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Patricia Jane Hobart divorò il blog della McMullen insieme a una ciotola di verdure tagliate a bastoncini e una montagna di hummus.

Da bambina era decisamente grassoccia, viziata in modo sistematico dalla madre con biscotti, merendine e le sue M&M’s preferite. I suoi interessi – il computer, la lettura, la tv, e di tanto in tanto i videogame – andavano perfettamente a braccetto con il suo appetito. Le capitava spesso e volentieri di finire una confezione intera di Oreo (i suoi preferiti erano quelli con doppia farcitura, freschi di frigorifero) e un litro di Coca-Cola mentre era immersa nella lettura di un romanzo di spionaggio, un giallo, qualche sporadico romanzo d’amore, oppure intenta a testare le sue notevolissime abilità di hacker.

Mentre il padre (fallito bifolco) e la madre (idiota sventurata) facevano a brandelli il loro matrimonio, lei si divertiva a metterli uno contro l’altro raccogliendo i frutti di quell’ulteriore caos, insieme ad altri biscotti.

A dodici anni era arrivata a pesare settantadue chili per un metro e cinquantotto di altezza.

Con gli insegnanti e i vicini si comportava in modo subdolo come faceva con i genitori, indossando la maschera della ragazzina stoica bullizzata dai suoi compagni. Bullizzata in effetti lo era, ma quella situazione per lei era la benvenuta, ci si crogiolava, e la utilizzava a proprio vantaggio.

Mentre gli adulti la carezzavano e la viziavano, lei non faceva che tramare, portando a termine la sua vendetta con una segretezza e una concentrazione degne dell’ammirazione di un agente della cia.

Il ragazzino che le aveva affibbiato il soprannome di Patty la Cicciona aveva sbattuto la testa facendo un volo dalla sua Schwinn dopo che la catena della bici che lei gli aveva manomesso si era spezzata.

Si era detta che come vendetta poteva accontentarsi della mascella fratturata, dei denti rotti, della degenza in ospedale, e delle migliaia di dollari che i genitori del ragazzino avevano dovuto scucire.

La capobanda delle ragazzine che le avevano rubato le mutande mentre era sotto la doccia dopo la lezione di ginnastica e che si era divertita ad attaccarle con grande creatività al disegno di un elefante, per poi esporre il tutto in bacheca, a momenti non ci aveva rimesso la pelle quando le noccioline che Patricia aveva ridotto in polvere e ficcato nel suo termos pieno di cioccolata calda le avevano provocato uno shock anafilattico.

Al compimento dei tredici anni, Patricia era maestra nell’arte della vendetta.

Occasionalmente ricorreva all’aiuto del fratello, l’unica persona al mondo che amava quasi quanto sé stessa. I suoi piani lo vedevano coinvolto – ne aveva organizzati diversi anche per lui – ed erano sufficienti a mantenere saldo il loro legame dopo il divorzio dei suoi.

Detestava il fatto che JJ vivesse con il loro inutile padre, detestava il fatto che il fratello avesse preferito così. Il perché le era chiarissimo. JJ poteva vivere come meglio gli pareva senza alcuna ripercussione, portando in casa di nascosto birra ed erba, mentre lei era incastrata con quella martire piagnucolosa della loro madre.

Ma JJ dipendeva da lei. Non era particolarmente brillante, perciò aveva bisogno del suo aiuto con i compiti di scuola. Aveva problemi di autocontrollo, e gli serviva che lei gli ricordasse che la vendetta era più dolce se attentamente ponderata.

Non c’era nulla che le piacesse di più che elaborare con cura una vendetta.

A diciassette anni, suo fratello troppo spesso mostrava al mondo il suo lato bestiale fatto di rabbia, violenza e rancore. D’altro canto, la facciata della Patricia tranquilla, studiosa, con un problema di obesità nascondeva una scaltra e brutale psicopatica.

Perfettamente consapevole del fatto che i ragazzi – e considerava alla stessa stregua pure tutti gli uomini– non andavano tanto per il sottile quando volevano infilare l’uccello, aveva fatto sesso sia con Whitehall che con Paulson. Da essere calcolatore qual era, contava in quella maniera di riuscire a tenere quei due, comunque comoda manovalanza, sotto controllo, facendogli credere che fossero loro ad avere il controllo su di lei.

JJ lo sapeva bene, ma la famiglia veniva prima di tutto.

Lei escogitò un piano. Una sparatoria di massa che avrebbe scosso nel profondo non solo la comunità che tanto disprezzava, ma la città, l’intero Paese. Ci lavorò sopra per mesi, selezionando e scartando i luoghi dove metterlo in atto, affinando e perfezionando le tempistiche, le armi.

Non ne fece parola con nessuno, nemmeno con JJ, finché non scelse il centro commerciale. Il centro commerciale frequentato da gruppetti di teenager tutte risatine che la trattavano da schifo. Dove perfetti genitori con i loro perfetti figlioletti andavano a mangiare la pizza e a vedere i film. Dove vecchi che sarebbero solo dovuti morire andavano a passeggio con le loro orribili tute o girovagavano con gli scooter elettrici.

