Anarchy in the Urss

La banda di ragazzi che si definivano Punk veniva da un quartiere periferico, dove la maggior parte della gente era rimasta, in un certo senso, disperatamente comunista. Era una zona composta da palazzoni di cinque piani chiamati chruščëvki in onore di Chruščëv, che nell’Urss del dopoguerra aveva ideato nuove aree abitative per i lavoratori delle fabbriche che spuntavano ovunque. Quasi tutte quelle fabbriche – come in generale l’economia della patria del socialismo sovietico – erano votate all’industria bellica. A un Paese in cui i prodotti di prima necessità scarseggiavano, garantivano cose come bombe, missili, carri armati e altri strumenti di morte che nessuno era in grado di trasformare in pane e burro per sfamarsi.

I quartieri come quelli erano oggetto di una propaganda comunista capillare, che altrove, in quel momento storico, avrebbe suscitato solo indignazione. Alla prima generazione dei lavoratori che erano andati ad abitare lí il Partito aveva raccontato che i loro figli avrebbero vissuto nel benessere offerto dall’invincibile sistema socialista. Invece gli era toccata una vita dura: avevano lavorato sodo, guadagnato poco, divenendo spettatori muti della prima grande crisi economica che il Partito aveva cercato di nascondere in tutti i modi senza riuscirci. Quella crisi aveva causato una serie di scioperi anche molto violenti.

Il 2 giugno del 1962, nella città di Novočerkassk, le forze del Kgb e dell’esercito avevano usato le armi contro i cittadini inermi che dimostravano insieme ai lavoratori della fabbrica di locomotive elettriche che produceva anche componenti per i nuovi missili. Si erano radunati di fronte al municipio medici, insegnanti, studenti universitari e liceali. Chiedevano che venissero abbassati i prezzi della carne e del latte, e soprattutto che venissero riforniti in modo costante i negozi, nei quali mancavano da anni i generi alimentari di prima necessità. Si sono contate piú di centocinquanta persone, tra vittime e feriti gravi. Nonostante i tentativi di non farla trapelare, la notizia attraversò tutta l’Unione Sovietica.

Quella manifestazione ha marcato la prima simbolica frattura tra classe lavorativa e classe dirigente comunista. Da quel momento la data 2/6/1962 ha preso a significare una cosa sola: l’appartenenza alla categoria dei cittadini sovietici contrari al sistema. Se li tatuavano sulla pelle, quei numeri, li disegnavano sui muri delle città; i teppisti di strada siglavano con quella data qualsiasi azione antisociale, dalla vetrina spaccata di un negozio a una macchina bruciata.

Dopo quel 1962 i lavoratori hanno vissuto sotto una costante pressione della propaganda, che s’intrecciava con un sistema di sorveglianza repressivo. Una condizione non troppo distante dal passato, dal terrore rosso di Lenin e Trockij e dalla sanguinosa epoca di Stalin. Molti veterani della Seconda guerra mondiale che durante il conflitto avevano vissuto nell’Europa occidentale (e ne avevano conosciuto le condizioni di vita e la mentalità, sicuramente piú libere di quelle sovietiche), avevano influenzato le giovani generazioni che negli anni Sessanta avrebbero creato un movimento di resistenza intellettuale al regime sovietico di dissidenti, o come si autodefinivano «sessantini». Queste persone si scagliavano coraggiosamente contro lo Stato tiranno usando come armi arte, musica, poesia e letteratura.

Proprio alla cultura dei «sessantini» si sono ispirati i Punk russi, che dalla metà degli anni Settanta hanno cominciato una fusione tra musica punk e nuove sperimentazioni poetiche e artistiche.

Il movimento Punk era molto presente nella cultura dei giovani sovietici, ma era diviso in due fazioni: nelle grandi città i Punk provenivano dall’area intellettuale, da famiglie colte e benestanti, spesso con genitori vicini al Partito comunista; nelle periferie, invece, i Punk erano figli dei lavoratori e portavano dentro i segni del disagio sociale, culturale ed economico dell’Urss.

