Il marchio ribelle

A volte nella vita capita che una persona perbene rimanga vittima di strane coincidenze, o finisca invischiata in situazioni torbide. In questi casi, nonostante la sua integrità, rischia di suscitare una pessima opinione agli occhi degli altri. Si tratta spesso di vere e proprie incomprensioni che possono influenzare in maniera negativa l’esistenza dei singoli individui, il che nella prospettiva di una carriera criminale può essere considerata un’enorme sfortuna.

Igor´, detto «Kalašnikov» (o per gli amici semplicemente «Kalaš»), non era ritenuto una persona perbene nemmeno tra i criminali onesti. Sia chi lo conosceva come le proprie tasche sia chi aveva avuto l’occasione di incrociarne la strada anche solo per un breve istante, affermava senza alcun dubbio che fosse uno stronzo fatto e finito.

Posso assicurare che Igor´, e ve lo avrebbe confermato persino la sua mamma, non era vittima di alcuna incomprensione. Odiava il mondo in maniera pura e potente, esprimendo con tutto il suo essere l’opposto dell’amore universale che di solito si annida nelle anime piú sensibili e generose: artisti, musicisti o poeti. Igor´, per paradosso, poteva essere considerato una sorta di poeta, solo che si esprimeva in maniera diversa dai poeti ortodossi. Componeva le proprie opere usando sangue e carne umana al posto delle parole, e i suoi artifici retorici erano la violenza, il terrore, la perfidia, l’infamia, l’invidia e l’odio.

Il mondo, che indipendentemente da quello che pensano gli umani si muove seguendo le proprie, a volte incomprensibili, regole olistiche, spesso e volentieri corrispondeva a Igor´ gli stessi sentimenti che quello trasmetteva, causando non poche difficoltà al suo percorso vitale.

Nella criminalità, come del resto nella vita in generale, per sopravvivere alle eventualità che il destino ci presenta è indispensabile essere simpatici, saper attirare le persone con le proprie idee, manipolarle con cura e con una buona dose di rispetto, essere capaci di trovare un punto d’incontro con tutti e indurli a funzionare in perfetta sinergia, anche se si tratta di individui dal carattere opposto. Igor´ non ha mai capito questo importantissimo particolare, e fin dalla piú tenera età ha scelto come modo di affrontare la realtà il bulldozer, che attraversa il fango e spazza via ogni cosa che trova sul proprio cammino.

Per diversi anni gli è andata bene, il suo comportamento violento era sostenuto da un’importante prestanza fisica che gli permetteva di trattare le persone come chiodi che un falegname pianta nel legno. Durante l’adolescenza era noto perché obbligava tutta la scuola a pagargli il pizzo. Raccontavano che si piazzasse nel corridoio che portava alla mensa e non facesse passare chi non versava un pedaggio. Poi, stanco del piccolo cabotaggio criminale dell’ambiente scolastico, esordí su una scena piú ampia, facendo da subito il botto.

Una domenica aveva indossato il passamontagna e in compagnia di altri due buoni a nulla che lo accompagnavano sempre, imbracciando un Kalašnikov (da quell’episodio ha tratto il suo soprannome) ha fermato un autobus di commercianti che all’epoca, usufruendo dei primi cambiamenti nell’economia portati dal libero mercato introdotto in Urss da Gorbačëv, affrontavano lunghi viaggi fino in Turchia. Lo facevano per acquistare beni di consumo da rivendere con abbondante ricarico nei mercati abusivi chiamati «strettoie» o «spintarelli», perché erano talmente pieni di gente che per passare bisognava farsi strada a gomitate.

Le rapine ai commercianti erano malviste dai criminali piú potenti e anziani perché erano azioni dannose per l’economia della città. Un commerciante che rimane vittima di una rapina non importa merce dalla Turchia, quindi non prende in affitto un posto al mercato (che all’epoca era gestito totalmente dalla criminalità organizzata). Inoltre non vende la merce, dunque, in una frase: non paga il pizzo. Se il pizzo non viene pagato manca la quota per il sostegno dei criminali in carcere, che all’epoca era un obbligo. Qualora i criminali in carcere non siano sostenuti con dignità da quelli che si trovano in libertà nascono dissensi che possono generare cambiamenti al vertice e a catena a tutti i livelli. Dato che, a differenza delle altre strutture quella criminale non licenzia i propri dipendenti come si usa fare in qualsiasi azienda, anche una minima variazione negli equilibri di potere nella gerarchia criminale significa guerra, sangue, violenza e la totale perdita di controllo sul territorio.

Per questo motivo Kalaš da subito è stato preso in antipatia dai criminali piú anziani, e presto le sue incursioni sugli autobus hanno cominciato a infastidire dei pezzi sempre piú grossi nell’ambiente illegale. Se quella situazione fosse capitata qualche anno prima, forse il problema sarebbe stato risolto senza tanto rumore: i criminali avrebbero fatto fuori quel personaggio indesiderato, un «saltarello» (come si chiama in gergo colui che si azzarda a compiere un crimine sbattendosene delle regole criminali), minacciando gli equilibri stabiliti dalle autorità del mondo fuorilegge. Però rispetto al recente passato ormai correvano anni molto difficili: per le strade giravano tantissime armi, sempre piú giovani creavano bande che non obbedivano a nessuno ed erano piú spregiudicate e violente persino degli invasori tatari che martoriavano la Russia agli albori della sua storia. In piú c’era la droga, e i trafficanti ormai rappresentavano un potere che superava addirittura le dimensioni dello Stato.

In quel clima non era cosí facile far fuori qualcuno senza rischiare di essere trascinato in una carneficina. Per questo i vecchi hanno stretto i denti e hanno cercato con umiltà e pacatezza di far capire a Igor´, dialogando, che le sue azioni stavano danneggiando gli interessi di molte persone. Per tutta risposta lui, intuendo che si stava profilando uno scontro, ha deciso di unirsi a una grande banda per avere protezione dal branco.

Da noi a Fiume Basso uno come Kalaš non sarebbe potuto entrare neanche dentro a una bara, perché i nostri vecchi non avrebbero mai approvato il suo comportamento.

Seme nero era la fratellanza che aveva danneggiato con le rapine il nostro mondo: non l’avrebbero mai accettato tra le loro file, e non aveva speranza neanche tra i Ladruncoli. I Fratellini erano troppo obbedienti ai loro leader, e a qualcuno con un ego enorme come quello di Kalaš questa cosa non andava giú. I Punk non erano abbastanza potenti per poterlo proteggere, i Metallari ascoltavano musica che lanciava messaggi che lui non era in grado di comprendere… L’unica realtà nella vasta galassia della criminalità giovanile della nostra città che poteva accogliere Kalaš e fornirgli protezione erano i neonazisti, anche se a voler essere precisi quelli della nostra città si ispiravano piú al modello del fascismo mussoliniano che a quello nazista hitleriano. Per chi non conosce l’ambiente può sembrare che si tratti sempre di giovanotti con le teste rasate che amano gli sport da combattimento, girano insieme per le strade salutandosi l’un l’altro stendendo in alto il braccio nel saluto romano e alla domenica si radunano per fare raid nel parco e massacrare di botte i tossicodipendenti oppure tirare molotov alla polizia che protegge gli spacciatori.

Nella mentalità del cittadino medio di Bender, sempre piú disperato, all’epoca del crollo del regime sovietico i gruppi nazifascisti erano considerati l’igiene della società: erano come i lupi, cattivi e pericolosi, però necessari per mantenere un certo equilibrio nella fauna.

