Domenica, turno di notte

Bruciature

Capitolo 42

Logan si afflosciò sulla sedia e si portò una mano sugli occhi. Per qualche motivo, la stanza con l’apparecchiatura di osservazione era piena di un distinto odore di formaggio. Quel genere di odore che si sviluppa in una piccola auto lasciandoci dentro un pezzo di gorgonzola sotto al sole di agosto. «Be’, come potevo sapere che Jack Simpson avesse capito male?»

Dall’altro capo della linea, l’ispettore del turno di notte sospirò. Sembrava ancora piuttosto intasato, come se gli avessero ficcato dei mattoni in ogni narice. «Era pieno di eroina e qualcuno lo stava pestando quasi a morte, quando ha sentito quel nome. Quanto ti ricorderesti tu?»

Già, ma così non era certo d’aiuto.

«Comunque, vediamo il lato positivo: abbiamo risolto l’omicidio di un poliziotto sotto copertura. Qualche punto l’hai ottenuto, da lì, Logan. Non so se basterà a evitare che McInnes ti rovini, però».

Anche così non era molto d’aiuto. «Abbiamo ottenuto una confessione firmata e sta rivelando i nomi di due dei suoi complici, quindi…».

Qualcuno bussò alla porta.

«Sergente?». Quando Logan si tolse la mano dagli occhi, vide Ciuffo, con due tazze fumanti e una copia del «Sunday Post». Posò una tazza davanti a Logan e gli fece sapere, in labiale: «Sto cercando i biscotti».

Si stava già ritirando quando Logan gli fece cenno di tornare indietro e posò la mano sul ricevitore del telefono. «Dai un’occhiata e vedi se riesci a notare qualcosa di strano». Si spostò con la sedia e indicò lo schermo. La visuale della telecamera numero tre del pub era stata messa in pausa, fissa sull’immagine della strada, con il furgone dei trasporti e i bambini che passavano. Logan tolse la mano dal ricevitore. «Mi scusi, ispettore, è entrato qualcuno».

«Chiamerò la polizia del Merseyside. Probabilmente manderanno una macchina a prenderlo, ma sono piuttosto certo che il sovrintendente capo non lascerà andare Martyn Baker da nessuna parte finché non avremo fatto una conferenza stampa congiunta. Non permetteremo a quattro stronzi di Liverpool di prendersi tutto il merito dell’operazione». Si sentiva chiaramente che stava sorridendo. «Ci penso io».

Ciuffo si accostò allo schermo e armeggiò con i controlli, mandando avanti la registrazione.

«Il problema è che non sappiamo ancora chi sia stato a fornire il carico a Klingon e Gerbillo».

«Sì, be’, sono certo che l’ispettore capo McInnes ce lo dirà, quando lo riterrà opportuno. E non un attimo prima. Nel frattempo, cosa pensate di fare tu e i miei cari sottoposti della Divisione b, stanotte?».

Logan controllò la lista degli agenti di turno e i casi aperti, mente Ciuffo mandava indietro la registrazione e la ricontrollava per la quarta volta. Logan chiuse il taccuino. «Capo, non si sa ancora niente di quel mandato di perquisizione per la casa di Frankie Ferris, vero?»

«Darò un’occhiata. Quando vorreste entrare?»

«Domani. Se avrò gli agenti per farlo. Potrei provare con l’Unità di Supporto».

«Okay, procedi pure. Ma intanto assicurati di far sapere ai secondini che Martyn Baker non si muoverà dalla sua cella e non parlerà con nessuno finché non lo decido io».

«Sì, capo».

«E, Logan? Ottimo lavoro».

Santo cielo: una lode. Per una volta.

«Però, ti prego, per l’amor di Dio, stai lontano dall’ispettore capo McInnes!».

Lui mise giù la cornetta del telefono.

Ciuffo stava ancora controllando la registrazione.

«Ti stai divertendo?»

«Mi stavo chiedendo chi fosse a traslocare».

Logan lo fissò. «Cosa?»

«Chi è che trasloca? Quel furgone dei trasporti se ne sta lì tutto il tempo, fermo. Nessuno ci carica dentro mobili, nessuno tira fuori niente. Se ne sta semplicemente parcheggiato lì?».

Logan sbatté le palpebre, fissando lo schermo. «Prova a controllare su un’altra cassetta».

Ciuffo espulse quella all’interno e infilò nel lettore quella successiva. Armeggiò con i controlli e mandò avanti la registrazione. Niente. Niente. Niente. Poi quattro uomini in tuta risalirono Mid Street, portando con sé delle buste di carta marrone che sembravano venire dal Wimpy di Hanover Street. Salirono sul furgone e restarono lì a mangiare. Infine si allacciarono le cinture e se ne andarono.

«Si erano solo parcheggiati per il pranzo».

Ciuffo espulse la cassetta e la sostituì con quella precedente a quella che stavano guardando prima. «Cosa? Quattro ore di pausa pranzo? Sergente, mi sa tanto che abbiamo scelto il lavoro sbagliato». Mandò indietro il filmato, poi si chinò in avanti, con il naso a pochi centimetri dallo schermo. «Se fossi uno che vuole portarsi via un registratore di cassa, dovrei prima controllare il posto, giusto? Scoprire quando viene rifornito dalla banca, o quel che sia. Magari avrei bisogno di scoprire quand’è che arriva l’auto della sicurezza e si fa un giro nei dintorni, no?».

Le persone camminavano all’indietro sullo schermo. Auto e biciclette si spostavano al contrario. Tutto, fuorché il furgone dei trasporti.

Niente ci entrava, niente ne usciva.

Poi i quattro uomini di prima attraversarono la strada all’indietro, risalirono sul furgone e uscirono di scena con il mezzo che scivolava via all’indietro.

«…Sergente? Ehi, sergente?». Ciuffo si stava sbracciando verso di lui. «Sta bene?»

«Prendi la registrazione della telecamera uno. Stesso periodo di tempo».

L’agente si strinse nelle spalle, ma obbedì, facendo scivolare la nuova cassetta nel lettore, mandando indietro la registrazione fino al momento in cui si vide uno dei quattro uomini entrare all’indietro nel Broch Braw Buys. Era grosso, con lunghi capelli castani e una tuta verde.

Tutto quel tempo, e l’unica cosa che avevano fatto era stato comprarsi degli hamburger e visitare il negozio che era stato rapinato il giorno dopo.

Il furgone dei trasporti. Il furgone dei trasporti.

No…

Era quello. Quello era ciò che gli era sembrato familiare, non le persone o le auto.

Un lento sorriso gli fiorì sulle labbra. «Ciuffo, non pensavo che l’avrei mai detto, ma sei un genio».

«Davvero? Oh, forte». Il ragazzo gonfiò il petto. Poi aggrottò la fronte. «Ma cosa ho fatto? E mi merito una medaglia, per questo, o qualcosa del genere?».

Logan prese il taccuino e girò le pagine fino alla mattina del giorno prima. Trovò il numero della manager del supermercato di Portsoy e lo digitò.

Lasciò squillare il telefono a lungo, finché finalmente non ci fu uno scatto. «Salve, questa è la segreteria telefonica di…». Un altro scatto. «Pronto? Chi è?».

«Salve, Stacey. Sono il sergente McRae, ci siamo conosciuti ieri mattina. Ricorda, dopo la rapina?»

«Mi scusi, stavo facendo l’inventario della cella frigorifera. Non sa quante confezioni di patate al forno surgelate dobbiamo controllare».

«Può farmi un favore? Può dare un’occhiata alle registrazioni delle telecamere di sicurezza e dirmi se ci trova un furgone di trasporti? Potrebbe dover tornare indietro di un paio di giorni».

«Certo, se pensa che possa esserci d’aiuto…».

Con un po’ di fortuna, forse sì.

La ricetrasmittente continuava a crepitare tra sé e sé. «A chiunque nelle vicinanze di Aberchirder, abbiamo ricevuto una segnalazione di mucche sulla a97 a sud di Castlebrae…».

«Che te ne pare delle sette e mezzo… otto meno un quarto?». Logan incastrò il cellulare tra l’orecchio e la spalla e controllò il successivo scaffale. Perché nessuno rimetteva mai le cose a posto? Le cassette della telecamera di sicurezza della Macchina Grande sarebbero dovute essere ordinate cronologicamente, dalla più vecchia alla più recente, sul dannato scaffale sotto al monitor. C’era perfino una dannata etichetta sul dannato scaffale in questione che lo diceva.

«Ricevuto, Controllo, Big Paul e la Temuta Penny stanno andando a sistemare la faccenda. Ci muoviamo».

Erano le sette, e aveva tutta la stazione di Banff per sé. Niente male, per una volta.

O meglio, lo sarebbe stato se fosse riuscito a trovare qualcosa.

Dall’altra parte della linea arrivarono cigolii e altri rumori poco identificabili. Non aveva idea di cosa stesse facendo Helen, ma sembrava che stesse lavando un mucchio di topi robot. «Bistecca, funghi, cipolle e patate fritte?».

Dopo il cibo cinese confiscato?

Be’, a cena donata non si guarda in bocca.

«Mi sembra fantastico».

Finalmente! Eccole, due scaffali più giù, incastrate dietro un mucchio di buste per le prove. Idioti. Doveva essercene una per ogni giorno delle ultime due settimane. Se erano tutte mischiate, come si pensava che qualcuno potesse trovare quello che stava cercando?

«Ho finito il corridoio. Il soffitto sopra le scale non è stato un lavoro facile, ma ora ha un aspetto molto più piacevole».

Lui sistemò tutte e quattordici le cassette una sopra l’altra e le portò alla scrivania. «Sei riuscita a fare tutto questo in un solo giorno? Diavolo, dovresti aprire un’impresa».

Ora, dove diavolo era finito il cavo per connettere il tutto al computer?

«Presunta aggressione canina su Williams Crescent, a Fraserburgh. Qualcuno è nelle vicinanze?».

Era nascosto sotto a un mucchio di batterie aaa, elastici e graffette nel cassetto più in basso.

Lavorare in quel posto era come vivere con i dannati Rubacchiotti. E non poteva essere sempre colpa di Hector.

«D’accordo. Finisco di lavare il rullo e i pennelli e poi sarà ora di cominciare a cucinare».

«Non vedo l’ora». Logan attaccò, mise tutte le cassette in ordine, poi inserì il cavo in quella del giorno prima. Il computer ronzò e borbottò, facendo accendere sulla cassetta una piccola luce verde. Un ronzio, un paio di pigolii e poi la barra di caricamento comparve sullo schermo.

Tanto valeva andarsi a prendere un tè; ci sarebbe voluto del tempo.

Una copia dell’«Aberdeen Sunday Examiner» era ripiegata sul bordo della postazione di Maggie. “tragica fine per pescatore scomparso” era il titolo che si trovava sopra a una foto di Charles Anderson con una foto più piccola della sua barca. Logan prese il giornale e se lo portò nella mensa. Lo aprì sul tavolo e mise su il bollitore.

Prese a canticchiare tra sé e sé, mentre l’acqua cominciava a bollire: «Bistecca per cena, bistecca per cena, la-la-la-la, bistecca per cena…».

Secondo l’«Examiner», la vita di Charles “Craggie” Anderson era stata distrutta dalla perdita del figlio cinque anni prima. Non c’erano molte altre informazioni rispetto a quelle che Big Paul aveva trovato nei fascicoli ufficiali, ma il giornalista ci aveva messo più pepe possibile, dalla campagna di Anderson per trovare il pedofilo che secondo lui aveva rapito il bambino al crollo del suo matrimonio, dalla dipendenza dall’alcol alla sua violenta morte.

Era riuscito perfino a rintracciare la moglie di Anderson, che ora viveva nel Devon con il cognome da nubile. Con tanto di citazione virgolettata che parlava di possibilità gettate al vento, tragedia e dolore.

Il bollitore fischiò.

