5
Tre anni dopo
Simone si tirò su a sedere, dando una gomitata al tipo che divideva il letto con lei.
«Devi andare.»
Lui fece una specie di grugnito.
Sapeva come si chiamava, sapeva perfino perché avesse deciso di fare sesso con lui.
Sembrava un tipo pulito, in gran forma, e voleva quello che voleva lei.
In più aveva un viso interessante, come scolpito con uno scalpello e poi cesellato, spigoloso. Era un po’ come fantasticare di stare insieme a un Billy the Kid dei giorni nostri. Il fuorilegge del Far West duro come la roccia.
Ci aveva messo un po’ per abbracciare l’idea che le avventure da una notte e via avessero vantaggi del tutto particolari rispetto ai drammi e alle seccature di una relazione stabile, o al pretesto di essa.
Ma non le ci volle molto per capire che anche le avventure comportavano una bella dose di noia il mattino seguente.
Il tipo, Ansel, si stava rivestendo alla fioca luce che filtrava dalla finestra. Non aveva tirato le tende. Del resto, perché disturbarsi?
Le piaceva guardare New York fuori, e non le importava se un po’ di New York avesse piacere di guardare lei.
Lui disse: «Sono stato bene.»
Lei rispose: «Anch’io» e lo pensava in modo sufficientemente vero da non potersi definire una bugia.
«Ti chiamo.»
«Perfetto.» Forse lo avrebbe fatto, forse no. Non importava molto a nessuno dei due.
Visto che non si era scomodata ad alzarsi, trovò la strada da solo e uscì. Quando lei sentì la porta sbattere, arraffò una camicia da notte e si alzò rapidamente a chiudere a chiave la porta dell’appartamento.
Voleva fare una doccia ed entrò nel bagno che condivideva con Mi nel loro minuscolo appartamento. Il fatto che avesse due stanze da letto e fosse ragionevolmente vicino al campus compensava il quarto piano senza ascensore, l’acqua calda completamente inaffidabile e la stangata dell’affitto mensile.
Ma erano insieme, a New York. A volte si dimenticavano di cercare il fantasma dell’amica che non era più lì con loro.
Simone si sciacquò di dosso quella notte di sesso, con la testa sotto il micragnoso getto di acqua tiepida. Si era tagliata i capelli, optando per un caschetto corto, e di recente li aveva tinti di viola scuro, della stessa tonalità di una melanzana matura.
Quel nuovo look la faceva sentire diversa. Sembrava perennemente alla ricerca di qualcosa che potesse farla sentire diversa dalla ragazza che veniva da Rockpoint, nel Maine. Qualcosa per cui, guardandosi un giorno allo specchio, avrebbe potuto pensare: ‘To’, eccoti qua.’
Le piaceva New York, le piaceva la folla e la fretta, il rumore e il colore. E, sì, vivaddio, il fatto di essere libera dalle critiche, dalle domande e dalle aspettative dei suoi genitori.
Ma sapeva bene che era venuta fin là per esaudire il sogno di Tish.
A Simone piaceva la Columbia, aveva lavorato sodo per riuscire a entrarci, ma sapeva che l’aveva fatto per far parte del sogno di Mi.
Non riusciva a trovare il suo di sogno, e non era sicura di averne uno.
Ma trovarsi lì con dei sogni in prestito era sempre meglio che starsene a casa dove tutto le ricordava l’amica che non c’era più. Dove la madre avrebbe guardato il suo colore di capelli con perplessa disapprovazione o dove il padre, con lo sguardo preoccupato che ben conosceva, le avrebbe chiesto con finta noncuranza come si sentiva.
Lei stava bene. Quante volte doveva dirlo? Era Mi che ancora soffriva di attacchi di ansia e aveva gli incubi. Per quanto ora le capitassero più raramente.
