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Nei diciotto mesi e tre settimane che Simone trascorse a Firenze, Patricia Hobart fece fuori tre persone.

Uccidere Hilda Barclay che in quel massacro aveva cullato tra le braccia il marito di soli quarantasette anni che stava spirando, significava dover arrivare fino a Tampa, dove Hilda si era trasferita per stare più vicina alla figlia. Ma Patricia ritenne che tempo e soldi ne valessero la pena.

Covava un profondo risentimento per il clamore mediatico generato da Hilda, specie a seguito dell’idea di istituire una borsa di studio per ragazzi svantaggiati intitolata a suo marito.

Svantaggiati un corno, pensò Patricia. Scrocconi e stronzi figli di papà, viziati da lagnosi benefattori liberali.

In più quell’omicidio le consentiva ben dieci giorni lontano dal terribile inverno del Maine, e dai suoi nonni che non vedeva l’ora crepassero.

Fece le sue ricerche, naturalmente, prima di salutare con un bacio quei nonni fastidiosamente longevi, per andarsi a godere quella che agli occhi di tutti era una meritatissima vacanza.

Chissà, magari sarebbero morti nel sonno prima del suo ritorno. Magari quel gattaccio che lei detestava allo stesso modo e che la nonna viziava come un bambino piccolo gli avrebbe mangiato gli occhi.

Una ragazza doveva pur avere dei sogni.

Si innamorò della Florida, e la cosa la sorprese. Amava il sole e le palme, il blu del cielo e il mare. Mentre esaminava la visuale dalla sua suite dell’albergo – una botta di vita, perché no? – e scattava foto da mandare a casa, continuava a immaginarsi come potesse essere vivere lì.

Avrebbe potuto prendere in considerazione la cosa, se non fosse stato per tutti quei vecchi.

E per tutti quegli ebrei.

A ogni modo, ci avrebbe pensato su.

Quanto al resto, fu un gioco da ragazzi pedinare Hilda e ispezionare il bungalow con due camere da letto in cui viveva, nello stesso isolato in cui abitava la figlia con la famiglia.

In soli tre giorni, giunse alla conclusione di conoscere alla perfezione la routine di Hilda. Quella vecchia strega faceva una vita semplice. Le piaceva dedicarsi al giardinaggio, aveva diverse casette per uccellini, che si premurava di riempire di mangime, e girava per il quartiere con una specie di bicicletta a tre ruote, come una bambina rugosa.

Il quarto giorno, dopo aver passato in rassegna una serie di idee di tragici incidenti durante il giardinaggio o in bicicletta, Patricia passò di lì mentre Hilda era alle prese con una casetta per uccellini costruita a mo’ di ristorante, con tanto di fiorellini sul davanzale delle finestre e un cartello con la scritta cibo per pennuti.

Si accostò, si accarezzò la parrucca di capelli neri e corti, si sistemò gli occhiali dalle lenti ambrate, poi scese dall’auto.

«Mi scusi, signora?»

Hilda, vivace e filiforme con il suo cappello a tesa morbida, si voltò. «Posso aiutarla?»

«Spero non suoni troppo strano, ma potrebbe dirmi dove ha comprato quell’adorabile casetta per uccelli? Mia madre ci impazzirebbe.»

«Oh.» Con un sorriso, Hilda fece a Patricia il gesto di avvicinarsi. «Le piacciono gli uccelli?»

«Tantissimo. Caspita, è ancora più carina da vicino. È un pezzo unico?»

«Li fa una persona di qui, ma il negozio che li vende ne ha altri simili. Si chiama Bird House.»

Hilda continuò a darle indicazioni dettagliate, che Patricia diligentemente inseriva nel suo cellulare. «Fantastico.»

«Penso di averla vista passare ieri in macchina.»

Il sorriso di Patricia si gelò per un istante. «È probabile. I miei si stanno trasferendo ora in una casa a pochi isolati da qui. Sto facendo delle commissioni per loro. Non ce la facevano più a sopportare gli inverni di Saint Paul.»

«Ne ho sentito parlare. Io sono scappata via dagli inverni del Maine.»

«Allora immagino capisca che intendo» disse Patricia con una risata. «Se riuscissi a trovare una cosa del genere, sarebbe un meraviglioso regalo per mia madre e la sua nuova casa.»