Non sembrava, dall’articolo, che Anderson fosse altro che un uomo spezzato destinato a un suicidio inevitabile. Non si insinuava che potesse in qualche modo essere responsabile della morte del figlio, o che fosse il tipo da rapire una bambina e abusare di lei, per poi spaccarle la testa con una tubatura di metallo.

Logan si preparò una tazza di tè, controllò per assicurarsi che nessuno lo stesse guardando e rubò un biscotto dalla scorta dell’ispettore McGregor, in fondo alla credenza. Lei non sarebbe rientrata fino alla mattina dopo, quindi la colpa sarebbe ricaduta su qualcuno del turno di notte.

Forse era solo una coincidenza che Anderson fosse scomparso nello stesso periodo di Neil Wood? Ed era una coincidenza anche che poco dopo il corpo di una bambina fosse stato spinto dal mare fino alla Tarlair Outdoor Swimming Pool.

O forse Wood e Anderson erano complici. Non sarebbe stata la prima volta in cui un paio di bastardi si univano per abusare di bambini.

«Pattuglia Sette, potete parlare?».

Logan controllò lo schermo della ricetrasmittente. Era il numero dell’ispettore di turno. «Dica pure, capo».

«C’è un ritardo sul mandato di perquisizione per la casa di Frankie Ferris. Qualcosa che riguarda pressioni operative. Hanno detto di riprovare domani. Nel frattempo, fammi sapere se ti serve una mano a chiedere qualche agente in più all’Unità di Supporto Operativo».

«Grazie, capo».

Logan portò il tè e il biscotto rubato nell’ufficio dei sergenti, appena in tempo per vedere la barra di caricamento toccare il 100%. Metà dello schermo si riempì della visuale statica del parcheggio fuori dalla stazione di polizia di Banff. L’altra metà era una lista di orari, ciascuno a rappresentare un blocco di dati quando la telecamera era stata attivata.

Logan li scorse e cliccò su quello delle nove e mezzo della mattina precedente.

Lo schermo passò a un’immagine di una strada in movimento, con alberi e cespugli ridotti a una macchia verde e sfocata mentre l’auto correva sulla strada e l’ululato della sirena si udiva dai piccoli e crepitanti altoparlanti del computer. Nell’angolo dell’immagine si leggeva la velocità della Nicholson, che toccava i centotrenta chilometri orari. Il cartello “benvenuti a portsoy” passò rapidamente e sparì. Case. Automobili. E poi l’immagine mostrò la strada principale.

Bottiglie, cartoni e lattine coprivano la strada davanti alla vetrina distrutta del supermercato. L’auto si fermò con un forte stridio di freni. Un vago tintinnio, poi Logan comparve sullo schermo, mentre si calcava sulle orecchie il berretto dell’uniforme.

«Da che parte sono andati? Che macchina hanno?».

La giovane donna con il passeggino indicò, muovendo le labbra, ma era troppo lontana dal microfono della telecamera perché le parole si distinguessero.

Logan tornò nell’inquadratura. Ci fu un tonfo, e poi: «Vai!».

E a quel punto ripartirono a tutta velocità sulla strada, superando case, macchine e pedoni stupiti.

«Pattuglia Sette a Controllo, i colpevoli hanno lasciato la scena. Un testimone ha detto che hanno preso la strada per Cullen. Li stiamo inseguendo».

Qualunque cosa dicesse in risposta il Controllo, si ridusse a un borbottio inudibile.

Poi di nuovo la sua voce: «Negativo».

Un camper bloccava il lato sinistro della strada, ignorando i lampeggianti e le sirene. C’erano mezzi che provenivano dal lato opposto… Ecco.

Logan premette il pulsante di pausa. Tre macchine. Un autobus. Un furgone di trasporti. E un camion del latte. Tutti intenti a spostarsi di lato per farli passare. Il furgone era grosso e nero, con la scritta: “magnus hogg e figlio: spostiamo famiglie dal 1965” sulla fiancata, in lettere rosse arricciate.

Era lo stesso che stava parcheggiato fuori dal Kenya Bar a Fraserburgh il giorno prima che il Broch Braw Buys fosse rapinato. Solo che questa volta il numero di targa era chiaramente visibile. Lo copiò sul taccuino e richiamò sul computer l’interfaccia del database della polizia.

«Pattuglia Sette, potete parlare?».

Logan prese la ricetrasmittente e controllò lo schermo. Non aveva idea di chi fosse quel numero, ma era basso, quindi significava che si trattava di qualcuno in alto. Premette il pulsante. «Parlate pure».

«Ah, sergente McRae, sono l’ispettore capo McInnes».

Oh, gioia. Ecco che arrivava la vendetta di McInnes.

Logan inserì la targa nell’interfaccia con una sola mano. «Cosa posso fare per lei?»

«Può raggiungermi al numero trentasei di Fairholme Place, ecco cosa può fare. Adesso sarebbe l’ideale».

Fantastico. «Sì, signore».

Lo schermo si riempì dei dettagli del proprietario del furgone di trasporti: una compagnia di Bristol. La pagina successiva mostrava i dettagli dell’assicurazione e a chi era intestata. Nessuno dei nomi sembrava familiare.

Certo, non doveva esserci per forza qualcosa di losco in quel furgone. L’avevano notato nelle vicinanze di un paio di furti di casse, e allora? Le coincidenze potevano sempre accadere.

Tuttavia…

Ma non poteva occuparsene in quel momento. Non era saggio far infuriare McInnes più di quanto già non fosse.

Prese il berretto dell’uniforme e le chiavi della macchina.

Logan parcheggiò accanto al marciapiede dietro al polveroso Transit bianco della Scientifica. Qualcuno aveva scritto nella sporcizia che copriva i portelli posteriori “se tua madre fosse così zozza, non avrei bisogno del porno!”.

Okay. Tanto valeva farla finita.

Uscì sotto la pioggia leggera, sentendosi bruciare le orecchie per il freddo. E per fortuna che era maggio: in quel momento, sembrava più dicembre.

Il telefono cominciò a squillare. Logan lo prese dalla tasca mentre si incamminava verso la casa della madre di Klingon. «Pronto?»

«Sergente McRae? Sono Stacey, da Portsoy. Ho controllato le registrazioni come mi aveva chiesto».

Lui passò sotto al nastro bianco e blu della polizia. «E…?»

«Perché voleva che cercassi un furgone dei trasporti?»

«Noi…». Bella domanda. «Be’, pensiamo che il conducente possa aver assistito al crimine, e lo stiamo cercando per ottenere la sua testimonianza». Okay, era una bugia, ma Stacey non doveva saperlo.

Non c’erano agenti sulla porta, e Logan entrò.

«Okay. Be’, ne ho trovato uno. Sono dovuta tornare indietro fino a mercoledì per trovarlo, ma in effetti ce n’è uno che è rimasto parcheggiato per un paio d’ore davanti al negozio, quella mattina».

L’odore di buste della spazzatura piene e di rifiuti marci era come un muro all’ingresso.

«Mi faccia indovinare: è blu, con la scritta Traslochi Duncan Smith sulla fiancata?»

«Oh… No. È nero, con la scritta Magnus Hogg e Figlio».

Bingo.

Si udì un tonfo, da qualche parte all’interno della casa, seguito dalla voce acuta di una donna. «no, non mi calmo affatto! guardi che roba!».

Logan fece una pausa. «Mi sono dimenticato di chiederglielo in precedenza: quand’è che vengono a riempire la cassa, di solito?»

«Il venerdì sera. Di solito. A volte di sabato, se c’è un problema con la banca o sono occupati».

«guardi che roba!».

«Okay, grazie. Le farò sapere se ci sono novità». Logan chiuse la telefonata. Prese un respiro profondo… e se ne pentì all’istante. L’aria puzzava di rifiuti. Tossì un paio di volte. Poi raggiunse il corridoio.

Le urla provenivano dalla porta aperta della cucina. Lui si avvicinò e bussò sullo stipite.

McInnes era appoggiato di schiena al piano di lavoro, con le braccia conserte sul petto, mentre un agente cercava di placare una donna che sembrava una portaerei in jeans stinti e giaccone Burberry.

L’Ammiraglia Rabbia indicò con forza la finestra della cucina. «e cosa diavolo state combinando nel mio giardino?».

McInnes voltò la testa verso Logan e accennò un sorriso gelido. «Ah, sergente, bene. Mi fa tanto piacere che sia potuto venire. Voi due vi siete già conosciuti?». Accennò alla corpulenta e infuriata signora. «La signora qui presente è Lesley Spinney. La madre di Colin Spinney».

Ah… quindi forse non era morta e sepolta, dopotutto.

Capitolo 43

L’ispettore capo McInnes allargò le braccia. «Non le sembra in forma, per essere un cadavere?».

La madre di Klingon lo fissò con quel considerevole cipiglio. «Che fa, cerca di fare il simpatico?»

«Niente affatto, Lesley. Le dispiacerebbe spiegare al sergente McRae dove è stata negli ultimi quattro mesi?»

«E cosa diavolo è successo alla mia casa? L’avevo appena fatta ridipingere, quando sono partita!».

«La prego». McInnes le batté una pacca gentile sulla spalla. «Dica al sergente dove si trovava».

«Ero a Perth, a badare a mio fratello Sydney. Cancro al pancreas. I funerali ci sono stati mercoledì scorso».

Il sorriso di McInnes si allargò. «Non Perth in Australia, sergente, ma Perth in Scozia. A centotrenta miglia da qui, non novemila».

Non c’era da stupirsi se Derek Stratman non aveva trovato tracce di un eventuale uso del passaporto da parte sua.

Logan spostò il peso da un piede all’altro. «Capisco».

Non era andata in Australia. E non era morta.

Come era possibile? Dai registri che il compagno di Maggie aveva controllato per lui il giorno prima, risultava che la madre di Klingon non aveva pagato l’affitto per quasi un anno. Quale essere umano sano di mente avrebbe mai potuto lasciare in mano a Colin “Klingon” Spinney il pagamento regolare di un affitto senza temere uno sfratto entro breve tempo?

«Ma…». Logan si schiarì la gola. «Perché ha cancellato il suo addebito bancario dell’affitto dieci mesi fa? Perché ha lasciato che se ne occupasse Colin?»

«Non sono affari suoi, questi». La donna gli si avvicinò, fulminandolo con lo sguardo. «E ora voglio sapere cosa è successo alla mia maledetta casa».

Logan raddrizzò le spalle. «Temo che sia diventata la scena di un crimine».

«No, neanche per sogno».

«Suo figlio e Kevin McEwan spacciavano droga e…».

«Come osa! Questo non è possibile!».

«…tentato omicidio di Jack Simpson…».

«Il mio Colin è un bravo ragazzo! Come osa parlarne in questo modo?».

Logan la fissò. «Abbiamo ritrovato e confiscato un carico di eroina del valore di centomila sterline nella sua soffitta, signora, oltre a un Jack Simpson quasi pestato a morte».

Lei scosse la testa. «No, non è possibile. Queste sono tutte menzogne».

«Signora, io ero qui quando è successo. Ho visto tutto. Sono stato io a trovare il carico!».

«Ce l’ha messo lei allora! È un bugiardo, e mi lamenterò ufficialmente per questo». La madre di Klingon si raddrizzò in tutta la sua altezza. «Non la farà franca!».

La giornata era andata troppo bene, fino a quel momento…

«Be’… pensavo che lo fosse, d’accordo?». Logan si appoggiò alla recinzione del giardino.

«A me non sembra morta. A lei sembra morta?». McInnes prese un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, ne tirò fuori una e se l’accese. «Pensavo le avessero spiegato la differenza tra una persona viva e una morta, quando era in accademia. Per caso quel giorno era a letto con l’influenza?».

La pioggia sottile continuava a scendere da un cielo color canna di fucile, fredda e umida.

«Dicevano tutti che era andata in Australia…».

Si udì uno schianto improvviso, e la tenda della Scientifica ondeggiò di lato. Una figura con la tuta bianca uscì dalla costruzione di plastica blu, portando con sé un palo di metallo. Lo posò a terra con un tintinnio. Un suo collega si fece schioccare le dita ed entrò per prendere il suo palo. Il Jenga della Scientifica era cominciato.

