La sposa comune
La strada per noi significava tutto. Era il nostro ambiente naturale, e nessuno di noi riusciva a immaginare una vita diversa. Impossibile pensare di non essere parte del gruppo, impossibile dimenticare chi eravamo: ragazzi assetati di tutte le notizie che riguardavano il mondo criminale. Eravamo sempre al corrente di ogni tregua, accordo, fusione o scioglimento delle bande piú piccole cosí come delle grandi organizzazioni. Affrontavamo i nostri avversari nelle risse come se partecipassimo a una battaglia epica, dalla quale dipendevano le sorti dell’intera umanità. Vivere in quel modo presupponeva un grande senso di dignità, che ci permetteva di rimanere noi stessi davanti alle prove di ogni giorno, e ci aiutava a uscire vivi dagli scontri. Certo, era un senso di dignità fondato sull’ignoranza, sulla chiusura verso l’esterno e sulla mancanza di esperienza, però sempre di dignità si trattava.
All’epoca la vita di strada sembrava l’unica via percorribile, la sola capace di colmare i vuoti lasciati dalle incertezze sociali, famigliari o educative. Se qualche decennio prima i miei coetanei sognavano un giorno di diventare astronauti, piloti, militari o grandi scienziati (perché nei giornali e alla televisione si parlava di questi grandi uomini che facevano la storia del nostro Paese), quand’ero un ragazzino io, a metà degli anni Novanta, quasi tutti i miei amici volevano diventare dei veri criminali. Mentre l’intero Paese era straziato dalle guerre, dalla fame, dalla violenza e dall’illegalità – e piangeva ancora le vittime di Černobyl´ – nel nostro ambiente tutte queste disgrazie venivano affrontate con un sorriso sarcastico e un senso di superiorità. La violenza era una corrente che travolgeva e trascinava ognuno di noi, perché sotto i riflettori adesso c’erano i protagonisti della vita criminale. Esistevano solo le guerre tra bande, gli scontri armati, gli omicidi, le estorsioni, i rapimenti e le torture.
In quei giorni si andava ai funerali come si va a una festa. Quando partecipavamo alla sepoltura dell’ennesimo amico ucciso durante una rissa, non avevamo paura di essere i prossimi a ricevere l’ultimo saluto. Al contrario, avevamo una spavalda voglia di prendere in giro la morte, di fregarla, intimorendola con un sorriso. L’aura romantica che ammantava la vita dei fuorilegge era piú forte di qualsiasi paura. La sensazione di giocare con il pericolo faceva girare la testa e affascinava qualsiasi giovane che si avvicinava alla vita di strada. La paura non spariva completamente, ma per ogni gentiluomo dei lampioni rotti diventava una sfida perversa.
La morte nel gergo di strada si chiamava «la sposa». Quando un minorenne si avvicinava al giro criminale dei grandi, entrando a far parte di una banda oppure venendo accettato dagli anziani, veniva dichiarato «uomo onesto» e di lui si diceva: «Si è fidanzato».
Quando il criminale che aveva già passato il rito di fidanzamento moriva, i suoi amici annunciavano: «Oggi il nostro caro fratello si è sposato felicemente con la nostra sposa comune, il matrimonio sarà celebrato in tale luogo in tale data». Ai funerali tutti si vestivano come per un vero matrimonio, il morto doveva indossare l’abito di nozze e durante il banchetto funebre tutti i criminali brindavano alla felicità degli sposi.
Ciascun gruppo criminale aveva un suo rituale di fidanzamento con la morte. Forse in quegli anni la fedeltà ai rituali era l’unico collante che teneva ancora unita la criminalità. Il fidanzamento segnava il passaggio dal mondo infantile a quello adulto. Ogni banda, gruppo o casta si sforzava di creare rituali piú sofisticati degli altri, per poi potersi vantare che «da noi, per “fidanzarsi”, bisogna sudare». Potevano essere rituali complicati e molto pericolosi, oppure – nei casi di gruppi piccoli – divertenti e goliardici, spesso semplici e bizzarre prove di coraggio. Nei quartieri piú moderni, dove i ragazzi di strada non avevano particolari legami con la criminalità tradizionale, le prove erano basate sulla resistenza fisica.
