprocità, di domande del tipo giusto: se questi aspetti mancano, il bambino non riuscirà a fare il grande salto.
Registrando le conversazioni scambiate tra madre e figlio nella primissima infanzia, la Schlesinger ha mostrato quanto spesso, e con quali tristissime conseguenze, tali scambi possano fallire quando il bambino è sordo. I bambini, i bambini sani, hanno una curiosità inesauribile: sono sempre alla ricerca della causa e del significato, continuano a chiedere «Perché?», «Come?», «E se...?». Proprio l'assenza di queste domande, anzi la mancata comprensione della forma interrogativa, mi aveva penosamente colpito durante la visita a Braefield. In termini più generali, la Schlesinger osserva:
«A otto anni, molti ragazzi sordi già mostrano ritardi nella comprensione delle domande, continuano a usare il linguaggio come un serbatoio di etichette, non sanno conferire alle loro risposte un "significato centrale". Hanno uno scarso senso dei rapporti causali, e di rado introducono idee riguardanti il futuro» (22).
Per molti è certo così, ma non per tutti. In realtà si può fare una distinzione piuttosto netta tra ragazzi che presentano questi deficit e ragazzi «normali» sotto l'aspetto intellettuale, linguistico, sociale ed emotivo. Questa separazione, affatto differente dalla distribuzione normale delle capacità secondo la ben nota curva a campana, mostra che la divisione avviene dopo la nascita, a seguito di esperienze molto precoci che possono indirizzare in modo determinante l'evoluzione futura della persona. Il bisogno di far domande, una disposizione mentale orientata verso l'esplorazione, non sono atteggiamenti che nascono spontaneamente, "de novo", o che conseguono direttamente dall'impatto con l'esperienza: scaturiscono, e sono stimolati, dagli scambi comunicativi, richiedono il "dialogo", in particolare il complesso dialogo della madre con il bambino (23). Da qui, a giudizio della Schlesinger, trae origine la divisione:
«Quando parlano con i figli, le madri possono farlo in modi molto diversi, che ricadono sull'uno o sull'altro versante di una serie di dicotomie. Alcune madri chiacchierano "con" i loro piccoli, dando vita a un dialogo; altre per lo più parlano "ai" loro piccoli. Alcune si preoccupano di assecondare e sostenere il bambino nelle sue attività, e quando non lo fanno ne spiegano le ragioni; altre piuttosto controllano le attività del bambino, e quando intervengono non spiegano mai il perché. Alcune pongono vere domande ... altre soffocano le domande ... Alcune sono stimolate da quello che il bambino dice o fa; altre muovono dai propri bisogni e interessi interiori ... Alcune narrano di un vasto mondo in cui sono accaduti certi eventi in passato e altri ne accadranno in futuro; altre si limitano a commentare qui e ora ... Alcune madri offrono stimoli pregni di significati, e in tal modo mediano tra l'ambiente e il bambino; [altre madri non lo fanno]» (24).
Alla madre, dunque, sembra che sia toccato un potere straordinario e terribile: comunicare con il bambino nel modo giusto oppure no; porre domande stimolanti, («Come?»; «Perché?»; «Che cosa succederebbe se...?»), oppure trascinare un monologo distratto a base di «Che cos'è questo?» e «Fai quest'altro»; comunicare il senso dei nessi logici e causali, o lasciare che ogni cosa sprofondi nell'inspiegabilità; introdurre il senso vivo dello spazio e del tempo, o riferirsi solo al qui e ora; presentare una «riflessione generalizzata della realtà», un mondo di concetti che diano coerenza e significato alla vita, sfidando la mente e le emozioni del bambino, o restare al livello ottuso del non generalizzato, del non indagato, un livello quasi inferiore a quello della mera percezione animale (25). Sembra quindi che il bambino non abbia alcuna libertà di scegliersi il mondo mentale ed emotivo nel quale dovrà vivere - non più di quanta ne abbia di scegliersi il mondo fisico; sin dall'inizio egli dipende totalmente dal tipo di mondo che la madre gli dischiude.
Non solo il linguaggio, ma anche il pensiero dev'essere introdotto; altrimenti il bambino resterà inesorabilmente imprigionato in un mondo percettivo, di oggetti materiali - la condizione di Joseph, di Kaspar, di Ildefonso. Il rischio è ancora maggiore quando il bambino è sordo - perché in questo caso può darsi che i genitori (udenti) non sappiano come entrare in comunicazione con lui; ammesso poi che in qualche modo riescano a farlo, può darsi che usino forme di dialogo e di linguaggio rudimentali a tal punto da non fare progredire la mente del bambino, anzi da impedirne ogni progresso.
«Sembra che il bambino riproduca fedelmente il mondo cognitivo (e lo "stile") che la madre gli presenta. In alcuni casi è un mondo popolato di oggetti statici, separati, fissati nel qui-ora, etichettati con nomi che rimangono immutati da quando il bambino ha pochi mesi a quando è già un ragazzino... Queste madri evitano ogni forma di linguaggio che si discosti dal mondo percettivo ... desiderano condividere lo stesso mondo del bambino, e in questo slancio si adeguano al suo mondo percettivo e lì si fermano...
«[Altre madri, invece] riescono a elaborare in modo entusiasmante, attraverso il linguaggio, ogni cosa vista, toccata, udita. Il mondo in cui introducono il bambino è più ampio, più complesso e più interessante. Anch'esse danno un nome agli oggetti del mondo percettivo del bambino, ma usano la denominazione esatta per le percezioni più complesse e quando occorre vi aggiungono attributi servendosi degli aggettivi... Il loro mondo non è popolato solo di oggetti, ma anche di persone; esse danno un nome alle azioni e ai sentimenti degli individui, li caratterizzano mediante gli avverbi.
Non si limitano a "descrivere" il mondo percettivo, ma aiutano i figli a "riorganizzarlo" e a "ragionare" sulle sue molteplici possibilità» (26).
Queste madri incoraggiano quindi la formazione di un mondo concettuale che, anziché impoverirlo, arricchisce il mondo percettivo, mediante un processo di innalzamento continuo che perviene al livello dei simboli e dei significati. Ma basta che il dialogo si immiserisca, che la comunicazione cada in difetto perché ne conseguano, secondo la Schlesinger, non solo limitazioni dell'intelletto, ma anche timidezza e passività. Il dialogo creativo, la ricchezza di scambi comunicativi durante l'infanzia, svegliano l'immaginazione e la mente, conducono all'autonomia e alla sicurezza, producono una vivacità e una serenità di carattere che accompagneranno l'individuo per il resto della vita (27).
Charlotte è una bambina di sei anni; anche lei, come Joseph, è sorda dalla nascita. Ma Charlotte è vivacissima, allegra, piena di curiosità, sprizza entusiasmo verso il mondo; distinguerla da una qualsiasi sua coetanea udente è quasi impossibile. Il quadro è del tutto diverso, quindi, da quello del povero Joseph, tagliato fuori dal mondo. Come lo si spiega? I genitori di Charlotte si resero conto della sua sordità quando la bambina aveva pochi mesi, e subito decisero di imparare una lingua dei segni: sapevano, infatti, che la piccola non avrebbe potuto impadronirsi facilmente della lingua vocale. E non solo loro; anche diversi parenti e amici impararono la lingua dei segni. La madre, Sarah Elizabeth, così scriveva quando la bambina aveva quattro anni:
«Nostra figlia Charlotte fu diagnosticata sorda profonda all'età di dieci mesi. Negli ultimi tre anni siamo passati attraverso le emozioni più varie: sfiducia, panico, angoscia, rabbia, depressione e dolore, infine accettazione e ottimismo. Una volta liberatici dal panico iniziale, ci fu chiaro che la cosa da farsi era usare la lingua dei segni, con la nostra bambina, fin da quando era molto piccola (28).
«Organizzammo a casa nostra una classe di insegnamento della lingua dei segni, e ci mettemmo a studiare il Signed Exact English (S.E.E.), una replica esatta in segni dell'inglese parlato: era la lingua che ci era parsa più adatta per consentirci di trasmettere a Charlotte la lingua, la letteratura e la cultura che erano nostre. Spaventati - noi, genitori udenti - dal compito soverchiante di imparare una nuova lingua dovendola insegnare nello stesso tempo a Charlotte, pensammo che l'adozione di una lingua segnata con una sintassi simile a quella a noi familiare ci avrebbe facilitato ... Avevamo un bisogno disperato di credere che Charlotte era simile a noi.
«Il S.E.E. si rivelò troppo rigido, e dopo un anno decidemmo di abbandonarlo, passando al Pidgin Signed English, nel quale il vocabolario dell'American Sign Language, che è visualmente più descrittivo, si combina con la sintassi inglese, che è più comunemente nota ... [ma] le elaborate strutture lineari dell'inglese parlato non sono traducibili in forma interessante in una lingua dei segni; perciò fummo obbligati a cambiare radicalmente il nostro modo di pensare, a pensare frasi visive. Della lingua dei segni abbiamo esplorato gli aspetti più vivi e più interessanti: frasi idiomatiche, scherzi, mimica, segni che esprimono ciascuno un intero concetto, espressioni facciali ... Ora stiamo passando all'American Sign Language, che studiamo con una signora sorda, segnante nativa, capace di comunicare con i segni senza esitazioni e di codificare la lingua per gli udenti come noi. E' una lingua così ben costruita e ricca di sfumature, così fantasiosa e bella che abbiamo cominciato a studiarla con vero entusiasmo. Quale gioia vedere come l'uso dei segni da parte di Charlotte rifletta schemi di pensiero visivi! Le espressioni di Charlotte spingono anche noi a concepire in modo nuovo gli oggetti fisici, la loro collocazione e il loro movimento».
Come mostra questo brano affascinante e pieno di forza, in un primo tempo i genitori di Charlotte volevano soprattutto credere che la figlia fosse simile a loro, anche se si serviva degli occhi anziché delle orecchie. Per questa ragione ricorsero al S.E.E., che non ha una struttura sua propria, ma è una mera traslitterazione di una lingua uditiva; solo gradualmente arrivarono a comprendere che per Charlotte era fondamentale la visualità, che la bambina usava «schemi di pensiero visivi» e che ciò richiedeva - e a sua volta generava - un linguaggio visivo. A differenza di tanti genitori di bambini sordi, che ostinatamente tentano di imporre il proprio mondo uditivo ai figli, essi incoraggiarono Charlotte a progredire nel suo mondo visivo; anzi in seguito furono in grado di entrare a farne parte assieme a lei. A quattro anni, infatti, Charlotte era tanto progredita nel pensiero visivo e nel linguaggio visivo da potere schiudere lei ai suoi genitori nuovi orizzonti di pensiero: una rivelazione.
