Lo scontro di Odessa

I tatuaggi che portavano addosso i ragazzi delle bande dipendevano in parte dal talento artistico dei tatuatori, in parte dalla loro capacità di dare significato ai simboli, interpretandoli in modo personale.

I Metallari prediligevano uno stile macabro e grottesco, influenzato dalle copertine dei dischi dei gruppi metal e da alcuni film occidentali che all’epoca erano proibiti (ma che si potevano vedere nelle sale clandestine, di cui abbondavano le periferie delle città sovietiche). Se i tatuatori dovevano disegnare un teschio sulla pelle di un metallaro lo ritraevano con tratti diabolici, tutto pieno di crepe, con i canini da vampiro gocciolanti di sangue. Sono stati i primi a introdurre gli ornamenti celtici, e i bracciali decorati con motivi vichinghi. Spesso al posto del crocifisso raffiguravano l’ascia bipenne avvolta da un serpente, e in generale ai simboli cristiani preferivano quelli delle grandi culture pagane del Nord. La classica clessidra – un simbolo molto amato, che spesso veniva abbinato a delle scritte – era sempre accompagnata da un perfido gargoyle, un mostro che giocava con il tempo concesso agli umani.

Ma il contributo piú importante che i Metallari hanno dato alla cultura del tatuaggio durante l’epoca sovietica è stato lo sdoganamento dei draghi, che in Russia erano da sempre visti come soggetti negativi. Noi ragazzi dicevamo con disprezzo: «Il drago è come un gallo, l’unica differenza è che ha la cresta lunga fino alla coda». Nel gergo di strada, infatti, si chiama «gallo» un omosessuale passivo, e vista l’esaltazione della virilità che dominava il mondo dei criminali quell’animale era il peggior esempio della decadenza estetica e morale di un uomo. Nessun criminale sano di mente si sarebbe fatto tatuare addosso qualcosa che potesse anche lontanamente ricordare un gallo.

I Metallari, però, hanno difeso col sangue la dignità dei tatuaggi che portavano: ben pochi di noi si azzardavano a parlare con loro delle differenze fra un drago e un gallo.

Il capo dei Metallari della nostra città si chiamava Viktor, da tutti chiamato col soprannome di «Rubens». Aveva tre passioni: la musica metal, la pittura classica e il pugilato. Proveniva da una famiglia perbene, e nonostante i suoi genitori gli avessero offerto la possibilità di frequentare la miglior scuola della città, ovvero il liceo numero otto, aveva scelto la vita da bandito.

Sua madre lavorava all’assessorato alla Cultura di Bender e si occupava di arte, quindi lui era cresciuto in mezzo alle gallerie e aveva studiato disegno e pittura alla scuola d’arte. Tutti i gruppi rock locali – quando quel genere di musica era ancora proibito dalla censura sovietica – si rivolgevano a lui per le copertine dei loro album e per i manifesti dei concerti. Ecco perché lo chiamavano Rubens.

È stato uno dei primi nella nostra città a tatuare usando le macchinette, che costruiva personalmente, trasformando ogni aggeggio che gli capitava sottomano in un apparecchio per far filtrare l’inchiostro sottopelle. Era una persona buona e generosa, quando parlava era sempre molto calmo e trasmetteva a tutti una sorta di sicurezza, come spesso riescono a fare gli individui dotati di una grande forza fisica. Gli anni passati nella palestra di boxe avevano fatto di lui un combattente abile ed esperto: se picchiava qualcuno lo faceva in modo professionale, con pochi colpi secchi e forti faceva perdere i sensi a chiunque. È stato uno tra i primi nella nostra città a poter passeggiare esibendo i capelli lunghi senza subire aggressioni.

Non era molto bravo con i coltelli e con le armi in genere, ma d’altronde, con la sua forza fisica e soprattutto con il carattere che predisponeva chiunque al dialogo, non ne aveva bisogno. Sul ring aveva vinto molte gare, era stato primo in classifica tra i giovani pugili della Repubblica.

Non l’avevo mai visto di persona anche se avevo tanto sentito parlare di lui, finché una volta il destino ci ha fatto incontrare in una situazione a dir poco estrema…

Quella volta ero finito in un guaio insieme a un mio amico che si chiamava Loza. Eravamo lontani da casa, a Odessa, dovevamo smerciare due motorini rubati. Dopo un viaggio avventuroso per le vie di campagna – cercando di evitare i posti di blocco – siamo arrivati a destinazione.