McInnes prese un lungo tiro dalla sigaretta, soffiando il fumo in faccia a Logan. «Vede, tutti verranno a batterle pacche sulle spalle. “Ben fatto, sergente McRae, ha preso il bastardo spacciatore che ha sparato all’agente Mary Ann Nasrallah”. Oh, la stampa le leccherà le chiappe per un po’, certo che sì. Ma io e lei sappiamo la verità». Un altro sbuffo di fumo. Almeno quello finì di lato. «Ha avuto un colpo di fortuna mentre tentava di crearmi problemi».

Logan si strinse nelle spalle. «Si trattava di un legittimo…».

«Non ci provi neanche». McInnes gli si avvicinò abbastanza da fargli sentire il calore della punta accesa della sigaretta contro la guancia. «Pensa di essere un dritto, vero, McRae? Ma non è altro che un perdente in un’uniforme ruvida, e con un pessimo taglio di capelli. Ed è proprio in cima alla mia lista».

Silenzio.

Un altro tonfo, poi il primo tecnico della Scientifica entrò a prendere il palo successivo.

McInnes fece un passo indietro. «Oh, ora come ora non posso toccarla. Ma vedrà: non appena questo polverone tornerà a posarsi e tutti si saranno dimenticati dell’agente Nasrallah, io verrò a prenderla».

Logan parcheggiò la Macchina Grande fuori da casa sua. Si afflosciò sul sedile e sbatté la fronte contro il volante per un paio di volte.

Tipico. Sarebbe andato tutto bene, quel giorno, ma ovviamente non potevano permettergli di rilassarsi, giusto? No. Certo che no. Un passo avanti e tre indietro, dannazione.

Come era possibile che quella donna non fosse morta? Il cane di Syd aveva trovato il suo cadavere, per la miseria!

Sbuffò un lungo e lento sospiro. Magari lì sotto c’era sepolto un animale della famiglia, o una vecchia carcassa di pollo, no? O forse il golden retriever di Syd era stupido come tutti gli altri golden retriever del mondo.

«Gah…».

Avanti. Era ora di rimettersi al lavoro.

Logan girò le pagine del taccuino e poi premette il pulsante della ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette, ho bisogno che venga ricercato un furgone di trasporti nero…». Diede la descrizione e il numero di targa. «Sospetto coinvolgimento nella serie di furti di casse. In caso sia avvistato, va fermato e perquisito».

«Ricevuto».

E, con un po’ di fortuna, non avrebbe finito per sembrare un idiota anche in quel caso.

Uscì dalla macchina, lasciandosi avvolgere dall’umidità della sera. Chiuse lo sportello e si affrettò ad attraversare la strada, entrando in casa. Il profumo denso e aromatico di funghi fritti lo accolse all’ingresso. «Ehilà?»

«Sono qui».

Logan seguì l’aroma fino in cucina. «Scusami, sono stato trattenuto al lavoro».

«Nessun problema. Sei tornato assolutamente in tempo». Helen era davanti ai fornelli, con una spatola di legno in mano, mentre rigirava il contenuto di una padella. Poi accennò alle due bistecche sul loro piatto, ancora crude e di un rosso scuro. «Come ti piace la bistecca? Poco cotta, o cottura media? A me non piace ben cotta».

Lui si sedette al tavolo della cucina. «Poco cotta. Grazie».

Lei si scostò una manciata di ricci dorati dal viso. Le borse che aveva sotto agli occhi erano meno evidenti del giorno prima e di quello prima ancora. «Le patate saranno pronte tra un attimo». Incurvò le spalle, versando i funghi in una scodella. Alzò la fiamma sotto la padella. «Senti, riguardo a ieri sera…».

«È tutto okay. Davvero. Non c’è problema». Logan si schiarì la gola. «Mi dispiace per… ecco, sì, insomma. Lo sai. È stato…». Tossicchiò, sentendosi avvampare fino alle orecchie. «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che…». Sì, probabilmente non era il caso di parlare di erezioni imbarazzanti a tavola. Tirò su con il naso. «Comunque… bistecca e patatine, eh? Non vedevo l’ora di fare questa cena».

«Solo… non volevo che pensassi che ci sto provando, e… davvero…».

«No, non preoccuparti, sul serio».

«È che mi sento tanto sola, sai? Il fatto di non sapere la verità mi fa impazzire».

«Già».

Le bistecche sibilarono e sfrigolarono nella padella.

Lei piegò la testa di lato. «Lo so che è difficile. Con Samantha».

Difficile.

«Sono passati quattro anni da quando è finita in coma. Quattro anni e sette giorni. È più tempo di quello che avevamo passato insieme, prima. La conosco da più tempo come è ora che quando… Be’, è una cosa…». Un lungo, lento sospiro gli svuotò i polmoni, facendogli incurvare la schiena e afflosciare le spalle. «Sì. Difficile è la parola giusta per descriverlo».

Helen non si girò. «E in tutto questo tempo, non hai mai…?».

Lui fissò la sua nuca. «Sì. Un paio di volte. Una mia ex. Adesso è separata».

«Capisco».

Logan rivestì la voce di una punta d’acciaio. «Non ne vado fiero».

Lei tolse le bistecche dalla padella. «Io non l’ho mai fatto. E non ne vado fiera neanche io».

Un timer trillò, e lei si piegò ad aprire il forno, facendo uscire l’aroma invitante delle patate.

Logan risistemò le posate.

Lei mise sopra al pianale del forno la teglia.

Logan allineò il sale, il pepe, la senape e l’aceto. Si guardò le mani. «Dovrò restare al lavoro fino a tardi anche stasera: probabilmente fino alle due e mezzo. Una cosa del genere».

«Oh, okay. Leggerò un libro».

«Bene. Ottimo».

Le patatine finirono nei piatti tintinnando come ossicini.

«A tutte le unità nelle vicinanze di Bunthlaw, abbiamo una segnalazione di aggressione a scopo di stupro presso il campo nomadi…».

Logan abbassò il volume della ricetrasmittente. «Scusami».

Le bistecche erano alte e al sangue. Succulente e ricche. Le mangiarono nel silenzio più totale.

Erano le otto e mezzo e la pioggia era svanita nel nulla, lasciando le strade lucide e nere. Il sole aveva trovato una fessura tra il mare e le nuvole basse, spargendo il suo oro tra i campi e le case mentre scendeva verso l’America.

Logan riportò la Macchina Grande su Rundle Avenue.

Non si poteva mai sapere.

«Pattuglia Sette, potete parlare?»

«Parlate pure».

«Sergente, aveva chiesto di essere aggiornato su David e Catherine Bisset, giusto? Ci è arrivata una segnalazione di avvistamento: sembra che siano saliti sul Megabus di Dundee diretto a Londra».

«Qualcuno lo sta già andando a fermare?»

«Sì, sono già partiti».

«Grazie».

Non c’era traccia di vita su Rundle Avenue. I clienti di Frankie Ferris dovevano essere tutti chiusi in casa, a mangiare una cena riscaldata nel forno a microonde davanti alla tv. A lamentarsi del fatto che non ci fosse mai niente di interessante da vedere.

Stava perdendo tempo, lì.

Be’, a parte il fatto di agire da deterrente. Con un po’ di fortuna, i clienti di Frankie se ne sarebbero rimasti lontani per un po’. E quindi quel probabile carico di droga in casa sua sarebbe rimasto lì. E ci sarebbe stato ancora quando Logan avrebbe buttato giù la porta per perquisire la casa.

A proposito: digitò il numero del sergente Mitchell sulla ricetrasmittente. «Pattuglia Sette, può parlare?».

Ci fu un’interferenza. Una pausa. Poi la voce profonda di Mitchell riecheggiò dal ricevitore. «Sergente McRae. Ho sentito che dobbiamo ringraziare te per aver preso il bastardo che ha sparato a quell’agente sotto copertura. Ben fatto. L’Unità di Supporto Operativo ti saluta».

«So che non ti sto dando molto preavviso, ma tu e il tuo gruppo di coristi siete liberi domani per un’altra perquisizione? Be’, sempre che riesca a convincere lo sceriffo a smettere di fare lo stronzo e a concedermi il mandato».

«Mi piacerebbe molto, ma domani siamo prenotati. Si potrebbe fare dopodomani, però: saremo comunque dalle tue parti. Martedì mattina presto?»

«Ci sto».

«Pensi che si potrebbe riuscire a usare la motosega…?»

«Be’, penso di sì, tutto sommato».

«Allora non mancheremo!».

E forse questa volta sarebbero riusciti a incastrare Frankie Ferris per qualcosa di più grave che possesso di stupefacenti.

Logan fece inversione di marcia e tornò verso il centro cittadino.

«A tutte le unità, stiamo cercando una Volvo grigia, conducente in possibile stato di ebbrezza, avvistata sulla a98 a est di Blakehouse…».

Lui scivolò lungo le strade umide di pioggia, nel silenzio e nella quiete più totali, superando poi il ponte che portava a Macduff.

Il porto era silenzioso, come del resto High Shore. Non c’era nessuno fuori dai pub, dagli hotel e dalla friggitoria.

Forse era stata la pioggia a far rinchiudere tutti in casa, a sbarrare le finestre contro la tempesta, in quel piccolo scampolo di dicembre a maggio.

Si fermò in cima alla collina, osservando la strada che si dipanava verso il basso, scivolando dove la Tarlair Outdoor Swimming Pool si incastonava alla base della scogliera. I nastri della polizia non c’erano più, il luogo era stato abbandonato ai fantasmi dei nuotatori passati, e di una bambina assassinata.

Già… stava diventando un’immagine un po’ macabra.

E se McInnes avesse voluto davvero creargli problemi, cosa avrebbe potuto fare? Quel piccolo bastardo calvo era solo chiacchiere e distintivo, ecco cosa. Non era stato lui a risolvere un omicidio commesso dall’altra parte del paese, giusto? No. Era stato Logan, e grazie tante.

Anche se era successo per puro caso.

Lunghe ombre blu scivolavano lungo l’acqua striata di alghe delle due piscine abbandonate, per poi inghiottirle completamente.

Una bambina morta, con la testa spaccata da un pezzo di tubo metallico. Due uomini scomparsi.

«A tutte le unità: stiamo ricevendo segnalazioni di disordini su Fair Isle Crescent, a Peterhead. Si richiede risposta immediata».

«Qui Sierra Due Quattro, ricevuto. Ci stiamo dirigendo sul posto».

Non c’era traccia di Neil Wood. Probabilmente non era neanche più in zona. Doveva essere salito sul primo autobus che si allontanava da lì, per nascondersi a Edimburgo o a Dundee. In qualche posto grande abbastanza da farlo sparire. Doveva aver deciso di volare basso e restare anonimo. Era difficile non farsi notare, in piccole comunità come quelle lì intorno.

E poi c’era Charles “Craggie” Anderson, bruciato sul ponte della sua stessa barca…

Logan strinse gli occhi, offuscando la piscina sullo sfondo. Tamburellò le dita sul volante.

E se quei due fossero stati complici? E se Neil Wood non era salito su un autobus, dopotutto? Se invece era salito sulla barca di Anderson? I due potevano essere fuggiti insieme. Poi avevano litigato una volta raggiunte le Orcadi, c’era stata una colluttazione e Neil Wood aveva vinto. Aveva ucciso Anderson e bruciato la barca per cancellare le prove. E poi era scomparso.

Be’, se non era facile nascondersi nell’Aberdeenshire, nelle Orcadi sarebbe stato quasi impossibile…

Logan fece un’inversione in tre tempi e tornò sulla strada principale.

Se Wood e Anderson erano complici, dovevano esserci delle tracce a dimostrarlo, giusto? Qualcosa di tangibile a collegarli, e di più concreto di una fotografia sul muro di un pedofilo morto.

La Steel e il suo team di sicuro erano stati nel Bed & Breakfast di Neil Wood, ma nessuno aveva controllato a fondo la casa di Charles Anderson, a parte accertarsi che fosse davvero scomparso e non fosse caduto e morto in bagno.