«Il mio preferito ce l’ho sul retro, così riesco a vederlo dalla finestra della cucina. È un cottage inglese.»

«Vuole scherzare!» Eccitatissima, Patricia alzò le mani. «Mia madre è cresciuta in un cottage inglese nel Lake District. Si è trasferita negli Stati Uniti da adolescente. Una casetta per uccelli a forma di cottage inglese, ne sarebbe entusiasta!»

«Possono anche nidificarci. Venga, che glielo mostro.»

«Oh, lei è così gentile. Se non è troppo disturbo.»

«Mi fa piacere.» Mentre camminavano, Hilda salutò con la mano un uomo che era uscito da una casa lì a fianco. «Ciao, Pete.»

«Buongiorno, Hilda. Faccio un salto al supermercato. Ti serve qualcosa?»

«Sono a posto, grazie. Ai tuoi piacerà un sacco questo posto» aggiunse come se i suoi fossero lì dietro.

«Lo spero. Mi mancheranno da morire, ma lo spero.»

Non posso ammazzarla ora, pensò Patricia. La macchina era lì fuori, stupido vicino. «Oh, ma che fantastica veranda con piscina. Scommetto che può nuotarci tutto l’anno.»

«Esatto» confermò Hilda. «Tutte le mattine, prima di colazione.»

Patricia sorrise. «Ecco come fa a essere in così splendida forma.»

Si profuse in mille ‘aaah’ e ‘oooh’ alla vista della ridicola mangiatoia per uccelli, mille complimenti per il giardino, per le piante e i vasi della veranda, e ringraziò esageratamente la donna che molto presto non sarebbe stata che un cadavere.

Invece di seguire le indicazioni per la Bird House, entrò in uno degli ipermercati Walmart per acquistare un tostapane e una prolunga.

Puntuale, alle sette e quindici della mattina seguente, Hilda uscì di casa, in veranda, si tolse un accappatoio di spugna azzurro e scivolò nella piscina con il suo semplice costume intero marrone scuro.

Mentre faceva le sue vasche in modo fluido e tranquillo, Patricia entrò nella veranda dalla zanzariera che non era chiusa a chiave, inserì la prolunga in una presa sul retro della casa e gettò il tostapane in piscina.

Rimase a osservare il corpo di Hilda dimenarsi, l’acqua attraversata da un lampo. Lo guardò galleggiare, a faccia in giù, mentre lei staccava la prolunga e usava il retino per pulire la piscina per recuperare il tostapane.

Ci sarebbero arrivati, era più che probabile, ma perché starli ad aiutare? Infilò l’arma del delitto nello zainetto, e con indosso un pinocchietto da corsa, canottierina e cappellino percorse a passo di jogging i tre isolati fino alla macchina presa a noleggio.

Gettò il tostapane in un cassonetto dietro a un ristorante, e lo stesso fece con la prolunga, qualche chilometro più in là, nel parcheggio di un centro commerciale.

Fatto questo, infilò la parrucca ramata nello zaino, tornò nel suo hotel per godersi un’abbondante colazione in camera con omelette agli spinaci, bacon di tacchino, frutti di bosco e una spremuta d’arancia fresca.

Si chiese chi avrebbe trovato Hilda a galleggiare. La figlia? Uno dei nipoti? Il buon Pete?

Magari avrebbe buttato un occhio al quotidiano locale.

Ma intanto, senza ironia, decise di passare il resto della giornata nella piscina dell’hotel.

I nonni delusero le sue aspettative e non si fecero trovare morti nel sonno. Patricia si accontentò allora di sognare la maniera in cui riuscire a liberarsi di loro. In realtà la loro morte doveva ancora attendere. Suo padre invece pensò bene di sbronzarsi prima di mettersi al volante del suo pick-up Ford.

E così aveva invaso la linea di mezzeria e si era andato a schiantare contro un’utilitaria, togliendo la vita, oltre a sé stesso, anche a una madre di due figli e al figlio adolescente. Eh, così va la vita, si disse Patricia gongolante.

Ora poteva depennare un altro nome dalla lista.