Nella nostra città i Punk erano una via di mezzo tra una banda giovanile, un fan club musicale e un partito politico. Erano gli unici a usare come segno distintivo dei capi di abbigliamento modificati appositamente. Verso la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, data la crisi economica, i militari hanno cominciato a rubare tutto ciò che poteva essere venduto, pur di procurarsi qualche soldo. Cosí sono finite per strada molte armi e uniformi militari, che all’epoca si potevano trovare a bassissimo prezzo. I Punk tagliavano le maniche dei giubbotti e disegnavano sulla schiena con la candeggina la A cerchiata, simbolo dell’anarchia. Quel gilet improvvisato era la loro uniforme.

I primi ragazzi Punk che ho conosciuto erano sempre ubriachi o sotto l’effetto di qualche sostanza, come se volessero dimostrare di non avere alcun interesse a vivere da sobri. Parlavano solo di autodistruzione e del fatto che il mondo fa schifo, e trovavano rifugio nell’idea di raggiungere la morte attraverso un percorso di ribellione a ogni regola. I loro genitori avevano imparato a dare sfogo ai propri sentimenti di nascosto, ubriacandosi nelle proprie case e alimentando la violenza domestica.

Questa vita malata da schiavi, che trascinavano la propria esistenza in un’atmosfera di terrore e ipocrisia alimentata dalla burocrazia comunista, ha fatto nascere una nuova generazione di persone che non amavano la vita, non provavano amore per niente ed erano focalizzate solo su pensieri negativi.

Tra i Punk storici di Bender c’era un tale Miša, soprannominato «Bastardo». Era noto per una serie di azioni provocatorie e pericolose, considerate dai suoi compagni atti di eroismo. La sua carriera era cominciata a scuola: durante un alzabandiera – era tra gli alunni ai quali era conferito l’alto onore di fissare la bandiera alla corda che scorreva lungo il palo – ci aveva sputato e poi pisciato sopra. Era stato punito con un anno e mezzo di carcere, anche se in realtà aveva passato dentro soltanto tre mesi.

In carcere Bastardo aveva subito ogni sorta di vessazioni dai compagni di cella, che lo massacravano di botte tutti i giorni. Quando è uscito, i suoi reni e i suoi polmoni erano davvero malmessi. Si era unito ai Punk del suo quartiere e aveva cominciato a girare per la città con una chitarra, suonando canzoni politiche proibite nei luoghi pubblici.

Un giorno si era buttato dal tetto di una casa di cinque piani, ma se l’era cavata con qualche graffio perché la caduta era stata ammortizzata da un albero. Si era tagliato le vene piú volte ma senza gravi conseguenze, perché ogni volta era stato soccorso tempestivamente. Aveva aggredito una pattuglia di poliziotti minacciandoli con un fallo di legno che spesso portava con sé come arma, per provocarli. Uno dei poliziotti gli aveva sparato un colpo di pistola nel petto, ma Bastardo era sopravvissuto anche a quello: gli avevano dovuto rimuovere una parte di polmone, già compromesso. Era stato prima in ospedale, poi in carcere. Appena libero, ubriaco, per scommessa era saltato dal punto piú alto del ponte sul fiume, rompendosi una gamba e rischiando di annegare. Ma non era finita. Mentre era in ospedale aveva rubato un’ambulanza e aveva avuto un incidente, prendendo in pieno un filobus. Era ritornato in carcere. Una volta uscito, aveva cercato di derubare due agenti di un portavalori minacciandoli con un coltello, e gli agenti l’avevano picchiato e accoltellato tre volte con la sua stessa arma; Bastardo aveva perso un rene e la milza, ma non il coraggio di fare pazzie. Sempre per scommessa si era introdotto all’interno della caserma dei vigili del fuoco e aveva cercato di incendiarla. I pompieri lo avevano catturato e picchiato usando una pala e un estintore. Ci aveva rimesso i denti, la mascella era stata spaccata in quattro punti, il naso ridotto a una polpetta di carne e l’occhio sinistro perso per sempre.

L’ho conosciuto in quelle condizioni quando per la prima volta il nostro quartiere ha affrontato i Punk in una rissa organizzata per stabilire chi dovesse avere il dominio sul ponte del cimitero, una zona che da Fiume Basso conduceva al luogo dove spesso si radunavano.