Era ora di provare qualcosa di diverso.

La casa di Anderson era tutta sviluppata su un piano, con un tetto di tegole grigie. C’erano due camini, uno a ogni lato del timpano, con la struttura piena di crepe e rametti che sporgevano dalle estremità, dove i corvi si erano fatti il nido. Una luce calda inondava le pareti della villetta, facendo scintillare l’intonaco bianco sotto le pesanti nuvole nere e bluastre. Come se il cielo fosse un unico, enorme livido.

Lapazi e cardi avevano preso possesso del giardino. I semi di dente di leone si attaccavano quasi a ogni superficie presente, mentre sottili ragnatele infestavano l’erba alta e le siepi troppo cresciute.

Logan chiuse a chiave la Macchina Grande e si avviò verso la porta, facendo scricchiolare la ghiaia sul vialetto.

La casa era isolata, a metà strada tra Macduff e Gardenstown. Intorno c’erano solo campi di colza, a dividerla dagli edifici più vicini, e si trovava in fondo a una stradina sterrata, a una quindicina di metri dal bordo della scogliera.

Niente occhi indiscreti a vedere se Anderson avesse fatto qualcosa di insolito.

La porta d’ingresso era chiusa a chiave, perciò Logan provò ad aggirare la casa, procedendo in mezzo all’erba alta fino al ginocchio e riempiendosi i pantaloni ruvidi dell’uniforme di lappole.

Anche la porta sul retro era chiusa a chiave.

Il cellulare di Logan si esibì nella Marcia imperiale di Star Wars. Lui si fermò, imprecando, poi lo tirò fuori dalla tasca. «Che c’è?»

«Laz, ti pare questo il modo di rivolgerti a un tuo ufficiale superiore? Un po’ di rispetto, eh?»

«Sono occupato. Mi lasci in pace».

Probabilmente c’era una copia delle chiavi di quella casa, in un qualche fascicolo alla stazione di polizia, ma non gli era d’aiuto, in quel momento. Provò sopra la porta sul retro.

Niente.

«Piccolo bastardo ingrato. Ti stavo chiamando per congratularmi con te per aver beccato il tizio che ha sparato all’agente Nasrallah, e cosa ricevo in cambio?»

«Sì, certo, era solo per quello che mi stava chiamando, vero?». Non c’era niente neanche sotto ai vasi ai lati della porta.

«Be’, ora che me lo ricordi… forse potresti ricevere una telefonata da Susan, che sta organizzando un bel pranzo di famiglia per festeggiare i risultati positivi del test. E dovresti dirle che non può invitare sua madre. O la tua».

«È sua moglie, glielo dica lei». C’era un garage, attaccato all’altro lato della casa. Un po’ cadente, fatto di assi inchiodate insieme. La vernice si stava sfaldando, esponendo il legno al di sotto. Le vespe ne avevano approfittato per farci il nido, lasciando la superficie ruvida e grigia. Niente finestre, ma probabilmente non sarebbe stato difficile sollevare un paio di assi e infilarsi dentro.

Sarebbe stato più facile, tuttavia, rompere uno dei pannelli di vetro della porta sul retro.

Si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro.

«Non voglio far arrabbiare Susan, che credi? Dille… che ne so, che tua madre ti sta facendo impazzire, ultimamente, e che se scopre che la madre di Susan c’era e lei no, si butterà da un ponte, o cose del genere».

«Magari». Logan raccolse dal tratto erboso vicino alla porta un sasso grosso più o meno quanto un libro. «Comunque, non è il mio lavoro difenderla da sua suocera».

La porta sul retro presentava nove piccoli pannelli di vetro sistemati nella parte superiore. La pietra distrusse quello più in basso a destra, facendo schiantare delle schegge sul pavimento della cucina.

«Perché sento rumore di vetri rotti in sottofondo?»

«Tiri fuori le palle e dica a Susan come si sente. La smetta di lamentarsi e faccia qualcosa». Logan sfilò dal fodero il manganello e lo infilò nel buco, passandolo con decisione sui bordi per eliminare ogni scheggia di vetro rimasta.

«Laz, non stai facendo qualcosa che non dovresti fare, vero?»

«Sono occupato, gliel’ho già detto».

Infilò la mano inguantata nel buco e cercò intorno… Ecco la maniglia. Tastò più in basso. Okay, la chiave era ancora infilata nella toppa.

Logan la girò e fece lo stesso con la maniglia. Aprì la porta ed entrò. «Ora devo andare».

«Oh, no, niente affatto. Se speri che ti fornirò di nuovo un alibi, ti sbagli di grosso. Qualunque cosa tu stia facendo, smetti subito di farla».

La cucina era fredda e umida, come se non ci avesse messo piede nessuno da anni. Una crosta di muschio cresceva agli angoli delle finestre. L’aria sapeva di muffa e polvere. Non era sporca, soltanto abbandonata.

«Laz, ti avverto: hanno messo il gps nelle ricetrasmittenti. Funziona anche quando sono spente. Se stai combinando qualcosa, sapranno dove sei stato».

Lui superò la cucina, infilandosi nel lungo e stretto corridoio. C’erano altre tre porte, una per lato.

«Nessuno si lamenterà per quello che sto facendo, d’accordo? Il padrone di casa è morto. E qui non ci vive nessun altro».

La porta numero uno si aprì su un soggiorno che doveva essere stato abbandonato anni prima. Carta da parati ormai rovinata, un divano malmesso, un tappeto consumato sulle cigolanti assi del pavimento.

La voce della Steel si abbassò a un sussurro rabbioso: «Perché diavolo stai commettendo un’effrazione ai danni della casa di un morto?»

«Non sto commettendo nessuna effrazione. Chi ha parlato di effrazione?».

La porta numero due dava su un bagno: piastrelle bianche sulle pareti, una vasca di smalto bianco, un lavabo bianco. Tutto il calore di un frigorifero.

«Laz, non fare l’idiota! Questo non è…».

«Passavo di qui e ho notato un pannello di vetro rotto nella porta sul retro. Sono entrato per assicurarmi che nessuno avesse rubato niente. Tutto secondo le regole».

La porta numero tre gli mostrò una stanza da letto. Letto matrimoniale con un materasso afflosciato al centro, niente foto o quadri alle pareti. Le tende chiuse le davano un’aria da camera ardente.

«Santo Dio… ma dove sei?».

Logan provò ad aprire il cassetto del comodino più vicino alla porta. «Perché?». Calzini. Mutande. Fazzoletti. Robaccia assortita.

«Perché sto per raggiungerti e prenderti a calci nel sedere!».

Il contenuto dell’altro comodino non era molto diverso, a parte una piccola collezione di riviste porno parecchio usate nell’ultimo cassetto.

«Qualcuno di noi ha del lavoro da portare avanti, okay?».

Logan controllò le riviste con le dita inguantate. Niente di troppo estremo o strano, e comunque niente bambini.

«Dovremmo essere una squadra! Io e te, i due moschettieri, ricordi?».

I vestiti nell’armadio erano ingrigiti e vecchi, flosci sulle stampelle come se non avessero voglia di affrontare un nuovo giorno.

Logan tornò in corridoio.

«Sono a casa di Charles Anderson».

La porta numero quattro si apriva sulla stanza da letto di un bambino. La carta da parati era blu, con disegni di palloni da calcio; sulle pareti c’erano poster di band musicali e attori del cinema; sul davanzale della finestra, una fila di libri illustrati prendeva polvere da chissà quanto tempo. Il copriletto sfoggiava una stampa di Bart Simpson.

Un piccolo santuario dedicato a un bambino morto cinque anni prima.

La sua foto era appoggiata sul comodino, in una grande cornice d’argento. Aveva i capelli rossi, fossette sulle guance, un gran sorriso e stringeva tra le braccia un vecchio orsacchiotto malandato.

«Chi diavolo è Charles Anderson e quando è morto?».

C’era un’altra porta, in fondo al corridoio, che dava sul garage di legno. Senza finestre, e l’unica luce era quella che filtrava dal corridoio alle spalle di Logan.

Mobilia e scatoloni si ammucchiavano nell’oscurità. C’era qualcosa anche sulle pareti. L’interruttore era accanto alla porta. Logan lo premette, e una striscia di neon crepitò, lampeggiò e infine cominciò a svegliarsi, illuminando la scena.

«Laz? Ehi? Sei ancora lì?».

Un basso fischiò gli sfuggì tra le labbra.

Gli oggetti alle pareti erano delle lavagne di sughero, come quelle nell’ufficio che la Steel aveva occupato nella stazione di Banff. E, come quelle della Steel, anche queste erano coperte di foto e di fogli fitti di scrittura, collegati da fili grigi e rossi.

Un singolo foglio era attaccato al centro di quella ragnatela, con la scritta “mercato del bestiame?” in grosse lettere nere, sottolineata tre volte.

Logan sbatté le palpebre. Il Mercato del Bestiame. Oh, che meraviglia…

«Logan! Che diavolo sta succedendo?».

Lui si avvicinò. Sfiorò con le dita una delle foto. Era Neil Wood, inquadrato con un teleobiettivo, nello stile dei paparazzi. Quella accanto era di Mark Brussels, con le cicatrici che aveva riportato nel periodo trascorso in carcere a Peterhead. E poi c’era il dottor William Gilcomston, con i capelli grigi e la fronte alta, fotografato al supermercato. E la signora Bartholomew, la proprietaria di quella grande casa vittoriana su Church Street, che portava fuori il bidone dell’immondizia.

Ce n’erano anche altri. In tutto forse una ventina, tutti fotografati da lontano. Alcuni volti erano familiari, altri no. Tutti collegati tra loro da tratti di spago. Tutti collegati al Mercato del Bestiame.

«logan!».

Lui sbatté le palpebre. «Sono tutti pedofili. Pedofili e colpevoli di reati sessuali».

I fili rossi conducevano a foto ritagliate da giornali e riviste o stampate da Internet. Foto di bambini. Ognuna di esse era collegata almeno a un adulto. Una bambina addirittura a tre di loro. Ma un bambino era staccato da tutto: capelli rossi, su una spiaggia dei dintorni in pantaloncini e maglietta di Bart Simpson, intento a giocare con secchiello e paletta. Sorrideva, facendosi spuntare due fossette nelle guance. La foto era circondata da un giro di nastro nero.

Era il bambino del piccolo santuario lì accanto.

«Di chi stai parlando…? Hai bevuto, per caso?».

Solo un’altra foto dei bambini gli risultava familiare. Una bambina di non più di sei anni. Era… diversa, da viva. Senza quell’incavo sulla fronte, dove qualcuno le aveva spaccato la testa con una tubatura di metallo. Senza il pallore della morte e dell’acqua sulla pelle.

La foto non era un ritaglio di giornale, ma una di quelle scattate con il teleobiettivo, come quelle degli adulti. Era da qualche parte all’esterno, con delle foglie sullo sfondo e qualcosa di nero e sfocato alle sue spalle. Grosso e rettangolare. Una porta? O forse un furgone? E il filo rosso, nel suo caso, non conduceva a Neil Wood, ma al dottor William Gilcomston.

«Charles Anderson stava indagando su un gruppo di pedofili».

Perché li ricattava? O perché ne faceva parte?

«D’accordo, ora basta. Sto prendendo la macchina. Non toccare niente!».

La lavagna di sughero sulla parete di fronte era coperta di disegni infantili e piccoli gioielli. Orecchini, un braccialetto, un paio di orologi e qualche ciondolo. Tra quelli, una catenina con il ciondolo di un cardo. Scintillò nel palmo di Logan, quando si mise a osservarla più da vicino.

Una catenina con un cardo…

Tornò alla prima lavagna. Osservò i volti.

Un uomo dai lineamenti duri, stempiato, con un sorriso pieno di denti e un paio di baffi da terzo mondo lo fissava da una foto con un paio d’occhi scintillanti. Doveva essere stata scattata in un pub, con le spine della birra ben visibili sullo sfondo. Era stato colto sul punto di alzarsi dalla sedia per festeggiare un goal. Indossava la stessa maglietta blu e rossa dei Caley Thistle e la catenina d’oro che si vedevano sulla sua foto nella sua scheda delle persone scomparse.

