Il battesimo
Nel 1986 avevo sei anni, e la mia vita fino a quel momento era stata segnata da tre importanti avvenimenti.
Uno: mio zio Sergej era stato ucciso in carcere dalle guardie, e io avevo accompagnato mio nonno a recuperare il cadavere. Era il mio primo impatto con la morte. Quel viaggio, la vicinanza a mio nonno in un momento cosí particolare, mi aveva fatto sentire improvvisamente piú grande della mia età.
Due: anche per me era iniziata la scuola, dove avevo conosciuto la mia insegnante. Era una donna meravigliosa, e per diversi anni si è impegnata a farmi entrare in testa qualcosa di buono.
Tre, ed era la cosa per me piú elettrizzante: ero stato accettato nella banda che dettava legge nel nostro territorio in qualità di maloletka, ovvero «piccolo d’età».
Nel frattempo, il mondo andava avanti.
Il 1986 è stato un anno chiave per la storia sovietica. Molti oggi lo definiscono «periodo di spaccatura», soprattutto perché abbondavano gli intrighi e i colpi di scena all’interno del Partito comunista che stava trascinando a picco con sé tutto il Paese. Quell’enorme macchina da corruzione chiamata «cerchia di Brežnev» – ovvero il clan dei burocrati creato qualche decennio prima dall’ormai defunto segretario generale del Pcus – aveva dichiarato guerra aperta agli agenti del Kgb, che cercavano invano di ripulire l’apparato governativo dai dirigenti disonesti. Ogni burocrate corrotto faceva di tutto per sabotare il funzionamento normale dei sistemi che garantivano la vitalità del Paese.
Nelle fabbriche ritardavano il pagamento degli stipendi inventando scuse che non reggevano, dando la colpa al «perfido Occidente che da sempre vuole la morte della nostra madrepatria», al programma missilistico della Nato, alla guerra in Afghanistan e persino alle tensioni in America Latina. I kolchozy, ovvero le fattorie collettive, versavano in uno stato di degrado mai visto prima: la gente rubava qualsiasi cosa ovunque fosse possibile, consapevole di dover provvedere a se stessa senza alcun aiuto da parte delle autorità. La casta comunista corrotta rispondeva con il vecchio metodo di manipolazione delle masse elaborato e applicato anche da Lenin: creare il terrore attraverso la fame. I burocrati trattenevano nei magazzini i prodotti alimentari che avrebbero dovuto rifornire gli scaffali dei negozi, resuscitando i fantasmi delle grandi carestie.
Presto ovunque è stato il caos. Questo sentimento che si percepiva nell’aria, negli sguardi delle persone che si incontravano per strada, nelle risse bestiali che scattavano durante le infinite file davanti ai negozi, era raffigurato in uno dei tatuaggi piú caratteristici di quel periodo: comparivano uno o piú lupi, potevano esserci altri simboli secondari, ma il vero significato era racchiuso nel motto latino Homo homini lupus. Ne ho visti una marea cosí, addosso a criminali e gente di strada, ma anche a qualche poliziotto o militare, oppure a semplici cittadini, che cercavano di rimanere in equilibrio tra la vita legale e quella fuorilegge. Mio zio ne aveva uno simile, un lupo che stringeva tra i denti il braccio di un uomo che colpiva con il coltello il collo dell’animale.
Io imparavo a decifrare il mondo, le cose che accadevano, attraverso i tatuaggi. Ero affascinato dai simboli disegnati sulla pelle, e osservavo con curiosità i tatuaggi dei membri della nostra banda e dei criminali adulti che vivevano nel mio quartiere, che spesso ne erano coperti dalla testa ai piedi. Mi capitava di chiedere ai ragazzi piú grandi: «Cosa significa questo disegno?», ma quasi nessuno rispondeva, cambiavano tutti discorso, per farmi capire che l’argomento era tabú. Inutile dire che quell’aura di mistero che respiravo a casa e per strada faceva solo aumentare la mia voglia di scoprire il significato dei simboli. Per troppa curiosità ho commesso tantissimi errori andando in giro a fare domande sui tatuaggi, di cui invece non bisogna mai parlare.