All'inizio del 1987 la famiglia si trasferì dalla California ad Albany, nello Stato di New York; in tale occasione la madre mi scrisse nuovamente:
«Charlotte ha sei anni e frequenta la prima. Noi, naturalmente, pensiamo che sia una creatura speciale, perché, malgrado la sordità profonda, si muove con piena padronanza in un ambiente dove i più sono udenti; è piena di interessi, premurosa verso gli altri. Quando deve comunicare con altri sordi, bambini o adulti, ne è felice: sembra che se la cavi altrettanto bene con l'A.S.L. e con l'inglese; inoltre legge e scrive come uno scolaro di terza. Anche suo fratello Nathaniel, udente, sa usare i Segni: nella nostra famiglia, per molte conversazioni e per molte faccende quotidiane si fa ricorso alla lingua dei segni... Credo che la nostra esperienza indichi come un'esposizione precoce a una lingua visualmente coerente sviluppi processi di pensiero concettuale complessi. Charlotte sa pensare e sa ragionare: usa egregiamente gli strumenti linguistici che le sono stati dati per costruire idee complicate».
Quando andai a far visita a Charlotte e alla sua famiglia, la prima cosa che mi colpì fu che erano davvero una famiglia: scherzavano, si scambiavano domande, si riunivano pieni di animazione. Non c'era traccia dell'isolamento che si trova tanto spesso dove c'è qualche persona sorda - né di quel linguaggio «primitivo» («Che cos'è questo?
Che cos'è quello? Fai così! Fai cosà!»), di quella condiscendenza descritta dalla Schlesinger. La stessa Charlotte faceva un sacco di domande, era curiosa di tutto, piena di vita - una bambina deliziosa, allegra, fantasiosa, vivacemente aperta al mondo e agli altri. Rimase un po' delusa quando scoprì che io non sapevo usare i Segni, ma subito incaricò i genitori di fare da interpreti e cominciò a tempestarmi di domande sulle bellezze di New York.
Più tardi andammo tutti quanti (Charlotte, i genitori, il fratello e io) a fare una passeggiata in un bosco attraversato da un fiume, a una cinquantina di chilometri da Albany. Charlotte ama il mondo della natura quanto quello degli uomini, ma lo fa in modo intelligente. A colpo d'occhio riusciva a riconoscere habitat diversi e a cogliere il modo in cui vi convivono le varie forme di vita; percepiva la cooperazione e la competizione, la dinamica dell'esistenza. Le felci che crescevano vicino al fiume l'affascinarono, anche perché si accorse di quanto differissero dai fiori; comprese subito la distinzione tra spore e semi. Ogni nuova forma, ogni nuovo colore suscitavano in lei esclamazioni eccitate (espresse in Segni); ma subito si fermava per chiedere: «Come?... Perché?... E se invece?...».
Si capiva che non le interessavano tanto i fatti isolati, quanto i nessi, una vera comprensione, la costruzione di un mondo dotato di senso e di significato. Quale migliore dimostrazione del passaggio da un mondo percettivo a un mondo concettuale? Nessun bambino può compiere questo passaggio senza un dialogo complesso, che in un primo tempo ha luogo con i genitori, ma poi viene interiorizzato come un «parlare tra sé», come pensiero. E' il dialogo che avvia il linguaggio, che mette in moto la mente; in seguito si sviluppa una nuova facoltà, il «discorso interiore», e proprio questo è indispensabile per l'ulteriore sviluppo, per poter pensare.
«Il discorso interiore» dice Vygotskij, «è discorso quasi senza parole ... non è l'aspetto interiore del discorso esterno, è una funzione a sé ... Mentre nel discorso esterno il pensiero è incorporato nelle parole, nel discorso interiore le parole muoiono via via che danno luogo al pensiero. Il discorso interiore è in gran parte un pensare attraverso significati puri». Il punto di partenza è il dialogo, il linguaggio esterno e sociale; ma poi per pensare, per diventare noi stessi, dobbiamo passare al monologo, al discorso interiore.
Sconosciuto alla scienza, scriveva Vygotskij, come «l'altra faccia della Luna», il discorso interiore, essenzialmente solitario, rimane profondamente misterioso. Si usa dire che «siamo il nostro linguaggio», ma il linguaggio vero, la nostra vera identità, stanno nel discorso interiore, in quell'incessante flusso produttivo di significati che costituisce la mente dell'individuo. Attraverso il discorso interiore il bambino può sviluppare concetti e significati suoi propri, conquistare la propria identità e infine costruire un proprio mondo. E il discorso interiore (o il Segno interiore) del sordo può essere molto peculiare (29).
Per i suoi genitori è evidente che Charlotte costruisce il proprio mondo in un modo diverso, forse radicalmente diverso; che impiega in prevalenza schemi visivi di pensiero e che «pensa in modo diverso» gli oggetti fisici. La qualità grafica delle sue descrizioni mi colpì subito, assieme alla loro completezza; e i genitori mi confermarono questa impressione: «Tutte le persone, le creature o gli oggetti di cui parla Charlotte sono "collocati nello spazio"», diceva la madre; «il riferimento spaziale è essenziale nell'A.S.L. Quando Charlotte segna, costruisce una scena completa: ogni oggetto e ogni persona hanno una collocazione dichiarata; tutto è visualizzato con una ricchezza di particolari che di rado si trova in una conversazione tra udenti». Già a quattro anni e mezzo Charlotte aveva manifestato una spiccata propensione a collocare in modo preciso oggetti e persone: la sua capacità di usare riferimenti spaziali elaborati superava già allora quella dei genitori. Era come se Charlotte possedesse una singolare dote di «scenografa», una destrezza «architettonica» che i genitori dicevano di avere osservato anche in altre persone sorde - ma di rado negli udenti (30).
Per noi, il linguaggio e il pensiero sono sempre personali: ciò che diciamo, come pure il discorso interiore, è espressione peculiare di ciascuno. Il linguaggio perciò ci appare spesso come un'effusione, una sorta di trasmissione spontanea di sé; ma esso deve avere una struttura di tipo formale, enormemente intricata. Non è immediato rendersene conto, perché non ne siamo consapevoli: non la vediamo, non più di quanto vediamo i tessuti, gli organi, l'organizzazione costruttiva del nostro corpo. E però la grandissima, unica libertà del linguaggio non sarebbe possibile senza i più rigorosi vincoli grammaticali. Prima di ogni altro elemento, è la grammatica che rende possibile un linguaggio, che ci consente di articolare i pensieri, il nostro io, in espressioni.
Questo era già chiaro nel 1660 (in quell'anno fu pubblicata la "Grammatica" di Port-Royal), ma per i Segni si dovette attendere il 1960 (31). Prima di allora nessuno, neppure chi la usava, considerava la lingua dei segni come un vero linguaggio, dotato di una propria grammatica. Eppure l'idea che i Segni potessero avere una struttura interna non è del tutto nuova; ha, per così dire, una sua bizzarra preistoria. Roch-Ambroise Bébian, il successore di Sicard, non solo capì che i Segni possedevano una grammatica autonoma (e quindi non avevano alcuna necessità di importare una grammatica estranea come quella francese), ma cercò anche di compilare una «Mimografia», basata sulla «Scomposizione dei Segni». L'impresa fallì, com'era inevitabile, perché ancora non erano stati identificati correttamente i veri elementi costitutivi («fonemici») della lingua dei segni.
Anche il celebre antropologo E.B. Tylor, nell'àmbito dei propri studi sul linguaggio, si interessò della lingua dei segni, che anzi volle imparare (vi riuscì benissimo, servendosene per conversare con i molti amici sordi). Le sue "Researches in the Early History of Mankind" (1865) sono disseminate di intuizioni affascinanti sul linguaggio segnato; da qui avrebbe potuto prendere avvio uno studio autenticamente linguistico dei Segni, ma sopravvenne il Congresso di Milano del 1880 e l'impresa fu soffocata sul nascere, assieme a qualsiasi manifestazione di apprezzamento dei Segni, che con il Congresso perdevano ufficialmente e formalmente ogni valore. I linguisti volsero l'attenzione altrove, e i Segni furono ignorati o completamente fraintesi. Nel loro libro, J. G. Kyle e B. Woll ricostruiscono minuziosamente questa infausta storia; essi osservano che Tylor già conosceva la grammatica dei Segni così bene da rendere manifesto che «i linguisti non han fatto altro che riscoprir[la], negli ultimi dieci anni» (32). Ancora trent'anni fa era nozione pressoché universale che la «lingua dei segni» dei sordi non fosse nulla di più che una sorta di pantomima, o di lingua figurativa.
L'"Encyclopaedia Britannica" (quattordicesima edizione) la definisce come «una specie di scrittura di immagini nell'aria»; e in un libro di testo tra i più usati si legge:
«La lingua manuale dei segni usata dai sordi è un linguaggio ideografico. Essenzialmente è più figurativo e meno simbolico, e come sistema sta principalmente a livello di rappresentazione per immagini.
I sistemi linguistici ideografici sono meno precisi, meno raffinati e meno flessibili di quelli simbolici verbali. E' probabile che l'uomo non possa realizzare fino in fondo le proprie potenzialità attraverso un linguaggio ideografico, in quanto questo è limitato agli aspetti più concreti dell'esperienza umana» (33).
Qui ci troviamo davanti a un paradosso: a prima vista i Segni possono sembrare una pantomima, facili da comprendere come tutte le pantomime, pur di prestarvi un po' di attenzione. E invece, per quanto si continui a osservare, l'istante liberatorio della comprensione non arriva: è quasi un supplizio di Tantalo, giacché i Segni rimangono inintelligibili a dispetto della loro apparente, ingannevole trasparenza.
Ignorati dai linguisti e dalla comunità scientifica, i Segni dovevano essere riscoperti alla fine degli anni Cinquanta, allorché approdò al Gallaudet College un giovane medievalista e linguista, William Stokoe, con il compito di insegnare Chaucer ai sordi - o almeno così egli credeva. Ben presto, però, Stokoe si accorse che la buona sorte, o il caso, lo avevano fatto capitare proprio in seno a uno degli ambienti linguistici più straordinari del mondo. Come abbiamo visto, a quel tempo la lingua dei segni non era considerata una vera e propria lingua, ma piuttosto una sorta di pantomima o un codice di gesti, o tutt'al più una raccolta di spezzoni di inglese espressi con le mani.
