Sabato, primo turno

Il senno di poi è uno specchio ingannevole

Capitolo 24

«…ogni volta: dice che il suo letto è pieno di ratti. E odia la polizia».

La Nicholson premette il pulsante del mouse, facendo comparire la slide successiva del PowerPoint del briefing mattutino. Un’immagine sgranata presa da una telecamera a circuito chiuso mostrava quello che sembrava un mucchio di gente accalcato fuori da un pub. «Okay, c’è stato un violento alterco fuori dal Fish and Futrit, a Peterhead, ieri notte. I festeggiamenti per un matrimonio sono un po’ sfuggiti al controllo».

Guardò Logan.

Lui prese un sorso di tè. «Quindi, le celle di Peterhead sono piene e il resto delle persone arrestate è finito a Fraserburgh. Il che significa che…?». Posò con forza una mano sulla spalla di Ciuffo, facendolo sobbalzare.

«Ehm… Che dovranno mettere due persone a controllare le celle, secondo la legge?»

«E quando riapriranno i tribunali?»

«Lunedì?»

«E quindi?»

«E quindi…». Il giovane agente aggrottò la fronte. Pensa. Pensa. Pensa. «Quindi non avranno abbastanza personale nel weekend?»

«Esatto. Hai appena vinto una barretta di croccante». Quelle parole gli fecero rivolgere uno sguardo confuso. «Siamo quasi sotto il numero minimo dappertutto, quindi perdere due agenti sia a Peterhead che a Fraserburgh significa che dovremo fare anche il lavoro degli altri».

L’annuncio fu seguito da svariati mugugni di protesta.

«Sì, lo so. Prendetevela con le famiglie degli sposini».

Ciuffo alzò una mano. «Non possiamo chiedere qualche rinforzo dal Team Investigativo Primario del caso di Tarlair?»

«Lo hanno già ridimensionato. Il grosso dell’operazione sarà gestito da Aberdeen, per “massimizzare l’efficienza operativa”, a detta loro. Ovvero: non vogliono pagare gli straordinari e le trasferte».

Deano giocherellò con la bomboletta di gas lacrimogeno che portava alla cintura. «Ovvero: non hanno ottenuto niente, e ora se ne tornano a casa con la coda tra le gambe».

«No comment». Logan si rivolse alla Nicholson. «Janet?»

«Fortunatamente, è tutto piuttosto tran…». Si schiarì la gola. «Non riteniamo ci siano molte questioni da risolvere, di sabato mattina».

Deano si lasciò sfuggire un respiro sibilante tra i denti. «Ooh, eri vicinissima a portare sfortuna a tutto il turno».

«Sta’ zitto». Janet tornò alle slide. «Comunque. Altri avvenimenti di ieri notte: c’è stato un incendio a Rosehearty. Una delle villette di North Street ha preso fuoco. Non si considera la pista del dolo, finora. Ci sono state quattro effrazioni a Pennan nel cuore della notte: sono stati rubati beni elettronici, libri, qualche gingillo e qualche gioiello».

Logan posò la tazza sulla scrivania. «Deano, tu e Ciuffo andate a dare un’occhiata, scattate qualche foto e cercate eventuali impronte digitali. Facciamoci vedere».

«Sì, sergente».

«Quattro effrazioni sono tante, per un paese così piccolo. Si stanno spazzolando tutto il centro abitato porta per porta. Voglio ottenere dei risultati».

La Nicholson proseguì: «Due persone sono state fermate per guida in stato di ebbrezza: una fuori da Strichen e l’altra sulla a947, a nord di Keilhill. Quell’idiota è uscito di strada ed è finito ribaltato in un campo. E, ultimo ma non meno importante, il nostro amico guardone gira di nuovo su Melrose Crescent. Adesso abbiamo una descrizione». Un clic, e lo schermo mostrò l’immagine un po’ sgranata dell’identikit di un uomo. «Vaga, poco chiara e decisamente poco utile».

Janet si appoggiò allo schienale della sedia. «Sergente?»

«Bene. Allora, prima di tutto: credo di dover dedicare un applauso per il barbecue di giovedì sera di Deano…».

La Nicholson e Ciuffo applaudirono, mentre Deano faceva compiere un lento giro completo alla sua sedia, con le braccia sollevate come se avesse appena vinto una maratona o gli fosse stata puntata addosso una pistola. «Grazie, grazie».

Ciuffo sogghignò. «Sarebbe dovuto esserci, sergente. C’era perfino un castello gonfiabile!».

«Davvero?».

La Nicholson annuì. «Mio zio ne ha uno. E ha detto che potrebbe prestarcelo per l’open day della stazione, a giugno».