Eliminò Frederick Mosebly in una mite sera d’estate, periodo ante Hilda, con un congegno esplosivo che aveva posizionato nella macchina che l’uomo aveva lasciata aperta, sotto al sedile del guidatore.

Quel segno di spunta le fece particolarmente piacere visto che Mosebly aveva riscosso un certo successo a livello locale con un libro autopubblicato che parlava dei fatti del DownEast. E inoltre, era la prima volta che fabbricava una bomba.

Non c’era niente da fare, era proprio tagliata per fare certe cose, si disse.

Il terzo della spunta per quell’anno – doveva scaglionarli un po’ di più – morì infilzato da una siringa contenente una tossina botulinica dopo essersi accidentalmente scontrato con lei in un bar molto affollato. Le era sembrata una fine poetica, considerando che il dottor David Wu, che stava facendo un aperitivo con la moglie e un’altra coppia in quel ristorante di lusso e che era ricordato per aver salvato tante vite quella fatidica notte, era un chirurgo estetico.

Patricia aveva pensato che era proprio iniettando il botox che si era guadagnato da vivere (e un vivere assai agiato), e quindi meritava di morire con un’iniezione della stessa sostanza.

Si liberò della siringa sulla via del ritorno, e rientrò tranquillamente a casa.

Per un momento, un dolce, dolce momento, pensò che le sue preghiere fossero state esaudite.

Sua nonna era sdraiata a terra nell’ingresso. Si lamentava, quindi... certo, respirava ancora, ma a quello si poteva porre rimedio.

Con un altro gemito, la nonna si voltò. «Patti, Patti. (Dio, lei detestava quel soprannome). Grazie a Dio. Io... sono caduta. Penso, oh, oh, penso di essermi rotta il femore.»

Poteva finirla, pensò Patricia. Doveva solo mettere una mano sulla bocca di quella vecchia strega, tenerle il naso schiacciato, e...

«Agnes! Non riesco a trovare il telecomando! Ma dove...»

Il nonno si trascinò fuori dalla enorme camera matrimoniale al primo piano, seccato e con le sopracciglia corrucciate sulle lenti bifocali.

Vide la moglie, emise un grido, e a quel punto Patricia si vide costretta a reagire subito di conseguenza.

«Oh mio Dio, nonna!» Si buttò in avanti, inginocchiata davanti a lei, le afferrò la mano.

«Sono caduta. Sono caduta.»

«Stai tranquilla. Andrà tutto bene.» Tirò fuori dalla borsa il cellulare, compose il 911. «Ho bisogno di un’ambulanza!» Ripeté velocemente l’indirizzo, attenta ad aggiungere alla sua voce un manifesto tremolio. «Mia nonna è caduta. Fate presto, per favore, fare presto. Nonno, prendile una coperta. Sta tremando. Prendi lo scialle dal divano. Penso sia in stato di shock. Resisti, nonna. Ci sono io qui vicino.»

Quindi nemmeno quella notte sarebbe stato un fortunato due per uno, pensò Patricia mentre con dolcezza, tanta dolcezza, accarezzava la guancia della nonna. Ma un femore rotto (incrociando le dita!) in aggiunta agli ottantatré anni della donna voleva dire avere un bel po’ di chance.

Patricia nascose l’amara delusione per il ristabilirsi delle condizioni di Agnes. E allo stesso tempo si guadagnò l’ammirazione dello staff medico, infermieri, portantini e vicini di letto per la sua assistenza devota.

Fece buon uso di quel periodo per persuadere i nonni non solo a darle potere di rappresentanza, con il benestare degli avvocati, ma per mettere il suo nome su tutti i conti, compresi gli assegni, gli investimenti, la residenza principale e la casa vacanza/investimento immobiliare che avevano a Cape May.

Visto che avrebbe ereditato comunque i gioielli della nonna, di tanto in tanto prendeva qualche pezzo e lo convertiva in denaro durante dei viaggi ad Augusta o a Bangor, e una volta durante un fine settimana di vacanza (sollecitata dai medici) a Bar Harbor.

Utilizzò parte dei soldi per procurarsi documenti falsi di ottima fattura, che le servirono per aprire un piccolo conto corrente, e per affittare una cassetta di sicurezza in una banca di Rochester, nel New Hampshire.