Era un piccolo isolato molto pacifico e si trovava in una conca naturale che si era formata tra due grandi quartieri. I vecchi dicevano che lí una volta c’era un cimitero turco, ma, quando avevano cacciato gli ottomani, i russi ci avevano costruito sopra le scuderie. Durante il socialismo le avevano trasformate in case per le persone «declassate», cioè per quelli che venivano mandati via da abitazioni belle e ricche e relegati in una catapecchia. In quel posto avevamo diversi nascondigli dove tenevamo le armi, d’accordo con alcuni dei locali: loro badavano alla nostra roba e in cambio noi garantivamo la pace nelle loro strade. Ma da quando i Punk avevano deciso di trasformare quel luogo nel loro punto di ritrovo – perché era comodo per andare a combinare guai in centro città – gli abitanti del quartiere erano disperati.

Il giorno della rissa siamo partiti da Fiume Basso con un gruppo non troppo grande, eravamo circa cinquanta. Una trentina erano staršaki, cioè i grandi, che avevano tra i quattordici e i diciotto anni. Decidevano la strategia, parlavano con gli avversari e combattevano in prima linea, mentre i «giovani» – quelli dai sei ai quattordici anni – dovevano obbedirgli e coprirgli fianchi e schiena durante la rissa in modo che nessuno dei nemici arrivasse alle spalle.

All’epoca avevo appena compiuto otto anni e non avevo mai combattuto: i piú grandi mi avrebbero tenuto sotto controllo per evitare che nella mischia mi prendessi una coltellata. Prima che uscissimo dal nostro quartiere, a tutti è stato raccomandato di non fare del male a Bastardo. «È già stato picchiato abbastanza dalla vita, – ha detto uno dei nostri leader, un ragazzo che si chiamava Paša, detto «Lupo». – Lasciate in pace quel poveraccio».

Quando siamo arrivati al ponte del cimitero, i Punk ci attendevano all’ingresso di un’area per bambini: una piazzola con pochi alberelli e qualche vecchio gioco in metallo arrugginito, piantato a terra nel cemento.

Noi ci siamo fermati dall’altra parte della strada, lungo il muro grigio di un vecchio palazzo fatiscente a due piani. Alcuni dei loro capi, tra i quali anche Bastardo, sono venuti verso di noi, e tre dei nostri sono andati loro incontro. A metà strada si sono fermati, si sono salutati e hanno cominciato a parlare. I nostri mantenevano la calma, mentre uno dei Punk, un ragazzo grande e forte che sembrava già un adulto, era molto agitato. Interrompeva di proposito i nostri ambasciatori, alzava la voce di scatto, faceva smorfie e addirittura qualche gesto minaccioso, come se si stesse preparando a picchiare. I suoi amici hanno cercato di allontanarlo un paio di volte, ma invano: lui tornava piú arrabbiato di prima e continuava a muoversi scomposto, mandando al diavolo anche i suoi amici. Evidentemente l’organizzazione democratica dei Punk non era il sistema piú adatto per gestire la gerarchia in una banda.

A un certo punto uno dei nostri non ha resistito all’ennesima provocazione e con una mossa fulminea ha mollato un pugno in faccia al Punk su di giri, che gli si stava avvicinando con una mano alzata.

Il gigante è caduto a terra privo di sensi, con la mascella rotta, la parte destra dell’osso spostata in alto verso l’interno. L’artefice di quella potentissima botta era un ragazzo di nome Žora detto «La Locomotiva». Faceva parte della nostra banda anche se abitava al confine tra Fiume Basso e il quartiere Caucaso. Il vecchio palazzo dove viveva era da sempre conteso tra i nostri due quartieri, e i ragazzi che lo abitavano erano divisi: alcuni andavano a scuola nel quartiere Caucaso, e quindi erano nella loro banda, altri venivano nella scuola di Fiume Basso ed erano parte della nostra banda.