Nella nostra città, come ho già detto, c’era un gruppo di fascisti che si chiamava Teste d’Acciaio. Erano nati sulla base della sezione di ricostruzione storica della Grande guerra patriottica (cosí nella vecchia Urss e ora in Russia viene chiamata la Seconda guerra mondiale), che a Bender aveva impervesato dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. I ragazzi che frequentavano quel circolo erano appassionati di storia e di guerra: organizzavano viaggi nei luoghi dove si erano svolti i combattimenti, mettevano in scena le battaglie, si cucivano da sé le uniformi, costruivano modelli delle armi d’epoca. Piú tardi alcuni di loro hanno cominciato a occuparsi di scavi sui luoghi dove erano avvenuti gli scontri piú importanti. Cosí si sono procurati dei metal detector da artificieri che usavano per cercare materiale bellico risalente ai tempi della Seconda guerra mondiale. Varie sezioni di ricostruzione storica si sono trasformate in «grandi magazzini» di armi e di cimeli di guerra, dove chiunque poteva acquistare qualsiasi cosa, a partire da una medaglia sino a una bomba da cinquecento chili ancora utilizzabile.

Ogni sezione aveva mantenuto anche la propria specializzazione storica. In epoca sovietica per dividere gli impegni tra i ragazzi le autorità scolastiche – d’accordo con l’assessore all’Istruzione – davano a ogni sezione una specializzazione storica. Indicavano cioè un reparto militare realmente esistito ai tempi della guerra che diventava una specie di guida storiografica del gruppo. I ragazzi si vestivano con le uniformi di quello specifico reparto, ne approfondivano la nascita, partecipavano a giochi militari con altre sezioni, svolgendo il ruolo che il reparto avrebbe potuto svolgere durante la guerra. I gruppi benvoluti, quelli coccolati dalle varie autorità, impersonavano reparti dell’esercito sovietico. I gruppi meno fortunati, quelli di quartieri periferici oppure di scuole malfamate, vestivano il ruolo dei nazifascisti. Questa impronta ha giocato un ruolo cruciale nelle scelte politiche e comportamentali di molti individui che ne facevano parte.

Il capo fondatore delle Teste d’Acciaio di Bender si chiamava Adik, e per essere un nazifascista aveva una storia controversa – per non dire imbarazzante. Proveniva da un’umile famiglia ebraica di periferia. Suo padre ai tempi dell’Unione Sovietica era ingegnere in una fabbrica militare, la madre era insegnante in una scuola per bambini ipodotati. Quando alla fine degli anni Settanta l’Urss ha dato la possibilità agli ebrei di lasciare il Paese per ricongiungersi con i parenti in varie parti del mondo (oppure di tornare alla storica patria in Israele), il padre di Adik è partito con entusiasmo verso la Terra di Latte e Miele per costruirvi una base e portarvi poi la moglie e il figlio di pochi anni.

Una volta arrivato nella terra promessa, l’uomo però si era accorto che i valori sui quali aveva costruito la sua vita in Unione Sovietica non erano applicati nel mondo occidentale. Per questo motivo aveva subito sfruttato la situazione sposando una donna locale, molto piú ricca e piú vecchia di lui, abbandonando la moglie sovietica e il figlio alla vorticosa corrente del destino. Con il passare degli anni il padre di Adik ha portato in Israele tutti i parenti, persino i cugini dei cognati, ma non ha mai degnato nemmeno di una spiegazione la prima moglie e neanche la carne della sua carne. Il bambino ha elaborato quel rifiuto come una grottesca colpa universale che doveva ricadere su tutta la razza ebraica.

A dodici anni Adik frequentava già la scuola di lotta e la sezione di pugilato, era a capo del circolo di ricostruzione storica della povera scuola di periferia che frequentava, e come i suoi compagni indossava l’uniforme dell’esercito nazista. Rifiutava il suo nome completo per non mostrare agli altri di avere origini ebraiche e si faceva chiamare solo con le prime due lettere, Ad, che in russo significa «Inferno». Nel suo armadietto della palestra un giorno uno dei bidelli aveva trovato la scritta «Al rogo gli ebrei», accompagnata da una gigantesca svastica. Per questo incidente diplomatico il direttore della scuola, anche lui ebreo, lo aveva convocato in ufficio, chiedendogli spiegazioni. Al che il giovane ribelle aveva risposto che anche il direttore meritava di finire tra le fiamme in quanto era soltanto uno sporco ebreo. Adik era stato subito buttato fuori dalla scuola di lotta, ma questo non gli aveva impedito di risultare fra i piú abili nelle risse.

All’età di quindici anni Ad era a capo del gruppo che controllava una buona parte del quartiere nel quale risiedeva. Agivano come militari esperti: organizzavano rappresaglie contro tossicodipendenti, spacciatori e chiunque tentasse di entrare nel loro territorio. Quando picchiavano qualcuno lo facevano in modo sincronizzato, come un unico organismo. Si avvicinavano da direzioni diverse, trasformandosi in pochi secondi in una massa compatta: circondavano i loro obiettivi, li separavano l’uno dall’altro, poi una parte della banda scaricava botte con velocità e forza bestiali mentre gli altri coprivano le spalle. A quel punto si scioglievano di nuovo, ognuno prendeva una direzione diversa cosí che non fosse possibile seguirli.

Giravano vestiti con giacche militari oppure con giubbotti neri, portavano addosso tubi d’acciaio trasformati in manganelli, coltelli, tirapugni e qualche pistola dei tempi della Seconda guerra mondiale. Se serviva potevano esibire anche delle mitragliatrici MG42, ne avevano qualche esemplare funzionante con il quale scaricavano in aria lunghe mitragliate a Capodanno, usando la scusa della festa per dimostrare a tutti in modo giocoso di «avere le zanne».

L’unica volta in cui il loro quartiere è stato esposto al pericolo di un’annessione ai territori controllati dai trafficanti è stato quando uno dei capi di una ricca famiglia di zingari ha deciso di sfruttare le zone periferiche non ancora occupate da un suo parente per piazzare i suoi spacciatori.

Era arrivato nel quartiere di Ad con un gruppo di collaboratori armati di Kalašnikov, convinto di riuscire a intimorire i fascisti. Per tutta risposta quelli hanno fatto scendere in strada un cannone da campo leggero 45 mm M-42, che i soldati sovietici usavano in guerra contro i carri armati tedeschi. In pochi secondi quei ragazzi con le teste rasate hanno ridotto la delegazione dei trafficanti a un cumulo di macerie fumanti.

Avevo conosciuto Ad in occasione di alcune visite d’affari organizzate fra i nostri capi e le Teste d’Acciaio. Di solito ci incontravamo con loro in luoghi neutrali, per scambiare armi e munizioni. Avevano molti reperti storici che nel nostro quartiere erano apprezzati dai ragazzi: ognuno di noi sognava di avere nella propria collezione la mitica Luger P08 o, come la chiamava la gente, la «Parabellum». Era considerata l’eccellenza dell’ingegneria bellica tedesca, ai tempi della Seconda guerra mondiale era prodotta dalla Mauser e da alcune altre fabbriche che erano sotto il controllo dei nazisti. A Bender ne giravano diversi esemplari provenienti dai campi di battaglia e dai magazzini di residuati bellici. Al mercato nero una pistola del genere in buone condizioni poteva valere quanto dieci pistole moderne. Ma i piú rari e piú costosi erano i modelli risalenti ai tempi della Prima guerra mondiale, che di solito riportavano impresso sul meccanismo di chiusura il numero che indicava l’anno di produzione e il simbolo della corona imperiale austroungarica. Possedere un pezzo del genere era il massimo per qualsiasi amante delle armi.

Le teste rasate ci offrivano non solo quei rari modelli ma anche le munizioni, perché come tutte le armi della Seconda guerra mondiale fabbricate in Germania necessitavano di cartucce che in Unione Sovietica erano introvabili. Loro invece reperivano tutto sui campi di battaglia e soprattutto nei magazzini improvvisati che i tedeschi avevano lasciato in abbondanza nei nostri boschi durante la ritirata, quando ancora speravano di poter contrattaccare e riutilizzare questi strumenti di morte durante una nuova avanzata. Forse i nazisti di allora non erano consapevoli di stare affidando dei veri e propri tesori ai giovani russi delle generazioni future, molti dei quali alla fine del ventesimo secolo, nonostante la pesante eredità della Seconda guerra mondiale, avrebbero abbracciato anche le loro piú estreme idee politiche.