Ricordo che molti militari, in quel periodo, tornavano dalla guerra in Afghanistan arrabbiati e delusi. Nonostante il divieto di raccontare quello che avevano vissuto durante il servizio di leva, alcuni di loro riuscivano a sfogare la propria frustrazione scrivendo poesie, canzoni e filastrocche. Ogni notte le storie uscivano dalle cucine affollate e fumose, dove i giovani discutevano, bevevano, suonavano la chitarra e cantavano scoraggiati, quasi sussurrando, le prime note di un profondo dissenso. Questa nuova dissidenza si stava diffondendo tra le persone come una verità negata per molti anni e ormai nuda di fronte a tutti. Persino io che ero piccolo avvertivo questo sentimento.
I veterani della guerra in Afghanistan erano spesso tatuati. Cosí come durante gli anni del regime stalinista i detenuti politici rinchiusi nei GULag avevano espresso la rabbia nei confronti del governo attraverso tatuaggi di carattere politico, allo stesso modo i tatuaggi dei militari sovietici tornati dall’Afghanistan raccontavano il loro dissenso nei confronti della politica del Partito comunista e manifestavano i primi accenni di nazionalismo.
Dunque comparivano molti teschi con berretti militari o scheletri vestiti da soldato, accompagnati da armi da fuoco e da frasi come «L’inferno non mi spaventa, perché ci sono già stato», oppure «La guerra la fanno i poveri e i patrioti, mentre i furbi e i corrotti si arricchiscono sul loro sangue». Tanti tatuaggi rappresentavano i simboli dei reparti nei quali avevano prestato servizio i soldati, spesso corredati dalla scritta «Afghanistan» e dalle date del periodo trascorso in guerra.
C’era, però, un simbolo particolare che ricorreva fra i veterani che avevano partecipato alle operazioni speciali in notturna sul territorio nemico. Erano professionisti della guerra, si distinguevano per la loro decisione e crudeltà nei confronti del nemico; spesso per annientare i terroristi usavano i coltelli, per non fare rumore e per incutere timore nei fondamentalisti islamici. Il loro simbolo era un pipistrello con le ali aperte, talvolta abbinato a un teschio o a un coltello, oppure a due coltelli incrociati. A volte sotto il pipistrello erano tatuate anche delle gocce di sangue che dicevano a quante operazioni di sterminio aveva partecipato il soldato. Se erano presenti cifre o numeri, indicavano il reparto, la durata e le date del servizio militare.
Alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta le persone con questi tatuaggi erano molto ricercate sul «mercato» dei mercenari, venivano assoldate dalle organizzazioni criminali. Alcune di loro, invece, si arruolavano nella polizia o nelle strutture di spionaggio militare o civile. Cosí nel nuovo mondo post-sovietico i fratelli d’armi a volte si sono trovati sui due lati opposti della barricata, scatenando l’inferno nella società civile.
C’era un mio vicino di casa, Valerij, aveva trent’anni ed era rimasto ferito durante l’esplosione di una bomba a mano tanto da perdere quasi del tutto l’udito. Faceva il killer per una delle bande piú importanti della città; quando la banda era stata sgominata e la polizia era arrivata a casa sua per arrestarlo, uno dei poliziotti che dirigeva l’operazione aveva notato il suo tatuaggio – un pipistrello trapassato da un coltello, che lasciava colare tante gocce di sangue – e gliene aveva mostrato uno simile. I due si erano abbracciati e avevano iniziato a bere vodka e a ricordare le avventure vissute in Afghanistan, con la squadra operativa ad attenderli fuori casa.