Aveva fatto tutto il possibile per seppellire quella notte e la morte dell’amica. Da quando Mi era uscita dall’ospedale, Simone non aveva più letto nessuna notizia che potesse farla ripensare a quella notte, non aveva guardato nemmeno una trasmissione sull’argomento. A ogni anniversario, evitava di guardare notiziari e non leggeva niente di niente, per non rischiare di incorrere in qualche accenno alla strage.
Tornava a casa solo per le vacanze invernali e una settimana d’estate, e la settimana estiva la passava sull’isola con CiCi. Quando non era in classe, lavorava. Quando non era in classe o al lavoro, si divertiva alla grande, senza farsi troppi problemi.
Uscita dalla doccia, si avvolse in un telo da bagno – cotone egiziano, per gentile concessione di sua madre –, poi lanciò uno sguardo fugace al microspecchio sopra al lavandino miniaturizzato.
No, pensò, non ancora. Vide una ragazza con occhi stanchi e capelli bagnati, nient’altro.
Appese l’asciugamano e si rinfilò di nuovo la camicia da notte. Quando mise un piede fuori dal bagno, vide Mi nella loro sottospecie di cucina mentre metteva il bollitore sul fornello a due fuochi.
«Non riesci a dormire?»
«Sono un po’ agitata. E poi ho sentito la porta.»
Mi si era fatta crescere i capelli, che ricadevano neri e fluenti. Quando si voltò, Simone vide un altro paio di occhi stanchi.
«Mi dispiace.»
«Non fa niente. Lo conosco?»
«Non credo. Tanto non importa.» Entrando in cucina, Simone prese due tazze. «La musica era bella, e lui ballava niente male. Mi sarebbe piaciuto che ci fossi anche tu.»
«Dovevo studiare.»
«Passerai tutto a pieni voti, di nuovo.»
«È perché studio.»
Simone aspettò un attimo mentre Mi giocherellava con il tè. «Mi devi dire qualcosa, me lo sento.»
«Mi hanno presa per un programma di ricerca estivo.»
«Ma è fantastico, come la scorsa estate? Dottoressa Jung, ingegnere biomedico.»
«È il mio sogno. In realtà non è esattamente come la scorsa estate. Il programma è a Londra.»
«Porca miseria, Mi!» Afferrando l’amica, Simone le fece ballare per tutta la stanza. «Londra! Stai per andare a Londra.»
«Non inizierà prima di fine giugno, e ... i miei mi hanno chiesto di tornare a casa prima. Di passare a casa il periodo dopo la fine del semestre, prima della partenza per Londra. Glielo devo.»
«Okay.» Forse il suo cuore ebbe un sussulto, ma Simone annuì.
«Torna a casa con me. Torna a casa, Simone.»
«Io ho un lavoro e...»
«Ma tu odi quel lavoro» la interruppe Mi. «Se vuoi servire ai tavoli in qualche buco di caffetteria, puoi farlo ovunque. Tu non sei felice qui. Stai andando bene alla Columbia, ma non ti rende felice. Fai sesso con dei ragazzi che non ti fanno felice.»
«È Rockpoint che non mi fa felice.»
Mi, perfettina, minuta, con la tipica grazia della ginnasta, tornò indietro per finire di preparare il tè.
«Devi trovare una cosa che ti renda felice. Tu sei qui per me e Tish, e io non ci sarò per tutta l’estate. Dovresti trovare quello che rende felice te. La tua arte... e smettila di fare così!» disse perdendo le staffe quando Simone alzò gli occhi al cielo. «Tu hai del talento.»
«CiCi ha talento. Io sto solo perdendo tempo.»
«Allora smetti di perdere tempo!» Mi si infuriò di nuovo. «Smettila di perdere tempo, smettila di cazzeggiare, smettila di andare a scopare in giro!»
«Wow.» Simone prese il tè di cui ormai non aveva più voglia, si appoggiò a un frigorifero dell’anteguerra. «A me piace perdere tempo, cazzeggiare e scopare in giro. Non passerò la mia vita a studiare, fare ricerca, rinchiusa in un laboratorio, perché non voglio avere una vita. Cristo, quand’è l’ultima volta che hai fatto sesso?»