Ci volle il genio di Stokoe per vedere, e per dimostrare, che si trattava di ben altro, che essa soddisfaceva tutti i criteri linguistici di un autentico linguaggio, che aveva il suo lessico e la sua sintassi, e la capacità di generare un numero infinito di proposizioni. Nel 1960 Stokoe pubblicò "Sign Language Structure", e nel 1965 (assieme a due colleghi sordi, Dorothy Casterline e Carl Croneberg) "A Dictionary of American Sign Language". Stokoe si convinse che i segni "non" erano immagini, ma complessi simboli astratti dotati di una struttura interna altrettanto complessa. Per primo si diede ad analizzare i segni, a sezionarli, a tentare di individuarne le parti costitutive, alla ricerca di una struttura. In breve tempo arrivò a suggerire che ogni segno fosse costituito da almeno tre parti (parametri) indipendenti - luogo, configurazione e movimento (analoghe ai fonemi della lingua vocale) - e che ogni parte presentasse un numero limitato di combinazioni (35). In "Sign Language Structure" egli descrive diciannove configurazioni diverse della mano, dodici luoghi, ventiquattro tipi di movimenti; per ciascuno Stokoe inventò una notazione - mai prima di allora l'A.S.L. era stata messa "per iscritto" (36). Altrettanto innovativo fu il "Dictionary", perché i segni non vi sono ordinati per temi (per esempio i segni che indicano alimenti, quelli che indicano animali, eccetera), ma sistematicamente, in funzione delle loro parti, della loro organizzazione e dei princìpi linguistici. Il "Dictionary" mostrava per la prima volta la struttura lessicale del linguaggio - la rete di relazioni linguistiche che connette tremila segni-parole di base.
Ci volle una serena e immensa fiducia, un'insistenza ostinata per arrivare fino in fondo: agli inizi, infatti, quasi tutti, gli udenti come i sordi, considerarono assurde o eretiche le idee di Stokoe; i suoi libri, quando uscirono, apparvero ai più inutili o insensati (37). (E' quello che accade spesso alle opere di genio). Nel giro di pochi anni, però, proprio grazie al lavoro di Stokoe, l'opinione generale era cambiata, anzi aveva preso avvio una doppia rivoluzione: una rivoluzione scientifica, che ora prestava attenzione alla lingua dei segni e ai suoi substrati cognitivi e neurali, come mai nessuno aveva sognato di fare prima di allora, e una rivoluzione, culturale e politica.
Il "Dictionary of American Sign Language" elencava tremila segni radicali - che costituiscono certo un vocabolario molto limitato, se si pensa, per confronto, alle circa 600 mila parole dell'"Oxford English Dictionary". Eppure, com'è evidente, la lingua dei segni è precipuamente espressiva: essa può esprimere essenzialmente tutto ciò che una lingua parlata esprime (38). Bisogna pensare che qui intervengano altri princìpi: il merito di avere indagato questi altri princìpi, di avere studiato tutto ciò che può trasformare un lessico in un linguaggio, spetta a Ursula Bellugi e ai ricercatori che collaborano con lei presso il Salk Institute.
Un lessico incorpora concetti, della specie più varia, che però, senza una grammatica, restano isolati (al livello di «me Tarzan, tu Jane»).
Occorre che vi sia un sistema formale di regole, mediante il quale si possano generare enunciati coerenti: frasi, proposizioni. (La cosa non è del tutto ovvia - non si tratta di un concetto intuitivo: infatti ogni espressione appare in sé tanto immediata, spontanea, personale, che a prima vista non vien fatto di pensare che contenga, o richieda, un sistema formale di regole: questa è una delle ragioni per cui furono proprio i segnanti nativi, più degli altri, a considerare la propria lingua come «non scomponibile», e a valutare con scetticismo gli sforzi di Stokoe - e poi quelli della Bellugi).
Di per sé, l'idea di un simile sistema formale, di una «grammatica generativa», non è nuova. Humboldt diceva che tutti i linguaggi fanno «un uso infinito di mezzi finiti». Ma solo negli ultimi trenta anni, grazie ai lavori di Noam Chomsky, abbiamo potuto avere una spiegazione esplicita di «come questi mezzi finiti vengano adibiti a usi infiniti in linguaggi specifici», e un'esplorazione delle «proprietà più profonde che definiscono il "linguaggio umano" in generale». Queste proprietà Chomsky le chiama la «struttura profonda» della grammatica; per lui sono una caratteristica umana innata, specifica della specie, che rimane latente nel sistema nervoso fino a quando viene risvegliata dall'effettivo uso della lingua. Chomsky vede questa «grammatica profonda» formata da un vasto sistema di regole («varie centinaia di regole di tipo diverso»), contenente una certa struttura generale fissa: talora egli la ritiene analoga alla corteccia visiva, che possiede ogni sorta di dispositivi innati per metter ordine nella percezione visiva (39). Fino a oggi non sappiamo quasi nulla del substrato neurale di tale grammatica; ma il fatto che si verifichino afasie, inclusa l'afasia dei Segni, in cui è specificamente menomata la competenza grammaticale, e solo questa, indica che tale substrato neurale esiste, e ne indica anche la localizzazione approssimativa (40).
«Un individuo che conosce una lingua particolare», secondo la formulazione di Chomsky, «controlla una grammatica che "genera" ... l'insieme infinito di strutture profonde potenziali, le applica sulle strutture superficiali associate e determina le interpretazioni semantiche e fonetiche di questi oggetti astratti» (41). Come fa l'individuo ad acquisire tale grammatica (o il suo controllo)? Come fa un bambino di due anni a impadronirsi di un simile dispositivo? La grammatica non gli viene insegnata in modo esplicito, ed egli non viene esposto a esempi grammaticali, ma al parlato estemporaneo e spontaneo (e apparentemente non informativo) dei suoi genitori. (Naturalmente la lingua dei genitori non è affatto «non informativa»; al contrario, essa è ricca di grammatica implicita e di innumerevoli indizi linguistici inconsci, a cui il bambino reagisce adattando inconsciamente il proprio linguaggio; ma non vi è una trasmissione esplicita o conscia della grammatica). Quello che soprattutto colpisce Chomsky e ne stimola la riflessione è come faccia il bambino a giungere a tanto con così poco:
«Ritengo che ... non possiamo evitare di rimanere colpiti dall'enorme disparità tra la conoscenza e l'esperienza e, nel caso del linguaggio, tra la grammatica generativa, che esprime la competenza linguistica del parlante nativo, e i dati scarsi e degeneri in base ai quali il parlante si è costruita questa grammatica» (42).
Dunque al bambino la grammatica non viene insegnata; né egli la impara, bensì la "costruisce" in base ai «dati scarsi e degeneri» a sua disposizione. Questo non sarebbe possibile se egli non portasse già dentro di sé la grammatica, o la possibilità della grammatica, in qualche forma latente che aspetta di essere messa in atto. «Dobbiamo postulare» dice Chomsky «una struttura innata, sufficientemente ricca da spiegare la disparità tra l'esperienza e la conoscenza».
Questa struttura innata, latente, alla nascita non è completamente sviluppata, e ancora all'età di diciotto mesi non è tanto manifesta.
Ma poi, d'improvviso, e nel modo più stupefacente, il bambino in fase evolutiva si apre al linguaggio: a partire dalle frasi pronunciate dai genitori, egli diventa capace di costruire una grammatica. Soprattutto tra i ventuno e i trentasei mesi, il bambino esibisce un'abilità spettacolare (questo periodo è lo stesso in tutti gli esseri umani neurologicamente normali, sia sordi sia udenti; è spostato in avanti nei bambini ritardati, come accade per altri momenti cardinali della fase evolutiva). Poi questa particolare capacità va attenuandosi, per cessare del tutto al finire dell'infanzia (all'incirca a dodici o tredici anni) (43). Secondo la definizione di Lenneberg, cade tra i ventuno e i trentasei mesi il «periodo critico» per l'acquisizione della prima lingua, l'unico nel quale il cervello può, a partire da frammenti casuali, costruire una grammatica completa. La funzione dei genitori è essenziale, ma solo di facilitazione: il linguaggio si sviluppa «dall'interno», nel periodo critico, e secondo Humboldt tutto quello che i genitori fanno, in tale periodo, è «fornire il filo conduttore lungo il quale esso si svilupperà per proprio conto». Il processo è più simile a una maturazione che a un apprendimento: la struttura innata (che Chomsky chiama talora Language Acquisition Device, LAD: dispositivo per l'acquisizione del linguaggio) cresce in modo organico, si differenzia e matura, come un embrione.
Proprio in questo aspetto la Bellugi, rievocando le prime ricerche fatte con Roger Brown, ravvisa il miracolo centrale del linguaggio, e richiama un lavoro suo e di Brown, sul processo di «induzione della struttura latente» di frasi da parte del bambino, che terminava affermando: «La differenziazione e l'integrazione, simultanee ed estremamente complesse, che costituiscono l'evoluzione del nome-frase, ricordano più lo sviluppo biologico di un embrione che non l'acquisizione di un riflesso condizionato». Quando poi scoprì che questa meravigliosa struttura organica (il complicato embrione della grammatica) poteva esistere in una forma puramente visiva, e che ciò si verificava nella lingua dei segni, questo fu il "secondo" miracolo della sua vita di linguista.
La Bellugi ha studiato in particolare i processi morfologici dell'A.S.L., cioè le modulazioni di un segno che gli fanno esprimere significati differenti attraverso la grammatica e la sintassi. Il puro lessico del "Dictionary" of American Sign costituiva solo un primo passo, perché è evidente che una lingua non si riduce a un lessico o ad un codice. La cosiddetta lingua dei segni indiana è semplicemente un codice, cioè una raccolta, o vocabolario, di segni, i quali di per sé non hanno struttura interna e sono scarsamente suscettibili di modifiche grammaticali. Al contrario, un autentico linguaggio è modulato di continuo dall'azione di dispositivi grammaticali e sintattici di ogni sorta. L'A.S.L. ne ha in grande abbondanza, ed essi permettono di allargare enormemente il vocabolario di base.
Ci sono, così, numerose forme di GUARDA-QUESTO («guarda-mi», «guarda-la», «guarda-ognuno-di-loro», eccetera), ciascuna formata in un modo diverso: per esempio, il segno GUARDA-QUESTO viene eseguito allontanando una mano dal segnante; ma, nell'inflessione che significa «guarda-ognuno-di-loro», le mani si muovono simultaneamente l'una verso l'altra. Anche per indicare la durata è disponibile un gran numero di inflessioni: GUARDA-QUESTO può subire un'inflessione in modo da significare «osserva bene», oppure «guarda incessantemente»; «fissa»; «tieni d'occhio»; «osserva a lungo»; o infine «guarda e riguarda bene» - e molte altre permutazioni, che comprendono combinazioni dei segni precedenti. Vi sono poi moltissime forme derivate, variazioni specifiche del segno GUARDA per significare, a seconda dei casi, «ricordati», «ammira il panorama», «aspettati», «prevedi», «profetizza», «anticipa», «guardati intorno casualmente», «dài un'occhiata», eccetera.