Tra i gioielli, i furti che compiva regolarmente e la vendita della casa vacanze (operazione che i nonni erano troppo stupidi per sapere di aver autorizzato) in quella cassetta aveva accumulato più di tre milioni di dollari, insieme a quattro documenti di identità falsi, compresi passaporti e carte di credito.

Teneva un bel mazzo da centomila in contanti con altri beni di prima necessità in un borsone da fuga rapida che teneva in cima all’armadio, e aveva iniziato a preparare una seconda borsa.

Visto che nessuno dei due nonni faceva più le scale, il secondo piano era tutto per lei. Mise delle serrature a chiavistello alla porta della sua camera da letto e della stanza degli ospiti che utilizzava come sede operativa.

Per quanto la donna delle pulizie trovasse strano che il secondo piano fosse blindato, non diceva niente. Era ben pagata, e per lei del resto la cosa significava meno lavoro.

Con l’avvicinarsi dell’anniversario del DownEast, Patricia elaborò dei piani. Un mucchio di piani.

E ne fece fuori un altro paio dalla lista.

Seleena McMullen si occupò dell’appropinquarsi del 22 luglio sul suo blog e nel suo talk show. La cosa le dava l’occasione per pubblicizzare l’uscita di un’edizione aggiornata del suo libro.

Seleena non si curava affatto di dovere a quella tragedia la sua carriera. E sistematicamente ogni volta che un pazzo si metteva a sparare in pubblico era lei il mezzobusto televisivo che sceglievano di mandare in onda.

Ogni due anni circa si faceva vedere qua e là e riusciva a incassare un discreto cachet con le conferenze in pubblico. Rimediò un ingaggio come produttore esecutivo per un documentario sulla sparatoria che raccolse un ottimo consenso e, quando le cose si misero davvero bene, riuscì perfino a ottenere una comparsata su Law & Order - Unità vittime speciali.

La sua fama aveva alti e bassi, doveva ammetterlo, quindi a ogni anniversario ne approfittava per tornare alla ribalta.

Aveva uno staff, un agente e un fidanzato, dopo un breve matrimonio e un difficile divorzio. Eppure, il divorzio e il fidanzato sexy avevano creato un’impennata di giudizi e clic.

Che sarebbero saliti alle stelle considerato il calendario che aveva in programma per la settimana dell’anniversario.

Aveva la poliziotta che aveva fatto fuori Hobart. A dirla tutta, Seleena aveva dovuto far pressioni sul sindaco perché facesse pressioni sul capitano della polizia perché facesse a sua volta pressioni sulla poliziotta; ma era riuscita ad averla. Non ce l’aveva fatta invece ad avere in studio l’eroe teenager all’epoca dei fatti e ora compagno di lavoro della poliziotta, e la cosa non le andava proprio giù.

La polizia di Portland l’aveva messa di fronte a una scelta, o l’uno o l’altra, tutti e due non era possibile. Lei aveva optato per la poliziotta, la prima ad arrivare sulla scena, e aveva mollato l’altro.

Aveva una donna che si trovava nella sala del cinema ed era quasi morta, sopravvissuta con cicatrici sul volto e un trauma cerebrale. Era riuscita ad avere il geek che aveva salvato un negozio pieno di gente facendo nascondere tutti in una stanza sul retro, qualche altra vittima, un soccorritore accorso sul posto e uno dei medici del pronto soccorso di quella notte.

Ma la vera gemma era la sorella dell’omicida, la sorellina del capobranco.

Aveva Patricia Jane Hobart.

Perfino con un’ospite del genere, cosa davvero notevole visto che la sorella di Hobart non aveva mai accettato di rilasciare una vera intervista prima di allora, Seleena faceva su e giù per l’ufficio furente.

Voleva la dannata tripletta. La poliziotta, la sorella di Hobart e Simone Knox, la ragazza che aveva chiamato il 911 allertando per prima la polizia, permettendo così alla McVee di far fuori Hobart.

Quella stronza non le aveva nemmeno risposto al telefono. E anzi le aveva fatto scrivere da un avvocato del cazzo una diffida ad avvicinarla, visto che aveva provato a darle la caccia in una galleria d’arte di New York.