Ricordo una banda di ragazzi che obbligava i pretendenti al fidanzamento a fare un giro attorno al quartiere portando a cavalluccio sulla schiena il membro piú pesante della banda. Poi c’erano quelli che dovevano fare le flessioni per un giorno intero, chi doveva rubare qualcosa da un posto strettamente sorvegliato, o addirittura quelli che dovevano andare all’ingresso di una palestra di pugilato e innescare una rissa. Altri gruppi facevano saltare i candidati da un tetto all’altro, coprendo una distanza di almeno due metri a nove piani da terra. Una volta un ragazzo non ce l’ha fatta, è caduto ed è morto.
I ragazzi della banda dei Ladruncoli costringevano i pretendenti a rubare qualcosa di prezioso ai propri genitori, i Fratellini picchiavano in gruppo il candidato, che doveva rimanere cosciente mentre uno leggeva l’elenco delle regole della banda (e ovviamente la sorte del malcapitato dipendeva dal tempo impiegato per la lettura). Il rituale dei Metallari – i piú temprati già ai tempi dell’Urss, perché dovevano difendersi dalla polizia e dalle bande dei nazionalisti e dei filosovietici per la loro tendenza a portare i capelli lunghi e ascoltare musica straniera – consisteva nell’aggredire un poliziotto e portargli via l’arma o almeno strappargli qualche segno di riconoscimento come la toppa, la spallina con i gradi o la coccarda dal cappello. Nel loro covo segreto, che si trovava nello scantinato di un quartiere sovraffollato composto da una moltitudine di palazzi, c’era un muro sul quale chi superava il rituale doveva attaccare il cimelio portato dalla «caccia allo sbirro». Per colpa di quelle bravate la polizia ha potenziato il numero delle pattuglie, agli agenti sono stati forniti oltre alle pistole anche i fucili d’assalto AKS-74U, la variante corta del Kalašnikov che potevano portarsi appresso anche fuori servizio.
I nazisti, o come si facevano chiamare loro «Teste d’Acciaio», non facevano un vero e proprio rituale di fidanzamento, ma usavano delle cerimonie militari mescolate a una buona dose di occultismo. Una volta sono stato invitato a uno di questi riti, perché un mio conoscente abitava in un quartiere dove era attivo un importante gruppo di nazisti. Anche lui faceva parte della banda, pur senza sapere un granché dell’ideologia che ci stava dietro. Era un bravissimo pugile e riusciva a mandare le persone in coma con un solo pugno alla mandibola.
I nazisti amavano le escursioni nella natura, quindi i rituali si svolgevano nel bosco fuori città, dove arrivavano marciando come un vero e proprio reparto militare. Avevano costruito delle strutture in pietra che lontanamente somigliavano ai megaliti di Stonehenge: per terra disponevano dei ciocchi di legno a formare una svastica dai raggi distanziati, poi li cospargevano di benzina e appiccavano il fuoco.
Mentre le fiamme salivano al cielo ci spingevano dentro il candidato: lui doveva rimanere in piedi nella zona franca evitando di bruciarsi, mentre gli altri cercavano di spostarlo a forza. Poi si mettevano tutti a cantare qualche canzone in un tedesco terribilmente storpiato.
A Fiume Basso il rituale di fidanzamento con la morte metteva alla prova piú la mente che il fisico. Di solito succedeva cosí: un giorno, senza alcun preavviso, si presentavano a casa tre ragazzi. Di questi, uno doveva essere il migliore amico del prescelto. I tre dicevano: «È il capobanda che ci manda. Se vuoi fidanzarti con la nostra sposa comune, lei ti aspetta».