Nella lingua dei segni, anche la faccia può assumere funzioni linguistiche speciali: così (come ha mostrato David Corina, ma anche altri ricercatori), particolari espressioni facciali, o meglio «comportamenti facciali», possono servire a denotare una determinata costruzione sintattica (frasi topicalizzate, le relative e le interrogative), oppure possono assumere la funzione di avverbi o di quantificatori (44). Infine, possono intervenire anche altre parti del corpo. Uno qualsiasi di questi atteggiamenti, o tutti insieme (questo ampio spettro di inflessioni reali o potenziali, spaziali e cinetiche), possono convergere sui segni-radice, fondersi con essi, modificarli, condensando una quantità enorme di informazione nei segni risultanti.
Proprio la "compressione" di queste unità segniche e il fatto che le loro modificazioni sono sempre "spaziali" rendono la lingua dei segni, al livello manifesto, visibile, completamente diversa da qualsiasi lingua vocale; e questo, in parte, impediva di riconoscerla come un linguaggio. Ma è esattamente questo, assieme all'esistenza di una sintassi e di una grammatica spaziali, che fa della lingua dei segni un autentico linguaggio - anche se completamente innovativo, posto al di fuori della grande corrente evolutiva di tutte le lingue parlate, un'alternativa evolutiva unica nel suo genere. (Un'alternativa, anche, molto sorprendente, se si considera che abbiamo impiegato da mezzo milione a due milioni di anni a specializzarci per il linguaggio. Non facciamo molta fatica a capire che tutti noi possediamo potenzialmente il linguaggio; la cosa stupefacente è che negli esseri umani sia altrettanto grande la potenzialità di una modalità "visiva" di linguaggio: non riusciremmo nemmeno a immaginarlo, se il linguaggio visivo non fosse una realtà. Si potrebbe osservare che gesticolare e fare dei segni - seppure segni e gesti privi di una struttura linguistica complessa - sono comportamenti che risalgono al nostro remoto passato preumano: l'ultimo arrivato nell'evoluzione allora sarebbe proprio il linguaggio vocale, cui arrise un grande successo perché liberava le mani per altri compiti, non legati alla comunicazione. Si può supporre che vi siano state due linee evolutive parallele, rispettivamente per la forma di linguaggio vocale e per quella a base di segni; è quel che suggerirebbero i lavori di alcuni antropologi, che indicano la coesistenza di una lingua parlata e una lingua segnata in alcune tribù primitive (45). Così i sordi, e la loro lingua, ci mostrano non solo la plasticità del sistema nervoso, ma anche le sue potenzialità latenti).
Assolutamente unico è, nella lingua dei segni, l'uso linguistico dello spazio: qui sta la differenza rispetto a tutte le altre lingue e a tutte le altre attività mentali (46). Questo spazio linguistico risulta inafferrabilmente complesso a un occhio «normale», che non è in grado di vedere (tanto meno di capire) l'intrico delle sue configurazioni spaziali.
Vediamo dunque nei Segni - al livello lessicale, a quello grammaticale, a quello sintattico - un uso "linguistico" dello spazio: un uso terribilmente complesso, perché quasi tutto ciò che nel parlato è lineare, sequenziale, temporale, nei Segni diventa simultaneo, presente a più livelli, concomitante. La «superficie» dei Segni può apparire semplice all'occhio (come quella del gesto o della mimica), ma ben presto ci si accorge che quest'ultima impressione è ingannevole: quel che appare tanto semplice è straordinariamente complesso, è il risultato del concatenarsi di innumerevoli schemi spaziali, tridimensionalmente annidati uno dentro l'altro.
Le meraviglie di questa grammatica spaziale affascinarono i ricercatori degli anni Settanta e ne assorbirono totalmente l'impegno, tanto che solo nel decennio successivo si è rivolta pari attenzione all'aspetto temporale. La presenza di un'organizzazione sequenziale nei segni era già stata riconosciuta, ma era stata considerata trascurabile dal punto di vista fonologico, fondamentalmente perché non si sapeva «leggerla». Ci vollero le intuizioni di una nuova generazione di linguisti - essi stessi sordi, spesso, o cresciuti usando fin da piccoli la lingua dei segni, e quindi capaci di distinguerne le sottigliezze in base alla propria esperienza personale, «dall'interno» - per fare emergere l'importanza di queste sequenze dentro i segni e tra i segni. Pionieri in questo campo sono stati (assieme ad altri) i fratelli Ted e Sam Supalla. In un articolo pubblicato nel 1978, destinato a restare come una pietra miliare, Ted Supalla ed Elissa Newport hanno dimostrato che alcune piccolissime differenze di movimento potevano distinguere un sostantivo dal verbo correlato: ad esempio, Stokoe e anche altri studiosi pensavano che vi fosse un unico segno per «stare seduti» e «sedia» - mentre Supalla e Newport mostrarono che i rispettivi segni erano sottilmente ma crucialmente distinti (47).
La ricerca più sistematica sull'uso del tempo nei Segni è quella compiuta da Scott Liddell, Robert Johnson e collaboratori all'Università Gallaudet. Liddell e Johnson vedono il segnare non già come una successione di configurazioni istantanee «congelate» nello spazio, ma come una modulazione nel tempo, ricca e continua: una dinamica di «movimenti» e di «pause» paragonabile a quella della musica, o del discorso parlato. Essi hanno dimostrato che nell'A.S.L. sono presenti molti tipi di sequenzialità: sequenze di configurazioni delle mani, di luoghi, di segni non manuali, di movimenti locali, di movimenti alternati a pause; hanno anche dimostrato la presenza di una segmentazione interna (fonologica) nei segni. Un modello strutturale simultaneo non è in grado di rappresentare tali sequenze, anzi può occultarle. Si son dovute sostituire, quindi, le vecchie nozioni e descrizioni statiche con notazioni dinamiche nuove, spesso molto elaborate, che somigliano un po' alle notazioni impiegate per la danza o per la musica (48).
Stokoe, immediatamente entusiasta di questi nuovi sviluppi, si è occupato in particolar modo delle possibilità di una lingua a quattro dimensioni:
«Il parlato ha una dimensione sola - la sua estensione nel tempo; la scrittura ne ha due; i modelli, tre; solo le lingue dei segni dispongono di quattro dimensioni: le tre dimensioni spaziali accessibili al corpo del segnante e la dimensione temporale. E i Segni sfruttano a pieno le possibilità sintattiche offerte dal proprio canale di espressione quadridimensionale» (49).
Come conseguenza, ritiene Stokoe (confortato dalle intuizioni di artisti, scrittori di teatro e attori segnanti), la struttura della lingua dei segni non è solamente narrativa, prosastica, ma è anche - e soprattutto - «cinematica»:
«In una lingua segnata ... la narrazione non è più lineare, ad andamento di prosa: l'essenza di tale lingua è il continuo passaggio da un punto di vista normale a un punto di vista ravvicinato, poi a una prospettiva a distanza, per tornare ancora alla visuale ravvicinata, e così via, includendo perfino scene del passato e immagini del futuro: esattamente come fa un regista cinematografico nel montaggio... La narrazione dei segni è strutturata più come quella di un film montato che come quella di un racconto scritto, e ciascun segnante è situato in un modo che ricorda la cinepresa: il campo visuale e l'angolo prospettico sono controllati, ma variabili. E non solo il segnante, ma anche il suo interlocutore è perfettamente consapevole, in ogni momento, dell'orientazione visiva del segnante rispetto a ciò a cui si riferisce il segno»
Così, dopo tre decenni di ricerca, alla lingua dei Segni si riconosce, infine, pari dignità rispetto al parlato (per la fonologia, per gli aspetti temporali, per l'andamento e le sequenze), con in più alcune peculiarità uniche, di natura spaziale e cinematica: la si vede come un'espressione e un'elaborazione del pensiero estremamente complessa eppure trasparente (50).
Penetrare in una struttura quadridimensionale di una simile complessità può richiedere la strumentazione più formidabile e insieme l'intuizione di un genio (51); eppure un bambino segnante di tre anni vi riesce senza sforzo, senza nemmeno rendersene conto (52). Che cosa accade nella sua mente e nel suo cervello (o in quelli di un qualsiasi segnante), che fa di lui un simile genio, capace di usare lo spazio in modo così stupefacente, di «linguisticizzare» lo spazio? Che specie di hardware c'è nella sua testa? In base alla «normale» esperienza del linguaggio vocale e della parola o in base a quanto sa al proposito il neurologo, un simile virtuosismo spaziale sembrerebbe impossibile. E forse è davvero impossibile per un cervello «normale» - cioè per il cervello di una persona che non sia stata esposta precocemente ai Segni (53). Qual è, dunque, la base neurologica dei Segni?
Dopo aver dedicato gli anni Settanta all'esplorazione della struttura delle lingue dei segni, Ursula Bellugi e i suoi collaboratori sono passati a esaminarne i substrati neurali, impiegando anche il metodo classico della neurologia, cioè l'analisi degli effetti prodotti da lesioni del cervello; nel nostro caso, l'analisi degli effetti sulla lingua dei segni e sull'elaborazione spaziale in generale, quali si possono osservare in segnanti sordi colpiti da un ictus o da un'altra lesione cerebrale.
Da più di un secolo (cioè dalle enunciazioni di Jackson, attorno al 1870) si ritiene che l'emisfero cerebrale sinistro sia specializzato nei compiti analitici, in special modo nell'analisi lessicale e grammaticale che rende possibile la comprensione del linguaggio parlato. Si ritiene inoltre che la funzione dell'emisfero destro sia complementare alla prima, che esso si occupi della totalità anziché delle parti costitutive, delle percezioni sincrone anziché delle analisi sequenziali e, soprattutto, del mondo visivo e spaziale. Le lingue dei segni evidentemente tagliano frontiere così nette - perché esse hanno sì una struttura lessicale e grammaticale, ma d'altra parte questa struttura è sincrona e spaziale. A motivo di tali peculiarità, ancora un decennio addietro non si sapeva con certezza se la lingua dei segni fosse rappresentata nel cervello unilateralmente, come la parola - e, in questo caso, in quale emisfero -, o bilateralmente; se, nell'eventualità di un'afasia del segno, potesse risultare disturbata la sintassi indipendentemente dal lessico. Soprattutto ci si chiedeva, dato l'intrecciarsi delle relazioni grammaticali con quelle spaziali nei Segni, se l'elaborazione spaziale, il senso complessivo dello spazio, potesse avere nei segnanti sordi una base neurale differente (e presumibilmente più forte).