Il padre di Žora era di origine siberiana – per la precisione era nato nella regione dell’Altaj, nel sud della Siberia –, aveva gareggiato vent’anni per la squadra dell’esercito sovietico come pugile professionista, poi era andato in pensione e all’epoca allenava i ragazzi della scuola di pugilato di Bender. Ai suoi tempi era molto famoso: per la velocità tecnica e per la forza fisica era soprannominato «La tigre di Altaj». Žora, sin dalla piú tenera età, era stato allenato dal padre a diventare un pugile professionista e faceva dei veri miracoli sul ring. Partecipava alle risse senza particolare voglia perché la filosofia che suggeriva agli atleti di incanalare la violenza nella nobile arte del pugilato era in contraddizione con le regole della strada, dove bisogna usare la violenza per prevalere sugli altri durante scontri che sono ben lontani dall’etica sportiva. Aveva una sola debolezza che spesso lo metteva nei casini: perdeva la pazienza troppo in fretta, prendeva fuoco in un attimo anche per motivi apparentemente futili.

Quando il Punk è caduto a terra, tutto il loro gruppo si è riversato contro di noi come un’orda barbarica. I nostri capi, capendo che la rissa era inevitabile, ci hanno ordinato di avanzare. Gli avversari combattevano senza strategia, urlando a squarciagola e usando le armi piú improbabili. Mi ricordo che uno di loro ci si è avvicinato agitando sopra la testa qualche chilo di catena di ferro, come una frusta, e cercava disperatamente di colpirci con quella. Ma la catena era troppo pesante e il ragazzo è finito intrappolato nella sua stessa arma. Uno dei miei vicini gli ha mollato tre coltellate rapidissime appena sopra il ginocchio e lui è caduto a terra, lamentandosi per il dolore.

Attorno a noi c’era l’inferno, tutto si muoveva alla velocità della luce, dalla strada ci siamo spostati verso uno spazio aperto non asfaltato in mezzo ai palazzi. La zuffa ha sollevato una polvere gialla e sottile che ha completamente coperto la scena, come se neppure Dio volesse vedere quello scempio. Non ero ancora abituato alla dinamica della rissa, e mi muovevo, spettatore impotente, cercando di distinguere a fatica le figure impegnate in quella folle e violenta danza. A un certo punto qualcuno mi ha spinto, sono caduto e non ho fatto in tempo a reagire: ho visto un bastone arrivarmi dritto in faccia. Non sono riuscito nemmeno ad alzare la mano, lo stavo prendendo sui denti quando, all’ultimo momento, tra il bastone e la mia faccia si è introdotto il piede di qualcuno che indossava un paio di kedy, quelle scarpe da ginnastica leggere e a buon mercato che portava di solito chi non poteva permettersi qualcosa di piú decente.

«Ehi, fratello, vacci piano! Sei impazzito? – a parlare era una voce rauca, come di una persona che ha appena inghiottito un chilo di chiodi. – Guarda chi stavi per picchiare! Questo è ancora verde, non ha esperienza!»

Ho alzato gli occhi e ho visto la faccia deformata di Bastardo che mi fissava con l’unico occhio buono. Il suo volto non sembrava umano, somigliava piú a una di quelle maschere che usano i nostri sciamani in Siberia per spaventare gli spiriti maligni quando viaggiano tra due mondi. Era storto come i pensieri di un politico e brutto come la vita di chi dei politici si fida ciecamente. Però, nonostante l’apparenza, in quella faccia c’era qualcosa di buono, come se da dietro quell’orrenda massa di cicatrici filtrasse una luce che illuminava lo spazio attorno a lui esercitando un effetto benefico su chiunque gli fosse accanto.

Bastardo mi ha teso la mano e mi ha invitato ad alzarmi. Mi sono aggrappato e lui mi ha tirato su da terra. Poi mi ha indicato una panchina di legno, lontana una decina di metri, per portarmi via dalla rissa.

Ci siamo incamminati.

«Tu chi sei?» mi ha chiesto con tono amichevole.

«Sono Kolima, di Fiume Basso», ho risposto con una frase preparata.

Lui ha sorriso, come se la mia formalità lo avesse divertito: «Bene, “Kolima di Fiume Basso”, io sono Bastardo, il capo di quel branco di sciagurati». Ha fatto un cenno in direzione della rissa. Nel suo atteggiamento c’era una sorta di complicità, non voleva in nessun modo vantarsi davanti a me, si comportava come se ci stessimo prendendo in giro amichevolmente.