Era un evento pubblico, continuava a pensare Seleena. E che quindi le dava il sacrosanto diritto, primo cazzo di emendamento, di piazzare un microfono davanti alla faccia di Simone.

Non aveva apprezzato il fatto di essere sbattuta fuori dalla galleria perché stava facendo il suo lavoro.

Aveva scritto un feroce editoriale riguardo al trattamento ricevuto e a quella stronza. E lo avrebbe mandato in stampa se suo marito, prima di scoprire che lei se la faceva con un altro e quindi diventare il suo ex, non l’avesse convinta che quell’articolo avrebbe fatto passare lei per una stronza.

Detestava sapere che aveva proprio ragione.

Be’, avrebbe potuto mandare in onda la telefonata al 911, e fine. Avrebbe potuto fare il nome di Simone Knox e magari lasciare intendere che, da quando aveva acquistato una relativa celebrità, la signorina Knox non desiderava più essere associata alla tragedia del centro commerciale DownEast.

«Lavoraci su» mormorò. «Rifletti bene su come dire questa cosa. Screditarla va bene, ma sempre nel modo giusto, con fare comprensivo.»

Spalancò la porta, sbraitando: «Marlie! Dove diavolo è il mio latte macchiato?»

«Luca dovrebbe essere qui da un momento all’altro.»

«Cristo. Vedi di capire dove si trova Simone Knox adesso, e dove sarà la prossima settimana.»

«Ma, signora McMullen, l’avvocato...»

Seleena si voltò, facendo fare alla timida Marlie un salto all’indietro. «Ho forse chiesto un tuo cazzo di parere? Trovala e basta. Voglio sapere dove si trova mentre intervisto Patricia Hobart e la poliziotta che le ha ucciso il fratello. E voglio delle sue foto, di ieri e di oggi. Muovi il culo, Marlie.»

Seleena se ne andò sbattendo la porta.

«Vediamo chi vince stavolta» borbottò.

Vinse Simone. Trascorse le settimane a cavallo dell’anniversario viaggiando in Arizona, New Mexico, Nevada. Fece schizzi, foto del deserto, dei canyon, della gente, immaginò di trasporne colori, texture, sagome e volti in arte, con la creta.

Si beava di quella solitudine, si divertiva nell’esplorare un territorio così diverso rispetto ai panorami della costa orientale del Maine a cui era abituata, come Marte rispetto a Venere. Senza dover fare i conti con nessuno se non con i suoi capricci, si fermava quando e dove le piaceva, rimaneva fin quando le andava.

Quando alla fine riprese la rotta verso est, fece una deviazione passando da nord attraverso il Wyoming fino nel Montana, dove comprò altri album per schizzi, e dove cedette alla tentazione di acquistare degli stivali da cowboy.

Per quando varcò il confine del Maine, era già agosto e, nonostante l’uso costante di crema solare e cappello, era abbronzata, i capelli schiariti dal sole.

E con il morale alle stelle, felice.

Aveva voglia di tornare a lavorare, di smistare le centinaia di schizzi e foto, idee e visioni. Voleva sentire la creta sotto le sue mani.

Pensò di scrivere un messaggio a CiCi, ma poi alla fine decise di farle una sorpresa. Dopo una sosta per prendere una bottiglia di champagne – facciamo due, crepi l’avarizia – pensò di guidare dritta fino al traghetto.

Ma un senso di colpa le fece cambiare direzione. Avrebbe fatto una sosta veloce a casa dai suoi. Una rapida visita di cortesia.

Magari il suo rapporto con i genitori, e con sua sorella, era rimasto teso, ma non poteva affermare di essere irreprensibile. Dal giorno in cui era uscita dalla casa della sua infanzia per inseguire i suoi sogni, fondamentalmente si era tenuta alla larga da loro.

Si risparmiava discussioni.

Ma evitarli aveva significato che tradizioni come natali, compleanni, matrimoni, funerali erano diventate artificiose zone demilitarizzate o campi di battaglia.

Perché non fare uno sforzo? Fare un salto un bel pomeriggio, riprendere un attimo i contatti, magari bere una cosa, un giro per il giardino elogiando questo e quello, tirar fuori qualche aneddoto dai suoi viaggi.