Questi erano alcuni dei problemi che la Bellugi e i suoi collaboratori dovettero affrontare all'inizio della loro ricerca (54). A quell'epoca le informazioni sugli effetti di un ictus o di un'altra lesione cerebrale sulla capacità di segnare erano scarse, imprecise e poco studiate, anche perché si faceva poca differenza tra dattilologia e lingua dei segni. Il primo risultato a cui pervennero, cardinale per gli sviluppi successivi, fu che l'emisfero sinistro del cervello è indispensabile per l'uso dei segni, proprio come lo è per l'uso del linguaggio vocale; inoltre, che la lingua dei segni fa uso di alcuni dei percorsi neurali usati per elaborare la grammatica della lingua vocale, ma che in più fa uso di alcuni percorsi normalmente associati all'elaborazione visiva.
Anche Helen Neville indica che il segnare interessa in prevalenza l'emisfero sinistro: la Neville ha dimostrato che i Segni sono «letti» più rapidamente e con maggiore precisione dai segnanti quando sono presentati nel campo visivo destro (si ricordi che l'informazione proveniente da ciascun lato del campo visivo viene sempre elaborata nell'emisfero opposto). Lo si può constatare, nel modo più manifesto, osservando l'effetto delle lesioni (provocate da ictus o da altra causa) in determinate aree dell'emisfero sinistro, che possono determinare un'afasia per i Segni: vien meno la comprensione o l'uso dei Segni, analogamente a quanto accade nell'afasia della parola.
Questa afasia dei Segni può interessare in modo differenziale il lessico oppure la grammatica dei Segni (compresa la sintassi, che è spazialmente organizzata), così come può indebolire la facoltà generale di «proposizionare» che Jackson riteneva essenziale per il linguaggio (55).
Ma i segnanti afasici "non" risultano menomati in altre capacità visivo-spaziali non linguistiche. (Per esempio nell'afasia si conserva la gesticolazione, cioè quei movimenti espressivi non grammaticali che tutti facciamo, come alzare le spalle, salutare con la mano, agitare il pugno, eccetera, mentre i Segni sono persi: la distinzione tra questi e quella è assoluta. E infatti ai pazienti afasici si può insegnare a usare l'Amerindian Gestural Code, mentre non riusciranno a usare i Segni, proprio come non possono usare la lingua vocale).
Invece i segnanti colpiti nell'emisfero destro possono presentare grave disorganizzazione spaziale, incapacità di valutare la prospettiva, talvolta possono perfino ignorare il lato sinistro dello spazio; ma essi non sono afasici e mantengono integra la capacità di segnare, per quanto grave sia il deficit visivo-spaziale. Così i segnanti mostrano la stessa lateralizzazione cerebrale dei parlanti, anche se il loro linguaggio ha natura esclusivamente visivo-spaziale (e perciò ci si aspetterebbe che fosse elaborato nell'emisfero destro).
A ben considerarlo, questo risultato è insieme sorprendente e ovvio; ne seguono due conclusioni. Esso conferma, a livello neurologico, che quello dei Segni è un linguaggio, e come tale è trattato dal cervello, anche se è visivo anziché uditivo, organizzato spazialmente anziché sequenzialmente nel tempo. In quanto linguaggio, è elaborato dall'emisfero sinistro del cervello, che è biologicamente specializzato per tale funzione.
Il fatto che i Segni siano elaborati nell'emisfero sinistro, malgrado la loro organizzazione spaziale, suggerisce che nel cervello vi sia una rappresentazione dello spazio «linguistico» completamente distinta da quella dello spazio ordinario, «topografico». La Bellugi ce ne dà un'interessante, sorprendente conferma. Uno dei suoi soggetti, Brenda I., colpita da una massiccia lesione dell'emisfero destro, mostrava una profonda ignoranza del lato sinistro dello spazio. Quando descriveva la propria stanza collocava tutto, alla rinfusa, sulla destra, lasciando la zona sinistra completamente vuota: per lei la parte sinistra dello spazio - dello spazio topografico - non esisteva più. Quando invece usava la lingua dei segni, era in grado di stabilire localizzazioni spaziali e segnava liberamente, occupando tutto quanto lo spazio disponibile per i segni, compresa la zona sinistra. Il suo spazio percettivo, il suo spazio topografico, funzione dell'emisfero destro, era profondamente lacunoso; ma il suo spazio linguistico, il suo spazio sintattico, funzione dell'emisfero sinistro, era del tutto integro.
Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova "sorta" di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. E' come se l'emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi.
Vien da chiedersi se questa facoltà linguistico-spaziale sia l'unica peculiarità che si sviluppa nei segnanti, o se in essi si presentino altre facoltà visivospaziali, non linguistiche, tali da rendere possibile una forma nuova di "intelligenza" visiva. Questo interrogativo ha spinto Bellugi e collaboratori a mettere a punto uno studio affascinante sulla cognizione visiva nei segnanti sordi, basato sull'esecuzione di una batteria di test visivo-spaziali (58). Le prestazioni di un gruppo di bambini sordi e segnanti nativi venivano poi messe a confronto con quelle di bambini udenti e non segnanti. Nei test di costruzione spaziale, le prestazioni dei bambini sordi furono molto migliori di quelle dei bambini udenti, anzi molto migliori della «norma». Risultati simili diedero i test di organizzazione spaziale - che valutano la capacità di percepire una totalità a partire dalle sue parti disorganizzate, la capacità di percepire (o concepire) un oggetto: bambini sordi di quattro anni riuscirono a raggiungere punteggi addirittura impensabili per certi studenti udenti della scuola superiore. Anche nell'esecuzione del test di Benton, che misura tanto il riconoscimento di volti quanto la trasformazione spaziale, i bambini sordi fecero registrare risultati notevolmente migliori rispetto ai bambini udenti, molto più avanti rispetto alla loro età cronologica.
Ma i risultati più impressionanti sono quelli che la Bellugi ha ottenuto con gruppi di bambini di Hong Kong, sordi e udenti, analizzando la loro capacità di percepire e di ricordare «pseudo-caratteri» cinesi privi di significato, che venivano presentati sotto forma di configurazioni luminose a scomparsa rapida. I bambini sordi e segnanti diedero risultati eccellenti, mentre quelli udenti quasi non riuscirono a rispondere. A quanto sembra, i bambini sordi riuscivano a fare l'«analisi grammaticale» di questi pseudo-caratteri attraverso un'analisi spaziale molto complessa, e ciò potenziava enormemente la loro percezione visiva, consentendo di «vedere» gli pseudo-caratteri con un'occhiata. L'esperimento fu ripetuto con adulti americani, sordi e udenti, che non conoscevano i caratteri cinesi, e anche questa volta i sordi segnanti risultarono molto più abili.
Tutti questi test, nei quali le prestazioni dei bambini segnanti sono molto superiori ai livelli normali (una superiorità particolarmente marcata nei primi anni di vita) indicano che l'acquisizione dei Segni è accompagnata dall'acquisizione di abilità visive particolari. Come osserva la Bellugi, il test di organizzazione spaziale non implica solo il riconoscimento e la denominazione degli oggetti, ma anche la rotazione mentale, la percezione della forma e, appunto, l'organizzazione spaziale, tutte capacità connesse con le basi spaziali della sintassi dei Segni. Anche la capacità di distinguere le facce e di riconoscere piccoli cambiamenti dell'espressione facciale ha un'estrema importanza per il segnante, poiché l'espressione facciale ha una funzione primaria nella grammatica dell'American Sign Language (59).
La capacità di separare singole configurazioni distinte, quasi «fotogrammi» isolati entro un flusso continuo di movimenti (come nel caso degli pseudo-caratteri cinesi), mette in luce come i segnanti siano particolarmente abili nel «fare l'analisi del movimento»: un processo analogo a quello di scomporre e analizzare il discorso parlato, entro un continuum sempre diverso di onde sonore. E' una capacità che tutti possediamo nella sfera uditiva - ma che solo i segnanti presentano, in modo così perspicuo, nella sfera visiva; ed essa è essenziale per la comprensione di un linguaggio visivo, che si estende nel tempo e anche nello spazio.
E' possibile fare corrispondere una base cerebrale a questo potenziamento della cognizione spaziale? Per studiare i correlati fisiologici di queste modificazioni percettive, la Neville ha misurato le modificazioni delle risposte elettriche del cervello (potenziali evocati) a certi stimoli visivi, in particolare a movimenti nel campo visivo periferico (60). (Un potenziamento della percezione di questi stimoli è cruciale nella comunicazione in Segni, perché in genere gli occhi del segnante fissano il volto dell'interlocutore, e quindi i movimenti delle mani cadono nella periferia del campo visivo).
La Neville ha confrontato queste risposte in tre gruppi di soggetti: segnanti nativi sordi, non segnanti udenti e segnanti nativi udenti (per lo più figli di genitori sordi). I primi mostrano una maggiore velocità di reazione a questi stimoli - e ciò va di pari passo con un aumento dei potenziali evocati nei lobi occipitali del cervello, le aree primarie di ricezione della visione. In nessuno dei soggetti udenti si poterono osservare questi aumenti della velocità e dei potenziali occipitali, che sembrano riflettere un fenomeno di compensazione: un senso è potenziato per «rimpiazzarne» un altro assente (in modo analogo, i ciechi possono presentare una sensibilità uditiva molto maggiorata) (61).
Ma i soggetti sordi mostrarono anche maggior precisione nel rilevare la direzione di un movimento, specie quando questo rientrava nel campo visivo destro: in corrispondenza si poteva rilevare un aumento dei potenziali evocati nelle regioni parietali dell'emisfero sinistro. Il potenziamento toccava quindi anche i livelli superiori; inoltre lo si poteva osservare anche nei figli udenti di genitori sordi, e perciò non andava considerato effetto della sordità, ma piuttosto dell'acquisizione precoce dei Segni (che richiede una percezione degli stimoli visivi molto più acuta del normale). La percezione del moto nel campo periferico non è l'unica funzione che nei segnanti passa dall'emisfero destro all'emisfero sinistro: nei segnanti sordi, e già in età molto precoce, la Neville e la Bellugi riscontrarono un'analoga specializzazione dell'emisfero sinistro per l'identificazione di immagini, la localizzazione di punti e il riconoscimento dei volti (62). «Normalmente», tale specializzazione ha come sede l'emisfero destro (63).
Ma gli incrementi di gran lunga maggiori furono osservati nei segnanti sordi: anzi, in questi, l'incremento dei potenziali evocati si estende in avanti fino al lobo temporale sinistro, normalmente considerato come sede di una funzione puramente uditiva. Questo è un risultato sorprendente, notevolissimo - fondamentale, vien fatto di pensare, perché suggerisce l'ipotesi che quelle che sono normalmente le aree uditive subiscano, nei segnanti sordi, una "diversa destinazione", e vengano adibite all'elaborazione visiva. Questo fatto costituisce una delle più stupefacenti dimostrazioni della plasticità del sistema nervoso, di quanto esso possa adattarsi a una diversa modalità sensoriale.