Dal canto nostro offrivamo come merce di scambio le armi moderne che la banda di Ad non avrebbe potuto reperire facilmente, visto che in quel periodo i militari si fidavano di fare affari solo con le comunità criminali consolidate (quelle che non avrebbero rivelato alla polizia l’identità dei commercianti, ma soprattutto che garantivano pagamento sicuro, senza che i venditori rischiassero di essere uccisi con la loro stessa merce). Le bande che controllavano un territorio dovevano avere armi moderne, in particolar modo Kalašnikov, che erano piú potenti e meno ingombranti dei modelli risalenti alla Seconda guerra mondiale.

Noi di Fiume Basso avevamo una delle piú grandi riserve di armi della città per una serie di motivi. Intanto, il nostro quartiere era sempre stato impenetrabile per le forze dell’ordine, e anche quando la polizia effettuava perquisizioni in realtà prendeva accordi con i locali su quello che poteva trovare e sequestrare e cosa invece doveva lasciare nel quartiere. Visto che una delle specializzazioni dei criminali locali era proprio il traffico d’armi, si trattava di enormi quantità di materiale bellico. Poi perché, durante la guerra civile del ’92, noi ragazzi abbiamo raccolto tantissime armi e munizioni sui campi di battaglia e le abbiamo nascoste in vari posti: quando alla fine della guerra il nuovo governo della Transnistria ha imposto a tutti i cittadini di consegnare le armi, la gente ha portato via dalle case ogni cosa che poteva sembrare sospetta, impaurita dalla minaccia di perquisizione congiunta di polizia e militari. Mentre dal nostro quartiere, a parte qualche pezzo di vecchia ferraglia a canna liscia (una presa in giro nei confronti delle autorità piú che un atto di obbedienza), non è uscito quasi niente.

Ad, nonostante l’aspetto da nazista, aveva conservato l’attitudine ebraica per gli affari e sapeva essere gentile, amichevole e soprattutto traeva enormi vantaggi dagli scambi con noi, alzando il valore della sua merce alle stelle con dei trucchi semplici ma molto efficaci.

Ogni Luger che consegnava sembrava nuova, nella sua banda c’erano ottimi restauratori che conoscevano la meccanica ed erano in grado di riprodurre alcune parti cosí bene che persino un esperto avrebbe faticato a intuire che erano state sostituite. Controllava lui personalmente la qualità di ogni pezzo che ci consegnava e ci dava anche una specie di garanzia: se l’arma mostrava qualche difetto durante il funzionamento la sostituiva con un altro esemplare e come compenso per il disguido forniva gratuitamente dieci scatole di cartucce calibro 9 Para, che da sole sul mercato nero costavano quanto una pistola sovietica di marca Makarov. Ogni pistola veniva conservata in un cofanetto in legno di ciliegio, rivestito all’interno di velluto e decorato esternamente con un’incisione a fuoco che riproduceva il simbolo della corona imperiale austroungarica. Se sul mercato nero qualsiasi venditore forniva con una Luger P08 un solo caricatore, Ad ne aggiungeva quattro pieni di cartucce originali piú una scatola da cento cartucce. Però in cambio per ogni Luger chiedeva un Kalašnikov con il calcio pieghevole, sei caricatori in metallo oppure tre in plastica da trentadue colpi calibro 7,62x39 pieni di cartucce, piú una scatola da trecento colpi. Era un prezzo alto ma per noi comunque si trattava di un ottimo affare.

La prima volta che sono stato presente allo scambio siamo arrivati con dei motorini e uno dei nostri capi era a bordo di un vecchio sidecar Ural, che era appartenuto a suo nonno. Abbiamo riempito il carrozzino di scatole colme di munizioni e di caricatori, che erano tanti e pesanti. Invece i Kalašnikov li abbiamo messi negli zaini. Ci siamo incontrati con Ad e i suoi sul confine tra i nostri quartieri, in riva al fiume, vicino a un fitto bosco nascosto in un piccolo avvallamento tra i campi di mais e la palude.

Era estate, e lui era vestito con una maglietta senza maniche per mettere in mostra il fisico. Alcuni tatuaggi che decoravano le sue braccia hanno subito suscitato il mio interesse. Non c’erano svastiche, ma delle rune, guerrieri vichinghi che combattevano contro draghi e altri mostri, oltre a una grossa croce celtica tutta decorata con ornamenti tipici delle culture nordiche e tante fiamme.

Ci siamo salutati tutti come vuole l’usanza: stringendoci la mano e guardandoci negli occhi per qualche secondo. Anche loro avevano un sidecar oltre alle motociclette Java, all’epoca considerate le migliori da tutti i centauri sovietici.

Ad ha fatto un cenno e uno dei suoi ha tirato fuori dal carrozzino una valigia di pelle, l’ha portata davanti a noi, l’ha aperta e abbiamo visto cinque delle solite scatole di ciliegio con le Luger all’interno. Noi abbiamo tirato fuori e sottoposto all’esame dei nostri «partner commerciali» i Kalašnikov con i caricatori e le scatole con le cartucce. Insieme abbiamo ispezionato con calma ogni particolare delle armi che stavamo per portare a casa, scarrellando e controllandone le funzionalità; l’unica cosa che in quell’occasione era proibito fare era sparare o caricare un colpo nella camera di scoppio.

Dopo lo scambio abbiamo caricato le armi sui nostri mezzi e ci siamo fermati per qualche minuto a chiacchierare, giusto per educazione. Io ero attratto dai tatuaggi di alcuni dei ragazzi di Ad, loro avevano un tatuatore che già all’epoca usava la macchinetta, mentre io ero ancora fermo alle bacchette. Possedeva una solida base artistica perché aveva frequentato la scuola d’arte, e gli riuscivano molto bene le figure umane, vari mostri, armi ecc. Faceva tante sfumature che rendevano i soggetti tridimensionali; i suoi tatuaggi avevano un che di innovativo, mai visto prima. Erano feroci, e quello sulla loro pelle era il marchio ribelle di qualcosa di inedito che fino a quel momento era stato per me impossibile da immaginare. Mi sentivo come un cavernicolo che dopo aver scarabocchiato i suoi disegni primitivi su una parete rocciosa improvvisamente finisce di fronte alle opere dei grandi artisti del Rinascimento. Ero folgorato e spiazzato, incuriosito e disperato allo stesso tempo.

Ad, notato il mio interesse per le opere del suo tatuatore, mi ha detto: «Ti piace come lavora nostro fratello?»

Per non essere scortese ho annuito. «Sí, sono tatuaggi unici».

«Se vuoi tatuarti da noi, puoi venire quando vuoi nel nostro quartiere, hai il mio permesso». Mi ha sorriso con aria complice.

L’ho ringraziato per la gentilezza, senza specificare che per rispettare la tradizione non avrei mai potuto portare addosso neanche uno di quei tatuaggi. Quella fu l’unica volta in cui parlai con quel personaggio.

I nostri capi, a parte lo scambio delle armi, avevano siglato con la banda di Ad una specie di alleanza bellica. Le Teste d’Acciaio, cosí come noi, erano contrari alla droga: le nostre bande si erano messe d’accordo di aiutarsi nel caso in cui uno dei due quartieri fosse stato minacciato dai trafficanti. Però, nonostante quell’accordo, non abbiamo mai avuto alcuna vera collaborazione, se capitava qualcosa ogni gruppo cercava di risolvere i propri problemi da solo, soprattutto perché nell’ambiente della strada il comportamento contrario avrebbe ingenerato un sospetto di debolezza.