Pensò che il centro commerciale fosse il posto perfetto per vendicarsi di tutti e di tutto ciò che la disgustava.

Anche dopo averlo detto a JJ, gli fece giurare di mantenere il segreto. Lui non poteva dirlo a nessuno, non poteva trascrivere niente di quello di cui discutevano. Quando sarebbe arrivato il momento giusto, quando a suo dire sarebbe stato tutto a posto, con tutte le eventualità definite, allora avrebbero potuto tirare dentro anche i due amici del fratello.

Fece chilometri e chilometri dentro il centro commerciale, unendosi a quei vecchi rivoltanti durante i loro esercizi di ginnastica prima dell’apertura dei negozi, lasciando che la trattassero come un animaletto domestico.

Scattò fotografie, preparò delle mappe, studiò i sistemi di sicurezza del centro. Perse qualche chilo come copertura, e spinse JJ a procurarsi un lavoretto part-time all’interno del centro.

Lui scelse il cinema, per questo nel piano lei aveva inserito quell’area.

Secondo i calcoli di Patricia, l’operazione Nati per uccidere si sarebbe dovuta realizzare a metà dicembre, in modo da avere il tempo per organizzarsi al meglio, approfittando della folla di gente in giro per le feste per ottenere un impatto ancora maggiore.

Ne avrebbero fatti fuori a centinaia.

Ma poi JJ aveva imbracciato il fucile, anticipando il tutto. E senza nemmeno dirglielo.

Dopo tutto il lavoro che lei aveva fatto, lui si era lasciato vincere dalle sue pulsioni. Venne a sapere della sparatoria da un’edizione speciale del notiziario locale che aveva interrotto una replica di Friends.

Aveva dovuto distruggere in fretta e furia i suoi appunti, le mappe, le foto, ogni tessera di sei mesi di lavoro. Nascose il suo portatile in un capannone ormai inutilizzato nel giardino dei vicini. L’aveva comprato in contanti grazie alle mance che le allungavano i nonni quando andava a trovarli nello loro gigantesca e lussuosissima casa a Rockpoint e aveva deciso di utilizzarlo esclusivamente per pianificare la strage del centro commerciale.

Gli sbirri sarebbero arrivati, lo sapeva. Le avrebbero fatto delle domande, a lei, alla madre, avrebbero setacciato la loro pulciosa topaia in affitto nei bassifondi della città da cima a fondo. Avrebbero parlato con i vicini, i professori, gli altri studenti.

Perché JJ sarebbe stato catturato. Anche se avesse seguito il piano da lei messo a punto alla lettera, lo avrebbero preso. Non avrebbe mai fatto il suo nome, ma quegli imbecilli dei suoi amici sì.

Del resto, gli sbirri non avrebbero avuto altro che la parola di due cretini contro quella di una ragazza di quindici anni, studentessa modello senza nemmeno una macchia sul suo fascicolo.

Mentre camminava avanti e indietro, aspettando nuovi aggiornamenti, faceva le prove di cosa dire, come reagire, ogni parola, ogni espressione del volto, il linguaggio del suo corpo.

Poi però era crollata a terra, sconvolta e addolorata in modo sincero e profondo, nel momento in cui quella giornalista dallo sguardo arcigno aveva annunciato che i cecchini, che si riteneva fossero tre, erano morti.

Non JJ. Non l’unica persona al mondo che nonostante la conoscesse esattamente per quella che era le voleva bene comunque. Non suo fratello.

Condensò quel dolore in un unico gemito. Poi lo ricacciò dentro di sé. Lo avrebbe conservato per la polizia. Conservato per la madre idiota quando gli sbirri l’avevano prelevata dal suo secondo lavoro di donna delle pulizie nello studio di un branco di avvocati bugiardi.

L’avrebbe conservato per le telecamere.

E quando arrivarono, quando vennero a notificare l’accaduto e le rivolsero delle domande, con a fianco a sé la madre tremante, quando perquisirono la casa da cima a fondo e parlarono con i vicini, quello che videro fu una ragazzina di quindici anni in stato di shock. Una ragazzina che si aggrappava alla madre e singhiozzava. Tanto colpevole il fratello, quanto innocente lei.

Com’era prevedibile, la madre andò in pezzi, il padre si infuriò e prese una bottiglia da cui non si sarebbe mai più staccato. Lei non cedette, chiese a uno degli avvocati dello studio dove la madre faceva le pulizie di aiutarla a scrivere una dichiarazione per esprimere lo shock l’orrore e il dolore, una dichiarazione, insisteva in lacrime, con cui chiedere scusa a tutti.

E poiché i suoi non erano in grado di gestire la cosa, fu proprio lei a leggere quella dichiarazione con voce soffocata dai singhiozzi.

Dovevano cambiare casa. Nascose il portatile in uno scatolone di peluche. Non potevano spostarsi troppo lontano, sua madre aveva bisogno del suo lavoro e i suoi datori di lavoro l’avevano tenuta. Terminò gli anni delle superiori con un tutore, pagato dai nonni danarosi.