Ma siamo portati anche a chiederci fino a che punto il sistema nervoso, o almeno la corteccia cerebrale, sia determinato da vincoli genetici, innati (con centri fissi e localizzazione fissa - per usare il linguaggio dell'informatica, aree «cablate», «preprogrammate» o «specializzate» in vista di certe funzioni specifiche), e fino a che punto sia plastico, cioè modificabile da esperienze sensoriali particolari. I famosi esperimenti di Hubel e Wiesel hanno mostrato che la corteccia visiva può essere ampiamente modificata dagli stimoli visivi, ma non hanno chiarito quanta parte dell'input si limiti ad attivare potenzialità innate e quanta invece le modelli e le plasmi.
Gli esperimenti della Neville suggeriscono che la funzione sia in parte plasmata dall'esperienza, perché sarebbe arduo pensare che la corteccia uditiva fosse «in attesa» della sordità, o della stimolazione visiva, per mutare natura diventando visiva. E' assai difficile spiegare questi risultati senza ricorrere a una teoria radicalmente differente, una teoria che non concepisca il sistema nervoso come una macchina universale, cablata e preprogrammata per (potenzialmente) qualsiasi compito, ma lo veda come una struttura in divenire, libera di assumere le forme più diverse, beninteso entro i vincoli assegnati dalla genetica.
Per rendersi conto dell'importanza di questi risultati occorre anche riconsiderare gli emisferi cerebrali, le loro diversità e i loro ruoli dinamici nell'esecuzione di compiti cognitivi. Questa prospettiva nuova è stata fornita da Elkhonon Goldberg e dai suoi collaboratori, in una serie di lavori sperimentali e teorici (64).
Secondo la concezione classica, i due emisferi cerebrali hanno funzioni fisse (o «dedicate»), che si escludono a vicenda: linguistico / non linguistico, sequenziale / simultaneo, analitico / gestaltico sono alcune delle dicotomie suggerite. Ma quando si ha a che fare con una lingua visivo-spaziale, questa concezione va incontro a evidenti difficoltà.
Goldberg, per cominciare, estese il dominio del «linguaggio» a quello di un «sistema descrittivo» in generale. Secondo la sua formulazione, tali sistemi descrittivi costituiscono sovrastrutture apposte ai sistemi elementari di «rilevamento di caratteristiche» (per esempio i sistemi della corteccia visiva); nella cognizione normale sono operanti svariati sistemi (o «codici») di questo tipo. Uno di questi è, ovviamente, il linguaggio naturale; ma se ne possono citare molti altri: per esempio i linguaggi matematici formali, la notazione musicale, i giochi, eccetera (in quanto possiedono una codificazione specifica). Tutti sono caratterizzati dal fatto che in un primo tempo vengono acquisiti per tentativi, a tentoni, ma in seguito raggiungono una perfezione automatica. Così, per affrontare questi compiti cognitivi (e in realtà tutti), si possono seguire due modalità, due «strategie» cerebrali, con la possibilità di passare dall'una all'altra (acquistando la relativa competenza). Secondo questa concezione, l'emisfero destro ha un ruolo essenziale quando si deve affrontare una situazione nuova, per la quale non esista ancora alcun sistema descrittivo, o codice, stabilito; inoltre esso interviene anche nell'assemblaggio di tali codici. Una volta che uno di tali codici è stato assemblato, o è emerso, avviene un trasferimento di funzione dall'emisfero destro a quello sinistro, perché è quest'ultimo che controlla tutti i processi che sono organizzati nei termini di una siffatta grammatica, o codice. (Così un compito linguistico nuovo, pur essendo linguistico, all'inizio sarà affrontato prevalentemente dall'emisfero destro, e solo in un secondo tempo passerà all'emisfero sinistro, dove diventerà una funzione di routine. Reciprocamente, un compito visivo-spaziale, pur essendo tale, una volta inquadrato in un codice o notazione, costituirà una specializzazione dell'emisfero sinistro) (65).
Questa impostazione è molto differente dalle dottrine classiche che attribuiscono agli emisferi specificità fisse; ma è quella che permette di capire il ruolo dell'esperienza dell'"individuo" e lo sviluppo di quest'ultimo, dai primi goffi tentativi (alle prese con un compito linguistico o con un qualsiasi altro compito cognitivo) fino all'acquisizione della competenza e della perfezione (66). (Non c'è un emisfero «più avanzato» o «migliore» dell'altro; semplicemente, ciascuno è più adatto per certe fasi e certe dimensioni dei processo di elaborazione. I due emisferi sono complementari, interagenti; insieme, permettono di padroneggiare i compiti nuovi). Questa concezione elimina ogni paradosso e chiarisce come mai i Segni (pur essendo visivo-spaziali) possano diventare una funzione dell'emisfero sinistro; come avviene che molti altri tipi di capacità visive divenute componenti dell'uso dei Segni (la percezione del movimento, di configurazioni, di relazioni spaziali, delle espressioni facciali) siano cancellate dall'emisfero destro, via via che l'uso dei Segni si sviluppa, per diventare anch'esse funzioni dell'emisfero sinistro.
Possiamo ora capire perché il segnante diventi una sorta di «esperto» della facoltà visiva, sotto parecchi aspetti, per determinati compiti, linguistici e no; capiamo come si possano sviluppare, oltre a un linguaggio visivo, anche una sensibilità e un'intelligenza visive del tutto speciali.
Occorrono ulteriori e più consistenti osservazioni sullo sviluppo di una visualità «superiore», di uno stile visivo - confrontabili con quelle compiute da Bellugi e Neville sul potenziamento delle funzioni visivo-cognitive «inferiori» nei sordi (67). Fino a oggi conosciamo soprattutto episodi e resoconti; questi ultimi, però, sono di solito straordinari e meritano la massima attenzione. Ne troviamo uno molto significativo nel libro "What the Hands Reveal about the Brain"; gli autori, che si attengono a una descrizione rigorosamente scientifica, non hanno potuto rinunziare a inserirlo, incidentalmente:
«Vedemmo per la prima volta questo aspetto di "mappatura" dei Segni quando un amico sordo che era venuto a trovarci ci raccontò del suo recente trasferimento in un altro quartiere. Andò avanti per cinque minuti a descriverci la villetta con giardino in cui abitava ora - le stanze, la pianta della casa, i mobili, le finestre, il panorama che vedeva intorno e così via. Descriveva tutto con tanta eleganza di particolari, in modo così evidente che ci sembrava di avere ogni cosa scolpita davanti agli occhi: il cottage, il giardino, la collina, gli alberi» (68).
Quel che viene riferito qui è difficile da immaginare: bisogna vederlo. Somiglia molto a quello che dicono di Charlotte i suoi genitori, quando parlano della sua abilità di creare un paesaggio reale (o immaginario), con tale completezza, precisione, vivezza, da trascinare l'osservatore. Questa abilità descrittiva, anzi pittorica, si sviluppa con la pratica dei Segni - anche se i Segni in sé non sono affatto un «linguaggio figurativo».
L'altra faccia di questa destrezza linguistica e della destrezza visiva in generale è la tragica povertà della funzione linguistica e intellettuale che può affliggere un gran numero di bambini sordi. E' chiaro che, nei sordi che mostrano alta competenza linguistica e visiva, si è stabilita una forte lateralizzazione cerebrale, con un passaggio delle funzioni linguistiche (e anche del complesso delle funzioni visivo-cognitive) a un emisfero sinistro ben sviluppato. Ma qual è - dobbiamo chiederci - la situazione neurologica del sordo che non ha raggiunto elevati livelli di competenza?
La Rapin rimase colpita dalla «notevole deficienza linguistica» di molti dei bambini sordi con cui lavorava, e in particolare dalla loro incapacità di capire la forma interrogativa, di afferrare la struttura delle frasi: un'autentica incapacità a manipolare il codice-linguaggio. Negli studi della Schlesinger troviamo altre dimensioni di questa stessa deficienza, che dal campo linguistico la estendono a quello intellettuale: secondo la sua descrizione, il sordo a ridotta competenza linguistica, oltre a trovarsi in difficoltà di fronte alla forma interrogativa, sa riferirsi solo agli oggetti dell'ambiente più immediato, non è in grado di concepire la lontananza o le eventualità, né di formulare ipotesi, non può elevarsi alle categorie superordinate, e in generale è confinato a un mondo percettivo, preconcettuale. Secondo la Schlesinger, gli enunciati di questi sordi sono piuttosto carenti dal punto di vista sintattico e semantico; ma è chiaro che lo sono anche in un senso assai più profondo.
Per caratterizzare tutte queste deficienze, abbiamo bisogno di andare oltre le usuali categorie linguistiche - sintassi, semantica e fonetica. Ancora una volta è Goldberg a venirci in aiuto, con le sue riflessioni sul «linguaggio vocale dell'emisfero destro isolato» (69).
Il linguaggio dell'emisfero destro permette le relazioni referenziali "ad hoc" (indicare, dare un nome, l'"hic-et-nunc"), permette di stabilire una base referenziale di un codice linguistico, ma qui si ferma: esso non consente, cioè, di manipolare tale codice o di effettuare derivazioni al suo interno. In termini più generali, la funzionalità dell'emisfero destro si limita all'organizzazione percettiva e non può passare a quella in categorie, all'organizzazione lessicale basata su definizioni; è solo «esperienziale» (per dirla con Zaidel), non è in grado di abbracciare il «paradigmatico» (70).
Questa elaborazione referenziale, con un'assenza totale della manipolazione di regole, è precisamente quella che riscontriamo nei sordi linguisticamente carenti. Il loro linguaggio, la loro organizzazione lessicale, sono simili a quelli delle persone in cui la funzione del linguaggio vocale è affidata all'emisfero destro. Tale condizione è solitamente associata a una lesione dell'emisfero sinistro sofferta in età già avanzata, ma può anche derivare da un difetto di sviluppo - quando non avviene il passaggio dal funzionamento lessicale iniziale dell'emisfero destro al funzionamento linguistico maturo, sintatticamente sviluppato, dell'emisfero sinistro.
C'è qualche testimonianza che faccia pensare che appunto questo accada ai sordi linguisticamente carenti e con prestazioni ridotte? Lenneberg si è chiesto se in un alto numero di sordi congeniti la lateralizzazione cerebrale non si fosse stabilita in modo insoddisfacente, anche se a quel tempo (1967) non esisteva ancora una precisa demarcazione, una differenziazione dei caratteri e delle capacità lessicali degli emisferi presi isolatamente. Il problema è stato affrontato dal punto di vista neurofisiologico dalla Neville, che scrive: «Se l'esperienza linguistica ha qualche influenza sullo sviluppo cerebrale, allora certi aspetti della specializzazione cerebrale dovrebbero differire in soggetti sordi e udenti, quando essi leggono la lingua inglese». E in effetti la Neville trovò che la maggioranza delle persone sorde da lei sottoposte a test non presentava il quadro di specializzazione dell'emisfero sinistro osservato negli udenti; fece perciò l'ipotesi che la causa fosse la mancanza di una piena competenza grammaticale nella lingua inglese. E infatti quattro soggetti sordi congeniti, che possedevano una competenza perfetta nella grammatica inglese, presentavano una specializzazione «normale» dell'emisfero sinistro. Così, secondo le parole della Neville, «la competenza grammaticale è necessaria e sufficiente per la specializzazione dell'emisfero sinistro - purché sia acquisita precocemente».