Kalaš, che nel frattempo si era arricchito con le rapine agli autobus e si era guadagnato l’odio dei vecchi criminali, per non finire male e per assicurarsi la loro protezione doveva a tutti i costi guadagnare la fiducia di Ad e dei suoi ragazzi. Cosí, all’improvviso, con grande sorpresa di tutta la città e soprattutto sua, ha scoperto di avere idee affini al fascismo. Dopo aver frequentato per qualche mese il gruppo, ha ottenuto da Ad il permesso di trasferirsi nel loro quartiere ed è entrato a far parte della loro organizzazione. Però quel sodalizio non era destinato a durare a lungo.

Essendo un egocentrico incapace di attenersi alle regole, Kalaš ha commesso una serie di errori di comportamento abbastanza gravi nella banda dei fascisti. Si diceva che avesse provato a mettersi d’accordo con alcuni poliziotti per portare la droga nel loro quartiere. E quando la questione è passata dalle semplici voci ai fatti concreti, è fuggito dal quartiere di Ad derubando la banda di una somma cospicua e portandosi via anche dieci Luger P08 pronte per essere vendute ai collezionisti.

A Fiume Basso si sono presentati alcuni fascisti di Ad per dire che la taglia per la cattura di Kalaš era stata fissata a venti Luger originali. Era una cosa sbalorditiva: stavamo già progettando una spedizione di caccia all’uomo, quando è arrivata la notizia che la stessa sera il vecchio Igor´ era stato ucciso da uno dei suoi amici.

Il terzo giorno dopo la morte, come d’uso, sono stati organizzati i funerali. Tutti noi ci siamo presentati per dargli l’ultimo addio. Anche se da molti non era considerato una figura perbene, di fronte a Dio siamo tutti peccatori – come spesso dicevano i nostri vecchi. Igor´ «Kalaš» era nella bara, la faccia coperta da un fazzoletto, come si fa quando le ferite deturpano il viso. Del cadavere si vedevano soltanto le mani, ornate da due grandi anelli d’oro, e sul petto era stata appoggiata una massiccia catena con una croce d’oro di dimensioni impressionanti.

La bara è stata portata al cimitero, il coperchio chiuso e inchiodato davanti alla tomba appena scavata e infine, accompagnato dalla melodia stonata di un trio di vecchi musicisti alcolizzati, con l’ausilio di due corde smangiate il feretro è stato lentamente calato nella terra fresca e grassa.

Tornando a casa tutti noi riflettevamo sulla breve vita di Kalaš, sui suoi sbagli e su quella fine ingloriosa che l’aveva spento per sempre. A nessuno di noi importava minimamente il suo dramma, quello che ci dispiaceva era il fatto di aver perso l’occasione di ottenere le dieci Luger.

«Brutto bastardo, con tutte le schifezze che ha fatto, doveva farsi ammazzare proprio ora, – ha commentato Mel quella sera prima di salutarmi. – Proprio adesso che, per la prima volta nella vita, poteva rendersi utile a qualcun altro».

Kalaš sarebbe stato uno dei tanti personaggi negativi vissuti nella nostra città e dimenticati da tutti dopo la morte, se la notte dopo i suoi funerali un gruppetto di ragazzi non avesse deciso di profanare la sua tomba per derubare la salma dei gioielli.

Capitava spesso durante il periodo di totale povertà che aveva contrassegnato il crollo dell’Urss che alcune persone, anche molto giovani, disseppellissero i morti benestanti per depredarli dell’oro con il quale erano stati sepolti. Le tombe dei criminali, che avevano il culto dei funerali lussuosi e quindi preparavano per la propria sepoltura gioielli per apparire ricchi durante il loro ultimo momento di gloria, erano spesso oggetto di interesse per quei macabri ladri.

Nel caso di Kalaš, però, la situazione ha preso una piega inaspettata. I tombaroli non solo non avevano trovato nella bara l’oro ostentato durante il funerale, ma avevano scoperto che al posto del corpo era stato sepolto un manichino. Per protestare contro una simile ingiustizia, arrabbiati per aver scavato invano tutta la notte, hanno tolto il manichino dalla bara, l’hanno piantato di testa nella tomba, e gli hanno appeso al collo un cartello con scritto: «Non sono fesso come voialtri, per questo il terzo giorno sono risorto, prendendo esempio da nostro Signore Gesú Cristo». Non serve una ricca immaginazione per capire cosa sia successo in città dopo questo episodio. Tutti quanti si sono sentiti presi in giro e hanno cominciato a cercare compulsivamente il corpo di Kalaš.

Ho appreso questa notizia il mattino seguente dal mio amico Mel che era entrato di corsa nella mia stanza.

«Alzati, Kolima! Le dieci Luger ci aspettano!» mi aveva svegliato strillando in tono allegro.

Mi sono immediatamente scosso dall’abbraccio di Morfeo, seguendo d’istinto la magica combinazione del numero e del nome delle pistole piú desiderate al mondo. «Cosa è successo?»

Mel, con un sorriso largo come la carta geografica della nostra sconfinata madrepatria, mi ha allungato con cura le scarpe da ginnastica e ha buttato sul letto i vestiti piegati sullo schienale della sedia. «Vestiti, ti racconto tutto per strada, è la fortuna che ci sorride!»

Senza esitare mi sono infilato nei vestiti piú veloce di quanto avrebbe fatto un fantasma capace di passare attraverso le pareti. Soltanto qualche minuto dopo camminavamo con energia in direzione del centro città.

Mel era irriconoscibile, un’espressione di totale godimento gli dipingeva la faccia al posto della solita cicatrice, come se fosse stato illuminato da una grande ed epocale scoperta che avrebbe cambiato per sempre l’ordine delle cose nella nostra civiltà. Forse Cristoforo Colombo aveva guardato con lo stesso ardore e appassionata curiosità la striscia di terra che era apparsa davanti alla sua nave dopo il lungo e difficile viaggio attraverso le acque dell’oceano. Però, a differenza del grande genio di Colombo, il mio amico si distingueva per altre caratteristiche. Conoscendolo meglio di quanto conoscessi me stesso, avevo tutti i motivi per essere preoccupato.

«Mel, mi puoi spiegare dove stiamo correndo?»

Lui mi ha appena degnato d’attenzione: «Hai qualche spicciolo?»

Ho infilato le mani nelle tasche dei pantaloni, anche se sapevo che erano vuote: due giorni prima avevo speso gli ultimi soldi per comprare tre ami e un filo per la canna da pesca.

«No, sono al verde. Perché ti servono soldi e dove andiamo, mi vuoi spiegare?»

Mel, con un sorriso sempre piú largo e misterioso, connubio che mi dava sui nervi piú di qualsiasi altra cosa, ha buttato lí con noncuranza: «Fa niente, viaggeremo senza biglietto, chi se ne frega!»

«Dove stiamo andando, cos’hai in mente?» Mi sono inquietato, notando in quel momento che stavamo camminando in direzione della vecchia stazione ferroviaria.

Lui ha sorriso di nuovo e a quel punto sarei stato pronto ad attentare alla sua vita, tanta era la rabbia che mi faceva venire il suo modo di torturarmi con simili sceneggiate. Però, prima che riuscissi a spiccicare qualche parola, lui mi ha dato una pacca sulla spalla cosí forte che per un istante ho perso il respiro.

«Kalaš non è morto, è vivo!» ha urlato, come in estasi.

Ho messo su un’espressione confusa e Mel ha continuato:

«Stanotte qualcuno ha scavato la sua tomba, sperando di portarsi via l’oro, e ha scoperto che la bara conteneva un manichino!»

I miei neuroni si sono mossi non senza difficoltà, e un pensiero mi ha illuminato: «Brutto pezzo di merda! Ha inscenato la sua morte!»