Proseguì a capo chino, organizzando la sua vendetta, preparandosi a servire quel piatto da freddo.

A diciotto anni grazie a enormi sacrifici era arrivata a pesare cinquantuno chili per uno e sessantacinque di altezza.

La sua famiglia aveva attribuito la sua iniziale perdita di peso allo stress e al dolore, ma in realtà Patricia si stava dando da fare per trasformare il suo corpo in un’arma scattante.

Aveva una serie di persone da uccidere, e per ciascuna di loro compilò dei dossier.

Il tempo, aveva calcolato, era dalla sua parte, e doveva terminare il college. Con i voti eccellenti che aveva e la sua scaltrezza aveva avuto un’ampia rosa di scelte, e aveva optato per la Columbia, considerando che due dei suoi target, in particolare quello che in assoluto era il primo della lista, erano iscritti proprio lì.

Non avrebbe potuto trovare modo migliore per tenere d’occhio la persona che a suo parere era la principale responsabile della morte di suo fratello, perfino più della poliziotta che gli aveva piantato le pallottole in corpo.

Senza Simone Knox i poliziotti non sarebbero arrivati così rapidamente, non sarebbero entrati nella sala del cinema, non avrebbero ucciso il fratello. JJ sarebbe uscito da lì, così come c’era entrato, se non fosse stato per Simone Knox.

Avrebbe potuto ammazzare Simone Knox e finire l’opera iniziata da JJ sulla sua amichetta asiatica già migliaia di volte. Ma il piatto non era ancora abbastanza freddo.

E loro erano troppo in alto nella sua lista e quindi troppo lontane da quella che sarebbe stata la prima vittima a pagare.

Nella catena alimentare della sua vendetta, si era detta che i primi a pagare sarebbero stati i suoi genitori. Ma ora, leggendo il blog della McMullen dal monolocale che le pagavano i suoi nonni – non le era proprio possibile convivere con altre persone! – ci ripensò.

Non la donna poliziotto, e nemmeno il ragazzo eroe che ora era diventato poliziotto. Loro erano troppo in alto nella sua classifica per essere spostati così in fondo. Ma forse, solo forse, avrebbe potuto scegliere uno dei pesci più piccoli, per fare una prova.

Sgranocchiò il suo hummus e i bastoncini di verdure crude in un appartamento dall’altra parte della strada rispetto al suo bersaglio numero uno e iniziò il processo di selezione.

Il 22 luglio del 2005, Roberta Flisk aveva trentasei anni. Era andata al centro commerciale con la sorella e Caitlyn, la nipotina di dieci anni, che voleva farsi i buchi alle orecchie.

Avevano in mente di coronare quel rito di iniziazione con una coppa di gelato. Ma quando Caitlyn con i suoi bottoncini d’oro, Shelby, con la busta che conteneva un costosissimo detergente per uso quotidiano, e Roberta uscirono dalla gioielleria, cambiò tutto.

Roberta si era fermata in un negozio per comprare al suo bambino dei giocattoli da usare in spiaggia per il week-end lungo che avrebbe trascorso fuori con i nonni. Lei e il marito infatti avevano programmato di passare il loro week-end a Mount Desert Island nella speranza di ravvivare un po’ il loro matrimonio in crisi.

Più tardi, avrebbe raccontato alla polizia, alla sua famiglia, ai giornalisti, di aver visto il ragazzo, poi identificato come Kent Francis Whitehall, entrare nel centro commerciale mentre lei, la sorella e la nipote stavano uscendo da quelle stesse porte.

Aveva pensato che indossasse un travestimento per qualche evento. Finché non aveva tirato fuori il fucile. Sua sorella era stata la prima vittima dell’attacco.

Appena era crollata giù, Caitlyn aveva urlato, buttandosi a terra con la madre. Roberta si era lanciata sulla nipote e sulla sorella. Whitehall le aveva sparato due volte, spalla sinistra, gamba sinistra, prima di spostarsi su altri bersagli.

Con la sorella morta, la nipote traumatizzata, le sue ferite che avrebbero richiesto due operazioni e mesi di terapia, non solo fisica, Roberta non era stata timida nel parlare con la stampa.

Era diventata un’appassionata, fervente sostenitrice della regolamentazione sulle armi. Aveva sostenuto il lancio di Per Shelby, un’organizzazione attivista dedita a ‘soluzioni sane e sicure’.

Il loro sito e la pagina Facebook riportavano quotidianamente il computo delle morti da arma da fuoco nel Paese, tra omicidi, suicidi e incidenti.

Il suo matrimonio non sopravvisse, ennesima vittima del Down- East.

Tenne discorsi, organizzò comizi e manifestazioni, apparizioni televisive, indossando sempre il medaglione a forma di cuore che conteneva la foto della sorella.

In quella tragedia lei divenne una guerriera, un nome e un volto, una voce molto nota non solo a livello locale, ma nazionale.

Per tutti questi motivi era il bersaglio ideale per Patricia.