Senza troppe difficoltà abbiamo venduto i motorini a un tizio che truccava i mezzi rubati, li legalizzava con l’aiuto della polizia corrotta e poi li rivendeva. Noi lo conoscevamo abbastanza bene, ma non tanto da poterci fidare ciecamente. Infatti quel giorno voleva fregarci.

Io e Loza, dopo aver intascato i soldi, siamo andati a piedi verso la stazione e ci siamo subito accorti che un gruppo di ragazzi piú grandi di noi ci stava seguendo. Saranno stati una decina: era chiaro che li aveva mandati il tizio a cui avevamo venduto i motorini, che intendeva riprendersi il malloppo facendo passare l’incidente per una classica rapina.

Trovarsi in un territorio altrui con dei soldi in tasca braccati da balordi locali è una grana che qualsiasi ragazzo di strada preferirebbe evitare. Non sapevamo dove andare né come agire; affrettando il passo verso la stazione cercavamo di ragionare, ma c’era poco da fare: eravamo solo due contro una decina, e il treno ancora non si vedeva.

Ci hanno raggiunti rapidamente, mentre attraversavamo il piccolo parco che si apriva davanti alla stazione di Odessa. Tre sono partiti nella nostra direzione, mentre gli altri hanno bloccato tutte le vie di fuga. Uno di quelli che ci stava venendo incontro aveva un ghigno da bastardo. Cantava, mettendo in mostra una scintillante fila di denti d’oro che riflettevano allegramente la luce del sole: «Katja, Katja, Katerina, quando passi vicino la tua gonnella azzurra come l’acqua del mare si muove e il vento la alza, accarezzando le tue gambe. Tu mi fai impazzire…»

Era una brutta canzone di cattivo gusto: raccontava di un delinquente che, vantandosi della propria ignoranza e violenza, apostrofava minaccioso una ragazza di nome Katerina che non voleva degnarlo della sua attenzione.

La voce sottile e stonata lanciava nell’aria le parole di quella celebre canzone, divenuta l’inno dei delinquenti della città di Odessa: «Se non mi dai il tuo amore ti presenterò il coltello, con la lama affilata disegnerò un sorriso eterno sulla tua bella e orgogliosa faccina. Ti taglierò le guance dalle labbra alle orecchie, cosí imparerai a non fare la preziosa con un ragazzo di strada…»

Il «cantante» si gustava il suo momento di gloria, era evidente che godeva all’idea di poterci umiliare ancora prima di massacrarci.

Quando era a pochi metri da noi ha fatto un movimento per confonderci: con la mano sinistra ha tirato fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa. Con un gesto largo, quasi coreografico, ha mosso il braccio disegnando un cerchio nell’aria, come fa il prestigiatore quando sta per estrarre il coniglio dal cilindro magico. Portando il fazzoletto alla faccia si è soffiato il naso facendo un rumore simile alla sirena delle navi che suonano entrando nel porto. Anche il suo corpo si è contorto per un attimo, mentre gli altri due balordi si sono fermati per godersi la scena. Uno mangiava semi di girasole, spaccava rumorosamente le bucce, masticava e sputava per terra gli scarti. L’altro fumava una sigaretta senza filtro e teneva gli occhi socchiusi, come se stesse per addormentarsi. Tutto appariva molto teatrale.

Io, che conoscevo quel trucco di strada sin dall’infanzia, sapevo che era una manovra studiata per distogliere l’attenzione dell’avversario dalla mano che stava per armarsi.

Tenevo gli occhi fissi sull’altro braccio del cantante: al culmine del suo spettacolo, quando si è chinato leggermente in avanti come per ricevere gli applausi, con un movimento veloce e quasi invisibile della mano destra ha sfilato qualcosa da dietro la cintura.

Avevo capito che era un coltello a farfalla ancora prima che lo tirasse fuori, perché lí a Odessa quell’arma era motivo di rispetto. Il ragazzo dai denti d’oro l’aveva fatto scattare con un rapido movimento del polso, stringendolo abilmente contro la sua coscia perché noi non potessimo vederlo. Tutto in meno di un secondo, continuando a sorriderci e a camminare come se nulla fosse. Era un bastardo ma con la lama ci sapeva fare.