Era Liam Barden, il padre di due figli per il quale la Nicholson sembrava aver sviluppato un’ossessione, e che continuava ad avvistare su Castle Street.

Ma Barden non era sul registro dei pervertiti, altrimenti sarebbe venuto fuori, quando avevano aperto un fascicolo per la sua scomparsa. Quindi perché si trovava sulla lavagna di Charles Anderson?

Logan si rigirò la catenina tra le dita. Il metallo era freddo, attraverso il nitrile dei guanti. All’interno del ciondolo, si riuscivano a notare dei punti color ruggine.

Sangue rappreso.

E ce n’era altro a sporcare l’incisione sul retro del ciondolo. «a liam, con amore – kathy. per sempre!!!”.

Logan si schiarì la gola. «È ancora lì?».

Dal ricevitore venne una serie di sbuffi e ansiti. «No».

«Sì, neanch’io. Credo che sarebbe bene farci dare un mandato, tornare e scoprire tutto questo ufficialmente». Rimise al suo posto la catenina di Liam Barden, uscì dal garage e spense la luce.

Se fosse stato tra i primi a entrare in quella casa, una volta ottenuto il mandato, nessuno si sarebbe chiesto come mai c’era il suo dna ovunque in quel luogo. Doveva fare tutto secondo le regole. Non ci sarebbe stata nessuna accusa di effrazione e di contaminazione di una scena del crimine, in questo caso, oh no, grazie tante.

Certo, c’era il pannello rotto nella porta sul retro, ma sarebbe stato facile dare la colpa ad altri. Napier non si sarebbe potuto lamentare di nulla…

E tutto quello che doveva fare era…

Capitolo 44

«Unngh…». Era come se qualcuno gli stesse trapanando il cranio con un martello pneumatico, cercando di separarglielo dalla spina dorsale. La fronte pulsava, il viso bruciava. Le orecchie ronzavano come nidi di vespe inferocite. Però faceva caldo.

No, peggio… era come bruciare. Da un lato.

Logan si costrinse a riaprire un occhio, sbirciando verso la danzante luce gialla che aveva davanti.

La ghiaia gli scavava una guancia.

Perché era sdraiato?

Ma cosa…?

Dovette sbattere le palpebre un paio di volte, per rimettere a fuoco il mondo.

Era disteso su un fianco, accanto alla Macchina Grande, inondata dal riverbero delle fiamme che stavano divorando la casa di Charles “Craggie” Anderson. Fiamme che ruggivano riversandosi fuori dalle finestre aperte, crepitando e sollevandosi alla luce del sole morente. Le scintille volavano nell’aria come lucciole, roteando verso il cielo livido.

Dio…

Logan si rialzò in ginocchio e restò lì, con gli occhi chiusi e la fronte dolorante contro lo sportello della macchina.

Non vomitare.

Si sfiorò la nuca con una mano tremante e se la ritrovò umida e appiccicosa.

Un’esplosione risuonò alle sue spalle.

Alzati.

Un respiro profondo.

Si rialzò, afferrandosi al lato della macchina. Ondeggiò per qualche istante, poi si girò e si afflosciò contro la fiancata. Riaprì gli occhi.

Metà del tetto era crollato, esponendo le travi come le costole dello scheletro di una nave. Il garage era avvolto dalle fiamme.

E tanti saluti al mandato.

Si passò di nuovo le dita sulla nuca. Fece una smorfia. Sì, doveva essere sangue.

Fari in avvicinamento ondeggiavano sulla strada sterrata. Poi una mx-5 emerse dal buio, cigolando e protestando a ogni buca. La Steel uscì dal lato del guidatore e poi rimase immobile, sgranando gli occhi e spalancando la bocca. «Ma che diavolo hai combinato?».

Il motore del camion dei pompieri si udì nella notte, mentre i lampeggianti lanciavano bagliori che si intrecciavano con quelli dell’ambulanza e dell’autopattuglia.

«Ah!». Seduto sul retro dell’ambulanza, Logan fece una smorfia. «Piano!».

«Non faccia il bambino». Il paramedico continuò a disinfettare la ferita, con la punta della lingua che sporgeva all’angolo delle labbra mentre lo torturava. «Quando ha fatto l’ultimo richiamo dell’antitetanica?».

Aghi immersi nell’acido sembrarono farsi strada attraverso il cuoio capelluto di Logan. «Ahi!».

«L’emorragia si è fermata, e non avrà neanche bisogno di punti». La donna prese un altro tampone di garza sterile da una confezione e glielo premette contro la nuca. «Allora, questa antitetanica?»

«Un paio d’anni fa».

«Allora è tutto a posto». La donna sorrise. «Vuole un cerotto e un lecca lecca, o pensa di iniziare a comportarsi da adulto?».

Logan tirò su con il naso. «Non le piace molto la gente, vero?»

«Dio, no». Lei tentò di infilargli un dito dentro al cranio.

«Ah!».

«Se la caverà». Il paramedico si sfilò i guanti chirurgici e si rivolse alla Steel. «Okay, è tutto suo. Dovrà tenerlo d’occhio, c’è un sospetto trauma cranico. Lui dice di non essere svenuto, ma non è credibile». Si strinse nelle spalle. Poi tornò a guardare Logan. «Stia bene a sentire: un trauma cranico può condurre a un ematoma subdurale o a un’emorragia subaracnoidea, con sintomi come stordimento, nausea, confusione e… nel caso peggiore, la morte». Accennò con un pollice alla Steel. «Credo che dovrebbe passare la notte da sua madre. Così lei si potrebbe assicurare che non muoia nel sonno». A quel punto, lo scacciò dal pianale dell’ambulanza, richiuse gli sportelli, si arrampicò alla guida e sparì nella notte, mentre la Steel ancora boccheggiava.

Grazie tante, Florence Nightingale.

«Tua madre?».

Non sorridere, peggiorerebbe solo le cose. «Lo so. Come ha potuto dire una cosa del genere?».

La Steel allargò le braccia, sollevandole come se volesse strappare via le nuvole dal cielo. «Primo: non assomiglio affatto a quel manico di scopa sciatto e intrigante. Secondo: non sono certo così vecchia. E terzo: se fossi tua madre, tu non saresti così dannatamente brutto!».

«Ha finito?»

«Pensava che fossi tua madre! Ma come potrei mai esserlo? Insomma, guardami: sono giovanissima».

Lui si tolse la garza dalla nuca e strinse gli occhi contro le luci lampeggianti dell’autopattuglia. Una sottile linea rossa, circondata da macchie arancione scuro.

«Mi stai ascoltando?»

«A dire il vero, no».

Getti di schiuma bianca si inarcavano nell’aria, cancellando il fumo nero.

«Pattuglia Sette, potete parlare?».

La Steel afferrò la ricetrasmittente di Logan. «No, non può. E se riapre bocca, lo concio per le feste».

«Okay… be’, gli dica che la polizia di Tayside ha fermato il Megabus, ma non erano David e Catherine Bisset i due a bordo. L’avvistamento era sbagliato».

«Oh, che strano». Lei gli restituì la ricetrasmittente. «Come mai ricevi aggiornamenti sui Bisset?»

«Così». Lui si sfiorò il bozzo sulla nuca, facendo una smorfia. «Sono fortunato a essere ancora vivo».

La Steel succhiò un tiro dalla sigaretta elettronica, facendo uscire il vapore dal naso. Poi accennò alla casa bruciata. «Allora?».

Logan tornò a premere delicatamente la garza sull’ematoma. «Probabilmente mi sono spaccato la testa».

«Hai visto qualcuno? Ti hanno colpito o sei inciampato e hai battuto la testa come una vecchietta?»

«Cosa? E poi mi sarei trascinato fuori e avrei dato fuoco alla casa?». Sfiorò di nuovo la nuca con la garza. «Ahi».

Il fuoco ondeggiò, si fece più debole e infine si spense, facendo ripiombare i dintorni nell’oscurità. Be’, a parte i lampeggianti dei mezzi di emergenza.

Quattro pompieri con le loro uniformi marroni con le strisce catarifrangenti continuavano a lottare con un paio di manichette, inondando quel che restava della casa di Anderson.

La Steel si sfilò dalle labbra la sigaretta elettronica e mostrò i denti. «E non hai idea di chi possa essere stato? Pensavo che avessi detto di non essere svenuto».

«Bla, bla, bla. Ha sentito l’infermiera, no? Sto bene». Ancora dolorante, però.

«Forse è stato qualcuno di quel gruppo di pedofili? Ha scoperto che sapevi di loro e ha deciso di intervenire?»

«E come potevano sapere che ero lì?». Logan accartocciò la garza e se la infilò in tasca. «Anderson li aveva tutti collegati sulla sua lavagna di sughero. Una dozzina di nomi e di volti, tutti collegati al Mercato del Bestiame».

La Steel lo fissò. Poi guardò il garage bruciato. E poi tornò a fissarlo. «Che cosa?». E a quel punto lo picchiò.

«Ahi! La smetta».

«Abbiamo seguito una pista sul Mercato del Bestiame per anni, e tu l’hai lasciata andare in fumo così? Ma che diavolo hai nella testa?». Un altro pugno.

«La pianti!». Logan arretrò. «Mi hanno colpito in testa. Cosa avrei dovuto fare, svegliarmi e lanciarmi nel fuoco?».

La Steel si allontanò di qualche passo furioso, e poi tornò indietro. «Cosa c’era su quella lavagna? Chi c’era? Come si collegavano?»

«Non riesco a ricordarmelo. È…».

«Perché non hai scattato una foto? Hai una fotocamera sul tuo dannato cellulare, usala!».

Lui indicò con rabbia la casa distrutta. «Non sono un veggente. Come avrei potuto immaginare che qualcuno avrebbe dato fuoco alla casa? Ho rischiato di morirci, lì dentro».

La Steel alzò lo sguardo verso le nuvole scure e oleose. «Dio, dammi la forza…». Un sospiro. Poi strinse le palpebre. «Riesci a ricordare almeno qualcosa di tutto questo?»

«La bambina della piscina di Tarlair… era anche lei sulla lavagna, connessa al dottor Gilcomston».

«A Gilcomston? Al Pedo-iatra?». La Steel inarcò un sopracciglio. «E perché?».

Logan si avviò verso la Macchina Grande. «Non ne ho idea. Vediamo di scoprirlo».

«No. Ve l’ho già detto in precedenza, e non mi piace ripetermi». Le sopracciglia di William Gilcomston si aggrottarono sui suoi inquietanti occhi azzurri. Il cardigan di quella sera era verde bottiglia, con una spilletta a forma di cuore sul colletto. Di quelle che danno ai donatori di sangue. «Ora, se non c’è altro…».

La casa era isolata e silenziosa, circondata da giardini su ogni lato. La sua reputazione nella comunità doveva essere crollata, dopo il processo, ma la casa di famiglia restava solida sulle sue fondamenta. Tre piani di granito sporco, con vecchi alberi sul davanti, un vialetto coperto di ghiaia, un garage separato e un muretto che la divideva dalla strada.

Una vecchia Jaguar era parcheggiata davanti alla casa, con i cerchioni che scintillavano sotto le luci di sicurezza sul muretto.

La Steel piantò un piede tra lo stipite e il battente della porta, tenendola aperta. «Possiamo entrare, Billy, vecchio mio?».

Lui irrigidì la schiena, raddrizzandosi in tutta la sua altezza e fulminando la Steel con lo sguardo. «Avete un mandato?»

«Posso procurarmene uno».

«Allora la risposta è no. E ora tolga quel piede dalla mia proprietà: non sono obbligato a sentire altre sciocchezze da parte sua».

Il suono di un televisore acceso, un po’ troppo alto, si udiva dall’interno della casa. La voce seria di un giornalista da notiziario: «…la conferma di un arresto, nella cittadina scozzese di Banff, collegato all’omicidio della poliziotta sotto copertura Mary Ann Nasrallah…».