Siamo arrivati alla panchina, lui si è accomodato e mi ha indicato il posto vicino, invitandomi a sedere. Ho obbedito, sempre tenendo gli occhi incollati su di lui, temendo qualche sorpresa. Lui ha fatto finta di non accorgersi della mia aria sospettosa, sospirando ha tirato fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette senza filtro, mi ha misurato dalla testa ai piedi e me ne ha offerta una, sventagliandomene sotto il naso una manciata che spuntava dal pacchetto. Ho rifiutato con un movimento della testa netto e categorico.

«Grazie, non fumo», ho detto con una voce che doveva suonare piena di stupore e inquietudine.

Lui ha sorriso, ed estraendo la sua sigaretta ha commentato il mio rifiuto con una battuta: «Vuoi morire sano? Ti capisco, fratello!»

Solo dopo qualche secondo mi sono reso conto che sarebbe stato gentile degnare il suo scherzo di un sorriso, ma quando la mia faccia si è allargata in una smorfia di convenienza, lui non mi guardava già piú. Era tutto concentrato sul fuoco dell’accendino che teneva fra le mani. Ha inspirato profondamente, strizzando il suo unico occhio come se la luce gli stesse improvvisamente dando fastidio. Ha cominciato a fumare avidamente, circondandosi di una densa nuvola bianca, quasi volesse nascondere i sentimenti che l’avevano travolto. Io non riuscivo a smettere di fissarlo. Bastardo guardava la rissa con un misto di nostalgia e azzardo, come se ci si immaginasse immerso, spensierato e abbandonato ai riflessi animaleschi. Con una mano si toccava il punto del piede sul quale aveva preso la bastonata diretta alla mia faccia, e quel gesto sembrava procurargli una sorta di piacere, quasi che il dolore fisico lo stimolasse.

«Ti piace fare le risse?» ho chiesto facendo attenzione a mantenere un tono rispettoso e cercando di non sembrare offensivo.

Lui si è girato verso di me stupito, scavandomi dentro con lo sguardo fino a toccare la mia coscienza. Ho pensato che dovevo spiegarmi meglio, per non essere frainteso, quindi ho subito aggiunto: «A vederti sembra che tu voglia buttartici in mezzo, perché non lo fai?»

In tutta risposta Bastardo ha tirato fuori la lingua e ha spento la sigaretta accesa contro la carne viva. Ha gettato via il mozzicone, poi mi ha detto con fare triste: «Inutile. Dopo il mio ultimo trauma tutti mi evitano durante le risse. Hanno pietà di me. Capisci? Pi-e-taaa…» ha scandito quella parola con disprezzo; se avesse potuto l’avrebbe trascinata sull’asfalto, per scorticarla, torturandola come un nemico estremamente odioso.

Ho sentito freddo lungo la schiena.

Bastardo intanto continuava con voce profonda, venata da delusione: «La pietà è una schifezza, caro il mio Kolima di Fiume Basso. Per un randagio di strada non c’è niente di peggio. Io sono finito… Anche se li provocassi, nessuno mi affronterà piú».

Era sincero e trasmetteva un’energia cosí forte da far tremare l’aria, mi pareva di non riuscire a reggere sentimenti tanto intensi. «Se gli altri hanno pietà di te è un vantaggio! – ho cercato di risollevargli il morale. – Puoi andare e farli fuori tutti, senza che qualcuno si opponga!»

Lui è scoppiato a ridere e mi ha dato una pacca sulla spalla. Poi mi ha guardato serio e ha detto con un’aria sognante, come se mi stesse svelando il suo desiderio piú irrealizzabile: «Eh-eh, fratello, sei ancora troppo giovane! Quando diventerai piú grande capirai che una rissa non è divertente se dai solo botte e non sei disposto a prenderle. Non si chiamerebbe rissa, ma massacro…»

Quel giorno avevo assistito e, per cosí dire partecipato, alla mia prima rissa. Non era stata poi male come esperienza, visto che il capo della banda rivale mi aveva salvato da una bastonata in faccia. E poi, avevo capito il senso della parola pietà.

