PREFAZIONE

 

 

Tre anni fa non sapevo nulla della condizione dei sordi e non avrei mai immaginato che essa potesse far luce in tanti àmbiti diversi, soprattutto in quello del linguaggio. Poi, e fu una scoperta sorprendente, venni a conoscenza della storia dei sordi e delle straordinarie sfide (linguistiche) che essi devono affrontare; scoprii anche, con meraviglia, che esisteva un linguaggio completamente visivo, i Segni, che si esprimeva in una modalità diversa dalla mia lingua, il parlato. E' terribilmente facile dare per scontato il linguaggio, la propria lingua - può occorrere l'impatto con un'altra lingua, o piuttosto con un'altra "modalità" di linguaggio, per ritrovare la nostra antica meraviglia.

Quando lessi per la prima volta dei sordi e della loro singolare modalità di linguaggio, i Segni, ne fui spronato a imbarcarmi in un'esplorazione, in un viaggio; questo viaggio mi ha portato tra i sordi e le loro famiglie; mi ha fatto approdare alle scuole per sordi, e alla Gallaudet, l'unica università per sordi che esista; mi ha portato a Martha's Vineyard, l'isola del Massachusetts dove un tempo esisteva una forma ereditaria di sordità e tutti (gli udenti non meno dei sordi) parlavano con i Segni; mi ha portato in città come Fremont e Rochester, dove esiste un'interessante interfaccia tra comunità di sordi e comunità di udenti; mi ha fatto conoscere i grandi studiosi dei Segni e delle condizioni del sordo - ricercatori brillanti e appassionati, che mi hanno trasmesso il loro entusiasmo e la loro visione di regioni inesplorate e nuove frontiere (1). Questo viaggio mi ha portato a vedere il linguaggio, la natura del parlare e dell'insegnare, lo sviluppo del bambino, la crescita e il funzionamento del sistema nervoso, la formazione delle comunità, dei mondi, delle culture, in un modo del tutto nuovo, che mi ha allietato e mi ha fatto imparare tanto. Ma, soprattutto, mi ha permesso di vedere in una prospettiva sorprendente problemi antichissimi, di concepire in modo diverso e imprevedibile il linguaggio, la biologia, la cultura... E' stato un viaggio che ha reso per me strano ciò che era familiare, familiare ciò che era strano.

Ne sono rimasto affascinato e insieme sgomento. Sgomento nello scoprire quanti tra i sordi non acquisiscano mai correttamente la facoltà di esprimersi - o di pensare - e quale miserevole vita li aspetti. Spesso la mia amica Isabelle Rapin mi aveva detto che la sordità era per lei una «forma di ritardo mentale curabile, o meglio prevenibile», e ora lo vedevo con i miei occhi.

Quasi immediatamente, però, scoprii un'altra dimensione, un altro universo di considerazioni, non biologiche, ma culturali. Molte delle persone sorde che conobbi avevano acquisito non solo la capacità di esprimersi con disinvoltura, ma anche una lingua completamente diversa, una lingua che non solo era al servizio delle facoltà del pensiero (anzi, permetteva un pensiero e una percezione di un tipo non del tutto immaginabile dall'udente), ma che serviva come mezzo di comunicazione di una ricca comunità e cultura. Pur non dimenticando mai lo status «medico» dei sordi, dovevo ora vederli in una luce nuova «etnica», come un popolo dotato di un linguaggio suo proprio, di una sua sensibilità, di una sua cultura.

Non mancherà certo chi pensa che la storia e lo studio dei sordi e del loro linguaggio siano argomenti di interesse estremamente limitato. A mio avviso le cose non stanno affatto così. E' vero che i sordi congeniti costituiscono solo lo 0,1 per cento circa della popolazione, ma le considerazioni a cui invitano sollevano questioni della massima importanza. Lo studio dei sordi ci mostra che in buona parte le nostre facoltà precipuamente umane - possedere un linguaggio, pensare, comunicare, creare una cultura - non si sviluppano in modo automatico, non sono solo funzioni biologiche, ma hanno anche un'origine sociale e storica; che esse sono un "dono" - il più meraviglioso dei doni - che una generazione fa all'altra. Vediamo come la Cultura sia altrettanto cruciale quanto la Natura.