Mel godeva come un bambino dall’animo puro, l’ultima volta che l’avevo visto cosí felice era il giorno in cui aveva assistito al tamponamento di due macchine della polizia: gli agenti avevano cominciato prima a litigare, poi a darsele di santa ragione. Era stato per lui uno spettacolo raro e indimenticabile.

«Esatto! Ma non è tutto!»

Io ho storto il muso cercando di assumere un’espressione sospettosa: «Non dirmi che abbiamo in mano un’informazione che ci porterà a diventare proprietari di dieci Luger!»

Mel stava annegando nell’autocelebrazione: il fatto di dominare la situazione e avere davanti me, ignaro di tutto, lo faceva sentire come Einstein quando per la prima volta aveva scarabocchiato sulla lavagna il suo immortale E = mc2.

«Abbiamo in pugno quello stronzo, Kolima!»

Ho messo su un’aria fredda, apposta per far scatenare Mel ancora di piú, mi divertiva vederlo cosí esaltato: «Posso comprendere la tua felicità, anche se l’idea di stringere in mano degli escrementi non mi sembra molto entusiasmante».

Lui ha ignorato il mio commento, trasportato dall’entusiasmo: «Mia madre lavora insieme alla madre di Kalaš. L’anno scorso ha comprato casa fuori città, con un bel pezzo di terra attorno. Ha piantato un frutteto, dei fiori, e una volta ha invitato mia madre in quel suo paradiso. So dove si trova!»

Ero sorpreso dal fatto che la famiglia di Kalaš avesse una proprietà fuori Bender. A quei tempi avere una casa con un terreno se lo potevano permettere solo le persone con i soldi. Di certo sua madre, che lo aveva cresciuto da sola portando a casa uno stipendio da venditrice di pesce, non poteva disporre neanche della somma sufficiente a pagare il cancello di una casa, figuriamoci tutto il resto. Il momento dell’acquisto coincideva con il periodo nel quale Kalaš aveva assaltato gli autobus: ecco da dov’era arrivata la liquidità.

«Tu pensi che sia talmente idiota da nascondersi in quella casa?» ho domandato a voce alta piú a me stesso che a Mel.

Lui continuava a sorridere beatamente e il suo unico occhio girava nell’orbita come una stella impazzita. Sembrava che stesse fissando un’aureola immaginaria fatta di dieci Luger che si libravano sopra la sua testa come i segni della benedizione divina. «Penso che non ci costi niente andare a dare una controllatina, anche da lontano… Per questo ho preso il binocolo!» Felice come una pasqua ha indicato lo zainetto dietro le spalle.

«Bene, quindi ufficialmente stiamo andando a una caccia all’uomo?» ho domandato con una buona dose di sarcasmo.

«Sí, fratello mio, puoi dirlo forte!» ha risposto Mel tutto contento.

Abbiamo preso il treno che ci ha portati fuori città. Siamo scesi in una piccola stazione un po’ trascurata, con un enorme orologio fermo incastrato nella facciata. Ci siamo attardati un attimo di fronte al cartello con la cartina del villaggio: era molto esteso, anche se la quantità di case non era altissima. Ovunque dominava il verde, attraversato da un grande canale artificiale, largo un quarto del nostro fiume. Una decina di strade s’intersecavano l’una con l’altra componendo uno schema a scacchiera con singole villette circondate da enormi giardini.

In epoca sovietica quello era stato il luogo dove l’élite di rappresentanti del Partito comunista, militari di alto livello, direttori delle grande fabbriche, amministratori comunali e rappresentanti della cultura del proletariato socialista si erano radunati per poter esibire in modo spensierato il loro livello di benessere. Cosa che nelle città, in presenza dei cittadini sfruttati e impoveriti dalla dittatura comunista, era pericoloso fare apertamente per il rischio di suscitare la rabbia popolare. Durante il periodo sovietico c’erano speciali battaglioni del Kgb che sorvegliavano quelle oasi paradisiache per evitare che dall’inferno circostante potesse infiltrarsi qualche elemento indesiderato. I villaggi come questo avevano anche un servizio per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti separato da quelli comuni, perché l’immondizia dei comunisti corrotti aveva l’odore del capitalismo, quel demonio con il quale da quasi un secolo i propagandisti del Partito terrorizzavano l’intero Paese. Però dopo il crollo del muro molti di questi villaggi sono stati requisiti, alcuni sono stati trasformati in residenze per i rappresentanti del nuovo potere, altri in cooperative di villeggiatura. Cosí i posti dove prima abitavano i rappresentanti del falso socialismo sono stati popolati dai rappresentanti della finta democrazia, i burocrati statali che derubavano lo Stato e il popolo, i criminali che estorcevano una parte del denaro a quei burocrati corrotti e i banchieri che ripulivano i soldi di tutti.

Dopo aver studiato la pianta del villaggio e trovato il punto che ci interessava, ci siamo incamminati. Sembrava di passeggiare nel giardino di Semiramide: ogni centimetro di terra era ricoperto di erba verde, fresca e tenera, che stillava rugiada ed emanava il profumo che di solito lega le note del bouquet portato dal vento dai campi in fiore.

Le recinzioni non erano alte, quasi solo decorative, in legno intagliato in varie forme, con un’abbondanza di fiori e rampicanti. Dietro si notava una moltitudine di alberi da frutto e cespugli di mirtillo, lampone e uva spina. I giardini erano talmente vasti che nella gran parte dei cortili non si vedevano le case, affogate in nuvole di verde che diffondevano frescura. Ovunque si sentiva scorrere l’acqua, ciascun cortile aveva il proprio impianto di irrigazione che distribuiva il prezioso liquido vitale in abbondanza. Lungo le strade erano piantati gli alberi di gelso nero che facevano ombra; passando sotto le loro maestose chiome si sentiva il monotono ronzio delle api che sorvolavano la zona in grande quantità, attratte dal dolce profumo delle bacche succose.

Su uno degli alberi abbiamo trovato un ragazzo locale, probabilmente nostro coetaneo o piú piccolo di noi di qualche anno. La sua età era difficile da stabilire perché la faccia era deformata dalle multiple punture delle api e tinta di viola, tipico di chi è ghiotto dei frutti di gelso. In circostanze diverse, magari verso sera al calar del sole, un personaggio ridotto in quel modo avrebbe potuto anche spaventare qualche anima particolarmente sensibile. Il ragazzo in questione però era seduto su un ramo in alto, e con estrema concentrazione masticava le bacche che raccoglieva. Aveva la bocca piena, e il succo di color scuro fuoriusciva agli angoli, scendendo lungo il mento come baffetti sottili.

«Ma guarda questo come mangia le more, – ha commentato Mel a voce alta. – Sembra che l’abbiano affamato per un anno senza dargli neanche una briciola di pane».

«Ehi, Tarzan, conosci bene questo posto?» Mi sono rivolto al ragazzo in tono amichevole.

Quello ci ha guardati con interesse, senza però fermare il movimento della mascella; con due mosse agili, come una scimmia che salta tra gli alberi della giungla, è sceso a terra. Si è piazzato davanti a noi in atteggiamento di sfida, con il petto in fuori, le braccia piegate e i pugni chiusi appoggiati ai fianchi.

Ci misurava con un’aria superiore, socchiudendo un occhio. Aveva addosso soltanto le mutande, fino alle quali colava il succo delle bacche masticate. A vederlo cosí non sembrava neanche umano, piuttosto una specie di animaletto di una razza sconosciuta alla scienza. Le sue unghie dei piedi erano lunghe e sporche, i capelli non curati, sulla parte destra del petto c’era un tatuaggio tipico del carcere (un piccolo veliero con due carte da gioco su ambo i lati, due assi neri, picche e fiori).