Il capo della squadra operativa aveva lasciato che facessero con calma, per evitare che l’incontro prendesse una piega inaspettata e violenta. L’autista era dovuto andare tre volte al supermercato per rifornire di vodka gli ex militari. Alla fine il killer e il poliziotto, suo fratello d’armi, erano usciti insieme dalla casa ubriachi e non c’era stato alcun bisogno di usare le armi o la violenza per effettuare l’arresto: Valerij si era lasciato portare in carcere senza opporre resistenza, con il sorriso sulle labbra.
Come stavo dicendo, a sei anni ero entrato nella banda che dominava il mio quartiere, Fiume Basso. Per diventare un maloletka a tutti gli effetti, però, dovevo essere battezzato. Da noi questo rituale si faceva al fiume, e si chiamava «segno della croce». Il capo della nostra banda – che era composta da un centinaio di ragazzini – era un giovane criminale soprannominato «Corvo». Aveva un grande carisma e tutti noi ragazzi lo rispettavamo. Era quasi maggiorenne, era stato due volte in carcere, conosceva perfettamente le regole e i rituali criminali e rispondeva ai fuorilegge anziani per quello che succedeva nel mondo dei minorenni: era il nostro ponte con il mondo degli adulti. Sebbene non avessimo una vera e propria struttura gerarchica – e in questo ci differenziavamo dalle altre bande criminali –, anche noi avevamo dei modelli da seguire, e Corvo era il piú importante.
Il battesimo funzionava cosí: il prescelto doveva stare di spalle, mentre il capobanda sparava quattro colpi di pistola tutt’intorno a lui, facendo una specie di segno della croce ortodosso. A noi ragazzini sembrava pericolosissimo, eravamo troppo piccoli per conoscere le armi da fuoco, temevano che un proiettile potesse colpirci.
Ma Corvo usava un’arma che controllava bene, con cui era certo di non sbagliare mira. Una pistola a tamburo, una Nagant belga, quella che ai tempi della rivoluzione bolscevica era diventata l’arma del popolo. Sparava una cartuccia leggera, calibro 7.62, con zero rinculo – quindi molto facile da maneggiare.
Il rituale in sé non era per niente pericoloso: si sparava da una distanza molto ravvicinata, meno di un metro, quasi a bruciapelo, potevi sentire sulla pelle il bruciore del gas. Il primo colpo sopra la testa, il secondo sotto i piedi, poi spalla destra e spalla sinistra. Chi era sottoposto a quel rituale doveva rimanere immobile, senza mai nemmeno voltare la testa.
Io, per rispettare questa regola, mi sono beccato un residuo di polvere da sparo nell’occhio destro, un male da paura: l’occhio ha lacrimato per parecchi mesi.
Dopo il «segno della croce», mi sono voltato e mi sono avvicinato a Corvo, piazzandomi proprio di fronte a lui. Solo a quel punto lui ha pronunciato la frase di rito: «Ho segnato la tua ombra, ora sei un Piede Scalzo. Se commetti un errore, fai l’infame o infrangi la legge dei criminali onesti, io o un altro fratello segneremo allo stesso modo la tua carne peccatrice».
Io, come andava fatto, ho risposto: «Che trionfi la legge della gente onesta». Poi ci siamo abbracciati e dopo di lui ho dovuto abbracciare ogni membro della banda. È stato questo il mio benvenuto nel mondo della criminalità minorile.
Un giorno Corvo mi ha fatto segno di raggiungerlo. Era in barca e stava preparando la rete per la pesca notturna. Ho corso lungo il vecchio molo di legno piú veloce che potevo e sono saltato su. Lui mi ha fissato serio e mi ha detto: «Alcuni ragazzi dicono che fai domande sui tatuaggi. Non devi, perché i tatuaggi raccontano le storie delle persone, e solo i tatuatori sanno interpretarli. Usano simboli con un significato codificato, proprio per nascondere ciò che non si può dire. Poi, in generale, non si fanno domande. Nel nostro mondo ognuno scopre le cose al momento giusto. Fai parte di una famiglia, non devi preoccuparti. Quando qualcuno avrà qualcosa da dirti ti chiamerà e ti spiegherà quello che devi sapere. Importunare la gente con le domande è un comportamento disonesto, roba da sbirri. Se vuoi che gli altri ti rispettino impara con gli occhi e tieni la bocca chiusa. Hai capito?»