Dopo ogni rissa o duello, i criminali che erano risultati vittoriosi si tatuavano sulle parti visibili del corpo piccoli coltelli con le ali come quelle delle falene. A volte all’interno delle ali era scritta la data e il nome del luogo in cui era avvenuto lo scontro, a volte il nome dell’avversario sconfitto. Se durante la rissa qualcuno dei nemici moriva tatuavano un teschio, se a perdere la vita era un membro della banda invece una candela con sotto il suo nome.

La distanza tra noi e quei tre si accorciava: il momento di combattere si avvicinava inevitabilmente. Ora che il cantante era a pochi passi da me e Loza, potevo vedere tatuate sul suo corpo ben cinque falene, due sui lati del collo e tre sulla mano sinistra. I suoi occhi erano concentratissimi, si stava preparando per assalirci.

Intanto gli altri due si sono piazzati alle sue spalle e apparentemente sembravano calmi. Uno continuava a masticare i semi, l’altro a fumare con aria svagata. Volevano farci credere che volessero parlare, non attaccare.

A quel punto mi sono girato leggermente verso destra, fingendo di voler dire una cosa al mio amico. Ho esposto ai nostri aggressori il lato sinistro del corpo, perché nella tasca destra avevo il coltello a scatto – la mia mitica picca – che volevo tirare fuori senza attirare l’attenzione dei nemici.

Loza ha colto il senso della mia manovra, e con un gesto molto evidente ha infilato una mano in tasca, estraendo un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi. Tra il pacchetto e la scatola c’era la sua picca. Ha fatto scivolare fuori dal pacchetto una sigaretta, l’ha data a me, io ho esitato un istante prima di stringerla tra i denti. Ha sfregato il fiammifero contro il bordo della scatola e il fuoco si è acceso.

Mi sono sporto ancora di piú verso il mio amico, spingendo la punta della sigaretta dentro la fiamma: il tempo sembrava rallentare, dilatarsi, diventare qualcosa di tangibile.

Ho fatto un tiro, e insieme al gusto del tabacco ho sentito una nausea fortissima.

Qualche anno prima mio padre per punirmi di aver fumato una delle sue sigarette, me ne aveva fatto mangiare ben tre pacchetti. Ricordo con orrore la sensazione delle sigarette in bocca, triturate dai miei denti: un pastone sintetico che sapeva di cartone e tabacco. Deglutire era stata una tortura, e ogni volta che stavo per sputare tutto o per vomitare mio padre mi fissava negli occhi un istante per farmi capire che non sarebbe stata una buona idea. Insomma, avevo rischiato di morire intossicato. Ero riuscito a inghiottire a fatica i pacchetti, ma per la settimana successiva non ero stato in grado di alzarmi dal letto. Da allora, e per il resto della vita, il gusto del tabacco per me è diventato insopportabile.

Però quella volta a Odessa mi sono dovuto sforzare: ho finto di fumare, sbuffando dalla bocca una nuvola bianca. Loza ha rimesso in tasca le sigarette e i fiammiferi, trattenendo nella mano il coltello. Ora avevamo entrambi la nostra fidata picca.

Anche se pronti ad affrontare la battaglia eravamo certi di essere spacciati, perché essendo cresciuti per strada sapevamo che in due contro un gruppo cosí numeroso (gli altri sei-sette che bloccavano le vie di fuga erano sicuramente armati) non avremmo potuto resistere piú di un minuto. Stavo già immaginando di svegliarmi qualche ora dopo nell’ospedale locale con ferite da coltello ovunque, la faccia spaccata, le tasche vuote e un poliziotto attaccato al letto che pretendeva facessi i nomi di coloro che ci avevano aggredito… Se poi per disgrazia avesse scoperto la mia identità e dunque i miei precedenti penali, il resto della convalescenza l’avrei trascorsa direttamente all’infermeria del carcere. All’epoca i segni delle risse come le ferite da coltello potevano bastare a un giudice qualsiasi per applicare l’articolo «comportamenti delinquenziali», molto comune tra i minorenni. Ma per un ragazzo con precedenti penali significava un anno e mezzo di carcere minorile. Se poi sul luogo venivano trovate armi bianche con le impronte digitali dell’accusato, qualsiasi poliziotto iniziava a fregarsi le mani.

La situazione si presentava disperata da ogni prospettiva, e quella che mi ero figurato io era la piú rosea.