«Ci pensi tu per tutte e due.»
«Forse se ti facessi una scopata ogni tanto non saresti così stronza. Non vuoi andare alle feste, non vuoi andare ai club, sono mesi che non esci con qualcuno. Solo scuola, laboratori, o questo buco di appartamento. Felice un cazzo.»
Con gli occhi che parevano sprigionare scintille, Mi chiuse la mano in un pugno. «Io farò qualcosa di me stessa. Non sono morta, e ho intenzione di farci qualcosa con la mia vita. Io sono felice. A volte sono quasi felice, e altre lo sono pienamente. Ma so che sto lavorando per arrivare a qualcosa, e vedo la mia migliore amica che invece fa muro rispetto a tutto.»
«Frequento i corsi, vado a lavorare, ai club. E me lo chiami fare muro?»
«Tu frequenti i corsi, ma non te ne interessa nessuno abbastanza e fai il minimo indispensabile per passare l’esame. Ti sei trovata un lavoro che vale meno di zero per te, invece di cercare qualcosa che ti piaccia veramente.» Era un fiume in piena ora, come lo straripamento di una diga rotta. «Tu frequenti i locali solo perché non ce la fai a stare da sola, a startene in pace per più di un’ora. E vai a letto con ragazzi che non hai intenzione di rivedere più proprio perché non hai intenzione di rivederli. Non consentire a te stessa di avvicinarti o avere un coinvolgimento con niente o nessuno significa esattamente fare muro.»
Simone con un sorrisetto aggiunse un commento sgradevole. «Sapessi quanto ero vicina al tipo che se n’è appena andato.»
«Come si chiama?»
Austin, Angel, Adam... merda, merda, merda. «Ansel» le tornò in mente.
«Ci hai dovuto pensare per dirlo. Ti porti uno a casa, ci fai sesso e devi sforzarti di ricordare come si chiama, il tutto in meno di un’ora.»
«E allora? Quale cazzo è il problema? Se sono una puttana del genere, che te ne frega di quello che faccio, di quello che provo?»
«Perché, maledizione, tu sei la mia puttana.»
Simone aveva aperto la bocca per replicare con rabbia, e invece un accenno di risata le gorgogliò in gola. Mentre Mi continuava a fissarla, il viso fucsia dallo sfogo, lacrime di collera che le brillavano negli occhi, quell’abbozzo di ilarità proruppe in una risata scrosciante.
Mi sbuffava, ma Simone propose un brindisi con il tè. «Qui ci vuole una t-shirt. La puttana di Mi-Hi» disse Simone, battendosi il petto con la mano libera.
Asciugandosi con le nocche le lacrime di rabbia, l’assurdità di tutta quella situazione spinse anche Mi a una risata gorgogliante. «E sono sicura che saresti tutta orgogliosa di indossarla.»
«Perché non dovrei?»
«Oh, al diavolo, Sim.» Mi mise da parte la tazza di tè, si sfregò il viso con le mani. «Ti voglio bene.»
«Lo so, lo so.»
«Ti stai buttando via, stai frequentando corsi che fondamentalmente ti fanno dormire tutto il tempo.»
«Non sarò mai un cazzo di ingegnere biomedico, Mi. La maggior parte di noi sta ancora cercando di schiarirsi le idee.»
«Gli unici corsi verso cui hai mostrato un vero interesse sono quelli legati all’arte. Perciò concentrati su quelli e cerca di venirne a capo. Ti stai buttando via con un lavoro che non ti piace, di cui non hai bisogno, per cui sei così stupidamente iperqualificata che potresti gestirlo tu quel negozio.»
«Ma io non voglio gestire il negozio. A un sacco di gente non piace il lavoro che fa. E mi serve, perché almeno in parte voglio pagarmi le mie spese.»