L'esistenza di un linguaggio visivo, quello dei Segni, e degli straordinari potenziamenti della percezione e dell'intelligenza visiva che ne accompagnano l'acquisizione, ci rivela che il cervello è ricco di possibilità che non avremmo mai immaginato, ci fa apprezzare la plasticità e le risorse quasi illimitate del sistema nervoso, dell'organismo umano, quando è posto di fronte al nuovo e deve adattarvisi. Se il tema di questo libro ci mostra quanto siamo vulnerabili, e come possiamo arrecar danno a noi stessi (per lo più senza volerlo), ci mostra anche i nostri punti di forza, finora sconosciuti e imprevisti, le infinite risorse di cui la Natura e la Cultura, insieme, ci hanno dotato per consentirci di sopravvivere e di andare oltre la pura sopravvivenza. Mi auguro quindi che il libro, oltre ad avere un interesse speciale per i sordi, le loro famiglie, i loro insegnanti e i loro amici, parli anche al lettore comune, offrendogli una prospettiva inedita della condizione umana.

 

Questo libro è formato da tre parti. La prima è stata scritta nel 1985 e nel 1986, e cominciò come recensione di un libro sulla storia dei sordi, "When the Mind Hears", di Harlan Lane. Al momento della pubblicazione (sulla «New York Review of Books» del 27 marzo 1986), questa recensione era ormai diventata un vero e proprio saggio, che fu in seguito ulteriormente ampliato e riveduto. Vi ho tuttavia lasciato certe formulazioni e locuzioni che oggi non sottoscrivo più, perché ritenevo di dover conservare l'originale qual era, con i suoi eventuali difetti, come riflesso di quel che pensavo agli inizi sull'argomento. La terza parte è stata scritta sulla scia della rivolta studentesca all'Università Gallaudet, nel marzo 1988, ed è stata pubblicata sulla «New York Review of Books» del 2 giugno 1988; anche questo articolo è stato ampiamente riveduto e ampliato per il presente libro. La seconda parte è stata scritta per ultima, nell'autunno del 1988, ma costituisce sotto certi aspetti il cuore del libro - per lo meno è l'inquadramento più sistematico, ma anche il più personale, dell'argomento. Aggiungo che non sono mai riuscito a raccontare qualcosa o a seguire una linea di pensiero senza imboccare, lungo la via, innumerevoli diramazioni; e ho sempre trovato che questo arricchiva molto il mio viaggio (3).

In questo campo, tengo a dichiararlo, io sono un "outsider": non sono sordo, non uso la lingua dei segni e neppure ne sono interprete o insegnante, non sono un esperto dello sviluppo infantile, e non sono né uno storico né un linguista. Come si vedrà meglio in seguito, su questo terreno si affollano opinioni spesso contrastanti e da secoli fieramente avverse. Io sono estraneo a queste contese: sono privo di una specifica competenza o esperienza, ma anche, spero, di pregiudizi, di interessi particolari, di animosità.

Non avrei potuto non dico scrivere questo libro, ma nemmeno compiere il viaggio che in esso descrivo, senza l'aiuto e l'ispirazione di innumerevoli persone; in primissimo luogo gli stessi sordi - pazienti, soggetti, collaboratori, amici -, le uniche persone che possono dare un quadro della situazione dall'interno; poi le persone più direttamente a contatto con i sordi: i familiari, gli interpreti e gli insegnanti. In particolare desidero ricordare il grande aiuto datomi da Sarah Elizabeth e Sam Lewis, e dalla loro figlia Charlotte; da Deborah Tannen, della Georgetown University; dai docenti della California School for the Deaf di Fremont, della Lexington School for the Deaf e di molte altre scuole e istituzioni per i sordi, e soprattutto dell'Università Gallaudet. Voglio ricordare, tra i molti, David de Lorenzo, Carol Erting, Michael Karchmer, Scott Liddell, Jane Norman, John Van Cleve, Bruce White e James Woodward.