Il ragazzo doveva andare con loro senza pronunciare una parola. Durante tutto il tempo del rituale, il sottoposto non poteva parlare o fare segni per comunicare con gli altri: doveva semplicemente seguire le loro indicazioni.
I tre lo portavano in un luogo isolato, di solito nel boschetto vicino al fiume o a volte anche nel vecchio cimitero. Qui, il candidato trovava un tavolo allestito con cibo e bevande, e lí accanto una fossa appena scavata. La bara era appoggiata su due sedie.
Alla cerimonia erano ammesse tredici persone, esclusivamente ragazzi che avevano già passato il rituale. I partecipanti raccontavano tutti gli errori commessi in passato dal candidato e lui doveva ascoltare senza poter rispondere. Poi uno dei tredici annunciava: «Se vuoi fidanzarti con la morte dovrai morire, e per questo ora andrai nella tomba».
Il candidato veniva accompagnato alla bara, ci s’infilava dentro da solo, e gli altri la chiudevano inchiodando il coperchio. La bara veniva calata sul fondo con le corde, la fossa veniva riempita di terra, si piantava la croce e i partecipanti si sedevano intorno al tavolo a discutere se tirare fuori il sepolto.
La regola diceva che se tre persone su tredici non erano d’accordo, la banda doveva lasciarlo morire. Non succedeva spesso, perché per decidere di non disseppellirlo il ragazzo doveva essersi macchiato di una colpa molto grave nei confronti di tutti, come infamare gli amici oppure derubarli. Nella mia esperienza è successo solo due volte che i candidati al fidanzamento siano stati lasciati morire, la prima per un atto d’infamia e la seconda perché il ragazzo si era messo a collaborare con gli spacciatori pensando che nessuno l’avrebbe scoperto.
Avevo da poco compiuto quattordici anni quando ho passato il mio rituale. La maggior parte dei miei amici e coetanei l’aveva già fatto, io ho tardato per colpa della mia breve esperienza in carcere.
Mi sentivo abbastanza sicuro perché me l’avevano raccontato molte volte e sapevo che se non avessi nascosto niente ai miei fratelli non avrei avuto nulla da temere. Però, non appena la terra ha cominciato a cadere sul coperchio della bara, la mia fronte si è coperta di sudore freddo e il cuore stava per saltarmi fuori dal petto. Quando mi sono ripreso, ho cercato di sforzarmi di respirare piú piano per non esaurire la riserva d’aria, poi ho teso l’orecchio sperando di percepire le voci degli altri.
Lentamente i dubbi hanno cominciato ad assalirmi tutti insieme, pensavo ai miei comportamenti sbagliati che avrebbero potuto spingere qualcuno dei miei amici a lasciarmi morire sepolto. «Tre mesi fa ho preso la rete da pesca di Besa e gliel’ho restituita senza averla pulita e piegata per bene. L’anno scorso ho rotto la bicicletta a Peste. La settimana scorsa Basker mi ha chiesto di accompagnarlo alla base militare per comprare delle cartucce e io non l’ho fatto perché mio nonno mi ha obbligato a spaccare la legna per la stufa. Persino mio fratello Mel, il mio migliore amico, potrebbe essere arrabbiato con me perché ci siamo innamorati della stessa ragazza. Dio, certo che tutti hanno almeno un motivo per lasciarmi crepare in questa tomba…»
Tra un pensiero e l’altro la mia tristezza diventava sempre piú grande e mi vedevo già morto, abbandonato dalla banda. Mi sentivo talmente male che non avevo nemmeno la forza per disperarmi. Tutt’intorno a me era nero, il nero piú nero che avessi mai sperimentato. Nelle orecchie avevo il ronzio del silenzio, nella gola il fiato mi si accorciava a ogni respiro. Ero in preda al panico, mi sembrava di soffocare. Volevo urlare, lasciare che il terrore mi attraversasse e svanisse: ma non riuscivo nemmeno a fare quello. Piú mi spaventavo piú il mio corpo restava bloccato, immobile, come se si rifiutasse di rendersi conto di cosa mi stava succedendo.