«Allora trovati un lavoro che ti piace. Stai sprecando tempo a fare sesso con uomini di cui non ti frega niente.»
Ora era Simone ad asciugarsi le lacrime. «Non mi va di legarmi a nessuno al momento. Non so se lo farò mai. Mi importa di te, della mia famiglia, e per me basta così.»
«È proprio triste che ti apprezzi molto più io di quanto non faccia tu stessa, perciò è un bene che io ti stia addosso a fare la stronza e a darti l’assillo.»
«E lo fai alla grande.»
«Io sono la presidente del Club stronze e rompipalle. Tu sei a malapena membro onorario. Prenditi l’estate, Sim. Possiamo andarcene in spiaggia finché non parto per Londra. Puoi startene un po’ con CiCi, oppure potete farvi quel giro in Europa, come ti aveva già proposto dopo il diploma. L’appartamento possiamo subaffittarlo. Non startene qui da sola.»
«Ci penserò.»
«È quello che dici quando vuoi farmi stare zitta.»
«Forse. Senti, sono stanca, e devo essere al negozio alle otto per fare quel lavoro che non mi piace. Voglio dormire un po’.»
Mi annuì, buttò nel lavello il tè che nessuna delle due aveva finito.
Simone conosceva quel silenzio, voleva dire ansia.
«Pigiama party?» buttò lì.
Mi scrollò le spalle, sollevata. «Non sarebbe male.»
«Useremo il tuo letto virginale per ovvi motivi.» Le mise un braccio attorno la vita andando verso la stanza. «Ho il numero di Aaron. Magari ha un amico.»
«Hai detto che si chiamava Ansel.»
«Cazzo.»
Si infilarono nel letto di Mi, rannicchiandosi in cerca di conforto.
«Mi manca» mormorò Mi.
«Lo so. Anche a me.»
«Penso che New York l’avrei vissuta in modo diverso, anche solo il fatto di stare qui, se ci fosse stata lei. Se ci fosse stata Tish qui, noi saremmo state diverse.»
Tutto sarebbe stato diverso, pensò Simone.
Sognò questa cosa, lei e Mi sedute vicine mentre guardavano Tish, viva e vegeta, sul palcoscenico. Sotto i riflettori. Dominare la scena.
Sognò Mi al lavoro nel suo laboratorio, così frizzante e brillante nel suo camice bianco.
E quando nei sogni la protagonista divenne lei, si vide sopra una zattera in un mare tranquillo e silenzioso. Alla deriva verso il niente.
Al suo risveglio si ritrovò faccia a faccia con la sua realtà, ovvero servire a una massa di collegiali un caffè chic e costosissimo che in genere pagavano con la carta di credito di mamma e papà, senza nemmeno degnarsi di lasciare una mancia decente.
E quando si ritrovò, per la seconda volta in quella settimana, a pulire la toilette del bagno unisex, si guardò di nuovo allo specchio con rinnovata attenzione.
Sapeva che quella testa di cazzo del direttore le appioppava le pulizie del bagno con frequenza doppia rispetto agli altri perché lei non voleva andarci a letto (sposato, almeno quarantenne, codino, bello schifo del cavolo).
«Allora che vada al diavolo» disse a sé stessa.
Uscì fuori dal bagno impregnato di odore di candeggina e finto limone, tornando a immergersi nel ronzio senza posa delle macchine per il caffè espresso e delle conversazioni in cui si pontificava di politica o ci si lagnava di relazioni amorose.
Si tolse lo stupido grembiule rosso che era costretta perfino a mandare in lavanderia a sue spese, e prese la borsa dal minuscolo armadietto, il cui noleggio le veniva detratto dalla già ridicola busta paga.
Il direttore Testa di Cazzo la schernì. «Non è ancora tempo di fare una pausa.»
«Ti sbagli. È da un pezzo che è tempo di fare una pausa. Me ne vado.»
Passeggiava in un mondo di suoni e colori, e si rese conto di qualcosa che le era mancato da davvero troppo tempo.