Per la vergogna mi bruciavano le orecchie, mi sembrava che dovessero prendere fuoco da un momento all’altro.
Lui mi ha sorriso. «Mica devi vergognarti perché tuo fratello piú grande ti dà dei consigli. Ascolta e impara, cosí diventerai un buon Piede Scalzo».
Ho annuito, lui ha sorriso di nuovo e mi ha dato una pacca sulla spalla. «Ricorda, niente piú domande!»
Da quel giorno ho deciso che anziché chiedere alle persone quale fosse il significato dei loro tatuaggi dovevo osservarli e cercare di ridisegnarli a casa nel mio album. È iniziato cosí il mio viaggio di conoscenza nel mondo dei tatuaggi criminali.
Qualche anno dopo Corvo è stato ucciso in una sparatoria da alcuni poliziotti venuti nel quartiere in veste di sicari per giustiziare uno dei nostri anziani.
Io sono andato all’obitorio a vegliarlo, la nostra tradizione impone di non lasciare mai solo il corpo di uno di noi. Eravamo in sei, due minorenni e quattro adulti. Nell’obitorio i grandi, seguendo le nostre regole, hanno lavato il corpo di Corvo prima di vestirlo. Dopo esser stata trattata con gli appositi prodotti, la sua pelle era diventata pallida, di un bianco scurito da un’inspiegabile ombra interna, come in quel momento del giorno in cui le tenebre scendono sulla terra. Aveva due buchi nel petto, un proiettile si era fermato nella carne e l’altro l’aveva trapassato, fuoriuscendo sotto la spalla destra.
Quel foro d’uscita mi faceva impressione perché attraversava il tatuaggio che Corvo portava sulla schiena: un grande corvo nero con una corona imperiale sulla testa. Il corvo stringeva una croce nel becco e aveva le ali piegate all’indietro, come se stesse per spiccare il volo. Le zampe erano posate su un teschio coronato di spine. Un serpente si arrotolava intorno al teschio sbucando da una delle orbite, mentre con la coda stringeva un coltello.
Era un tatuaggio affascinante e complicato, realizzato interamente a mano con la bacchetta, secondo la tecnica antica. Si raccontava che Corvo l’avesse fatto quand’era nel carcere minorile. Avevo sempre visto quel tatuaggio di sfuggita, non ero mai riuscito a soffermarmi sui simboli, perché Corvo non amava metter in mostra i tatuaggi e quando eravamo al fiume, anche nei giorni caldi, indossava una maglietta per nasconderli.
Solo all’obitorio, con Corvo lí davanti a me ormai privo di vita, ho potuto osservare bene quell’opera magnifica, che mi ha trasmesso delle sensazioni fortissime, facendomi sentire tutta la mia debolezza. Il foro d’uscita della pallottola era proprio nell’occhio del corvo e il cuore nero della ferita, circondato da un alone bluastro, lo faceva sembrare vivo e spalancato. Pareva che il tatuaggio stesse prendendo vita in una forma infernale, come se quel possente uccello nero fosse la morte stessa, venuta a rifulgere nel momento del suo diabolico trionfo. Ero incollato al tavolo d’acciaio su cui era deposto il morto, a osservare quell’immagine terrificante e poetica al tempo stesso, mentre uno dei nostri preparava l’ago e il filo per cucire l’occhio dell’animale.
Mi vergognavo, stavo sfruttando quella situazione drammatica per soddisfare la mia curiosità. Però non potevo resistere a quella specie di sortilegio che mi legava ai simboli, alle tracce d’inchiostro imprigionate sotto la pelle. Era piú forte di me.