Proprio quando tra noi e i tre ragazzi locali c’era ormai una distanza «da baci e carezze» («il bacio» in gergo è una coltellata eseguita affondando il coltello di punta, invece un taglio si chiama «la carezza»), è apparsa un’enorme ombra nera. Da principio non ci ho fatto troppo caso, ho visto solo che l’ombra faceva un movimento veloce, quasi come un lampo. Ma subito dopo si è sentito un rumore secco, come un forte battito di mani.

All’improvviso, davanti ai nostri occhi, ha preso vita questa scena: il ragazzo con i denti d’oro era sdraiato a terra, i suoi denti brillavano sparsi sull’asfalto, alcuni ai nostri piedi. Il suo coltello si era disgraziatamente infilato nella gamba, vedevamo spuntare qualche centimetro di lama. Io e Loza eravamo come incantati, in cuor nostro ci eravamo già arresi al destino terribile che ci attendeva fino a un attimo prima. Siamo rimasti immobili, a osservare quella montagna nera che faceva un altro movimento, veloce come il precedente, mandando giú il secondo balordo. Il poveretto non aveva ancora toccato terra con la faccia spaccata, che il terzo era già crollato allo stesso identico modo.

A quel punto l’ombra si è girata e abbiamo riconosciuto Rubens, il capo dei Metallari della nostra città. Mi ha dato una pacca sulla spalla, come per svegliarmi dal sonno: «Ehi, Piedi Scalzi! – ci ha detto sorridendo. – Corriamo, finché non arrivano i rinforzi!»

Né io né Loza eravamo in grado di reagire prontamente, tanto surreale ci sembrava la situazione, finché Rubens ci ha dato uno spintone. Senza farcelo ripetere abbiamo corso tutti insieme verso la stazione: siamo riusciti a prendere il treno mentre stava partendo, saltando sul vagone in movimento.

Ci era già capitato di trovarci in mezzo a qualche rissa contro i Metallari: tra noi e loro non correva buon sangue, anche se non c’erano motivi concreti di odio. C’erano state piccole divergenze, e l’esagerato senso di appartenenza a una banda ci spingeva a voler dimostrare la nostra capacità di difendere il territorio, i nostri valori.

Quel giorno, durante il viaggio di ritorno da Odessa, ho conosciuto bene Rubens. E ho scoperto che i Metallari non erano come spesso li dipingevano i nostri «propagandisti». Abbiamo parlato di musica, di tatuaggi, e lui mi ha invitato ad andare a trovarlo, promettendo di regalarmi una delle sue macchinette.

Qualche settimana dopo sono andato da solo nel quartiere dei Metallari. Nello zaino trasportavo tre litri di vino, un coltello siberiano (dono da bandito di strada a bandito di strada) e una tavola disegnata da me che raffigurava la Madonna siberiana armata (dono da artista ad artista, che speravo potesse essere gradito da Rubens).

Il quartier generale dei Metallari si trovava nella cantina di un vecchio palazzo: c’erano tante stanze (alcune con dei letti a castello, altre con spazi comuni per ascoltare la musica), una specie di bar-ristorante in cui cucinavano e mangiavano tutti insieme, poi c’era una sauna, una piccola piscina con l’acqua fredda e un grande laboratorio dove Rubens e alcuni dei suoi collaboratori tatuavano le persone.

I Metallari erano ben organizzati. Tra loro vigeva una strana gerarchia basata soprattutto sull’anzianità, sembravano una versione dark dei Puffi con la stessa capacità di agire insieme, di obbedire al loro leader, di affrontare le difficoltà a testa alta e con un buon senso dell’umorismo. L’unica cosa che distingueva nettamente i Metallari dalle altre bande – e che nella nostra città rappresentava una sorta di rivoluzione culturale – era la presenza delle ragazze. Di solito nei gruppi di strada le femmine apparivano soltanto in qualità di fidanzate o di amiche: non avevano diritto di parola, vivevano una vita parallela a quella del gruppo. Le femmine dei Metallari, invece, potevano prendere la parola, potevano partecipare alle risse, e addirittura assumere posizioni di comando. Erano delle vere e proprie bandite.

Scoprire come vivevano mi ha aiutato ad aprire gli occhi su molte cose che nella mia comunità venivano taciute oppure considerate un tabú. Era come immergersi in un’altra realtà, piú libera e piú semplice, umana, fatta con meno regole e istintiva, facile da comprendere.