Ho visto molti ragazzi con quel genere di tatuaggio: era uno dei simboli che usavano per identificarsi i «Senzacustodia», come si chiamavano da noi i vagabondi minorenni – giovani maschi e femmine che fuggivano di casa perché i genitori erano alcolizzati o tossici oppure troppo poveri per poter mantenere i propri figli e dare loro una degna educazione.

Spesso si trattava di orfani scappati dalle strutture gestite dal governo, orfanotrofi oppure carceri minorili. Nel mondo della strada venivano rispettati, perché a differenza di molti di noi, che nonostante le nostre storie personali comunque avevamo una famiglia che ci garantiva il minimo indispensabile per una vita normale, loro invece non avevano scelta: partivano già da piccolissimi da terribili storie di violenza, quando addirittura non erano vittime di abusi sessuali da parte dei genitori. Il destino stesso li faceva diventare criminali per questioni di sopravvivenza, e proprio per questo motivo venivano trattati bene da quella parte di ragazzi di strada che rispettava le vecchie regole criminali.

Nel nostro quartiere qualche volta si fermava una ragazzina vagabonda che all’epoca in cui l’avevo conosciuta non poteva avere piú di dodici anni. Era già una persona con un vissuto da criminale adulto, aveva girato mezzo Paese, era stata tre volte in carcere, aveva partecipato con le bande dei Senzacustodia a una ventina di colpi ai danni di casse di credito nelle zone rurali, poco sorvegliate e per niente difese. Si chiamava Marina ma tutti la chiamavano Matrioska, perché il suo viso ricordava la bambola tradizionale russa. Girava con una pistola semiautomatica sempre carica, e si fermava a dormire nel nostro quartiere cambiando posto ogni notte, passando dalle case di tutti noi e fermandosi nel club nautico dismesso oppure nella nostra casetta nel bosco accanto al fiume. Era socievole, aveva un buon carattere molto forte e a volte anche scontroso, non aveva paura di niente, né peli sulla lingua; diceva in faccia tutto quello che pensava e raccontava un sacco di storie interessanti sulle avventure e i viaggi suoi e degli altri vagabondi. Raccontava che, da quando aveva memoria, sua madre la vendeva ai pedofili per pagarsi l’eroina. All’età di sei anni lei ne aveva accoltellato uno in faccia, con un coltello da cucina. Ma era un poliziotto, sposato con figli, e c’era stato uno scandalo e lei era stata portata via per finire in un orfanotrofio dal quale era subito scappata seguendo un gruppo di bambini Senzacustodia.

Da allora non si fermava piú di tanto in un posto, diceva che sentiva dentro il bisogno di continuare a viaggiare sempre. A volte mia mamma la invitava a passare la notte a casa nostra, le rammendava i vestiti, gliene regalava di nuovi, le offriva da mangiare e – quando la osservava – spesso le venivano le lacrime agli occhi, mi chiedeva come una madre avesse potuto fare del male a una bambina cosí bella e dolce.

I Senzacustodia vivevano seguendo le leggi del mondo criminale. Anche se non avevano una vera e propria struttura gerarchica, si aiutavano a vicenda, erano legati dallo spirito della strada e dell’avventura (non accettavano che altri esercitassero alcun potere su di loro). Passavano la vita a spostarsi per il Paese con mezzi di fortuna, sfruttando la bontà di qualche capotreno che li faceva salire senza biglietto e non accompagnati da un adulto, oppure infilandosi nei camion che trasportavano merce. Si fermavano qualche giorno in ogni città e villaggio, compivano furtarelli nei mercati, elemosinavano, truffavano qualche commerciante poco attento usando vecchi trucchi come quello della banconota tagliata in quattro pezzi, ognuno dei quali veniva appiccicato su un foglio di carta piegato in quattro cosí che rimanesse in evidenza la parte della banconota vera. Con quel foglio si andava a comprare qualcosa scegliendo solo venditori molto indaffarati, con una lunga fila davanti al banco, e che non avessero il tempo di controllare i soldi. Spesso i venditori prendevano la banconota piegata e la mettevano direttamente nel marsupio, che molti preferivano al portafoglio per via dei borseggiatori. In quel modo i bambini, con cinque rubli, potevano comprare merce per venti da quattro commercianti diversi.

Un’altra truffa, che spesso usavamo anche noi di Fiume Basso, consisteva nel vendere al mercato anelli d’ottone spacciandoli per oro. Bisognava essere bravi psicologi e ottimi attori, scegliere la vittima tra i sempliciotti di campagna in cerca di buoni affari. Si doveva calcare la mano raccontando quanto fosse disperata la situazione famigliare, piagnucolare sul padre morto in guerra o finito in carcere innocente oppure malato terminale, singhiozzare sulla madre che non ce la faceva ad andare avanti da sola e per questo aveva affidato al figlio la fede da vendere. I campagnoli avidi di solito cercavano di fregare il bambino, proponendogli di comprare l’anello a metà del valore dell’oro: il piccolo ingenuo vendeva l’oggetto «prezioso», incassando un mucchio di grana per un pezzo d’ottone ricavato da un bullone staccato dai collegamenti dei fili elettrici della ferrovia. Capitavano anche persone di buon cuore che accettavano la truffa sapendo bene di essere truffati, per dare in questo modo un contributo ai bambini senzatetto. Mio padre spesso si fermava con loro, facendo finta di essere fesso, e si faceva fregare volentieri pur di dargli qualche soldo. Poi, se secondo lui la fregatura veniva eseguita bene, dava anche un premio generoso o, in caso contrario, cercava di fornire qualche dritta al truffatore in erba per migliorarne la tecnica.

Come tutti gli altri esponenti del mondo della strada i Senzacustodia usavano i tatuaggi per identificarsi e ricordare le proprie avventure imprimendole sulla pelle. A parte una categoria di simboli che avevano preso in prestito da altre culture dandogli un nuovo significato, c’erano i simboli identificativi di base.

Sulla parte interna del dito medio della mano destra tatuavano una croce, cosí quando si salutavano stringendosi la mano si riconoscevano. Quando nello spazio tra il pollice e l’indice della mano destra uno di loro aveva una o due candele tatuate, stava a indicare che era orfano di uno o di entrambi i genitori. Sulle dita oppure sulle nocche tatuavano il proprio soprannome. Spesso tatuavano la parola «pace» in russo, che è composta da tre lettere dell’alfabeto cirillico, la M, la I e la R. Lette insieme significano «pace», ma la sigla sta per: «Mi cambia soltanto la fucilazione». Questa frase in particolare è molto usata anche nei tatuaggi di Seme nero e di altre caste criminali. Un altro tatuaggio diffuso tra loro era un gatto impiccato penzolante dalla corda, a volte infilzato da un pugnale. Sotto c’era scritto: «Ricorda che alla gente non piacciono i vagabondi».

Il ragazzo appena sceso dall’albero che io e Mel avevamo davanti ci ha studiati per qualche momento, poi con un tono poco diplomatico da Senzacustodia ha detto: «Che volete?»

Ha mosso la mano destra, pulendo la goccia di succo che gli era rimasta sul mento. Ho notato che aveva tatuato qualche scritta che però non si leggeva bene perché la pelle era tutta sporca.

«Se ci aiuti a trovare una persona, ti diamo dieci rubli», ho buttato lí io cercando di dargli l’impressione di avere le tasche piene di soldi. Effetto immediato: gli occhi del nostro nuovo amico si sono accesi come i fari di una locomotiva notturna.

«Dieci rubli! Fammi vedere i soldi!»

«Prima il lavoro, poi i soldi». Ho cercato di essere il piú categorico possibile.

Lui si è grattato la testa, cercava di capire se si trattava di una fregatura. Infine, considerato di non avere di meglio da fare e che in fondo non aveva nulla da perdere ad aiutarci, si è presentato: «Piacere, sono “Goloso”, potete contare su di me». Come se volesse confermare la sua identità con qualcosa di importante – come farebbe chi si annuncia in modo ufficiale supportando le parole con l’esibizione di un documento – ha esposto alla nostra attenzione il tatuaggio sulla mano destra. A quel punto ho notato che c’era scritto «Goloso». Potevamo fidarci, era sincero.