Patricia si prese un mese intero per studiarla, seguirla, prendere note e scattare foto, pianificare. Tornata a Rockpoint, dove avrebbe trascorso quasi tutta l’estate, ufficialmente per passare del tempo con i nonni, registrò con grande meticolosità le abitudini, la routine di Roberta.

Alla fine, trovò la cosa di una semplicità al limite del ridicolo.

Una mattina presto, prima dell’alba, sgattaiolò fuori dalla casa dei nonni, fece una corsetta di circa ottocento metri fino alla casa di certi amici dei nonni. Dopo essersi infilata una parrucca di capelli corti biondi e dei guanti di lattice, prese la chiave di scorta della macchina da una scatola calamitata sotto al parafango. Guidò, rispettando prudentemente i limiti di velocità, fino al tranquillo quartiere dove abitava Roberta, parcheggiò, tirò fuori dallo zaino pistola e silenziatore, sottratti al padre durante una delle sue sbornie.

Alle prime luci dell’alba, puntuale come un orologio svizzero, Roberta uscì dalla porta sul retro. Di solito tagliava per il cortile di casa sua, attraverso un cancelletto del vicino, e si incontrava con la prima delle compagne con cui faceva il suo jogging mattutino.

Ma quella mattina, trovò Patricia ad attenderla.

Fece un passo in avanti, sbucando fuori da dietro un massiccio acero rosso.

Roberta, occupata a sistemarsi gli auricolari, le lanciò un’occhiata di stupore, e a quel punto Patricia la atterrò con due rapidi colpi esplosi al petto. Il silenziatore contenne il suono, che si ridusse a un innocuo pop. Il terzo colpo – un colpo mortale alla testa – produsse un suono più forte, ma andava fatto.

Tirò fuori dallo zaino un foglio, che aveva già preparato, e lo gettò sopra al cadavere di Roberta.

eccoti il tuo secondo emendamento, stronza!

Raccolse i bossoli, li mise al sicuro nello zaino insieme a pistola e silenziatore. La luce cominciava a striare il cielo di rosso e di rosa a oriente mentre lei ritornava in macchina dal vicino, rimettendo a posto la chiave.

Con parrucca e guanti nel suo zainetto, tirò fuori gli auricolari, se li infilò e iniziò a fare jogging.

Si sentiva... si rese conto di non provare niente di particolare. Si aspettava di provare esaltazione o stupore. Qualcosa. Invece non provava niente di diverso rispetto a quando portava bene a termine un compito necessario.

Una piccola soddisfazione, niente di più.

Facendo jogging, che ormai era diventata sua abitudine da quando teneva d’occhio Roberta nella sua routine mattutina, arrivò in una panetteria a un paio di chilometri di distanza.

Ascoltò i notiziari, che iniziavano a ventilare l’ipotesi secondo cui proprio il fatto che Roberta avesse sposato in prima persona e con tanta passione quella causa potesse averla resa il bersaglio di qualche folle che rivendicava il diritto alle armi.

Bisogna ancora aspettare, decise. Aspettare e pianificare e studiare. Ma quel test? Superato a pieni voti. Uccidere era facile con un piano studiato nei minimi particolari, e a cui attenersi.

Entrò nella panetteria, e Carole, che era sempre presente nell’orario di apertura, le rivolse un grande sorriso di benvenuto. «Ehilà, Patricia. Puntualissima.»

«Splendida giornata!» con un sorrisone di rimando, Patricia continuò a fare jogging sul posto. «Oggi prenderei tre di quei muffin alla mela, Carole.»

«Perfetto. È veramente un pensiero carino da parte tua portare tutte le mattine un dolcetto ai tuoi nonni.»

«I nonni migliori del mondo. Non so cosa avrei fatto senza di loro.» Patricia estrasse i soldi dalla tasca laterale del suo zainetto e, posizionandolo in modo che il contenuto non fosse visibile, aprì la lampo del comparto principale per infilarci dentro la busta con i muffin, insieme a parrucca e pistola.

Tornò a casa e nascose la parrucca, i guanti, la pistola e il silenziatore. Dopo una rapida doccia, portò i muffin in cucina e li mise in una piccola ciotola sul bancone.

Aveva appena iniziato a mettere su il caffè quando un passo strascicato annunciò l’ingresso della nonna.

«Sei già tornata dalla corsa!» disse, come diceva ogni dannatissimo giorno.

«Mi sono svegliata con il sole, e guarda che giornata fantastica. Oggi muffin alla mela, nonna.»

«Ci vizi, tesoruccio. Ci vizi da morire.»

Patricia sorrise. Li avrebbe viziati di sicuro e, quando finalmente sarebbero crepati, si sarebbe presa tutto.

Avrebbe potuto farci un sacco di cose con tutti quei soldi.

Quella sera Essie e il suo fidanzato organizzarono un barbecue estivo nel piccolo giardinetto dietro la casa che si era decisa ad acquistare quando era diventata detective.