Logan si fece avanti. «Dottor Gilcomston, conosce per caso un uomo di nome Charles Anderson? È noto anche con il soprannome “Craggie”».

«…in diretta dall’Aberdeenshire. Kim, la Polizia di Scozia ha già divulgato qualche dettaglio in merito all’individuo arrestato?».

Gilcomston sporse le labbra. «Se non erro, è un pescatore che è stato ritrovato morto. C’era un articolo sul giornale che diceva che aveva dato fuoco alla sua barca».

«Sì, ma lo conosceva, prima di questa storia? Prima che scomparisse?»

«No. E ora, per favore, andatevene».

«…Martyn Baker, ventunenne di Birmingham».

La Steel ritrasse il piede. «Okay, fai pure il duro, se vuoi, Billy, ma torneremo presto». Gli rivolse un occhiolino. «Resta fuori dai guai, eh?». Poi si girò e tornò verso la sua piccola macchina sportiva, percorrendo il vialetto a passo di marcia.

«…si dichiarerà colpevole o innocente, quando si presenterà davanti allo sceriffo alle nove di domani mattina».

I tendini sul collo di Gilcomston si tesero per un attimo, poi l’uomo fissò Logan con i freddi occhi azzurri. «Sporgerò denuncia contro il suo superiore. Queste sono molestie».

Logan ricambiò lo sguardo in silenzio.

«Grazie, Kim. Ne riparleremo più tardi, quando avremo sentito la conferenza stampa della polizia».

Un gabbiano lanciò il suo richiamo stridente da qualche parte nell’oscurità.

«E con questo evento si conclude un’intera settimana di caccia all’uomo, per arrestare la persona che aveva ucciso Mary Ann Nasrallah…».

Un’auto passò sulla strada.

«…e torniamo a Liverpool, dove la famiglia dell’agente Nasrallah ha organizzato una veglia di preghiera…».

Gilcomston si schiarì la gola. Distolse lo sguardo. «Non ho altro da dirle».

«Charles Anderson pensava che lei fosse coinvolto nella morte della bambina che abbiamo trovato a Tarlair. Secondo lei, cosa gli ha messo in testa quest’idea?»

«Mi scusi, ma ora devo andare». Gilcomston chiuse la porta. Poi si udì lo scatto della serratura dall’interno.

Logan contò fino a dieci, poi si girò e raggiunse la Steel sul marciapiede.

Lei era appoggiata alla mx-5, le braccia conserte sul petto e la sigaretta elettronica appesa a un angolo della bocca. «È un viscido bastardo».

«Anderson deve averla vista. La foto sulla lavagna non veniva da un giornale o da Internet, era una vera fotografia, era stato lui stesso a scattarla. Quindi deve averla vista quando era ancora viva».

«E probabilmente l’ha vista con il Pedo-iatra». La Steel si lasciò sfuggire una boccata di vapore, dirigendola verso le nuvole pesanti e basse. «Laz, non avresti potuto salvare le prove, invece di svenire come un’eroina vittoriana?»

«Grazie tante. Ovviamente è stata colpa mia se qualcuno ha cercato di spaccarmi la testa. Che stupido sono stato a non pensarci». Logan si ficcò le mani nelle tasche. «Sarei potuto morire. Un po’ di comprensione non mi dispiacerebbe».

«Oh, avanti. Non essere così melodrammatico. Se ti avessero voluto morto, ti avrebbero lasciato dentro quella casa, quando l’hanno incendiata».

Capitolo 45

Logan salì sul marciapiede con l’autopattuglia e la parcheggiò sulla mezzaluna di cemento di fronte al parcheggio di Threadneedle Street. Be’, era più semplice che mettersi a combattere con il cancello automatico che chiudeva la zona di carico dietro alla stazione di polizia di Peterhead.

Erano quasi le undici e mezzo, e il luogo era deserto. Qualche auto passava sulla strada di tanto in tanto, a volte con della musica orrenda che filtrava dai finestrini, ma a parte quello, la zona era più tranquilla che mai.

Logan bloccò lo sterzo e uscì.

Le case terrazzate che circondavano la zona bloccavano il vento, riducendolo a un vago rumore di fondo e lasciando scendere la pioggia in umide ondate da un cielo color rame bruciato. Logan si infilò il taccuino sotto un braccio, si calcò il berretto in testa e…

«Ah…». Fu come se lame di coltello e chiodi gli si piantassero nella nuca e gli attraversassero il cranio, irradiandosi dall’ematoma nuovo di zecca. «Dannazione».

Si infilò anche il berretto sotto al braccio e si affrettò lungo la strada. La stazione di Peterhead, vista da davanti, sembrava una banca: la facciata era di granito, con finestre alte e strette, colonne imponenti e tanto di portico. Ma gli altri tre lati erano di ruvida arenaria rossastra, tenuta insieme da spesse linee di calce grigia.

«A tutte le unità, stiamo cercando una Ford Ranger marrone, numero di targa sconosciuto, ma con un’ammaccatura sul retro. Ha appena schiantato la vetrina di un supermercato a Strichen, rubandone la cassa. È stata vista l’ultima volta mentre correva lungo la strada per New Deer».

Logan tirò fuori le chiavi e aprì la porta blu laterale dell’edificio.

Dava su un corridoio dalle pareti di un color magnolia sporco, con armadietti temporanei e lavori in corso su un lato. Attraverso le sbarre che separavano il blocco delle celle dal resto della struttura si sentivano provenire delle voci intente a cantare. Sembrava che tutti gli invitati intonati di quel dannato matrimonio fossero finiti nelle celle di Fraserburgh, lasciando lì soltanto le campane.

Logan salì la breve rampa di scale, superando le tre file di armadietti per le ricetrasmittenti, e si fermò sul pianerottolo, alla base della successiva rampa. Alzò lo sguardo nell’oscurità. «ehi!».

L’unica risposta fu l’eco. Ehiehiehi

Okay. Altre tre rampe di scale fino al primo piano.

«C’è qualcuno nelle vicinanze di New Aberdour? Mrs Tobias è di nuovo andata in giro da sola di notte».

Dove diavolo erano finiti tutti?

La mensa aveva gli stessi pensili in formica graffiata ed economica e le stesse tazze sporche di qualsiasi altra stazione di polizia del nord-est. Era divisa in due parti da un piccolo arco al centro. In una metà della stanza si trovavano un distributore automatico e qualche tavolo con intorno le sedie. Alle pareti erano appesi poster con proclami vari di integrità, giustizia e rispetto. Uno che consigliava di chiamare il 101 se non era un’emergenza, e un altro che chiedeva di fare attenzione a eventuali colleghi con tendenze suicide. L’altra metà della stanza ospitava la cucina: un bancone, il frigo – coperto di biglietti e minacce di morte per chi osava rubare il cibo altrui – un tostapane, i fornelli; e non uno, ma ben due forni a microonde. Carino.

Logan prese una bustina di tè e la mise in una tazza, riempiendola dallo speciale rubinetto sulla parete che erogava acqua bollente. Doveva essere stato il compleanno di qualcuno, perché le ultime due fette di una torta al cioccolato se ne stavano in attesa sul tavolo della cucina. Se ne prese una.

Poi sollevò la cornetta del telefono a muro e premette il pulsante del blocco delle celle. Attese che qualcuno rispondesse.

«Pronto?»

«Stubby? Sono Logan. Di chi è stato il compleanno?»

«Be’, che io sia dannata: nientemeno che il nostro sergente di divisione! A cosa dobbiamo l’onore noi poveri e insignificanti agenti?»

«Ehi, non fare così. Ero qui ieri notte, no?»

«No».

D’accordo. «È successo qualcosa di cui dovrei essere messo al corrente?»

«Sì, Glen ha compiuto quarant’anni. Ma sembra che ancora porti i pannolini, non le pare?»

«Mi hanno quasi spaccato la testa, quindi ho rubato una fetta della sua torta».

«A parte questo, abbiamo ancora le celle piene dopo il matrimonio di venerdì sera. Non vedo l’ora che i tribunali riaprano, domattina, perché quaggiù inizia a esserci una puzza insopportabile».

Lui prese un boccone di torta, rispondendo a bocca piena: «Qualche novità?»

«Poco fa c’è stata una lite domestica: il marito passerà la notte nelle celle di Fraserburgh. La moglie è finita in ospedale. Abbiamo arrestato un tipo che stava facendo sesso, giuro, non sto scherzando, con un pony Shetland. Quel pazzo ha filmato tutto sul cellulare. E poi stiamo indagando su un paio di furti d’auto. Ne abbiamo ritrovata una davanti al Flaggie, qualche ora fa. A parte questo, tutto abbastanza normale».

«Vorrei poter dire lo stesso». Logan inghiottì il boccone di torta con un sorso di tè. «Stubby, hai mai avuto a che fare con Neil Wood?»

«Chi, il nostro pedofilo scomparso? Sì, un paio di volte quando ero nell’Unità Controllo Pregiudicati. Non era tra quelli di cui mi occupavo personalmente, ma alcune volte ho dovuto sostituire i colleghi. Un tipo viscido, strano, appiccicoso. Sa, quel genere di persona di cui la gente penserebbe subito che è un molestatore di bambini? Ecco».

«Sei mai stata al suo Bed & Breakfast, da quando è scomparso?». L’ultimo boccone di torta sparì.

«No, ho già abbastanza da fare. Perché?»

«Sto cercando un collegamento tra lui e un certo Charles “Craggie” Anderson. Fai gli auguri a Glen da parte mia, okay?»

«Si tratterrà qui per un po’?»

«Dipende da quello che succede». Logan mise giù il telefono, prese l’ultima fetta di torta e si diresse verso l’ufficio dei sergenti.

Non era così diverso da quello di Banff: soffitto alto, cornici e architravi coperte di muffa che veniva lentamente sepolta sotto strati di vernice bianca. Due scrivanie che si davano le spalle e computer così vecchi e lenti che davano l’impressione di essere alimentati dalla ruota di un criceto.

Logan si sedette, sorseggiò il tè, mordicchiò la torta e si collegò al sistema.

Non gli ci volle molto per controllare azioni e rapporti della giornata. Erano tutti aggiornati, perfino quelli di Ciuffo.

Un vago dolore gli martellava costante nella testa, partendo dalla nuca e fermandosi proprio dietro agli occhi. L’effetto del paracetamolo che gli aveva dato il paramedico stava svanendo.

Paracetamolo per un ematoma di quelle dimensioni. Come pensavano che potesse davvero essere d’aiuto? Che fine avevano fatto la codeina, il voltarol, il naproxen e l’ossicodone? Ah, i bei vecchi tempi.

Frugò nei cassetti della scrivania fino a trovare una vecchia confezione di aspirine. Meglio di niente, anche se non era molto. Ingoiò due compresse con un sorso di tè ormai freddo.

La Steel, ovviamente, aveva ragione: se l’avessero voluto morto, l’avrebbero lasciato a bruciare dentro la casa. Tuttavia…

Controllò l’ora sullo schermo del computer. Erano ormai le undici e mezzo. Troppo tardi per mettersi a chiamare dei civili. Ma… tirò comunque fuori il cellulare dalla tasca e digitò un numero.

Squillò e squillò. Poi un accento di Aberdeen che cercava in tutti i modi di suonare affettato si fece sentire dall’altra parte della linea. «“Aberdeen Examiner”, come posso aiutarla?»

«Posso parlare con Colin Miller? Gli dica che è un vecchio amico che lo cerca».

«Un momento, glielo passo…». Ci fu uno scatto.

Il Bolero di Ravel si fece sentire dal ricevitore, ma come se fosse suonata in un ascensore da una band di scimmie ubriache.

Logan finì il tè.

Ancora Bolero.

Prese un foglio e vi disegnò al centro un rettangolo, scrivendoci dentro “mercato del bestiame”. Poi aggiunse i nomi: Gilcomston, Brussels, Wood, Barden… e come si chiamava quella donna? Quella che viveva nella grande casa vittoriana, indossava twin-set e perle e riceveva minacce di morte… Ah, sì: Mrs Bartholomew. Chi altro? Chi c’era sulla lavagna?