Mel ha sorriso: «Dio mio, è proprio uno di quei casi in cui il soprannome è giustificato al cento per cento!»

Goloso ha fatto finta di non aver sentito il commento, finendo di masticare le bacche con le quali continuava a riempirsi la bocca. «Che devo fare per guadagnare la rossa?» ha chiesto usando il modo gergale in cui veniva chiamata la banconota da dieci rubli.

«Non tantissimo, nessuna fatica, nessun pericolo, – ho cominciato cercando di dare al mio discorso un tono rassicurante. – Un nostro amico abita qui, vogliamo essere certi che sia a casa, per fargli una sorpresa», ho concluso come se si trattasse di uno scherzo divertente.

Mel, per sostenere la mia versione, ha cercato di fare un largo sorriso, però la sua faccia si è trasformata in un orrendo scempio, sembrava uno squalo senza un occhio pronto a sbranare la preda.

Goloso, sempre in mutande, stava osservando la scena con un certo distacco e con totale serenità. Poi ha chiesto, serio: «Volete fare la pelle a qualcuno?»

«Ma no! Che dici? Stiamo solo cercando di fare una sorpresa a un amico!» abbiamo strillato io e Mel in coro.

Il nostro interlocutore sembrava impassibile. «Ehi, non dovete raccontarmi niente, se avete deciso di far fuori qualcuno liberi di farlo, sono sicuro che avrete i vostri buoni motivi. A me interessa soltanto che mi spieghiate cosa devo fare io, poi pagate per il mio lavoro e dopo potete fare quello che volete», ha risposto con un tono da duro.

«Intanto vorrei assicurarti che qui oggi noi non faremo la pelle a nessuno, – ho detto perentorio. – Quello che dobbiamo scoprire è se il nostro amico, al quale vogliamo fare una simpatica sorpresa, è a casa. Non possiamo andare da lui, bussare alla porta e chiedere se c’è, altrimenti ci riconosce e la sorpresa non funziona. Quindi andrai tu a suonare il campanello della villetta che ti indichiamo e chiederai se hanno qualcosa da mangiare, forse cosí oltre ai dieci rubli riuscirai a rimediare anche un buon pasto».

Goloso ci ha guardati con poca fiducia. «Hmmm… Va bene, d’accordo, suonerò il campanello e chiederò da mangiare al vostro amico. Però non raccontatemi piú simili balle, so benissimo quali “sorprese” possono fare due con facce come le vostre. Specialmente uno con la faccia come la sua», ha indicato il povero Mel che per lo stupore ha allargato talmente tanto il suo unico occhio che sembrava dovesse schizzargli dall’orbita.

«Via Sovetskaja numero 8», ho risposto secco.

Goloso ha sorriso: «So dove si trova, è qui dietro, seguitemi!»

Aveva già cominciato a trottare, quando Mel si è mosso e lo ha agguantato per un braccio: «Aspetta, dove corri, imbecille! Ti abbiamo detto chiaro e tondo: vogliamo fargli una sorpresa, quindi non dobbiamo dare nell’occhio, chiaro?»

Goloso è diventato serio, credo che la presa di Mel, una vera morsa, lo avesse fatto ragionare. «Va bene, ho capito, vado piano!» Si è sistemato meglio le mutande e ha cominciato ad avanzare con dei passetti leggeri, come un ladro che si avventura nella notte.

«Senti, clown, – ha sospirato Mel. – Potresti camminare in modo normale, come fanno tutti i cristiani? Adesso sembra che hai appena fottuto la corona a quella baldracca della regina d’Inghilterra!»

Goloso mi ha guardato cercando supporto.

«Il mio amico ha ragione, – ho sentenziato. – Se davvero vuoi i tuoi dieci rubli, comportati da persona seria!»

«Altrimenti faremo una sorpresa anche a te!» ha aggiunto Mel, dando la conferma definitiva ai sospetti che il ragazzo aveva nei nostri confronti.

Goloso, con aria un po’ rattristata, si è incamminato in modo impeccabile, procedendo da manuale della camminata insospettabile. Noi l’abbiamo seguito a distanza di qualche metro. Mel ha strappato una mela dal ramo di un albero che pendeva fuori da uno dei recinti e ha cominciato a mangiarla a morsi, facendo un rumore simile a quello di un branco di lupi che divorano la preda.

«Ecco la casa del vostro amico!» ha detto improvvisamente Goloso indicando un’area circondata da una simpatica staccionata dipinta di verde.

Ci siamo subito tolti dalla strada, per non dare nell’occhio, avvicinandoci al cancello di casa di Kalaš.

«Ora vai al portone, suona il campanello e quando ti aprono di’ che hai fame, – ho ordinato. – Se ti portano qualcosa ringrazi e vai via, cammina senza fermarti finché non arrivi all’angolo e aspettaci là».

Abbiamo attraversato il giardino, nascondendoci dietro a un enorme cespuglio di uva spina. Mel ha finito di mangiucchiare la mela ed è passato alle bacche, belle mature, ricoperte di una buccia sottile, che profumavano dolcemente. Il campanello ha fatto dindon. In mezzo al giardino, a circa un centinaio di metri dal nostro nascondiglio, s’intravedeva una casa circondata da numerosi alberi da frutto. Abbiamo sentito aprirsi la porta, poi abbiamo visto una figura avvicinarsi al portone con circospezione lungo una stradina in acciottolato. Ci siamo concentrati sulla figura che si avvicinava (impossibile non notare un Kalašnikov tra le sue mani), e dopo una decina di metri abbiamo riconosciuto senza ombra di dubbio il nostro finto «defunto».

Quando Kalaš si è avvicinato al portone ha appoggiato il fucile a uno dei pilastri. Ha aperto la porta e in tono brusco ha chiesto: «Che vuoi, moccioso?»

Goloso ha risposto dando mostra di tutto il suo talento teatrale: «Signore, per favore, aiutate un povero orfano vagabondo, che Dio vi benedica per la vostra bontà! Datemi qualcosa da mangiare… Da diversi giorni non mangio niente a parte bacche di gelso e la pancia mi fa malissimo! Per favore, abbiate pietà, che il Signore sia sempre con voi e la vostra famiglia!»

Dopo una tirata del genere persino io ho sentito l’impulso di precipitarmi su quel poveraccio come Madre Teresa sui bambini poveri di Calcutta.

«Aspetta qui, marmocchio, ti porto qualcosa di buono da masticare», ha risposto con sufficienza Kalaš.

Dopo queste parole ha chiuso il portone, ha preso il fucile ed è partito verso casa. È stato dentro qualche minuto, poi è uscito tenendo il fucile sulla schiena e portando tra le mani un secchio di zinco. Io e Mel ci siamo guardati stupiti. Possibile che il piccolo Goloso avesse suscitato nel cuore del bastardissimo Kalaš un sentimento di compassione tale da spingerlo a donargli un secchio pieno di cibo?

Kalaš si è riavvicinato al portone, si è tolto il fucile dalla spalla e lo ha poggiato contro il pilastro. Ha aperto il portone e, con un movimento veloce, ha svuotato il secchio addosso a Goloso. Quello ha cominciato a bestemmiare come nessuno si aspetterebbe da un ragazzino, inventando collegamenti tra espressioni sacre e profane che neanche il piú coraggioso dei letterati avrebbe mai pensato di ripetere. Kalaš rideva con tale perfidia che, se lo avesse sentito, un cinefilo senza dubbio avrebbe pensato di essere di fronte all’incarnazione di un cattivo di qualche supermegacolossal hollywoodiano.

«Piccolo pezzente che non sei altro! Se hai fame puoi mangiare questi rifiuti che ho preparato per i maiali! Puzzano un po’, però a un animale come te non dovrebbe dare fastidio!»