L’immagine di Bastardo mi sarebbe rimasta in testa ancora per molti anni a venire. Le sue parole e la sua voglia di combattere a tutti i costi suscitavano nella mia mente lunghi e azzardati ragionamenti filosofici.

Mi capita di pensare a lui ancora oggi, di tanto in tanto. Sicuramente Bastardo è stata una persona diversa da tutte quelle che ho conosciuto nella mia vita; anche se abbiamo passato insieme solo qualche minuto su quella panchina, ho avuto la sensazione di conoscerlo come se fosse mio fratello. Con quelle due-tre frasi sputate fuori fra un tiro e l’altro di sigaretta aveva in pratica rivoltato davanti a me come un calzino la sua anima semplice e addolorata.

La volta dopo in cui vidi Bastardo ci separava – oltre l’appartenenza alle bande dei nostri rispettivi quartieri – la stessa legge universale secondo la quale, per quanto possa sembrare triste e a volte innaturale, ogni elemento in questa vita ha il suo inizio e la sua fine. Era il giorno del suo funerale.

Quando muore un ragazzo di strada, anche se durante la vita si è stati nemici, tutti quelli che lo conoscono devono presentarsi ai funerali per portare rispetto e dare l’ultimo saluto.

Bastardo era dentro la bara, esposta su due sgabelli in mezzo al cortile di casa sua. Era un luogo circondato da vecchi palazzi scoloriti, che mostravano al mondo la propria pelle grigia di cemento. Il tempo non era bello, il cielo era coperto di nuvole ma non pioveva, l’aria era carica di tensione. Il cadavere aveva i polsi bendati per nascondere le cicatrici. La versione ufficiale era che Bastardo si fosse ucciso tagliandosi le vene nella vasca da bagno; correva voce che negli ultimi tempi fosse sempre piú turbato e instabile.

Tutti i ragazzi stavano attorno a un tavolo sul quale c’erano bottiglioni di vino, bevevano e parlavano a voce bassa. Molti dei Punk erano in silenzio, guardavano con odio alcuni dei loro stessi amici, e io non capivo il senso di quel comportamento. Ogni tanto qualcuno si avvicinava alla bara, deponeva dei fiori, aggiustava qualcosa nel corredo funebre, per dimostrare agli altri la propria attenzione verso il morto.

Improvvisamente uno dei Punk si è buttato contro un altro, che si stava avvicinando alla bara con un mazzo di fiori. Hanno cominciato a darsele di santa ragione davanti a tutti. L’aggressore era un po’ piú forte fisicamente, dopo due colpi secchi è riuscito a buttare per terra il ragazzo con i fiori, gli ha spinto la faccia nel terreno argilloso.

«Stronzo, tu qui non dovevi venire! E neanche loro!» ha urlato con tutte le sue forze, perché le sue parole potessero essere udite dai presenti.

Il ragazzo a terra cercava di liberarsi dalla presa dell’aggressore, muoveva inutilmente una gamba, alzando in aria un turbine di polvere gialla. «Lasciami, non capisci un cazzo, miserabile coglione!» piagnucolava.

L’aggressore rispondeva mescolando parole e lacrime, il viso stravolto da un odio folle: «Pezzo di merda, l’avete ucciso voi, vigliacchi!»

A quelle parole i Punk hanno cominciato a picchiarsi, e in un battito di ciglia il cortile si è trasformato in un campo di battaglia. Qualcuno è stato spinto contro il feretro e l’ha fatto cadere a terra. La stoffa rossa che ricopriva la bara si è strappata, scoprendo il legno grezzo e scuro sul quale spiccavano numeri e lettere dipinti in bianco. Era chiaro che era stata fatta con i residui del cassone di una camionetta da trasporto, che in Unione Sovietica spesso venivano dipinti di verde con la targa disegnata direttamente sulla parte posteriore.

Gli sgabelli su cui stava la bara sono stati raccolti da qualcuno e usati come armi.