«D’accordo». Logan tirò fuori il taccuino e se lo segnò. «Secondo: Klingon e Gerbillo non hanno ottenuto il rilascio su cauzione. Quindi se ne staranno rinchiusi a Craiginches fino al processo. Da Queen Street ci hanno fatto sapere che saremo coinvolti soltanto come testimoni in tribunale, e un Team Investigativo Primario si occuperà di tutto il resto».

Deano gonfiò le guance. «Come al solito».

«Terzo: non mi interessa se il team del caso Tarlair se ne torna ad Aberdeen con le pive nel sacco, noi non ci arrenderemo. Tenete gli occhi aperti, lì fuori, okay? Neil Wood non è sparito dalla faccia della terra, si è solo nascosto. E prima o poi dovrà venire fuori». Logan chiuse il taccuino con uno scatto. «E quando lo farà, noi saremo lì, pronti ad arrestarlo».

Qualcuno bussò alla porta dell’ufficio dei sergenti, e Ciuffo fece capolino all’interno. «Sergente? Sapeva che c’è una barbona che dorme nella nostra mensa?».

Logan alzò lo sguardo dalla tastiera e si accigliò. «Una barbona?»

«Mezza spalmata sul tavolo. Russa e scorreggia».

Logan si raddrizzò sulla sedia. Assottigliò lo sguardo. «È una femmina, ne sei sicuro?»

«Sì. E ha i capelli come Albert Einstein dopo un’esplosione».

Ovviamente.

«Meglio mettere su l’acqua, Ciuffo. Un caffè con latte e due zollette di zucchero. E un tè per me».

«Sì, sergente».

«E dai la sveglia alla barbona. Falla venire qui».

Logan tornò a guardare lo schermo, controllando che gli altri team della stazione di polizia di Banff avessero aggiornato i rapporti. Aggiunse qualche commento e ne segnalò un paio da sistemare.

Poi aprì il file dei crimini.

«Gnnnph…». La Steel si appoggiò allo stipite della porta, con l’aria di una donna che si era presa un gorilla come stilista personale. Spalancò le fauci in un enorme sbadiglio che finì con un piccolo rutto. Poi sbatté le palpebre un paio di volte.

Logan controllò l’orologio. «Non sono neanche le otto. A cosa dobbiamo questo onore?»

«Io odio il turno di mattina». Un altro sbadiglio.

Ciuffo ricomparve con una tazza fumante per mano. Ne posò una sulla scrivania di Logan, per poi spostare più volte lo sguardo da lui al mostro scapigliato sulla porta. «Sergente?».

La Steel allungò entrambe le mani. «Caffè. Subito. Il caffè fa sentire meglio».

Logan si collegò al file dei crimini. «Agente Stewart Quirrel, lei è l’ispettore capo Roberta Steel, del Team Investigativo Primario del caso Tarlair».

«Ah. Okay. Prego, capo». Le passò l’altra tazza.

Lei vi seppellì dentro il viso, cominciando a bere rumorosamente.

Ciuffo sollevò le sopracciglia mentre gli angoli delle sue labbra scivolavano verso il basso, dandogli l’aspetto di una rana sorpresa. Poi accennò un paio di volte con il mento verso la Steel e arricciò il naso, come se avesse avvertito un qualche odore fastidioso. Lei non alzò lo sguardo dal caffè che stava bevendo.

«D’accordo, Ciuffo, basta così. Vai a cercare qualcosa di utile da fare».

«Vuole che io e Deano andiamo a Pennan?»

«Hai finito di aggiornare i tuoi rapporti?».

Le guance del giovane agente avvamparono. «Vado subito, sergente».

Non appena fu sparito, la Steel avanzò a passi strascicati verso la scrivania di fronte a quella di Logan e si lasciò scivolare sulla sedia. Poi spalancò di nuovo la bocca in uno sbadiglio gargantuesco. «Pfff… il tuo letto è molto più comodo di quel pulcioso albergo».

«Sembra appena uscita da un cassonetto».

«Ti odio…». La Steel prese qualche altro rumoroso sorso dalla tazza. «Perché non ci sono biscotti?»

«Lo chieda al suo ragazzo, il detective Dawson». Logan controllò il file dei crimini. C’erano tre richieste di pubblicare un messaggio su Twitter riguardo a una grave aggressione a Mintlaw. Il volto della polizia moderna.

«Ti propongo uno scambio: il tuo porcile per la mia lussuosa camera d’albergo. Bottigliette di shampoo e tutti gli asciugamani puliti che vuoi».

«No. Cosa sta succedendo al caso Tarlair?»

«E c’è anche la colazione inclusa. Salsicce, uova e scones di patate. Ti piacerebbe. E metteresti un po’ di carne intorno a quelle ossa».

«È venuta qui a lamentarsi o vuole provare a lavorare seriamente, oggi?».