Picchiettò con la penna sulla scrivania. La Steel aveva ragione: avrebbe dovuto scattare una foto di quella dannata lavagna. Sarebbe stato molto più semplice, ora, che procedere a memoria, e dopo una botta in testa.

Chi altro era…

Click. Un pesante accento di Glasgow si fece sentire al telefono. «Logie? Sei tu? Da quanto tempo non ci si sentiva, amico? E come procede la vita dalle tue parti? Hai saputo nulla di quel Martyn Baker?»

«Sei ancora in ufficio, Colin? Non hai una moglie e tre figli da cui tornare?»

«Alfie sta mettendo i denti, quindi ho preferito aggiornare la lista delle “cose che devono essere scritte per l’edizione di lunedì”. Più sto fuori casa, in questo periodo, e meglio è. Cosa cerchi?»

«Sei stato tu a scrivere il pezzo su Charles Anderson nell’“Examiner”, oggi?»

«Stai scherzando? Il giorno in cui userò così tanti avverbi in un articolo, avrai il permesso di spararmi. È stato quell’idiota di Finnegan».

«Devo parlare con la ex moglie di Anderson. Pensi di potermi fornire i suoi contatti?».

Ci fu una piccola pausa interessata. «C’è qualcosa di interessante sotto?»

«Nah, solo le solite procedure di questo genere di casi».

«Perché se c’è qualcosa non ti dimenticherai del tuo vecchio amico Colin, vero?»

«Quando mai l’ho fatto?»

«Sì, certo».

In lontananza, le campane di una chiesa fecero sentire dodici sonori e solenni rintocchi, mentre il forno a microonde della mensa ronzava.

Si udì il rumore di passi in avvicinamento. Poi qualcuno si schiarì la gola. «Sergente?».

Bleeep.

Logan si guardò alle spalle. «Ehi».

Il ragazzo che gli si era rivolto non poteva avere molto più di vent’anni. Qualche brufolo sulla fronte, nascosto in parte sotto il ciuffo che gliela copriva. Un viso pieno, con guance paffute da ragazzino. Un rapido sguardo alle mostrine sulle spalle gli fece capire che si trattava di un novellino dell’ultimo anno. Che gli rivolse un’espressione a metà tra un sorriso e una smorfia. «Agente Matthews. Ted».

«Sì, certo. Ted». Logan usò un canovaccio ripiegato come guanto da forno per tirare fuori la scodella di zuppa di lenticchie dal microonde. «Come va, Ted?».

Il sorriso divenne sempre più una smorfia. «Sì… be’… tutto a posto. Grazie».

«Ottimo». Logan portò la zuppa verso uno dei tavoli della mensa e tornò indietro per prendere il pane tostato.

«Qualcuno è libero? Abbiamo ricevuto lamentele riguardo a un uomo che sta urinando all’ingresso del negozio Iceland di Fraserburgh».

«Sergente?»

«Cosa posso fare per te, Ted?».

L’agente Matthews si afflosciò sulla sedia di fronte a quella di Logan. «Come si… Se… Cioè…». Il volto gli avvampò di colpo, dalle guance fino alla punta delle orecchie.

Di certo non era lì per fare due chiacchiere tranquille.

Si schiarì la gola. «Ho trovato un cadavere, oggi. Un anziano. I vicini erano preoccupati perché non si faceva più vedere da una settimana».

Logan posò il cucchiaio. «Succede molto più spesso di quanto non si immagini».

«Si era impiccato sulle scale. Si è legato una cintura al collo e si è impiccato alla balaustra». Matthews gonfiò le guance. «Il posto era un casino. Voglio dire, davvero orribile. Tutto era appiccicoso e sporco e l’odore era indescrivibile».

Logan prese un morso di pane tostato. «So che può sembrare insensibile, ma ti ci abituerai. Non migliora, ma ci si abitua».

«Aveva il riscaldamento acceso al massimo ed era lì da sette giorni… il viso tutto nero e pieno di mosche…». Il ragazzo rabbrividì.

«Aggiornamento sull’uomo che urinava all’ingresso dell’Iceland. A quanto pare c’è una donna con lui e sta urinando anche lei. Qualcuno può occuparsene?».

Logan considerò che avrebbe dovuto dare un’occhiata in dispensa per vedere se qualcuno aveva della salsa piccante, da quelle parti. Ma non poteva farlo con Matthews lì presente. Non con tutti quegli avvisi minacciosi che intimavano di non rubare le provviste degli altri.

«Sa cosa ho fatto per tutta la mattina, sergente? Mi sono preso sputi, insulti e urla. Uno mi ha vomitato sulle scarpe». Il giovane agente si afflosciò ancora di più all’interno del giubbotto antiproiettile, facendo sembrare che si fosse ridotto, come per un lavaggio sbagliato in lavatrice. «Non so se riuscirò ad andare avanti, così».

Logan pensò che era ora di comprare qualcosa di diverso. Basta con la zuppa di lenticchie. Magari una vellutata di pomodori? Pff… Ma chi pensava di ingannare? Le cose buone costavano più di quanto il budget gli consentisse. Forse patate e porri?

«Ed è sempre la stessa gente, giorno dopo giorno, turno dopo turno. Sempre gli stessi disgraziati con le loro case luride, i vestiti puzzolenti e la tossicodipendenza che li divora. O l’alcol. O entrambe le cose. Per non parlare dei pazzi…».

Certo, la cosa migliore sarebbe stata comprare delle verdure e preparare una zuppa. Ma poi avrebbe dovuto metterla nel frigorifero della mensa, e tutti sapevano quanto fossero ladri i poliziotti quando si trattava di cibo. Si sarebbero potuti lasciare soldi, gioielli e cellulari in giro per settimane e nessuno li avrebbe toccati. Ma bastava lasciare incustodito un dolcetto alla crema per cinque secondi per vederlo sparire.

«Mi sono arruolato in polizia per aiutare la gente, e mi ritrovo a fare il babysitter a canaglie che mi odiano».

I barattoli avevano quello di buono, che si potevano nascondere. E non avevano bisogno di essere messi in frigo.

«E la pensione ormai è uno scherzo, vero? Dovrò lavorare fino a sessant’anni per due spiccioli. Riesce a immaginarci, a sessant’anni suonati, a casa di qualche drogato a difenderci dal suo Rottweiler?». Il ragazzo si ridusse ancora di più. «Ho un amico che lavora su una piattaforma petrolifera…».

«Lo so». Logan intinse un pezzo di pane nella zuppa. «La paga fa schifo, i turni fanno schifo e pure la pensione. Questo lavoro ormai è totalmente rovinato». Si infilò in bocca il pezzo di pane e masticò in silenzio. «Ma noi possiamo fare la differenza nella vita della gente. Possiamo proteggere gli innocenti. E quando succede qualcosa di orribile, e le persone vengono ferite o uccise, possiamo fare giustizia. Prova a fare tutto questo su una piattaforma petrolifera».

Matthews sollevò le sopracciglia. «Già…». Poi le riabbassò e arricciò il labbro superiore. «Immagino di sì».

«E poi, lì fuori non c’è altro che tè caldo e riviste porno, per passare il tempo».

Capitolo 46

Logan entrò nell’ingresso della stazione di Banff. «Pff…».

Joe uscì dalla mensa. «Sergente, come va la testa?»

«Come una palla da bowling piena di topi inferociti, grazie».

Lui annuì. «Vuole un caffè? Li sto preparando».

«Sei il migliore».

Big Paul e Penny erano nell’ufficio degli agenti, seduti alle rispettive scrivanie, con le spalle alla porta, intenti a digitare ciascuno sulla propria tastiera. Pronti a chiudere tutto e a scattare quando, alle due, sarebbe finito il turno.

Non c’era traccia degli agenti del turno di notte.

Logan attraversò l’ufficio per raggiungere la stanza dei sergenti. Si sfilò il giubbotto antiproiettile e lo scaricò dietro la scrivania, per poi togliersi anche la cintura con l’equipaggiamento. Sei chili di meno in due mosse. Si lasciò scivolare sulla sedia e fissò il soffitto per un po’. Poi sospirò, si raddrizzò, tirò verso di sé la tastiera e si collegò al sistema.

Joe bussò e fece capolino all’interno. Una tazza in una mano, un pacchetto di biscotti nell’altro. «Ha preso il suo fax?».

Logan aggrottò la fronte, prendendo la tazza di caffè. «Quale fax?»

«Dovrebbe essere nella sua piccionaia. È arrivato intorno alle cinque».

«Oh. No».

«Noi stavamo considerando di scrivere tutto quello che dobbiamo e valutare alcuni obiettivi per la settimana prossima prima di staccare. Pensavamo di poterci occupare di qualche caso di comportamento antisociale e di qualche furto d’auto».

Logan allungò una mano nel cassetto della scrivania e pescò una confezione di aspirina. «Fatemi un favore e mettete anche lo spaccio di droga sulla vostra lista. Gli ho ufficialmente dichiarato guerra».

«D’accordo».

Joe si allontanò e Logan ingoiò quattro compresse, con l’aiuto di un sorso di caffè bollente.

Qualcuno aveva dotato i suoi topi inferociti di motoseghe, e quei piccoli bastardi si erano messi in testa di scavarsi un’uscita dal suo cranio con le maniere forti.

«Fax». Si alzò dalla sedia e attraversò l’ufficio. Le piccionaie non erano vere piccionaie, ovviamente, ma schedari di plastica rossa incastrati quattro alla volta in un recesso del muro vicino alla porta che conduceva sul davanti dell’edificio. Quello di Logan era pieno di moduli di finanziamento, menu di ristoranti take-away, un paio di volantini di negozi locali e un ritaglio di giornale che parlava di un bastardo che si arrampicava sul tetto di un vicino per defecare nel suo comignolo. C’era perfino una foto.

Ma in fondo a tutta quell’immondizia c’era una busta della posta interna.

La aprì e tirò fuori tre fogli a4.

risultati del dna dei resti rinvenuti a tarlair.

Secondo l’orario stampato sul fax, i fogli erano arrivati alle 16:58. Il tipo dei laboratori era riuscito a consegnare i risultati prima della fine del turno di lavoro, dopotutto.

Logan saltò i paragrafi introduttivi e procedurali, i grafici e i diagrammi della seconda pagina, e passò direttamente ai risultati in fondo.

Gonfiò le guance.

Si appoggiò al muro e fissò il foglio. Non c’erano corrispondenze con il dna di Helen.

Non era sua figlia.

«’Notte, sergente. ’Notte, Hector». Penny gli rivolse un cenno. Poi seguì Joe e Big Paul fuori dalla stazione. Erano le due del mattino.

La porta si richiuse, lasciando Logan solo con i suoi fantasmi.

Una dozzina di nomi ora riempiva il foglio di carta che aveva cominciato a scrivere a Peterhead, cercando di ricostruire la bacheca dei pedofili di Charles Anderson. Alcuni avevano dei punti interrogativi accanto, altri erano sottolineati. Per esempio il dottor William Gilcomston, ovvero dottor Pedo-iatra, collegato con una linea di pennarello rosso a “bambina di tarlair”.

Ma questo non li portava affatto più vicini ad arrestare l’assassino della piccola, giusto? Non quando Gilcomston poteva semplicemente negare tutto. Avevano bisogno di prove. Di informazioni. Di qualcosa che giustificasse l’emissione di un mandato dello sceriffo per perquisire quella casa.

Ma quel lavoro avrebbe dovuto attendere il giorno dopo.

Logan si scollegò dal sistema. Spinse via la tastiera. Sbadigliò. E infine si afflosciò sulla sedia.

Non aveva senso restare lì senza fare nulla. Era ora di tornare a casa.

Altri topi si erano uniti a quelli già presenti nella sua testa, e sembravano armati di martelli pneumatici. Gli stavano trapanando il cervello a ritmo con il battito cardiaco. Aveva bisogno di altre pillole. E di qualcosa di più forte dell’aspirina.