Un debito sostanziale ho nei riguardi di quegli studiosi che hanno dedicato tutta la vita alla comprensione e allo studio dei sordi e del loro linguaggio - in particolare Ursula Bellugi, Susan Schaller, Hilde Schlesinger e William Stokoe, che mi hanno generosamente messo a parte di tutte le loro riflessioni e osservazioni, stimolando nel contempo le mie. Jerome Bruner, profondo conoscitore dello sviluppo mentale e linguistico dei bambini, è stato un amico e una guida inestimabile durante tutto il mio lavoro. Il mio amico e collega Elkhonon Goldberg ha suggerito nuove prospettive da cui considerare le basi neurologiche del linguaggio e del pensiero, e le forme speciali che questo può assumere nei sordi. In quest'ultimo anno ho avuto la gioia di conoscere di persona Harlan Lane e Nora Ellen Groce, i cui libri mi avevano tanto ispirato nel 1986, all'inizio del mio viaggio, e Carol Padden, autrice di un libro che a sua volta mi fece riflettere, nel 1988; 1e loro prospettive sui sordi hanno ampliato l'orizzonte del mio pensiero. Vari colleghi, tra cui Ursula Bellugi, Jerome Bruner, Robert Johnson, Harlan Lane, Helen Neville, Isabelle Rapin, Israel Rosenfield, Hilde Schlesinger e William Stokoe hanno letto il manoscritto di questo libro in vari stadi, comunicandomi critiche e osservazioni e dandomi il loro incoraggiamento: di ciò li ringrazio in modo particolare. A loro e a molti altri devo illuminazioni e intuizioni profonde (ma le opinioni e gli errori, sono soltanto miei).

Nel marzo del 1986 Stan Holwitz, della University of California Press, reagì immediatamente al mio primo saggio, insistendo perché lo ampliassi e ne facessi un libro, e durante i tre anni che mi sono occorsi per realizzare il suo suggerimento mi ha appoggiato e stimolato con pazienza ininterrotta. Paula Cizmar ha letto le varie stesure, ogni volta dandomi utili suggerimenti. Shirley Warren ha seguito il manoscritto in tutte le fasi della produzione, facendo fronte con grande pazienza al proliferare delle note e ai cambiamenti dell'ultimo minuto.

Desidero ringraziare anche mia nipote, Elizabeth Sacks Chase, che mi ha suggerito il titolo - tratto dalle parole di Piramo a Tisbe: «Vedo una voce...».

Terminato il libro, mi sono dedicato a fare quello che forse avrei dovuto fare prima di scriverlo: ho cominciato a imparare la lingua dei Segni. Desidero ringraziare in particolar modo la mia insegnante, Janice Rimler, della New York Society for the Deaf, e gli assistenti, Amy e Mark Trugman: essi hanno affrontato con ardimento le difficoltà di addestrare uno studente troppo anziano e non facile, e sono riusciti a convincermi che non è mai troppo tardi per cominciare.

Ma il debito di gran lunga più grande l'ho contratto con due colleghi e due curatori, che hanno contribuito in modo essenziale a render possibile il mio lavoro e la stesura di questo libro. Prima di tutti Bob Silvers, direttore della «New York Review of Books»: fu lui a mandarmi il libro di Harlan Lane, con il commento: «Non hai mai riflettuto davvero sul linguaggio; questo libro ti obbligherà a farlo» - e fu proprio così. Bob Silvers intuisce, con una sorta di chiaroveggenza, quali sono i campi che una persona ancora non conosce e nei quali dovrebbe inoltrarsi, e con questo suo speciale talento maieutico aiuta a portare alla luce pensieri in embrione.

Al secondo posto viene Isabelle Rapin, che per venti anni è stata la mia più cara amica e collega allo Albert Einstein College of Medicine, e che per un quarto di secolo ha lavorato direttamente con i sordi, riflettendo a fondo su di loro. Isabelle mi ha fatto conoscere pazienti sordi, mi ha condotto nelle scuole per sordi, mi ha comunicato le esperienze fatte con bambini sordi e mi ha aiutato a capire i problemi dei sordi come mai sarei riuscito a fare da solo. (E' anche lei autrice di un ampio saggio-recensione [Rapin, 1986] basato essenzialmente su "When the Mind Hears").

In occasione della mia prima visita all'Università Gallaudet, nel 1986, conobbi Bob Johnson, direttore del dipartimento di linguistica; fu lui a farmi conoscere i Segni, a introdurmi nel mondo dei sordi - un linguaggio, una cultura che gli estranei difficilmente possono capire o immaginare. Se Isabelle Rapin e Bob Silvers sono stati coloro che mi hanno spinto a fare questo viaggio, Bob Johnson ne è stato in seguito per me compagno e guida.

Kate Edgar, infine, ha assolto un compito unico, come collaboratrice, amica, redattrice, organizzatrice, incitandomi di continuo a pensare e a scrivere, a conoscere tutti gli aspetti concreti dell'argomento, senza mai perderne di vista il nucleo centrale.

E' per tali ragioni che dedico il libro a queste quattro persone.

 

New York, marzo 1989.

O.W.S.