A quel punto ho sentito qualcosa urtare la bara, e ho capito che stavano scavando per tirarmi fuori.
La consapevolezza di essere riuscito a superare la prova ha trasformato la disperazione in euforia, impazzito di felicità non vedevo l’ora di rivedere la luce del sole, respirare l’aria fresca e stare con i miei fratelli. Mi sono sforzato di trattenere l’emozione, ci tenevo ad apparire forte e impassibile. Quando hanno aperto la bara, mi hanno aiutato ad alzarmi e uno dei presenti ha detto: «Chi è già morto non teme la morte». Poi ci siamo seduti a tavola tutti insieme per brindare al mio fidanzamento.
Secondo la tradizione il rituale non era completo se il segno del passaggio non veniva impresso sulla pelle. Fra i tatuaggi che i ragazzi si facevano fare in occasione del fidanzamento dominavano quelli che contenevano simboli legati alla banda di cui si faceva parte, che servivano non solo a comunicare l’ingresso dell’individuo nel mondo degli adulti (e la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie parole e azioni), ma anche la sua posizione nel mondo criminale, e i suoi collegamenti con delle «fratellanze». Con quel nome all’epoca si indicavano le grandi alleanze tra diverse bande, ma non bisogna confonderlo con la bratva, nome generico che tutti – dai giornalisti alla gente comune – danno alla criminalità organizzata. In qualche modo erano dei segni di riconoscimento che permettevano di individuare in uno sconosciuto il proprio simile.
I tatuaggi piú semplici e stilizzati li facevano i Fratellini, che si stavano allontanando dalla tradizione dei tatuaggi criminali per seguire la moda di quelli estetici. I loro punti di riferimento erano i personaggi carismatici delle grandi bande che campavano di racket ed estorsioni, come le fratellanze di Solncevo e Orechovo-Zuevo di Mosca oppure la fratellanza degli Elefanti, stanziata a Rjazan´, che all’epoca terrorizzava una buona metà del Paese.
Gli appartenenti alle nuove organizzazioni criminali non volevano somigliare ai criminali di una volta, si vestivano alla moda, cercando di sembrare uomini d’affari, frequentavano le palestre, spesso non consumavano alcol e si tatuavano alla moda occidentale, preferendo lo stile tribale o i motivi orientali. I Fratellini copiavano tutti lo stesso disegno senza nemmeno modificarlo, come bestiame marchiato all’ingresso della mandria. Il tatuaggio piú frequente rappresentava due mani che si stringevano in un saluto, una di carne e l’altra scheletrica, composta soltanto dalle ossa. Sopra c’era una candela accesa, e in basso la scritta: «Benvenuto nel mondo dei morti».
I Ladruncoli avevano una maggiore libertà nell’uso dei simboli, anche se – spinti com’erano dalla smania di apparire criminali autorevoli – spesso non ne capivano sino in fondo il significato. Rappresentavano la sezione giovanile della casta Seme nero, che nel mondo criminale era e continua a essere la realtà piú influente. Seme nero ha solidi legami con la politica, i servizi segreti, la polizia, il mondo degli affari, l’industria, la cultura e persino la scienza. Da sempre sono collusi con tutte le categorie criminali (anche con gruppi tra loro rivali), e da questa posizione di mediatori hanno perennemente tratto enormi vantaggi. Infatti Seme nero detiene il potere nella gran parte delle prigioni sul territorio russo e delle ex repubbliche sovietiche, e ha il totale appoggio dei carcerati.
Cosí i Ladruncoli riproducevano i disegni di Seme nero dandone una propria interpretazione, senza tenere conto che i significati cambiano radicalmente in base al luogo geografico in cui vengono fatti (ad esempio in alcune zone del Paese i criminali di Seme nero attribuiscono al simbolo della rosa un significato dispregiativo, in altre la stessa rosa è un simbolo positivo).