Abbiamo passato insieme un paio di giorni. Prima abbiamo fatto la sauna, poi bevuto e mangiato fino a scoppiare. Ho conosciuto le storie di molti di loro e ho scoperto che eravamo davvero simili, anche se spesso ci comportavamo in maniera diversa.

Rubens mi ha fatto vedere le macchinette che aveva costruito, me le ha fatte provare e io gli ho fatto un tatuaggio siberiano di cui era molto contento. Alla fine mi ha regalato tre macchinette e una boccetta di inchiostro olandese che comprava dai marinai di Odessa. Io all’epoca tatuavo usando ancora l’inchiostro fatto in modo rudimentale, ottenuto dalla fuliggine della bruciatura dei copertoni. Mi ha regalato anche una decina di cassette dei gruppi metal che secondo lui mi potevano piacere. Cosí ho scoperto l’esistenza di Stratovarius, Gamma Ray, Type O Negative, Cannibal Corpse, Mercyful Fate, King Diamond, Gladiators e White Skull.

Rubens era un personaggio prezioso sulla scena criminale della nostra città, perché era carismatico, i suoi uomini si fidavano molto di lui. E soprattutto era contrario allo spaccio. I Metallari coltivavano e fumavano la marijuana, però non la vendevano. Anzi, quando è arrivata la droga pesante, specialmente l’eroina, sono stati i primi a combatterla. I trafficanti cercavano in tutti i modi di penetrare nel quartiere dei Metallari. Era una zona comoda sia per lo spaccio che per i nascondigli: l’enorme labirinto che si sviluppava sotto i palazzi poteva essere trasformato in un vero e proprio castello sotterraneo impenetrabile. Quando i Metallari si sono uniti contro i trafficanti, Rubens e i suoi ragazzi hanno contribuito a diverse rappresaglie.

Fino al giorno in cui qualcuno dei suoi l’ha tradito. Un tale Denis soprannominato «Scorpione» si era infatti accordato con i trafficanti, e in cambio di una generosa somma di denaro ha sparato a Rubens mentre dormiva. Dopo meno di tre mesi la banda dei Metallari si è sciolta, i trafficanti hanno preso il controllo del quartiere e Scorpione è diventato il loro rappresentante.

Ha fatto un sacco di soldi con la droga, girava sempre scortato dalla polizia a bordo di una Porsche bianca con uno scorpione nero disegnato sulle portiere e sulla capotte. Poi un mattino l’hanno trovato morto nel suo lussuoso appartamento: l’assassino l’aveva torturato prima di ucciderlo, bruciandolo in piú punti del corpo con un ferro rovente. I rudimentali bollitori d’acqua sovietici erano composti da una spirale di metallo di circa dieci centimetri collegata a un filo elettrico, che diventa incandescente in pochi secondi. Il cuore di Scorpione non aveva retto al dolore quando il suo carnefice gliel’aveva infilato dritto nell’ano.

Dicevano che vicino al cadavere l’assassino avesse lasciato due cose: la foto di Rubens e un pupazzetto di Cappuccetto Rosso. Era il soprannome della storica fidanzata di Rubens, e per via di quel pupazzo tutti le hanno attribuito l’omicidio di Scorpione. Nessuno però sapeva dove trovarla, perché, subito dopo la morte del suo amato, Cappuccetto Rosso era sparita dalla città. Dicevano fosse andata a Mosca dove prima si era prostituita, poi aveva aperto uno studio di tatuaggi.

La ricordo come una ragazza pacata e taciturna, l’unica scintilla diabolica si notava nei suoi disegni macabri ed eccessivamente violenti. Scheletri che ballavano con qualche residuo di brandello di carne che si staccava dalle ossa, lupi mannari che addentavano belle ragazze, vampiri, e una schiera di mostri infernali. Aveva un tatuaggio sul braccio sinistro: Cappuccetto Rosso che accarezza il lupo con una mano e nell’altra tiene il coltello.

All’epoca avevo pensato che con quel tatuaggio volesse dire di saper essere tenera ma anche dura, se necessario. Però, dopo il terribile omicidio di Scorpione, credo di aver capito il vero senso di quei simboli. Era la promessa di proteggere per sempre il suo amore.