Quanto era triste e miserevole dover buttar giù una specie di programma per far visita ai suoi?

Perciò non l’avrebbe gestita così. Sarebbe andata a braccio, come aveva fatto in viaggio. Avrebbe improvvisato.

Qualcuno doveva aver organizzato una grande festa estiva, pensò, notando le macchine parcheggiate lungo la strada. Quando vide una fila di auto nel lungo vialetto a U dei suoi genitori, più altre stipate nell’area di servizio della casa, capì che stava per imbucarsi a una festa.

Decisamente non il momento ideale per fare un salto come aveva pensato, decise. Ma quell’attimo di esitazione le impedì di darsela a gambe perché venne bloccata da uno dei parcheggiatori. Mentre aspettava che si liberasse la strada, in modo da riuscire a svignarsela, in giardino Natalie e una coppia di ragazze in eleganti abiti da party attraversarono il verde lussureggiante del prato di fronte.

Sconvolta al punto da volersi istintivamente accucciare per non farsi vedere, si costrinse a sorridere quando Natalie la scorse.

Sua sorella non sorrise, ma abbassò gli occhiali da sole da brava ragazza glamour e le rivolse un’occhiata. Quella provocazione la fece decidere.

Volutamente, aprì la portiera dell’auto e scese vestita da viaggio, con pantaloncini verde militare, stivali da cowboy rossi, cappello di paglia a tesa larga e una canottierina con la scritta rosso, (vino) bianco e blu, ironizzando sui colori della bandiera americana.

«Ehi, Nat.»

Natalie disse qualcosa alle amiche, tanto che una prima di allontanarsi le posò una mano sul braccio con fare solidale, non senza aver lanciato a Simone una lunga occhiataccia di evidente disapprovazione.

Natalie attraversò il marciapiede.

Sembra proprio mamma, pensò Simone, un perfetto esempio di donna raffinata.

«Simone. Non ti aspettavamo.»

«Ovvio. Sono appena tornata. Avevo pensato di fermarmi a fare un saluto.»

«Non è un buon momento.»

A Simone non sfuggì il tono, quello che si usa con un conoscente che va tollerato di tanto in tanto.

«Ovvio anche questo. Puoi dire loro che sono tornata e che andrò da CiCi. Gli farò una telefonata.»

«Sai che novità.»

«Da quanto ne so, i telefoni funzionano anche da queste parti. A ogni modo, hai un aspetto magnifico.»

«Grazie. Dirò a mamma e papà che...»

«Natalie!»

L’uomo che stava attraversando il prato con mocassini di un grigio delicatissimo in tinta con freschi pantaloni di lino vantava un viso degno di un divo di Hollywood e, in aggiunta a tutto il resto, il fascino delle fossette. La sua eleganza – camicia bianca sotto a un blazer blu navy, capelli ondulati biondi schiariti dal sole – si sposava perfettamente con quella di Natalie.

Sebbene lo conoscesse già, impiegò qualche secondo per ricordarsi il nome. Harry (Harrison) Brookefield, uno dei giovani talenti dello studio legale di suo padre.

E, da quanto diceva CiCi, il ragazzo di Natalie, quello che aveva ricevuto l’approvazione dei suoi.

«Eccoti. Stavo giusto per... Simone?» Sfoderando le sue fossette, le tese una mano. «Non sapevo che fossi qui. È meraviglioso. Da quanto sei tornata?»

«Da circa cinque minuti.»

«Allora scommetto che un drink è proprio quello che ci vuole.» Passò un braccio attorno alla vita di Natalie mentre parlava e Simone ebbe l’impressione che non si fosse ancora reso conto della rigidità di sua sorella. Poi allungò di nuovo la mano per stringere quella di Simone.

«Oh, grazie, ma non sono vestita da party. Stavo giusto per andare...»

«Non essere sciocca.» Harry le teneva stretta la mano. «Le chiavi sono nella macchina?»

«Sì, ma...»

«Perfetto.» Fece un cenno al parcheggiatore. «Macchina di famiglia.»

«Davvero, Harry, Simone deve essere stanca dopo il viaggio.»