Si sentiva felice.
Sei mesi dopo essere uscito dall’Accademia di polizia, Reed fu messo di pattuglia con Toro Stockwell. L’agente Tidas Stockwell si era guadagnato il soprannome ‘Toro’ non solo in riferimento al suo fisico, ma anche per la sua personalità. Quindici anni di servizio, Toro era uno sboccato, un tipo difficile, e si vantava di avere un fiuto che gli faceva riconoscere le cazzate a tre chilometri di distanza.
Aveva tutta una serie di personali campanelli d’allarme a sostegno del suo fiuto, che includevano: qualsiasi cosa a suo giudizio fosse antiamericana (in scala variabile), i pezzi di merda (con un’ampia gamma di qualifiche) e i figli di puttana. Per lui il candidato top al titolo di figlio di puttana era chiunque facesse del male ai bambini, picchiasse le donne o maltrattasse gli animali.
Non aveva votato per Obama; del resto non aveva mai dato il voto a un democratico in tutta la sua vita e non vedeva motivo di cambiare le cose. Ma quell’uomo era il presidente degli Stati Uniti d’America e, in quanto tale, godeva del suo rispetto e della sua lealtà.
Non sapeva cosa fosse l’intolleranza. Era perfettamente consapevole che di pezzi di merda e figli di puttana ce n’erano di ogni colore e religione. Poteva non arrivare a capire fino in fondo il fatto di essere gay, ma in generale non gliene fregava un cazzo. Credeva che se volevi fartela con uno fisicamente fatto come te, erano affari tuoi.
Aveva due divorzi al suo attivo – dal primo matrimonio era nata una figlia di dieci anni che adorava in modo spudorato – e possedeva un gatto con un solo occhio e una sola zampa salvato dopo un’operazione antidroga.
La maggior parte dei giorni non faceva che dargli addosso: troppo stupido, troppo lento, viziatello del college, recluta deficiente. In sei mesi di servizio Reed aveva appreso più cose del mestiere nudo e crudo, sporco, del poliziotto che in tutti i corsi fatti al college e i mesi passati in Accademia.
Di sicuro aveva imparato che quando arrivavano sul posto a seguito di una chiamata per violenza domestica doveva mettersi tra Toro e la parte accusata (maschile) prima che il campanellino d’allarme facesse scalciare e grugnire il suo compagno.
Così, quando accorsero in una villetta a schiera dove potenzialmente si ravvisava la suddetta situazione e dove erano già stati quattro volte per lo stesso motivo, Reed si preparò a reagire come sapeva.
«Adesso c’è un’ordinanza restrittiva a suo carico, perciò il suo culo è mio.»
Reed si ricordava che la lei in questione, tale LaDonna Gray, si era ripresa il marito, tale Vic Gray, dopo un occhio nero e un labbro spaccato, e poi, ancora, dopo un braccio rotto e un evidente stupro coniugale.
Ma il terzo episodio – picchiarla fino a farle perdere i sensi, facendole saltare due denti – solo due mesi dopo aver partorito il loro bambino, aveva procurato all’uomo un’ordinanza restrittiva.
«Sarà meglio per lui che non abbia sfiorato il bambino.» Toro si tirò su i pantaloni, mentre si avvicinavano al portone lungo un vialetto ghiacciato e pieno di fanghiglia mista a neve.
Una donna scappò fuori di corsa. «La sta ammazzando! Giuro, stavolta la ammazza.»
Reed ora sentiva tutto, le urla, le grida, i gemiti del bambino.
Ebbe tempo solo per pensare: ‘Oh, merda.’
Si accorse anche che il portone principale era già stato sfondato.
Entrò dall’ingresso con il suo partner, notò i segni della violenza al piano principale, il tavolino rovesciato, una lampada rotta.
Di sopra il bambino urlava come se qualcuno gli avesse conficcato un punteruolo nell’orecchio, ma le urla, le imprecazioni, i singhiozzi e i tonfi venivano dal retro della casa.