Si passò le mani sul viso.

Avanti. Casa. Letto.

Già… ma se Helen fosse stata ancora lì? Nel suo letto?

Doveva ricordarsi di tenersi addosso le mutande. Niente più protuberanze imbarazzanti di prima mattina.

Non era un granché, come piano, ma era comunque meglio di niente.

Uscì a passi lenti dalla stazione, lasciandola a Hector e all’oscurità. Attraversò il parcheggio.

La luna era una falce pesante che brillava da un buco tra le nuvole, riflettendosi nell’acciaio agitato della superficie della baia. Le onde si muovevano e sibilavano contro la spiaggia.

Qualche goccia di pioggia sottile scendeva dal cielo, e lo costrinse ad affrettarsi.

Si richiuse alle spalle la porta di casa a chiave.

Anche quella del soggiorno era chiusa. Dalle fessure intorno non filtrava alcuna lama di luce, e neanche dall’ampio spazio lasciato al di sotto del battente dall’assenza della moquette.

Logan salì cauto le scale, restando all’esterno dei gradini per minimizzare il cigolio del legno.

Helen aveva fatto un lavoro da professionista, nel dipingere il corridoio, migliore di quello che aveva fatto lui in cucina. Sembrava il momento giusto per rinnovare il pavimento. Forse avrebbe potuto prendere in prestito il furgone della polizia per un paio d’ore, per recuperare un po’ di materiali dal negozio di bricolage di Elgin?

Sì, certo, Napier sarebbe stato felicissimo di scoprirlo.

Avrebbe dovuto aspettare fino a mercoledì, quando quel periodo di doppi turni sarebbe finito. E avrebbe dovuto vedere quanto linoleum sarebbe entrato nella sua vecchia Clio.

Salì fino al pianerottolo.

La pioggia picchiettava sul lucernario.

Si lavò velocemente i denti. Inghiottì due compresse di Nurofen. Poi raggiunse la camera da letto.

Una vaga luce arancione filtrava dalla finestra, proveniente dal lampione in strada. Si rifletteva sulla figura sotto le coperte, al centro del letto. Scintillava sui riccioli a cavatappi. Lei si girò nel sonno, mormorò qualcosa, schioccò le labbra un paio di volte e restò di nuovo immobile.

Okay.

Puoi farcela.

Svegliala e spiegale cosa hanno rilevato i risultati delle analisi. Dille che quella bambina non è sua figlia.

Il viso di Helen era morbido e liscio, le rughe intorno agli occhi e tra le sopracciglia quasi del tutto sparite. Almeno in quel momento, ovunque fosse nei suoi sogni, aveva trovato un attimo di pace.

Perché rovinarlo? Perché svegliarla e riportarla alle solite preoccupazioni?

La bambina avrebbe continuato a non essere sua figlia anche il giorno dopo.

Lasciala sognare.

Logan si spogliò e si infilò nel letto accanto a lei.

Ma si tenne addosso i boxer.

Capitolo 47

«…dopo il notiziario. Ma ora, linea a Tim. Tim?»

«Grazie, Bill. La polizia di Banff, nell’Aberdeenshire, ha annunciato ieri sera di aver arrestato un uomo di Birmingham per l’omicidio della poliziotta sotto copertura Mary Ann Nasrallah. L’uomo, Martyn Baker…».

Logan premette il pulsante sopra la radiosveglia. Sbirciò oltre il cuscino.

Helen si girò su in fianco. «Altri cinque minuti…».

Lui si alzò, dirigendosi verso il bagno.

Si bloccò in cima alle scale.

Rumori, provenienti dal soggiorno. Era forse la tv?

Tornò in camera. Si infilò in tutta fretta un paio di jeans e delle pantofole. Staccò il manganello dalla cintura con l’equipaggiamento appoggiata in un angolo.

Poi scosse con delicatezza la spalla di Helen.

Lei socchiuse gli occhi, e poi la bocca.

«Shh…». Le posò una mano sulle labbra. Erano calde e umide contro il suo palmo. Logan abbassò la voce a un sussurro. «Devi rimanere qui. In silenzio. Okay?».

Un battito di ciglia. Un altro. Poi un cenno d’assenso.

«Okay».

Logan tornò sul pianerottolo. Poi scese le scale, tenendosi all’esterno dei gradini.

Era davvero la tv. «…un colpo magistrale, dritto sul green…».

«Sta conducendo un’ottima partita».

«Sì, davvero».

Un’asse del pavimento cigolò dietro la porta del soggiorno. Poi un’altra. Chiunque fosse all’interno si stava muovendo.

Logan cambiò la presa sul manganello.

Tre.

Due.

Uno.

Caricò oltre la porta, estendendo il manganello alla massima lunghezza. «faccia a terra, subito!».

Cthulhu saltò giù dal tavolino e schizzò a nascondersi sotto il divano.

La Steel non si mosse di un millimetro. Se ne restò lì seduta, infilandosi in bocca una cucchiaiata di cereali. Bofonchiando subito dopo: «Sì, molto impressionante. Ricordami di svenire».

«Ooh, e Michelle non sarà felice di questo colpo. Dritto nel bunker».

Lui abbassò il manganello. «Cosa diavolo ci fa qui?»

«Stavo guardando il golf». Indicò lo schermo con il cucchiaio. «A proposito, i tuoi cereali fanno schifo».

Sullo schermo, una donna dai capelli rossi, con tutte le curve al posto giusto e un bikini minimale scese in un bunker.

«Cos’è, un porno?».

La donna allineò il colpo e sparò la pallina sul green. Con un grande ondeggiamento di curve.

«È come mangiare pezzi di cartone. Che fine hanno fatto i vecchi cereali croccanti?»

«Ooh, che incredibile rimonta».

«Non posso permettermeli. Perché sta guardando un film porno sul mio divano?»

«E siamo a un colpo sotto il par…».

Una bionda con addosso un bikini blu ancora più ridotto allineò la mazza alla pallina. La telecamera zoomò in primo piano, finché due natiche rotonde e abbronzate non riempirono lo schermo, ondeggiando a destra e a sinistra.

«Non è un porno, è Golf in Bikini». Altri cereali economici le sparirono in bocca. «Adoro Channel Five».

Dio santo. «Io vado a farmi una doccia».

«Non dimenticare di lavarti dietro le orecchie».

Lui tornò in cima alle scale.

Helen era sul pianerottolo e sbirciava di sotto. Sulla sua maglietta c’era un ippopotamo, e i pantaloncini le lasciavano scoperte le gambe, su cui si intravedeva una corta peluria bionda. Bisbigliò, muovendo appena le labbra: «Sono i ladri?»

«No, è solo una pervertita».

Logan scese le scale, vestito da capo a piedi dell’uniforme nera della Polizia di Scozia. Si fermò fuori dalla porta del soggiorno, posando una mano sulla maniglia.

La voce di Helen si udì dall’altra parte del battente. «Non capisco. Perché indossano i bikini?».

Già. Forse entrare lì dentro non era proprio un’idea geniale.

Si agganciò le mostrine sulle spalle della maglia.

«Ma non è un po’… ecco, sessista?»

«Nah, i Bikini Golf Masters sono aperti a tutti: maschi, femmine e transgender. Non importa, purché indossino un bikini».

«Uomini in bikini?»

«Già. Te lo immagini Colin Montgomery che si abbassa a controllare il green, con addosso un bikini a pois? Con uno dei suoi amichetti pelosi che gli pende da un lato?».

Risero entrambe.

Oh, che gioia. Stavano legando.

Logan si preparò una tazza di tè e una fetta di pane tostato, e consumò la colazione in piedi davanti al bancone della cucina. Poi non poté procrastinare oltre, ed entrò in soggiorno.

Le due donne erano sul divano, con Cthulhu acciambellata sulle ginocchia di Helen e intenta a fare le fusa.

«…la numero quattro in classifica. E ora è Svenga a tirare per prima». Svenga era una brunetta statuaria con un seno prorompente che sfidava la forza di gravità e veniva contenuto a stento da due triangoli di tessuto floreale e una cordicella.

Logan si schiarì la gola. «Helen, posso parlarti un secondo?».

Lei alzò lo sguardo. «È per il pranzo?»

«No, vorrei parlarti in privato».

La Steel imbronciò le labbra, stringendo gli occhi. «Sai cosa? Credo che Helen stia benissimo dove sta. Non è vero, Helen?».

Logan sospirò e si accosciò di fronte a lei, posandole una mano sul ginocchio. «Abbiamo ricevuto i risultati delle analisi. La bambina ritrovata alla Tarlair Swimming Pool non è Natasha».

«Ooh, un tiro potente, giù dritto verso il green».

Cthulhu si stiracchiò, allungando una zampina.

«È difficile dire come faranno le altre concorrenti a cavarsela, adesso».

Una spalla si sollevò, ed Helen fissò la gatta che aveva in braccio. «Oh…».

«Tutto a posto?».

Le rughe in mezzo ai suoi occhi si fecero più profonde. «Non lo so. Ogni volta mi ripeto che sarebbe meglio saperlo. Che se sapessi che è morta, potrei piangerla e andare avanti. Ma…». L’altra spalla imitò la prima. «Potrebbe essere ancora viva».

La Steel le batté una pacca sulla spalla. «Sono certa che lo è». Poi si alzò. «D’accordo, sarà meglio che ora scorti il sergente McRae alla stazione. Deve aiutarmi con le mie indagini».

Attese che Logan infilasse in una busta di plastica un barattolo di zuppa di lenticchie e due fette di pane in cassetta, e lo accompagnò fuori.

Il vento staccava fiocchi di spuma dalle onde, gettandoli contro i frangiflutti e trasformandoli in freddi chiodi salati. Il sole era nascosto dietro pesanti nuvole grigie e minacciose.

La Steel si chiuse la porta alle spalle, poi lo colpì su un braccio. Forte.

«Ah!».

«Era una potenziale testimone, e tu te la porti a letto!». Un altro pugno.

«La smetta di colpirmi!». Logan si ritrasse. «Non è successo niente tra noi».

«Ah, davvero? Condividete il letto e non è successo niente?»

«Non stiamo condividendo…».

«Invece sì, dannazione. Sono un commissario capo, che credi?»

«Non è successo niente, ho detto. Va bene?». Logan puntò verso la stazione, con la Steel alle calcagna. «E non succederà niente. La bambina uccisa non è sua figlia. Difficilmente resterà qui ancora a lungo, no?»

«Hai idea di quello che combinerà Napier, quando lo saprà? Come puoi essere stato così stupido? Ti avevo detto di tenertelo nei pantaloni, ma tu non mi ascolti mai, ve…».

«basta!». Lui si girò di scatto, allargando le braccia, esasperato. «Basta così! Io non sono la sua banca dello sperma personale, siamo intesi? Posso uscire con chi mi pare, e non sono né saranno mai affari suoi».

«Non provare a…».

«No! Non intendo parlarne oltre». Logan entrò a passo di marcia nella stazione e le sbatté la porta in faccia.

Chi diavolo credeva di essere, per potergli dire cosa doveva o non doveva fare?

E poi, non stava facendo niente.

Magari avesse fatto qualcosa, almeno.

«Sergente? Tutto bene?». La Nicholson si bloccò in mezzo al corridoio, fuori dalla porta della mensa, con due tazze in mano. «Sembra sul punto di uccidere qualcuno».

«In realtà, avrei una lunga lista di gente da uccidere».

«Oh… d’accordo. Comunque…». Arretrò di un passo. «Ora sarà meglio che io…». E a quel punto sparì.

Lui entrò furioso nell’ufficio principale.

Dannata Steel. Sarebbe dovuto tornare lì fuori per ficcarle il…

«Sergente McRae?». Maggie alzò lo sguardo dalla tastiera. «L’ispettore McGregor ha detto che voleva vederla nel suo ufficio appena fosse arrivato».

Lui abbassò le spalle. «Ha forse detto…?»

«La aspetta nel suo ufficio».

Ovviamente.