«Motivo in più per un drink.» Alla stregua di una pialla da falegname rivestita di velluto, lui mitigava la ruvidezza di lei. «Ora hai tutta la tua famiglia qui per festeggiare, dolcezza.»

Quell’uomo aveva una stretta e una volontà d’acciaio, pensò Simone, ma per quanto meschina fosse la cosa, gli stava consentendo di trascinarla con sé fondamentalmente per il palese disagio che notava in Natalie.

«Cosa si festeggia?»

«Non glielo hai detto? Buon Dio, Natalie.» Harry guardò Simone, aggiunse una strizzatina d’occhio. «Ha detto sì.»

Simone sentì il suo cervello svuotarsi per qualche istante buono. «Vi siete fidanzati. State per sposarvi?»

«Cosa che farà di me l’uomo più fortunato del mondo.»

Ora sentiva la musica, e delle voci, mentre percorrevano il vialetto che snodandosi lungo un lato del giardino conduceva al cortile sul retro.

«Congratulazioni.»

Com’era successo? Com’era potuto succedere che la sorella che un tempo si infilava nel suo letto per sussurrarle tutti i suoi segreti non avesse condiviso con lei una notizia così importante, di quelle cruciali nella vita di una persona? Notizie così felici da meritare una festa con abiti eleganti e tovaglie bianche e fiori in tinta, camerieri in livrea con vassoi colmi di flûte e deliziosi finger food.

«Ma è meraviglioso. Eccitante.»

Sei ancora così piccola e così... viziata, pensò Simone. Ne sei sicura? Me lo diresti?

Harry fermò un cameriere e prese tre flûte di champagne. «A ciò che è meraviglioso ed eccitante» disse dopo aver passato loro i bicchieri.

«Assolutamente. Avete già fissato una data?»

«Ottobre, un anno da questo ottobre» disse Natalie.

«Non sono riuscito a convincerla a fare a primavera. Aspetterò. Se mi perdoni un attimo, volevo cercare mia madre. Sarebbe molto felice di conoscerti, Simone. Non sai quanto le è piaciuta la statua di Natalie che sorregge la bilancia della giustizia, quella che hai fatto per lei quando si è laureata in Giurisprudenza. Torno subito.»

«Sei fidanzata. Dio, Nat, fidanzata! E lui è bellissimo e sembra un ragazzo fantastico. Io...»

«Se ti fossi degnata di conoscerlo negli ultimi due anni, sapresti che è fantastico.»

«Sono felice per te» disse Simone cauta. «Sembra pazzo di te e questo mi fa davvero piacere per te. Se avessi saputo della festa, sarei tornata a casa prima e mi sarei vestita in modo adeguato. Me ne vado, mi defilo prima di metterti in imbarazzo.»

«Simone!» Il suo nome gridato allegramente da CiCi si fece strada tra musica e chiacchiere.

«Troppo tardi» affermò Natalie mentre la loro nonna arrivava di corsa attraverso il patio, con la gonna gitana svolazzante.

«Ecco la mia bambina viaggiatrice!» Catturò Simone in un fortissimo abbraccio. «Ma guardati, tutta tonica e abbronzata. Non è una festa da paura?» Imprigionò in quell’abbraccio anche Natalie. «La nostra piccolina si è accalappiata un fiancé. E lui è... wow.» Si lasciò andare a una delle sue fragorose, belle risate e le strinse tutte e due. «Andiamoci a fare qualche ettolitro di champagne.»

«Mamma.»

«Ohi, ohi.» Sghignazzando, CiCi si fece indietro. «Beccata.» Si spostò, mise le braccia intorno alla vita delle nipoti e sorrise alla figlia. «Guarda chi c’è, Tule.»

«Lo vedo. Simone.» Incantevole in un vestito in seta shantung del colore dei petali di rosa macerati, Tulip si avvicinò per baciare Simone sulla guancia. «Non sapevamo fossi tornata.»

«Sono rientrata adesso.»

«Questo spiega tutto.» Con il suo impeccabile sorriso da ospite, gli occhi che trasudavano irritazione, Tulip si voltò verso Natalie. «Tesoro, perché non porti tua sorella di sopra in modo che possa darsi una rinfrescata? Sono sicura che avrai qualcosa da prestarle.»