Dopo aver passato il rituale di fidanzamento, secondo la tradizione, ci si tatuava il teschio con una rosa o un tulipano in bocca; se prima del rituale il ragazzo aveva avuto dei precedenti penali senza esser stato in carcere, attorno al teschio si disegnava una corda oppure il cappio al collo; se invece il ragazzo era già stato in carcere il teschio veniva incoronato di filo spinato. Gli individui particolarmente aggressivi, che negli scontri venivano usati dai capibanda come «martelli», aggiungevano dietro al teschio proprio un martello. Chi era bravo a usare il coltello ci metteva una piuma, spesso incrociata con un osso, per indicare che aveva già ucciso o ferito gravemente qualcuno durante una rissa e dunque era un combattente da temere. I Ladruncoli, però, aggiungevano anche dei particolari romantici ai loro tatuaggi, spesso i nomi delle fidanzatine accompagnati da qualche frase sentimentale, tipo «Olga, con me anche dopo la morte», oppure «Tanja, il nostro amore è sopravvissuto alla morte». Queste sviolinate servivano soprattutto per tenere buone le femmine. I maschi erano completamente immersi nella vita criminale ma spesso avevano bisogno del sostegno delle proprie fidanzate, specialmente durante i periodi di reclusione in cui un aiuto da fuori era fondamentale per sopravvivere.
Tra i ragazzi siberiani si usava fare tatuaggi un po’ piú complessi, perché per la nostra tradizione le immagini sul corpo di un fuorilegge dovevano essere uniche, mai simili o sovrapponibili tra loro.
Il nostro riferimento erano i fuorilegge anziani, persone che per noi erano leggendarie e suscitavano un’infinita ammirazione. Inutile dire che ognuno di noi voleva portare sulla propria pelle il tatuaggio perfetto, che potesse racchiudere l’essenza della nostra vita, l’appartenenza alla nostra cultura, la nostra provenienza, le leggi che rispettavamo e salvaguardavamo, i valori, il modo di comunicare, la famiglia, gli affetti, le amicizie, senza dimenticare di lasciare uno spazio per i nostri nemici. Tutte queste cose si raccontavano attraverso l’intreccio dei simboli raccolti intorno alla base del tatuaggio, che nel caso del rituale di fidanzamento con la morte era piú o meno universale.
Il piú diffuso raffigurava la morte vestita da sposa. I ragazzi della mia banda tatuavano quest’immagine sempre e soltanto sul braccio destro, perché secondo la nostra tradizione il corpo è una sorta di mappa e la narrazione simbolica dipende anche dalla parte del corpo che si sceglie per ogni singolo disegno.
Uno dei primi tatuaggi che mi ricordo di aver visto da ragazzo, la cui immagine mi ha colpito molto, risaliva proprio al rito di fidanzamento.
Lo portava un ragazzo piú grande di noi chiamato «Stinco», che abitava in fondo alla via nella quale abitavo io. Era un simpatico burlone che rideva sempre, salutava tutti con voce allegra e a noi bambini offriva caramelle che all’epoca, per via della crisi economica, erano molto rare. I tatuaggi che aveva addosso non corrispondevano però a quella sua aria simpatica: le sue braccia erano decorate da immagini cupe e violente. I teschi, le ossa, gli animali feroci, le armi, i serpenti s’intrecciavano tra loro e formavano una specie di abito diabolico che mi faceva un po’ paura. Ma l’immagine piú inquietante per me era un’altra. Ce l’aveva tatuata sul braccio destro, e come vuole la tradizione siberiana era un disegno molto complesso.