Dalle descrizioni fenomenologiche della Rapin e della Schlesinger, dalle indicazioni comportamentali e neurofisiologiche raccolte dalla Neville, risulta chiaro che l'esperienza del linguaggio può modificare in modo massiccio lo sviluppo cerebrale e che, se tale esperienza è gravemente insufficiente o in qualche modo deviante, può causare un ritardo nella maturazione del cervello, impedendo il corretto sviluppo dell'emisfero sinistro e in pratica limitando il soggetto all'uso di una sorta di linguaggio dell'emisfero destro (71).
Non è chiaro quanto permanenti possano essere tali ritardi: le osservazioni della Schlesinger suggeriscono che, se non li si previene, essi possano persistere per tutta la vita. Ma un intervento appropriato, anche a sviluppo avanzato, nell'adolescenza, consente di mitigare tali ritardi, o addirittura di invertirne il corso (72). Così alla Braefield School, che è una scuola primaria, il quadro può apparire terrificante; ma qualche anno dopo, da adolescenti, quegli stessi alunni (o molti di loro) possono dare prestazioni migliori in una scuola secondaria, per esempio alla Lexington School. (In modo del tutto diverso da quello che abbiamo chiamato «intervento», può verificarsi la scoperta tardiva del mondo dei sordi, con l'accesso a un'intimità linguistica, una cultura, una comunità: un «ritorno in patria» capace di compensare in parte il precedente isolamento).
Questi, in termini molto generali, sono i rischi neurologici della sordità congenita. Né l'acquisizione del linguaggio né lo sviluppo cerebrale nelle sue forme superiori avvengono «spontaneamente»; entrambi dipendono dalla comunicazione, dall'esposizione al linguaggio, da un uso corretto di questo. Se i bambini sordi non sono esposti fin da piccoli a un buon linguaggio, se non sono inseriti in un ricco scambio di comunicazioni, la loro maturazione cerebrale può subire un ritardo (perfino un arresto): restano dominanti i processi dell'emisfero destro, difetta il «passaggio» all'altro emisfero.
Questo passaggio può, invece, avvenire se si riesce a introdurre, entro la fase della pubertà, il linguaggio o un altro codice linguistico; la forma di tale codice (linguaggio vocale o Segni) sembra non avere alcuna importanza; importa solo che esso sia abbastanza ricco da consentire un'elaborazione interna. E se il linguaggio primario è quello dei Segni, ci sarà in più un potenziamento di molti tipi di capacità visivo-cognitive, che procederà di pari passo con il passaggio della dominanza dall'emisfero destro a quello sinistro (73).
Sono affascinanti alcuni recenti osservazioni sulla disposizione che il cervello può avere per una lingua dei segni, in particolare per forme simili all'A.S.L., o più in generale ai Segni, "quale che sia la forma" della lingua dei segni a cui esso viene esposto. James Paul Gee e Wendy Goodhart hanno mostrato con piena evidenza che, esponendo bambini sordi a forme di inglese segnato (inglese codificato manualmente), "ma non all'A.S.L.", essi «tendono a introdurre nuove forme simili all'A.S.L., pur non avendo ricevuto alcuni input (o quasi) in tale lingua» (74). E' un risultato sconcertante: un bambino che non ha mai visto l'A.S.L. tende, ciò nonostante, a sviluppare forme che risultano simili all'A.S.L.
Elissa Newport e Sam Supalla hanno mostrato che i bambini costruiscono un'A.S.L. grammaticalmente perfetta anche quando sono esposti (come spesso accade) a un'A.S.L. un po' meno perfetta: ciò indica chiaramente la presenza di una competenza grammaticale innata nel cervello (75). I risultati di Gee e Goodhart vanno oltre, mostrando come il cervello proceda in modo inevitabile verso forme simili ai Segni, fino a «trasformare» forme dissimili dai Segni in forme simili ai Segni. Come dice Edward Klima, «i Segni sono più vicini al linguaggio della mente», e pertanto, per il bambino che sta crescendo, chiamato a costruire una lingua nella modalità manuale, sono più «naturali» di qualsiasi altra forma. Una conferma indipendente ci è offerta dalle ricerche di Sam Supalla, il quale ha studiato in particolar modo i meccanismi usati per marcare le relazioni grammaticali (che sono spaziali nell'A.S.L., ma completamente sequenziali nell'inglese segnato e nell'inglese parlato) (76). Egli ha trovato che i bambini sordi esposti solo all'inglese segnato "sostituiscono" i meccanismi grammaticali di questa lingua con altri puramente spaziali, «simili a quelli che si trovano nell'A.S.L. o in altre lingue segnate naturali». Supalla li considera «spontaneamente creati», o frutto di un'evoluzione spontanea.
E' noto da anni che l'inglese segnato è scomodo e faticoso da usare:
«I sordi» scrive la Bellugi «ci hanno detto che, mentre riescono facilmente a decifrare il singolo segno via via che compare, hanno difficoltà a decifrare il messaggio complessivo quando tutta l'informazione è espressa sotto forma di elementi sequenziali contenuti in un flusso di segni» (77). Queste difficoltà non diminuiscono con la pratica; esse sono dovute a limiti basilari di natura neurologica - in particolare limiti della memoria a breve termine e dell'elaborazione cognitiva. Nessuna di queste difficoltà si presenta con l'A.S.L., che è perfettamente adattata a una modalità visiva grazie alle sue caratteristiche spaziali, e perciò può facilmente essere espressa e compresa a grande velocità. L'inglese segnato impone alla memoria a breve termine e alle facoltà cognitive un sovraccarico che i sordi adulti avvertono come difficoltà e sforzo.
Ma i bambini sordi, che hanno ancora la capacità di "creare" strutture grammaticali - questa è l'ipotesi che fa Supalla - sono spinti, dalle difficoltà cognitive incontrate nell'apprendimento dell'inglese segnato, a crearsi strutture linguistiche personali, a creare o a sviluppare una grammatica spaziale.
Supalla ha mostrato inoltre che, se i bambini sordi sono esposti solo all'inglese segnato, possono presentare «una ridotta capacità di apprendere ed elaborare il linguaggio naturale», una diminuzione della capacità di creare e comprendere la grammatica; a meno che siano capaci di creare proprie strutture linguistiche. Fortunatamente, essendo bambini, quindi ancora in età «chomskiana», essi sono capaci di crearsi queste strutture linguistiche proprie, questa grammatica spaziale personale; e lo fanno, in effetti, per assicurarsi la sopravvivenza linguistica.
Queste scoperte sulla generazione spontanea dei Segni, o di strutture linguistiche simili, nei bambini sono molto importanti perché possono fare luce sull'origine e sull'evoluzione dei Segni in generale. Sembra infatti che il sistema nervoso, dati i vincoli di una lingua in una modalità visiva e i limiti fisiologici della memoria a breve termine e dei processi di elaborazione cognitiva, "debba" necessariamente sviluppare quel tipo di strutture linguistiche, quel tipo di organizzazione spaziale, che noi constatiamo nei Segni. A favore di questa congettura depone la circostanza che tutte le lingue segnate indigene (e ve ne sono a centinaia, ovunque nel mondo, formatesi separatamente e indipendentemente là dove esistono gruppi di persone sorde) hanno essenzialmente la stessa struttura spaziale. Nessuna di esse assomiglia minimamente all'inglese segnato, o a una lingua vocale segnata; tutte presentano, al di sotto delle differenze specifiche, alcune somiglianze generali con l'A.S.L. Non esiste una lingua dei segni universale, ma esistono, sembrerebbe, degli universali in tutte le lingue dei segni: universali non di significato, ma di forma grammaticale (78).
Vi sono fondate ragioni (anche se si tratta di prove circonstanziali più che dirette) per supporre che la competenza linguistica generale sia determinata geneticamente e sia essenzialmente la stessa in tutti gli esseri umani. Ma la forma particolare di grammatica - quella che Chomsky chiama «grammatica superficiale» (sia essa la grammatica dell'inglese, o del cinese, o dei Segni) - è determinata dall'esperienza dell'individuo: non è un patrimonio genetico, ma una conquista epigenetica. Essa viene «appresa», o forse sarebbe meglio dire (dato che stiamo parlando di qualcosa di primitivo e di preconscio) che si evolve attraverso l'interazione tra una competenza linguistica generale (o astratta) e le particolarità dell'esperienza - un'esperienza che nei sordi ha natura peculiare, anzi unica, perché ha una modalità visiva.
Quello che Gee e Goodhart, e anche Supalla, osservano è un'evoluzione, una modificazione sorprendente (e radicale) delle forme grammaticali, sotto l'influenza di tale necessità visiva. Essi descrivono una trasformazione: la forma grammaticale cambia davanti agli occhi dell'osservatore, lo si può vedere; si spazializza, allorché l'inglese segnato viene «trasformato» in un linguaggio simile all'A.S.L. Avviene un'evoluzione delle forme grammaticali - un'evoluzione che si svolge nel giro di pochi mesi.
Il linguaggio viene modificato attivamente; lo stesso cervello viene modificato attivamente, via via che esso sviluppa la capacità del tutto nuova di «linguisticizzare» lo spazio (o di spazializzare il linguaggio); nello stesso tempo nel cervello si compiono anche tutti quei progressi, di natura visivo-cognitiva, ma non linguistica, che sono stati descritti da Neville e Bellugi. Nella microstruttura del cervello devono avvenire modificazioni fisiologiche e (se solo potessimo vederle) anatomiche, accompagnate da una riorganizzazione.
La Neville suppone che il cervello all'inizio possieda un'alta ridondanza e plasticità neuronali, e che però in seguito esso venga «potato» dall'esperienza: qui rinforzando le sinapsi (le connessioni tra le cellule nervose), là inibendole o sopprimendole, a seconda delle pressioni in competizione esercitate dai differenti input sensoriali. Non può bastare la sola dotazione genetica a spiegare tutta la complessità delle connessioni del sistema nervoso - quali che siano le invarianti predeterminate, durante lo sviluppo emerge un'ulteriore diversità. Di questo sviluppo postnatale (epigenesi) si occupa in particolar modo Jean-Pierre Changeux (79).