«Non fare la guastafeste così, Tulip.»

Tulip semplicemente spostò quegli stessi occhi irritati sulla madre. «Questo è il giorno di Natalie. Non voglio che venga rovinato.»

«Non voglio rovinarlo. Non voglio rimanere.» Simone allungò il suo flûte a Natalie. «Di’ a Harry che non mi sono sentita bene.»

«Vengo con te» iniziò CiCi.

«No, nonna, è il giorno di Natalie e dovresti essere qui anche tu. Noi ci vediamo dopo.»

«Questa è stata una mossa da stronza, Tulip» disse CiCi quando Simone si allontanò. «E quello che vedo dall’espressione sul tuo viso, Nat? Eccole, la mela e l’albero. Mi vergogno di tutte e due.»

Simone dovette mettersi a cercare il parcheggiatore che le aveva sistemato la macchina, poi aspettare che recuperasse le sue chiavi.

Mentre era lì ad attendere, ecco arrivare suo padre a grandi passi giù lungo il vialetto.

Oh, bene, si disse, che vuoi che sia un altro pugno nello stomaco?

Invece lui l’abbracciò, stringendola forte. «Bentornata a casa.»

Le battute e le frecciatine non l’avevano fatta piangere, ma quel suo gesto ci riuscì.

«Grazie.»

«Non ho fatto in tempo a sapere che eri tornata, che già te ne eri andata. Devi tornare indietro, tesoro. È un grande giorno per Natalie.»

«È per questo che me ne sto andando. Lei non mi vuole qui.»

«Ma che sciocchezze.»

«È stata chiarissima. Il mio arrivo inaspettato, con un abbigliamento inappropriato per l’occasione, ha messo in imbarazzo tua moglie e tua figlia.»

«Saresti potuta tornare un pochino prima, indossare qualcosa di più appropriato.»

«A saperlo.»

«Natalie te lo ha detto due settimane fa» cominciò a dire lui, poi la guardò negli occhi. Tirò un sospiro. «Capisco. Mi dispiace, mi aveva detto di averlo fatto, d’altronde avrei dovuto chiamarti direttamente io. Torna dentro con me. Le dirò io due paroline.»

«No, non farlo, per favore. Lei non mi vuole qui e io non voglio starci.»

Un velo di tristezza offuscò gli occhi di Ward. «Mi fa male sentirti dire certe cose.»

«Mi dispiace. Volevo solo fare un salto, passare a trovare te e la mamma, per cercare di... cambiare un po’ le cose. Un po’. Ho passato una bella estate. Proficua, piena di soddisfazioni, illuminante. Volevo raccontarvela un po’. E magari vi sareste accorti che avevo fatto la cosa giusta, giusta per me. Magari lo avreste capito.»

«Io l’ho capito» disse piano lui. «Ho capito che mi sbagliavo. Sono rimasto aggrappato all’idea di avere ragione e ti ho persa. E, a quel punto, era più semplice incolpare te che me stesso. Ora la mia figlia più giovane sta per sposarsi. Sarà una moglie e non più solo la mia piccola bambina. Quello che mi ha fatto male è che con te io abbia voluto aver ragione, più che volerti felice. Mi vergogno di guardarti dritto in faccia, ma devo farlo. Spero che mi perdonerai.»

«Papà.» Lei si gettò tra le sue braccia, pianse un po’. «È stata anche colpa mia. Era più facile ritrarsi, starmene lontana.»

«Facciamo un patto. Io accetto di non avere sempre ragione e tu non starai più lontana da me.»

Lei annuì, rimase con la guancia appoggiato al petto del padre. «Dopotutto è stato un bel ritorno a casa.»

«Torna con me alla festa. Sarai la mia dama.»

«Non posso. Onestamente, Nat è una rompipalle, ma io non voglio rovinarle il party. Magari potresti venire all’isola ogni tanto, così ti racconto del viaggio e ti faccio vedere dei pezzi a cui sto lavorando.»

«Va bene.» La baciò sulla fronte. «Sono felice che tu sia tornata.»

«Anch’io.»

Felice di essere tornata, pensò, specie ora che stava appoggiata al parapetto del traghetto e guardava l’isola avvicinarsi.