Reed era più rapido di Toro – più giovane, gambe più lunghe – e fece in tempo a scorgere Vic Gray che schizzava fuori dalla porta sul retro. La donna, coperta di sangue, gemeva in lacrime sul pavimento della cucina.
«Ci penso io.» Reed volò fuori sul retro. Mentre correva, parlava alla sua radio.
«Agente Quartermaine all’inseguimento di un sospettato di aggressione. Il sospettato è Victor Gray, maschio caucasico, ventotto anni, diretto a sud sulla Prospect a piedi. Il sospettato è sul metro e settantacinque, circa ottanta chili. Indossa un parka nero, un berretto rosso, jeans. Sta svoltando a est sulla Mercer.»
Gray tagliò per un cortile, tracciando un sentiero attraverso i venti centimetri di neve caduti la notte precedente, scavalcò una recinzione. Reed pensò a quanto sarebbe stato più veloce se invece delle scarpe dell’uniforme avesse avuto ai piedi le sue Nike.
Con il respiro che si trasformava in nuvolette, Reed oltrepassò la staccionata atterrando in mezzo alla neve.
Sentì delle grida, aumentò la velocità. Non per niente correva in pista alle superiori.
Avvistò una donna a terra in mezzo alla neve nel cortile di casa sua accanto a un pupazzo di neve ancora incompiuto. Le colava il sangue dal naso e stringeva a sé un bambino che piangeva disperato.
«Ha cercato di portarmi via il mio bambino!»
Reed continuò a correre, vide Gray tagliare di nuovo a est, e via radio riferì che l’uomo aveva guadagnato terreno rispetto a lui. Superò un’altra recinzione, vide Gray virare verso il portone aperto di un’altra villetta a schiera da dove arrivava chiaramente della musica e una risata femminile.
Reed sentì la donna dire: «Non ho bisogno di vedere quanto sei stato bravo a spalare il patio. Chiudi quella porta. Fa freddo!»
Il suo unico pensiero fu: ‘Non entrerai lì dentro a fare del male a qualcun altro.’ Reed poteva non essere diventato la star del football che avrebbe voluto il padre, ma sapeva placcare un avversario.
Fece un balzo staccandosi da terra e aggrappandosi alle sue ginocchia atterrò Gray sullo stretto patio davanti al portone aperto.
Gray urlò, aveva strusciato la faccia sulla pietra.
«Ehi, ehi, ma che cazzo!» Un uomo uscì fuori, bicchiere di vino in una mano, iPhone nell’altra. «Cristo santo, ma quest’uomo sta sanguinando dappertutto. Sto riprendendo. Questo è abuso di potere.»
«Continui a riprendere.» Senza fiato e con le ossa rotte dalla caduta anche lui, Reed tirò fuori le manette. «Continui pure a riprendere il bastardo che ha pestato a sangue la moglie qualche isolato più in là, e che poi ha aggredito un’altra donna, cercando di strapparle via il bambino per usarlo come ostaggio. Vorrei farle notare che il tizio qui in questione stava entrando dritto dritto in casa sua.»
«L’ho preso» riferì Reed alla radio. «Il sospettato è immobilizzato, potrebbe aver bisogno di cure mediche. Com’è qui l’indirizzo?»
«Non sono obbligato a dirle un cazzo.»
«Sta zitto, Jerry.» La donna che prima rideva spinse da una parte l’uomo con il cellulare. «È il 5237 di Gilroy Place, agente.»
«Nel retro del 5237 di Gilroy Place. La ringrazio, signora. Victor Gray, sei in arresto per aggressione, due capi d’accusa, percosse.» Fece scattare le manette al polso di Gray. «Per tentata sottrazione di minore, resistenza a pubblico ufficiale e violazione dell’ordinanza restrittiva.»
«Deve leggergli i suoi diritti.»
Reed sollevò lo sguardo. «Lei è un avvocato, signore?»