Le toccava tirare un po’ la cinghia, ma, cavoli, l’idea di avere la sua bella casa con tre stanze da letto e un piccolo e accogliente giardinetto la rendeva davvero felice.

E, da quando Hank si era trasferito da lei, far quadrare i conti era diventato più sostenibile, ed era tutto molto più piacevole.

In quel momento aveva la casa e il cortile invasi da poliziotti e insegnanti, con l’aggiunta di qualche familiare e vicino. E stava andando tutto alla grande.

Hank, adorabile agli occhi di Essie con il pizzetto rifilato, gli occhialetti da accademico e un grembiule con la scritta cucino io in cambio di sesso sopra la pettorina, si occupava del barbecue. Aveva pure preparato l’insalata di patate, le uova alla diavola e altri contorni. Lei puliva e tagliava, mescolava perfino, ma il grembiule di Hank non mentiva, e lui si era dimostrato un ottimo cuoco.

Essie si versò un Margarita – quelli li sapeva fare – e osservò l’uomo che amava intento a scherzare con il suo ex compagno di pattuglia. Quando aveva scambiato la sua uniforme per il distintivo d’oro da detective, lei e Barry non si erano persi di vista, non nel privato. Trovava rassicurante vedere quanto stavano bene insieme quei due, il suo uomo e il poliziotto a cui voleva bene e che rispettava.

Magari era sorpresa dal fatto che si prendessero tanto, e perfino che lei andasse d’accordo con il professor Coleson, uno studioso di Shakespeare con dei raffinatissimi occhialetti dalla montatura in corno.

Lei non era certo in cerca dell’amore, e si era limitata ad andare a un appuntamento combinato (il primo e l’ultimo) perché un’amica le aveva dato il tormento punto tale da vincere le sue resistenze.

Si era invaghita di lui mentre prendevano l’aperitivo, durante la cena era già praticamente cotta, al dessert moriva dalla voglia di averlo.

Ed era finita nel suo letto nascondendosi dietro alla sottilissima scusa del bicchiere della staffa, un’espressione che non aveva mai usato prima di allora in vita sua.

Quando lui le aveva cucinato la colazione al mattino, aveva finito per innamorarsi definitivamente.

Essie si avvicinò alla griglia e sorrise con tutta sé stessa quando lui si chinò per darle un bacio spontaneo.

«Hai bisogno di una mano qui?»

«Metto nel piatto questi hamburger, così puoi portare questi e i würstel sul tavolo.»

«Si può fare. Hai già preso il tuo würstel carbonizzato, Barry?»

«Ne ho presi due. La casa è davvero fantastica, Essie. Il problema ora è che Ginny si sta guardando troppo intorno e comincerà a lamentarsi che le nostre aiuole non sono altrettanto belle.»

«Ha bisogno di una Terri.» Essie fece cenno a indicare una bionda dall’aria dinamica che correva dietro a un paio di gemelli. «La nostra vicina di casa è un genio con le piante. Ci sta dando delle dritte.»

«Ha evitato stragi floreali quest’estate» aggiunse Hank. «Il pollice di Essie sta diventando verde. Il mio è ancora discutibile. Ecco qua, bellezza.» Rovesciò gli hamburger nel piatto da portata e ci aggiunse gli hot dog.

«Faccio io, e questi dovrebbero tenere a bada l’orda famelica per un po’. Dovresti fare una pausa, prenderti qualcosa da mangiare, Hank.»

«Buona idea. Che ne dici di farci un bicchierino da maggiorenni prima, Barry?»

«Ah, io ci sto.»

Lei arrivò fino al tavolo, con qualche hamburger e hot dog rubacchiato dagli ospiti dal piatto da portata lungo il tragitto.

Lo poggiò, recuperò la ciotola quasi vuota di insalata di patate. Con quella e un piatto vuoto dove avevano messo i pomodori a fette (orto di Terri) andò in cucina per rimpiazzare le cose finite.

Trovò Reed appoggiato al suo bancone, beveva una birra ed era impegnato in quella che sembrava una discussione serissima con il figlio di dieci anni del suo attuale compagno di lavoro.

«Non esiste, bello, ma quale alla pari» diceva Reed. «Siamo tutti d’accordo che è una bella lotta per chi è il più forte tra i due, ma è fuori discussione che Batman possa annientare Iron Man. Iron Man ha la tuta.»

Quentin, con il viso rotondo, pieno di lentiggini e occhialuto, però non pareva affatto dello stesso avviso. «Pure Batman ha la tuta.»

«Non può indossarla e volare, fratello.»

Essie ascoltava il dibattito mentre riempiva la ciotola e il piatto.

«Scriverò la storia dei due» dichiarò Quentin. «E ti faccio vedere. Il Cavaliere oscuro spacca.»

«Scrivila, e sarò io a decidere.»

Visibilmente contento, Quentin corse fuori.

«Ci sai fare con lui» osservò Essie.

«È facile. Quel ragazzino è proprio una forza. Anche se si sbaglia su Tony Stark.»

«Chi è Tony Stark?»