Un suggerimento più radicale, o meglio un modo di pensare completamente diverso, è stato proposto di recente da Gerald Edelman (80). L'unità di selezione per Changeux è il singolo neurone; per Edelman, invece, è il gruppo neuronale; ed è solo a questo livello, con la selezione di diversi gruppi (o popolazioni) di neuroni sottoposti a pressioni competitive, che si può dire che si verifichi una "evoluzione" (distinta da una semplice crescita o sviluppo).
Questo consente a Edelman di proporre un modello essenzialmente biologico, affatto darwiniano, a differenza di quello di Changeux, che è essenzialmente meccanico (81). Secondo Darwin, la selezione naturale avviene nelle popolazioni, come risposta alle pressioni dell'ambiente.
Edelman vede un prolungamento di tale processo "all'interno dell'organismo" (egli parla di «selezione somatica»), e ciò determinerebbe lo sviluppo del sistema nervoso dell'individuo. Il fatto che siano implicate "popolazioni" (di cellule nervose) aumenta enormemente le possibilità di cambiamento.
La teoria di Edelman offre un quadro particolareggiato di come si possano formare «mappe» di neuroni che permettono all'animale di adattarsi (senza istruzioni) a sfide percettive completamente nuove, di creare o costruire forme percettive e categorizzazioni nuove, nuovi orientamenti, nuovi approcci al mondo. Precisamente questa è la situazione del bambino sordo: egli si trova bruscamente immesso in una situazione percettiva (e cognitiva, e linguistica) per la quale non vi sono né precedenti genetici né insegnamenti che lo assistano; eppure, appena se ne presenti l'opportunità, egli comincia a sviluppare forme del tutto originali di organizzazione neurale, di mappe neurali, che gli consentiranno di padroneggiare il mondo del linguaggio, articolandolo in modo del tutto nuovo. E' difficile immaginare un esempio più impressionante di selezione somatica, di darwinismo neurale, in azione.
Essere sordo, essere nato sordo, pone l'individuo in una situazione fuori dall'ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo.
L'incredibile esperimento del faraone Psammetico Primo, che fece allevare due figli da alcuni pastori ai quali aveva ordinato di non parlare mai con loro, allo scopo di vedere quale lingua avrebbero parlato naturalmente (se mai ne avrebbero parlato una), si ripete, potenzialmente, con ogni bambino nato sordo (82). Pochi di questi bambini, forse il dieci per cento, nascono da genitori sordi, sin dall'inizio sono esposti ai Segni e diventano segnanti nativi; il resto deve vivere in seno a un mondo uditivo-orale, del tutto impreparato, dal punto di vista sia biologico, sia linguistico, sia emotivo, a trattare con i sordi. La vera disgrazia non è la sordità in sé; la disgrazia sopravviene con l'assenza di comunicazione e di linguaggio. Se non si raggiunge la comunicazione, se il bambino non è esposto a un ricco dialogo linguistico, si manifesteranno tutti i deficit - linguistici, intellettivi, emotivi, culturali - descritti dalla Schlesinger, che colpiscono, in misura più o meno grave, la maggioranza dei sordi congeniti. Osserva Schein (83): «I bambini sordi per lo più crescono come stranieri nella loro stessa casa» (84).
E tuttavia niente di tutto ciò è inevitabile. Per quanto grandissimi, i rischi che minacciano un bambino sordo sono per fortuna del tutto scongiurabili. Essere genitori di un bambino sordo, o di due gemelli, o di un bambino cieco, o di un bambino prodigio richiede una resistenza speciale e un grande spirito di iniziativa. In molti casi, i genitori si sentono impotenti di fronte alla barriera che impedisce loro di comunicare con il figlio sordo, con effetti devastanti. Il fatto che sia possibile superare tale barriera è un riconoscimento dell'adattabilità sia dei genitori sia del bambino.
Infine, vi sono casi (ancora troppo rari) di sordi che riescono a realizzare le proprie capacità innate con discreto successo.
Condizione cruciale è però che riescano ad acquisire il linguaggio sin da piccoli, all'età «normale». Questo primo linguaggio potrà essere la lingua dei segni o quella parlata (come abbiamo visto nei casi di Charlotte e di Alice), perché è il linguaggio, più che una sua particolare forma, che attiva la competenza linguistica e con essa anche la competenza intellettuale. I genitori di un bambino sordo devono essere, in un certo senso, «genitori super»; cosa ancora più ovvia, gli stessi bambini sordi devono essere «bambini super». Così Charlotte a sei anni legge con grande facilità e ha una passione vera, non obbligata, per la lettura; a sei anni è già bilingue e biculturale - mentre la maggior parte di noi passa tutta la vita in un'unica cultura, conoscendo una sola lingua. Differenze come queste possono essere benefiche e fertili, possono arricchire la natura umana e la cultura. Questa, se si vuole, è l'altra faccia della sordità: l'affinamento della visualità e le facoltà speciali associate all'uso dei Segni. La grammatica dei Segni viene acquisita in gran parte allo stesso modo della grammatica della lingua vocale, e per lo più alla stessa età: possiamo dunque supporre che la loro struttura profonda sia identica. Identico in entrambe è il potere di formulare proposizioni, e tali sono anche le loro proprietà formali, malgrado esse implichino (come affermano Petitto e Bellugi) differenti tipi di segnali e di informazione, differenti sistemi sensoriali, differenti strutture mnemoniche, e forse differenti strutture neurali (85). Le proprietà formali dei Segni e della lingua vocale sono identiche, come lo è l'intento comunicativo. Eppure non sono, o non potrebbero essere, sotto certi aspetti, profondamente differenti?
Chomsky ci ricorda che Humboldt «ha introdotto un'ulteriore distinzione tra la forma di un linguaggio e quello che egli definisce il suo "carattere" ... [quest'ultimo essendo] determinato dal modo in cui il linguaggio viene "usato", da distinguersi quindi dalla sua struttura sintattica e semantica, dove è questione di forma, non di uso». C'è in effetti un certo pericolo (come ha indicato Humboldt) che, a furia di esaminare e riesaminare la forma di un linguaggio, si finisca per dimenticare che esso ha un significato, un carattere, un uso. Il linguaggio non è solo uno strumento formale (anche se in realtà è il più meraviglioso strumento formale che esista); è anche la più esatta espressione dei nostri pensieri, delle nostre aspirazioni, della nostra visione del mondo. Il «carattere» del linguaggio, così come lo intende Humboldt, è di natura essenzialmente creativa e culturale, ha un'impronta generale; è il suo «spirito», non solo il suo «stile». In questo senso l'inglese ha un carattere diverso dal tedesco, la lingua di Shakespeare ha un carattere diverso da quella di Goethe. Quel che è diverso è l'identità culturale o personale. Ma i Segni differiscono dalla lingua vocale più che una qualsiasi lingua parlata da un'altra. Potrebbe trovarsi qui un'identità «organica» radicalmente diversa?
Basta osservare due persone che usano la lingua dei segni per capire come questa abbia una vivacità, uno stile, del tutto diversi da quelli della lingua vocale. I segnanti sono portati a improvvisare, a giocare con i segni; vi introducono tutto il loro humour, la loro immaginazione, la loro personalità. Usare i segni non è solo manipolare simboli seguendo certe regole grammaticali, ma è dar voce, in modo che non ha eguali, al segnante - una voce dotata di una forza speciale proprio perché a esprimerla è il corpo, con tutta la sua immediatezza. Ci può essere, si può immaginare, un linguaggio vocale disincarnato, ma non una lingua dei segni disincarnata. L'atto di segnare esprime di continuo il corpo e l'anima del segnante, la sua identità umana unica.
Forse i Segni hanno un'origine diversa dalla lingua vocale, perché nascono dai gesti, che sono una rappresentazione spontanea emotivo-motoria (86). Pur essendo completamente formalizzata e dotata di grammatica, la lingua dei segni è altamente iconica, conserva molte tracce delle sue origini figurative. Le persone sorde, scrivono Klima e Bellugi, «sono minutamente consapevoli di tutte le sfumature iconiche del loro vocabolario ... Quando comunicano tra loro, o quando raccontano, i segnanti sordi spesso accentuano o estendono l'elemento mimetico; ciò accade anche in certi usi elevati della lingua (nella poesia, nelle opere d'arte) ... Così l'A.S.L. resta un linguaggio a due facce - ha una struttura formale, ma sotto molti aspetti importanti conserva una grande libertà mimetica» (87).
Le proprietà formali, la struttura profonda, permettono di esprimere anche i concetti e le proposizioni più astratti; al tempo stesso, grazie a questo aspetto iconico o mimetico, la lingua dei segni può essere straordinariamente concreta ed evocativa, in un modo forse impossibile a qualsiasi lingua parlata. La lingua parlata (e scritta) si è allontanata dall'iconicità; essa può richiamare stati d'animo e immagini, ma non li può ritrarre (eccetto che mediante ideofoni e onomatopee «fortuite»). Se la poesia espressa nella lingua parlata può sembrarci evocativa, è solo per le associazioni che suscita, non per un suo carattere descrittivo. Il potere di rappresentazione diretta che hanno i Segni non ha l'analogo nel linguaggio vocale, né può esservi tradotto; d'altra parte la lingua dei segni fa meno uso di metafore.
Avendo conservato entrambe le facce - quella iconica e quella astratta, tra loro complementari - la lingua dei segni può elevarsi alla massima astrazione e simultaneamente evocare una concretezza e una verosimiglianza che le lingue vocali hanno perso da tempo - e forse non hanno mai avuto (88).
Il «carattere» di una lingua, per Humboldt, è essenzialmente culturale: esprime (e forse in parte determina) il modo di pensare e di sentire di tutto un popolo, le sue aspirazioni. Nel caso dei Segni, la qualità distintiva della lingua (il suo «carattere», appunto) è anche biologica, perché è radicata nei gesti, nell'iconicità, in una radicale visualità, che ne fanno qualcosa di assolutamente diverso da qualsiasi lingua parlata. Dal punto di vista biologico, il linguaggio scaturisce dal basso, dal bisogno insopprimibile dell'individuo umano di pensare e di comunicare. Ma è anche generato e trasmesso, dal punto di vista culturale, dall'alto, incarnazione vivente e necessaria della storia di un popolo, della sua visione del mondo, del suo immaginario e delle sue passioni. I Segni sono per i sordi un adattamento unico a un'altra modalità sensoriale; ma sono anche, e parimenti, un'incarnazione della loro identità personale e culturale. Perché nella lingua di un popolo, osserva Herder, «risiede tutto il suo dominio di pensiero, la sua tradizione, la sua storia, la sua religione; risiedono il suo cuore e la sua anima, basi della vita stessa». Questo è tanto più vero per i Segni, che sono biologicamente la voce dei sordi, una voce non riducibile al silenzio.