Goloso, umiliato e ricoperto di rifiuti maleodoranti dalla testa ai piedi, si è girato senza pronunciare una parola e ha cominciato ad allontanarsi dal portone di Kalaš.

Però quello non aveva ancora finito. Ha posato il secchio, è uscito e ha cominciato a urlare alla schiena di Goloso che camminava con aria da funerale: «Schifoso pidocchio vagabondo! Quelli come te bisogna sterminarli tutti, altro che darvi da mangiare! Sei una merda senza dignità, passi la tua vita a elemosinare, sei un rifiuto della società, un buono a nulla!»

Mentre Kalaš era impegnato nella sua litania di odio, ho deciso di rischiare, sfruttando il momento. Sono uscito di corsa da dietro il cespuglio, ho agguantato il suo fucile e sono tornato indietro.

Mel era rimasto immobile, spaventato dalla mia improvvisazione. «Ma sei pazzo, Kolima? Che cazzo ti viene in mente ora? Rubi un fucile a Kalaš? Se ci prende, ci fa a pezzi!»

«Allora dobbiamo correre!» ho risposto dando una spinta al mio amico. Ci siamo alzati e abbiamo cominciato a correre come se fossimo inseguiti da tutte le forze infernali dell’Ade.

Superato il cortile di Kalaš abbiamo saltato il recinto, e abbiamo proseguito lungo il cortile dei vicini. Dopo un centinaio di metri siamo usciti in strada, facendo segno a Goloso di raggiungerci.

Il ragazzo ha capito al volo e ha dato una tale accelerata da alzare una scia di polvere. Insieme abbiamo raggiunto l’angolo.

In lontananza si sentiva la voce di Kalaš, piena di rabbia: «Pezzi di merda! Vagabondi bastardi! Riportatemi il mio fucile! Se volete vivere, riportatemelo!»

Noi abbiamo riso, io ho indicato a Goloso di seguirci: «Vieni con noi, andremo nel nostro quartiere, là ti daremo dieci rubli come promesso, qualche vestito e anche un sacco di roba da mangiare!»

Abbiamo ripreso a correre, cercando di allontanarci il piú possibile dalla casa di Kalaš. Dopo qualche minuto siamo arrivati alla stazione. Ho tolto il caricatore dal fucile, ho sfilato qualche canna di bambú da una delle recinzioni e ho realizzato un fascio unico, legandolo con la mia maglietta e quella di Mel, per nascondere il Kalašnikov. Sembravamo tre ragazzi che tornano da pescare. Siamo saliti sul primo treno e siamo tornati in città.

Una volta arrivati a Fiume Basso abbiamo portato Goloso a casa di Mel, dove per prima cosa si è fatto un bagno da re, stando a mollo nella vasca piena di schiuma per piú di un’ora. Uscito dalla vasca Mel gli ha regalato un paio di suoi vecchi pantaloncini e qualche maglietta. Io, come promesso, gli ho portato dieci rubli e per un po’ siamo rimasti a contemplare, stupiti, come quel piccolo essere svuotava letteralmente il frigo, mantenendo alto l’onore del proprio soprannome.

Goloso ci ha raccontato che era originario di Archangel´sk, un posto freddo e poco ospitale nel Nord della Russia. Suo padre era stato un ufficiale della marina militare sovietica, capitano di una nave. Però dopo il crollo del regime socialista aveva perso il lavoro e, come molti militari disperati per l’incapacità di immaginare un futuro diverso da quello dipinto dalla propaganda sovietica, aveva deciso di suicidarsi, ammazzando prima la sua amata famiglia.

Una sera aveva aspettato che la moglie e il figlio andassero a dormire, si era scolato una bottiglia di vodka,era entrato nella camera da letto matrimoniale e con la pistola d’ordinanza aveva scaricato tre colpi nella testa della moglie. Goloso, che all’epoca si chiamava Arkadij, aveva sentito il rumore, si era spaventato ed era fuggito dall’appartamento. Il padre l’aveva inseguito prima sulle scale dello stabile, poi nel cortile del palazzo, sparando all’impazzata e cercando di uccidere il sangue del proprio sangue.

Il rumore aveva svegliato i vicini – anche loro militari – che alla fine avevano abbattuto l’uomo impazzito. Da quel momento, come ci ha confessato Goloso, lui non si è piú fidato dei grandi e ha promesso a se stesso di rimanere per sempre un bambino perché, testuali parole: «Noi bambini siamo tutti a posto, invece i grandi sono dei coglioni patentati».

Si è fermato da noi per circa un mese, l’abbiamo portato a pesca di notte, gli abbiamo insegnato a buttare la rete, a governare la barca, a manovrare nel fiume. Poi ha raccolto qualche sacco di roba che gli hanno regalato i ragazzi del quartiere ed è partito verso il Mar Nero con una barca che abbiamo rubato insieme. Non abbiamo piú saputo niente di lui.

Invece Kalaš, grazie alla nostra soffiata ai nazisti, è stato presto raggiunto da loro ed è morto massacrato di botte nel boschetto vicino al villaggio dove si nascondeva. Quando i locali hanno trovato il suo cadavere, hanno raccontato che aveva una svastica incisa sulla testa come anni dopo avrei visto nei film di Quentin Tarantino: una specie di firma lasciata dalle Teste d’Acciaio.

Inconsapevolmente fedele piú alla sua indole ebraica che all’ideologia fascista, Ad non ci ha ripagato con il premio promesso. Al posto delle dieci Luger ne abbiamo avuto soltanto una a testa, con la giustificazione che non avevamo consegnato fisicamente Kalaš, ma semplicemente indicato dove si stesse nascondendo. Ovviamente non abbiamo discusso e abbiamo ringraziato, anche se il destino di quella ricompensa non è stato felice: Mel ha perso la sua pistola durante un giro in barca, gli è caduta in acqua dalla tasca della giacca. Io invece sono stato fermato con la mia Luger nuova di zecca quando ho accompagnato un gruppo di amici a Tiraspol´, la capitale della Transnistria, dove dovevamo discutere con alcuni dei nostri avversari. Quelli, per paura, hanno avvisato la polizia e quando siamo arrivati sul luogo d’incontro ci aspettava già una squadra operativa.

Per fortuna la pistola che portavo addosso era costosa e al momento dell’arresto è semplicemente sparita nella tasca di uno dei poliziotti, senza risultare tra gli oggetti sequestrati.

Quella volta ho capito perché spesso i nostri criminali adulti decoravano le proprie armi, rendendole uniche e costose, a volte usando incisioni artistiche e pietre preziose per maggiorarne il valore. A quanto pare è un trucco per solleticare l’avidità dei poliziotti quando un criminale onesto viene arrestato in possesso di armi da fuoco. Volendo appropriarsi dell’arma i poliziotti se la portano via di nascosto, salvando il criminale da parecchi anni di carcere. Per entrambi c’è un lieto fine, una specie d’intesa.

All’epoca di questa gioiosa scoperta ho osato misurarmi non solo con un mostro sacro della letteratura, ma anche con il pensiero filosofico russo, sviluppando a modo mio il ragionamento che Dostoevskij ha concentrato nella sua immortale frase sull’inevitabile salvezza del mondo grazie alla bellezza.

La vicenda della pistola sequestrata, ma soprattutto il ragionamento su come era arrivata tra le mie mani, mi ha costretto a rivedere molti dei valori che credevo stabili, necessari e giusti. Con gli anni, crescendo, ho capito che niente di quello che viene guadagnato sfruttando il dolore di un altro può portare felicità nelle nostre vite. La bellezza, se fiorisce sui cocci delle anime umane, ha un effetto distruttivo su coloro che ne subiscono il fascino. Per portare felicità la bellezza ha bisogno di amore, di passione e di ideali.