«A questo punto mi chiedo come faccio a stare ancora qui a parlare con te.» Con un movimento repentino della testa, Reed tracannò la sua birra. Nonostante le minacce, si avvicinò per prendere la ciotola e portarla di là, e proprio in quell’istante il cellulare che lei aveva in tasca emise un bip.

Essie lo tirò fuori, aggrottò la fronte, poi fece un sospiro. «Merda.»

«Non sei di turno.»

«Non è quello. Ho impostato una specie di avviso che mi notifica se via radio arrivano notizie su persone legate alla sparatoria del centro commerciale. E ce n’è una.»

«Chi? Che è successo?»

«Roberta Flisk. Trovata morta nel cortile di casa, stamattina presto. Le hanno sparato tre colpi. Lei era...»

«Mi ricordo di lei.» Anche Reed aveva i suoi dossier. Aveva analizzato attentamente ogni informazione e articolo di giornale, letto ogni libro che aveva per argomento quella notte, e continuava a farlo. «Sua sorella è stata indicata come la vittima numero uno all’esterno della sala del cinema. Si era beccata un paio di proiettili anche lei. Attualmente era considerata una referente di spicco per la normativa sulle armi.»

«Da informazioni trapelate sembrerebbe che abbiano lasciato un foglio sul suo cadavere. ‘Eccoti il tuo secondo emendamento, stronza!’ Cazzo.»

«Chi è stato a trovarla?»

«Un paio di amiche. Pare che facessero jogging insieme tutte le mattine, all’alba.»

«Tutte le mattine?»

Essie sollevò gli occhi e i loro sguardi da poliziotto si incrociarono, e lei annuì. «Esatto, routine. Qualcuno era al corrente della sua routine. O la conosceva, o la stava tenendo d’occhio. Altro che qualche psicopatico del cazzo con l’ossessione del secondo emendamento.»

«Divorziata, giusto? Si è mai risposata? Un compagno? Un ex?» le chiese Reed.

«Vuoi diventare detective?»

«È solo da dove si comincia sempre a indagare.»

«Giusto.» Non è più una recluta, rifletté Essie, e Reed aveva la stoffa per diventare un investigatore in gamba e intelligente. «Il caso non è mio.»

«Ma ci andrai a dare un’occhiata» replicò lui. «Lei era lì. Noi eravamo lì. Devi darci un’occhiata.»

«Giusto di nuovo, ma non ora. Non oggi.» Gli allungò la ciotola, e lei prese il piatto. «Domani contatterò il collega che ha in mano il caso.»

«Mi terrai al corrente?»

Lei annuì, guardando fuori della porta con la zanzariera. «Non sarà mai veramente finita. È la classica situazione che non puoi semplicemente chiudere e mettere via. Ma non è nemmeno possibile starci a pensare tutti i giorni.»

«I media ricominceranno di nuovo a tirare fuori il resto. Va sempre a finire così.»

«Testa bassa e fa’ il tuo lavoro.»

«Ma tu mi terrai aggiornato?» insistette lui.

«Sì, sì, adesso non starci a pensare per oggi. Fatti un’altra birra.»

Nei giorni successivi, Reed passò ogni momento che riusciva a ricavarsi a raccogliere informazioni sull’indagine Flisk. Essie fu di parola e lo tenne aggiornato; convinse perfino il responsabile delle indagini a permettergli di visitare la scena del delitto.

Studiò com’era fatto il cortile, constatando che gli alberi e le piante erano in grado di fornire un’ottima copertura per appostarsi in agguato.

La vittima usciva dalla porta sul retro, rifletté, routine confermata da molteplici dichiarazioni.

Provò a uscire da lì pure lui, si allontanò dalla porta sul retro, attraversò il patio e si fermò dove l’erba era sporca di sangue.

L’avevano portata allo scoperto quanto più possibile, concluse. Meno possibilità per lei di correre indietro per rifugiarsi in casa, più difficile che dalle case vicine qualcuno potesse assistere all’omicidio, e dalla strada la visuale era tagliata fuori.

Mossa scaltra.

Tre colpi, due al petto e poi quello finale in testa.

Poi si interessò all’angolazione che avevano stabilito il medico legale e la squadra investigativa. Ottima copertura sulla destra, notò, mentre il bersaglio si spostava in direzione del cancelletto nella staccionata.

Il killer aveva detto qualcosa? Pensava che se qualcuno avesse deciso di uccidere una donna per le sue posizioni sulla regolamentazione delle armi, avrebbe voluto farle sapere il perché.

Ma nella sua ricostruzione mentale non sentì altro che silenzio.

Roberta, si chiese Reed, aveva avuto un flashback di quell’attimo al centro commerciale in cui aveva visto Whitehall sollevare la ar-15?

Reed di tanto in tanto si sorprendeva a chiedersi se il destino non stesse forse aspettando di fargli recapitare la pallottola che lo aveva risparmiato quella notte. Una rimasta imprigionata nell’aria, come la registrazione di un video messo in pausa, pronta a squarciarlo non appena il fato avesse premuto il tasto Play.