«No, ma so che...»
«Allora perché non la smette di interferire nelle operazioni di polizia?»
«Guardi che lei è su una proprietà privata.»
«La mia proprietà,» disse la donna «perciò chiudi quella bocca, Jerry. Anche lei sta sanguinando un po’, agente.»
Sentì il sapore del sangue in bocca, lo sentì sul palmo delle mani che gli bruciavano. «Sto bene, signora. Victor Gray, hai il diritto di rimanere in silenzio.»
Mentre recitava i diritti Miranda, Jerry ridacchiando rincarò la dose. «Ce ne hai messo di tempo, eh.»
«Lei non è un avvocato, no?» Reed tirò su in piedi Gray. «Solo un cazzone qualunque.»
«Sporgerò denuncia!»
«Basta. Fuori. Esci da casa mia, Jerry.»
Reed sentì le sirene arrivare, mentre nel frattempo la donna dava una bella lavata di testa al cretino. Visto che a quanto pareva la tipa aveva la situazione sotto controllo, lui portò Gray di fronte alla casa.
«Trascinerò il tuo culo in tribunale» farfugliò Gray.
«Sì, certo, fallo, Vic.»
LaDonna Gray riportò la frattura di tre costole, un polso rotto, il naso rotto, entrambi gli occhi pesti, uno zigomo fratturato e delle lesioni interne. Suo figlio non era stato toccato.
Sheridan Bobbett, che era nel suo cortile a giocare con il figlioletto di due anni, ebbe delle lesioni lievi, e il figlio minorenne riportò alcune escoriazioni alle braccia e alle spalle. Secondo quanto da lei dichiarato, Gray si era precipitato nel suo cortile, l’aveva buttata a terra. Lei aveva lottato con lui quando aveva cercato di strapparle il bambino dalle braccia, poi era scappato appena un agente della polizia aveva scavalcato la recinzione per inseguirlo.
Eloise Matherson, residente al 5237 di Gilroy Place, testimone oculare della cattura e dell’arresto, dichiarò di aver visto dal portone aperto l’uomo poi identificato come Victor Gray arrivare di corsa verso casa sua, aveva visto l’agente placcarlo a trenta centimetri dal portone e bloccarlo nel momento in cui Gray aveva cercato di opporre resistenza. Aveva espresso la sua gratitudine all’agente per aver impedito a un uomo violento di entrare in casa sua.
E di nascosto aveva lasciato a Reed il suo numero.
Toro gli mollò tutti i documenti del caso, era così che funzionava con i novellini. E Reed lo sentì parlare con l’ospedale, per accertarsi delle condizioni di LaDonna Gray.
Per quando Reed finì di compilare tutte le scartoffie, il video registrato con il telefonino da Jerry il Cazzone girava già sui notiziari locali.
Reed sopportò le prese in giro – pane quotidiano tra poliziotti –, trasalì leggermente nel rivedere la gelida collera che aveva stampata in faccia, e immaginava che si sarebbe preso una bella lavata di testa dal suo capo per quel commento, ‘cazzone’.
«Sei già su internet, Quartermaine.»
Uno degli altri agenti toccò lo schermo del suo computer. «Il blog della McMullen.»
«Merda.»
«Ah, ti definisce un giovane macho, e...»
«Che altro?»
«Tira fuori il DownEast. Lasciala perdere, pivello. Tanto non le legge nessuno le sue cagate.»
Le leggevano tutti, pensò Reed. Inclusi i poliziotti. Proprio come un mucchio di gente aveva letto il libro che aveva pubblicato l’anno prima. Massacro al DownEast. Ora che ne aveva parlato pure lei, le probabilità che quel dannato video sarebbe diventato virale, e in tutto il territorio nazionale, erano salite alle stelle.
Quando Essie, ora detective McVee del dipartimento di Portland, fece il suo ingresso facendogli cenno di seguirla, Reed capì che quella parola era già diventata una patata bollente.