Raffigurava la morte vestita da sposa. Fra le mani, anziché un convenzionale mazzo di fiori, teneva una grande falce la cui lama curva le sormontava la testa. Ai suoi piedi, accucciato come una sfinge, un lupo digrignava i denti e posava una zampa su di un teschio. Il teschio aveva sulla fronte il buco di una serratura, e dentro l’occhio destro era inserita una moneta. Un serpente circondava il teschio, e con la coda stringeva il manico di un coltello. Il coltello trafiggeva la testa del serpente, che spalancava la bocca mostrando i denti e avvolgeva con la lingua la punta della lama. Al centro della scena un corvo con le ali raccolte guardava la luna nascente circondata da tre stelle: nel suo becco c’era una chiave. Sul lato sinistro campeggiava una chiesa sormontata da tre cupole a cipolla, a destra – su una lapide – era appollaiato un gufo: con un’ala reggeva una lanterna accesa, mentre sul petto aveva un occhio umano dal quale scendeva una lacrima.
Ricordo quel disegno come se ce l’avessi proprio ora davanti agli occhi: mi era entrato in testa per un motivo molto particolare. Una delle immagini piú belle per me, quella che da sempre associo al mio mondo, alla mia sfera piú intima, è la foto di mia madre vestita da sposa con un mazzo di fiori in mano. In quella foto era particolarmente bella e cosí serena che il suo sguardo sembrava trasmettere una potentissima energia benefica, come quella di un’icona venerata dai fedeli nelle chiese ortodosse. Da bambino potevo restare a fissarla per ore, incantato.
Si può facilmente immaginare quanto rimasi sconcertato scoprendo il tatuaggio che il simpatico Stinco aveva sul braccio destro. Tatuaggio che, oltre al disegno, era spaventoso anche per altri motivi. L’inchiostro era fatto con la fuliggine prodotta bruciando i copertoni delle auto; era estremamente nero, sembrava realizzato con una gomma grassa e viscosa, come il catrame, colata letteralmente nelle tracce scavate dentro il corpo.
Quell’immagine mi faceva impressione e, ogni volta in cui Stinco passava vicino a noi bambini, io percepivo una presenza macabra.
Quando Stinco era diventato maggiorenne, io avevo sei anni. Aveva cominciato a lavorare con un gruppo di criminali adulti che si occupavano di rapine ai portavalori. Si faceva vedere sempre meno in giro, finché non è sparito del tutto.
La sua famiglia era composta dalla madre anziana e da un fratello piú grande che era rimasto ucciso durante la guerra afghana; io non me lo ricordo neanche, ero appena nato quando suo fratello è partito per il servizio militare. La madre, dopo aver sepolto il primogenito e perso le tracce del secondo, con l’avanzare dell’età non ha retto la solitudine e ha lasciato questo mondo come fanno molte donne russe: in rigoroso silenzio, con un senso di dignità e rassegnazione che ha qualcosa di mistico. Senza coinvolgere nei propri drammi i vicini, senza turbare nessuno con le sue lamentele, ha semplicemente avvisato una delle sue amiche piú strette, dicendole che si sentiva ormai molto vicina alla morte. Dopo qualche giorno il suo spirito si è liberato dalla carne durante il sonno.
Abbiamo celebrato il funerale tutti insieme, come si faceva spesso nel nostro quartiere quando i vecchi che non avevano nessun parente ci lasciavano. Una delle conoscenti della morta si è impegnata a badare alla casa fino all’eventuale ritorno del figlio. Poi è mancata anche lei, la casa è andata in rovina, dopo due o tre inverni senza riscaldamento i muri hanno ceduto, corrosi dall’umidità, il tetto non ha resistito alle nevicate e, come succede da noi alle case abbandonate, nel giro di poco tempo anche quella della madre di Stinco si è trasformata in un autentico rudere. Finché un giorno, non avevo ancora diciott’anni, tra le rovine della casa si è sistemato un vecchio barbone che tutti consideravano matto.