Ci aveva ripensato a quei momenti Roberta?

Giunto alla conclusione di non poter far niente per modificare qualunque pulsante il destino avesse deciso di premere, Reed si sforzava di vivere e di fare la differenza a questo mondo, o almeno ci provava. Era sicuro che Roberta Flisk avesse scelto di fare la stessa cosa.

Cercò di visualizzare la sua foto. Berretto nero con il disegno di una pistola dentro un cerchio con una barra sopra, ovvero il logo della sua associazione, capelli biondi di media lunghezza, cuffiette alle orecchie. Una canottiera blu notte e scarpe da corsa blu scuro su un fisico atletico – le cicatrici alla gamba a perenne memento di un incubo –, la chiave di casa infilata nel taschino interno dell’elastico dei pantaloncini. Nike rosa e bianche, calzini bianchi.

Mentalmente immaginò che si fosse fermata solo per un istante.

Shock, consapevolezza, rassegnazione? Questo non lo avrebbe saputo mai.

Due pop attutiti, si disse, dalle verifiche della balistica si trattava di una calibro 32, silenziata. Entrambi i colpi sparati in pieno petto. La vittima era caduta a terra, pensò, ancora una volta stando alle macchie che il sole estivo aveva seccato sul prato.

Il terzo pop, più forte dato che il silenziatore aveva perso parzialmente la sua capacità di attutire il suono, era direzionato dall’alto verso la parte posteriore della testa.

Poi quel gesto plateale del foglio, con il messaggio.

L’aveva colpito, come una stortura, una cosa fuori luogo. L’assassinio aveva tutti gli elementi di un omicidio a sangue freddo, da professionista addirittura; ma quel foglio al contrario mostrava della foga, della collera, un gesto incauto.

Il killer si era preso tempo e precauzioni per raccogliere i bossoli, non lasciare altre tracce a parte i proiettili nel corpo, per poi far cosa? Mettersi a lasciare un foglio scritto a mano con cui si dichiarava un incazzato paladino del secondo emendamento?

Non lo convinceva la cosa, perché il killer non era incazzato, l’omicidio non sembrava una cosa personale.

Avevano scagionato il marito, pensò, mentre ripercorreva la scena del delitto ancora una volta. Lui e la vittima avevano mantenuto un rapporto cordiale. In più non deteneva una pistola, e anzi faceva una donazione annuale all’organizzazione di lei a nome di loro figlio.

Al momento dell’omicidio, stava aiutando a preparare la colazione – e di testimoni ne aveva a bizzeffe – per una ventina di boyscout, incluso il figlio, in un accampamento a Mount Desert Island.

Lei non aveva un fidanzato, usciva di rado e niente storie serie, non aveva problemi con i vicini, i volontari o lo staff della sua organizzazione.

Qualche minaccia di morte l’aveva ricevuta, certo, e proprio dal tipo di persona che poteva aver scritto quel messaggio. Ma comunque la cosa non quadrava.

O quadrava troppo.

Si incamminò verso la macchina, rammentandosi che quando aveva parcheggiato ben due persone avevano attraversato il cortile di casa loro per andargli a chiedere spiegazioni di cosa ci facesse lì. Aveva dovuto mostrargli il distintivo.

I vicini nelle loro dichiarazioni asserivano che al momento dell’omicidio erano ancora a letto o in procinto di alzarsi, per cui Reed si disse che il killer, per pedinare la preda, aveva dovuto trovare una maniera agevole di passare inosservato in quel tranquillo quartiere dell’alta borghesia.

Arrivò alla macchina, buttò giù appunti accurati in merito alle sue osservazioni e teorie.

Forse la sua ipotesi principale non era che un abbaglio da novellino, ma volle evidenziarla comunque.

Il killer aveva pazienza e autocontrollo, poteva mescolarsi tra le maglie del vicinato della vittima, aveva ucciso con efficienza e precisione. E il messaggio?

Uno specchietto per le allodole.

Certo, nessuno dei suoi appunti, teorie e congetture sarebbe servito a un cavolo a Roberta Flisk e a suo figlio, ora orfano di mamma. Ma lui li avrebbe trascritti tutti, archiviati.

E non se ne sarebbe dimenticato.

Quando Simone sentì la notizia della violenta morte di Roberta Flisk, una dei sopravvissuti del DownEast, spense la televisione.

Si era imposta di dimenticare.

Aveva fatto come voleva Mi: aveva subaffittato l’appartamento ed era tornata a casa.

E dopo una breve settimana passata a casa sua con i genitori e la sorella, era fuggita sull’isola.

Lei amava i suoi genitori, li amava veramente. E per quanto la perfezione della sorella – era proprio il caso di dire ‘tale madre, tale figlia’ – la facesse uscire dai gangheri, amava pure Natalie.

Semplicemente non ce la faceva a vivere insieme a loro.

CiCi le dava spazio, letteralmente, nella minuscola camera per gli ospiti sopra il suo studio d’arte dalle pareti in vetro. E le dava spazio anche da un punto di vista emotivo.