Lo portò nella sala riunioni, in quel momento vuota.
«Stai bene?»
«Sì, certo.»
«Ti sei fatto male.» Gli toccò con un dito la mascella ammaccata.
«Ho sbattuto contro la sua nuca mentre lo atterravo. Non è niente.»
«Mettici del ghiaccio. I media avranno da divertirsi per un po’ con questa cosa. Debutto da star in polizia del giovane eroe del DownEast, con del mordente. Roba del genere.»
Reed si passò una mano tra i capelli, capelli corti da poliziotto, visto che il suo sergente lo obbligava a tenere sempre in ordine quello scopettone vagamente riccio che aveva in testa. «Merda, Essie.»
«Affronterai la cosa. Il tuo sergente ti darà una frustatina per quel ‘cazzone’. Ma lui, e tutti gli sbirri di Portland e periferia, ti farà un bell’applauso. Non starti a preoccupare, e fregatene della McMullen o degli altri media. Testa bassa e fa’ il tuo lavoro.»
«Be’, in realtà era quello che stavo facendo» puntualizzò lui.
«Esatto. E quello che il video del cazzo ha mostrato era un poliziotto intento a fare il suo lavoro, riuscendo a mantenere la calma e il controllo, a eccezione di una parolina borbottata. Una parolina che come anche il video mostra era più che meritata dal suddetto cazzone. Sei stato bravo, Reed, e voglio che tu lo sappia da me, perché credo di avere qualcosa a che fare con la tua decisione di indossare quell’uniforme.»
«Tu hai molto a che fare con quella decisione. Ho sentito... che dovevo acciuffarlo. Quando ho visto quella donna sanguinante a terra, è stato più forte di me. Non si è trattato di una specie di flashback. Non sono tornato indietro con la memoria a quella sera o roba del genere, ma è stato come quando avevo sentito di dover prendere con me quel bambino.»
«Istinto, Reed. Tu ce l’hai.» In segno di approvazione fece finta di affibbiargli un pugno sulla mascella ferita. «Continua a farne buon uso, e ruba con gli occhi da Toro. È un gran poliziotto, nonostante tutte le sue stronzate.»
«Mi rompe le palle di continuo, ma non mi lamento. Per questo. È stato gentile come un prete con LaDonna Gray. Credo che questa sia una delle cose che sto imparando da lui, come trattare con le vittime in modo che non si sentano così vittimizzate.»
«È un’ottima cosa. Che ne dici di andare a cena la prossima settimana?»
«Perché no? Vedi sempre quel professore?»
«Che bravo poliziotto che sei.» Sollevò la mano sinistra, facendo oscillare le dita per mostrargli l’anello.
«Cristo santo, Essie.» Fece per avvicinarsi, ma poi si bloccò. «Non posso abbracciare un detective all’interno della stazione di polizia. Aspetterò. È un ragazzo fortunato.»
«Ci puoi giurare. Se hai bisogno di parlare, sai dove trovarmi. Ti mando un messaggio per la cena.»
Andò dritto nello spogliatoio per cambiarsi l’uniforme. Aveva finito il turno già prima di compilare le scartoffie. Trovò Toro che appendeva la giacca della sua uniforme.
«Hai finito di farti sbaciucchiare dall’ufficio investigativo?»
«Non posso baciarla. Si è già fidanzata.»
«Uh. I poliziotti dovrebbero saperlo che farebbero meglio a non sposarsi.» Si infilò una semplice t-shirt bianca. «Hai chiamato cazzone quel testimone sapendo benissimo che ti stava registrando?»
«È nella registrazione, perciò sarei proprio stupido a negarlo.»
«Bene.» Studiandosi nello specchio del suo armadietto, Toro si passò una mano sui capelli a spazzola. «Pare proprio che dovrò offrirti una birra.» Chiuse l’armadietto. «Alla fin fine ce la potresti pure fare a diventare un poliziotto decente.»