La scena era surreale. Mentre i Punk si massacravano senza pietà, con un odio di proporzioni bibliche, il cadavere di Bastardo era a terra, steso a faccia in giú. Aveva il braccio destro allungato verso di noi, come se stesse chiedendo aiuto. Io ero rimasto in disparte, con alcuni dei miei amici, e non credevo ai miei occhi. Uno dei grandi ha detto che era meglio andarcene e che i Punk dovevano risolversi i loro problemi da soli.

Prima di voltarmi e lasciare che si scannassero fra di loro, ho lanciato un’ultima occhiata a Bastardo. È stato allora che ho notato all’interno dell’avambraccio un tatuaggio che non avevo mai visto prima. Mi sono avvicinato a quattro zampe, schivando la furia violenta dei Punk, per evitare di essere trascinato nella mischia. Quando sono stato abbastanza vicino al cadavere, mi sono soffermato sul suo braccio, cercando di memorizzare bene il disegno. Rappresentava un teschio sorridente, che stringeva fra i denti una sigaretta. In mezzo alla fronte era piantato un grande chiodo, e sotto c’era scritto «Nato per soffrire».

La città ha parlato della rissa che si era scatenata ai funerali di Bastardo per parecchi mesi. Dai ragazzi piú grandi del nostro quartiere, che erano sempre al corrente di tutto ciò che avveniva nell’ambiente criminale, ho saputo che l’origine di quella rissa era stata la spaccatura avvenuta nel gruppo dei Punk. La stessa spaccatura che aveva portato alla morte di Bastardo.

Era stato ucciso a tradimento da alcuni dei suoi fratelli: l’avevano soffocato con un cuscino, e solo diverse ore dopo la morte avevano deciso di simulare il suicidio, infilandolo nella vasca con i polsi tagliati. Era questa l’ipotesi del medico che per primo aveva sospettato non si fosse trattato di suicidio. Secondo le sue osservazioni le ferite erano state provocate al cadavere quando il sangue era già in fase di coagulazione, ma soprattutto nei polmoni non era stata rinvenuta neanche una goccia d’acqua. Il medico aveva stilato un rapporto e l’aveva presentato alla Procura, e dopo tre giorni era stato ucciso con otto coltellate mentre rientrava a casa dal lavoro. Si diceva che dietro a queste morti ci fossero i narcotrafficanti che avevano stretto un accordo per lo spaccio con alcuni dei Punk. Bastardo era stato ucciso perché era contrario all’eroina, anche se accettava di coltivare e consumare marijuana, di cui faceva uso frequente.

Quell’episodio ha dato il via a un breve periodo di «pulizia» tra le file dei Punk: Bender è stata segnata da una serie di efferati omicidi, le cui vittime erano tutti quelli rimasti fedeli alle idee di Bastardo.

Finché hanno preso il potere i narcotrafficanti. Da quel momento i gilet con la A cerchiata sono diventati sinonimo di droga, e in città quel simbolo ha cominciato a comparire nei luoghi in cui i Punk spacciavano d’accordo con la polizia, che proteggeva e gestiva il traffico, e con altri gruppi di spacciatori.

I Punk non hanno però smesso di seguire la tradizione di marchiare la pelle con i simboli a loro cari. Tatuavano appositamente le immagini piú brutte e stridenti possibile, senza badare all’armonia dei disegni e fregandosene totalmente delle proporzioni. I loro tatuaggi non avevano un minimo di sfumature, né alcun tipo di riempimento; sembravano i disegni osceni che si facevano sulle recinzioni che circondavano gli enormi complessi industriali sovietici.

I Punk amavano mischiare immagini serie con altre ridicole, amalgamando la simbologia criminale con i personaggi dei cartoni animati sovietici. Amatissimo da tutti i bambini cresciuti in Urss, Čeburaška era una specie di Topolino comunista, ricoperto da una pelliccia da orso e sostenuto da un innato senso di giustizia sociale. Nei tatuaggi dei Punk veniva raffigurato spesso con l’aria sballata, un occhio chiuso e l’altro aperto, una sigaretta in bocca e una siringa stretta in pugno. Era armato di coltello e aveva sempre con sé una bottiglia di vodka.

L’infanzia è qualcosa di orribile, sembravano voler suggerire quei tatuaggi. E, quando se ne va, lascia il posto a qualcosa di ancora piú orribile.