Se aveva voglia di dormire tutto il giorno, CiCi non si metteva a chiederle se si sentiva bene. Se le andava di passeggiare sulla spiaggia fino a notte fonda, CiCi non stava ad aspettarla con la faccia preoccupata.

Non aveva fatto una piega riguardo al fatto che avesse lasciato il lavoro, nessun sospiro particolare per il colore dei suoi capelli.

Faceva per CiCi quante più commissioni le era possibile, preparava a volte da mangiare, per quanto la sua cucina non fosse niente di cui vantarsi. Accettava di posare ogni volta che glielo chiedeva.

Come risultato, dopo due settimane, Simone doveva ringraziare virtualmente Mi. Non si sentiva così rilassata e serena da mesi. Abbastanza da iniziare a dipingere un pochino.

Mise giù il pennello quando CiCi uscì sul patio con un vassoio e una brocca di sangria, bicchieri, una ciotolina di salsina messicana e patatine.

«Se non vuoi fare una pausa, lo porto nel mio studio e mi faccio fuori la caraffa intera.»

«Non posso permetterlo.» Simone fece un passo indietro per esaminare il paesaggio marino a cui aveva lavorato nelle ultime tre ore.

«È buono» le disse CiCi.

«No, che non lo è.»

«Lo è, sul serio.»

Visto che CiCi, cappello a tesa larga e floscia su una treccia con striature bianche e nere, suo ultimo look, versava la sangria, Simone si lasciò cadere su una delle poltroncine del patio.

L’ultimo tatuaggio di CiCi rappresentava dei simboli celtici che le cingevano il polso sinistro come un braccialetto.

«È mia nonna a parlare, non l’artista.»

«Sono entrambe.» Fece cincin con il bicchiere di Simone, si mise a sedere, allungò le gambe e incrociò i piedi con le Birkenstock alle caviglie. «È buono, hai il senso del movimento e dell’atmosfera.»

«La luce non è giusta, e nel rimetterci le mani non ho fatto che peggiorare le cose. Adoro i tuoi paesaggi marini. I tuoi dipinti sono semplicemente incredibili, sempre, e non dipingi spesso paesaggi marini. Ma quando lo fai, sono malinconici e magici.»

«Prima cosa, tu non sei me, e dovresti festeggiare la tua unicità. Secondo, io dipingo marine e paesaggi, o nature morte, quando ho bisogno di calma, o quando mi sento giù. La maggior parte delle volte preferisco stare seduta qui e guardare il mare. I ritratti? Le persone sono infinitamente affascinanti, come lo è ritrarle. Dipingere è la mia passione. Non è la tua.»

«Mi sembra chiaro.»

«Hai diciannove anni. Hai tutto il tempo di trovare la tua passione.»

«Ho provato il sesso.»

Dopo una risata fragorosa, CiCi fece un brindisi e bevve. «Ah, pure io. È un passatempo dannatamente piacevole.»

Divertita, Simone prese della salsa. «Mi sto prendendo una pausa ora.»

«Anch’io. Tu sei un’artista, e non contraddire tua nonna. Sei un’artista con del talento e una tua visione. La pittura è una buona palestra per te, ma non è la tua passione e non sarà il tuo principale mezzo espressivo. Sperimenta.»

«Cosa? Papà sta ancora cercando di spingermi a fare Legge, e mamma pensa che dovrei trovarmi un ragazzo ammodo e affidabile.»

«Loro sono due tradizionalisti, piccola. Non possono fare a meno di comportarsi così. Io sono diversa, ma non posso esserti di aiuto nemmeno io. Perciò voglio dirti che saresti stupida a fare tutte e due le cose. Sperimenta,» ripeté «con qualsiasi cosa. Per quanto riguarda l’arte, voglio darti quello che nessuno vuole: un consiglio. Ricordi quell’agosto che hai passato qui dopo quella cosa orribile?»

Simone guardò la striscia di sabbia, gli scogli che la bordavano, l’acqua dell’oceano che non aveva mai fine.

«Penso che mi abbia salvato dalla pazzia, perciò, non posso non ricordarmelo.»

«Tu e Mi avete passato un sacco di tempo sulla spiaggia la settimana in cui lei è stata qui. Costruivate castelli. Quelli di Mi erano precisi, belli e tradizionali, molto simili a com’è lei. E i tuoi erano affascinanti, fantasiosi e imprevedibili.»

Simone bevve un altro bicchiere. «Quindi dovrei costruire castelli di sabbia?»

«Crea. Prova la creta per cominciare, vedi dove ti porta. Lo scorso anno hai appreso le nozioni di base.»

«Come lo sai?»

CiCi fece solo un sorriso, sorseggiando la sua bibita. «Io so un mucchio di cose. E sapendo che avremmo avuto questa conversazione, ho ordinato un po’ di materiale. Ce l’ho nel mio studio. Possiamo usarlo tutte e due, lavorarci a turno. Provala. Se non è la creta, sarà qualcos’altro. Prenditi l’estate per cominciare, vedi se riesci a scoprire qual è la tua passione.»