Era vestito di stracci, stringeva fra le labbra terribili sigarette senza filtro che puzzavano di fieno bruciato, aveva le scarpe talmente rotte che per tenerle chiuse doveva avvolgerle con degli stracci. Gente conciata cosí male non ne avevamo mai vista, e abbiamo cominciato ad aiutarlo: qualcuno portava un po’ di cibo, qualcun altro dei vestiti, altri ancora coperte o una bracciata di legna perché potesse riscaldarsi la notte. Il vecchio parlava in continuazione, ma gli mancavano quasi tutti i denti per cui si capiva poco di quel che diceva. Inoltre era preda di violenti attacchi di tosse, dunque non riusciva mai a finire una frase. Però salutava sempre tutti, a volte chiamandoci per nome, come se ci conoscesse bene. Quando qualcuno lo guardava, la sua faccia si allargava in un enorme sorriso che metteva in mostra la bocca nera e sdentata.
Un giorno siamo passati da lui per portargli del pesce che avevamo pescato e cotto al forno: era morbido, e il vecchio avrebbe potuto mangiarlo senza fatica. Era estate e, una volta entrati nel cortile, lo abbiamo trovato che giocava con un cagnolino. Si era tolto i vestiti per via del sole, rimanendo a torso nudo. Ci siamo accorti che non era affatto vecchio: aveva un corpo giovane, anche se ricoperto da molte cicatrici, ma soprattutto abbiamo riconosciuto i tatuaggi siberiani. Sono rimasto sbalordito nel rivedere sul suo braccio destro l’immagine, ormai parecchio sbiadita, della morte-sposa che mi spaventava da bambino. Quel vecchio era Stinco, e aveva soltanto trentasei anni!
Quando abbiamo capito chi era il nostro barbone, abbiamo chiamato i criminali piú anziani. Loro si sono precipitati a offrirgli ospitalità.
Dopo qualche giorno ci hanno detto che dai pochi racconti sensati che erano riusciti a cavargli, Stinco aveva passato parecchio tempo in carcere dove si era ammalato di tubercolosi. Aveva perso quasi tutti i denti cercando di svitare i bulloni che fissavano le sbarre della prigione nel disperato tentativo di fuggire. Le guardie lo picchiavano un giorno sí e l’altro pure, e gli avevano provocato danni ai reni e alla milza.
I criminali, come vuole la tradizione, si sono presi cura di lui. Uno di loro lo ospitava a casa sua, e Stinco passava le sue giornate sulla riva del fiume con una canna da pesca e il cagnolino. Tentava di pescare qualcosa, ma la sua tosse era cosí rognosa da spaventare perfino i pesci.
Qualche volta gli portavamo le sigarette, ci sedevamo con lui e facevamo finta di ascoltare le sue storie incomprensibili. Sembrava un ragazzo come noi, imprigionato nel corpo di un vecchio.
L’abbiamo trovato morto una calda sera d’agosto, quando il sole stava toccando la terra. L’acqua del fiume, immersa nella luce del tramonto, sembrava ferma, come quella di un lago. Lui era al suo solito posto sulla riva, sdraiato sull’erba, i piedi nudi immersi nell’acqua fino alle caviglie. Aveva le braccia spalancate come se volesse abbracciare il cielo, gli occhi erano rimasti aperti, le pupille talmente dilatate che parevano vuote, sulla faccia era stampato il suo sorriso larghissimo e marcio che esprimeva una strana sensazione di serenità e pace ma rivelava anche le sofferenze passate. Il suo cane era accucciato vicino a lui, con un’espressione triste sul muso, le orecchie basse, mugolava piano. Noi ci siamo seduti accanto a lui e per qualche minuto siamo rimasti lí, senza dire niente, come se avessimo bisogno di riflettere per comprendere tutta la normalità di quello strano momento.
Tra i molti volti di morti che ho visto nel corso della mia esistenza ricordo con particolare affetto quello di Stinco: era tenero, quasi come se morendo avesse davvero incontrato la sposa, alla quale aveva giurato fedeltà tanti anni prima.