Lei si incurvò in avanti, avvolgendo la tazza di caffè con entrambe le mani come se fosse l’unica cosa che le impediva di morire congelata. «Ci stanno rimandando a casa. Quattro giorni e non abbiamo ottenuto un singolo, maledetto indizio su chi sia quella bambina, o chi possa averla uccisa».

«Ho sentito». Logan si collegò a Twitter e mandò l’appello ai testimoni come richiesto. Combattere il crimine 140 caratteri alla volta. «Quindi se ne tornerà ad Aberdeen».

Almeno in quel modo avrebbero riavuto il possesso della stazione. Avrebbero potuto aprire qualche finestra e mandare via la puzza di disperazione, fallimento e troppi lassativi.

«Ti piacerebbe». La Steel stese le braccia, piegò la testa di lato e inarcò la schiena. Mugugnò e sbadigliò, scuotendosi tutta. «Qualcuno resterà qui a dirigere la Divisione b nell’indagine».

Ovviamente.

«Quindi, praticamente il Team Investigativo Primario non è riuscito a trovarsi il culo da solo, e ora il problema è nostro». Logan chiuse gli occhi, si piegò in avanti e premette la fronte sul tavolo. «Oh, che fortuna».

«Non sei nella posizione di fare del sarcasmo. Stephen Bisset è morto, ricordi?».

Come se potesse dimenticarlo, con tutte le prime pagine che la notizia aveva ottenuto sui giornali negli ultimi due giorni. Almeno, avevano smesso di accamparsi fuori dalla stazione di polizia.

La Steel lo pungolò su una spalla. «E sai cosa hanno scoperto quando hanno controllato le registrazioni delle telecamere dell’ospedale? Un cavolo di niente. Hanno controllato tutti i volti registrati, e nessuno ha qualcosa a che fare con Stirling. Quindi la tua teoria del “complice” è utile più o meno quanto il detective Rennie». Piegò il collo da un lato e dall’altro, facendolo scricchiolare, per poi massaggiarsi la nuca. «Non riesco ancora a credere che nessuno abbia visto niente».

«È proprio sicura di non voler tornare ad Aberdeen con gli altri? E magari lasciare qui qualcuno di meno fastidioso?»

«Insomma, ti aspetteresti che qualcuno possa notare un tizio che entra, si masturba su Stephen Bisset e lo soffoca, no? Dovresti dare un minimo nell’occhio, con la salsiccia dell’amore in una mano e un cuscino nell’altra, o sbaglio?».

Logan la fissò. «Hanno trovato del seme sul cadavere? Ma allora va fatta un’analisi del dna!».

«Sì, grazie tante, Hercule Poirot, ci abbiamo già pensato. E non è venuto fuori nulla dal database. Te lo dico io, la stampa impazzirà, quando si verrà a sapere». Sospirò, prendendo un altro sorso di caffè. «Era già abbastanza quando ci massacravano sul processo di Graham Stirling, ma questo? Siamo seriamente nei guai. E quel piccolo bastardo può anche non aver fatto nulla finora, ma puoi scommettere i ruvidi pantaloni della tua fottuta uniforme che ci farà causa, e la stampa ci starà di nuovo addosso, peggio di prima. Se fossi in te, mi attaccherei come una sanguisuga a chiunque fosse in grado di togliermi di dosso un po’ di tutta questa merda».

«Glielo ripeto: non entrerò nel suo Team Investigativo Primario. Non posso».

Lei sollevò le mani. «Dicevo per dire».

«Be’, io no. Già è abbastanza brutto…».

Si sentirono tre rapidi colpi sulla porta, e la donna che faceva da braccio destro della Steel fece capolino nell’ufficio dei sergenti. «Capo?».

La Steel non la guardò neanche. «Per l’ultima volta, Becky, non tornerai ad Aberdeen finché Dawson non esce dall’ospedale. Non sei un granché, ma sei tutto ciò che ho, al momento, per tenere in riga questi agenti».

La detective McKenzie si incupì, e le rughe che aveva intorno alla bocca si fecero più profonde. «Si tratta della registrazione delle telecamere dell’ospedale. Non c’è nessuno, lì sopra che non dovrebbe esserci, giusto? Insomma, ci sono i medici, le infermiere, qualche volontario, l’urologo…». Si fermò, facendo una pausa drammatica. «E i figli di Bisset».

La Steel appoggiò i gomiti sulla scrivania, facendo dondolare la testa sopra la tazza di caffè. «Stai suggerendo sul serio che possano essere stati i suoi figli?».

La McKenzie entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. «So che è un azzardo, ma ci pensi. Loro…».

«Laz, sono troppo stanca. Fallo tu».

Logan le indicò la sedia vuota. «Vuole sedersi?».

La donna non lo fece. Si appoggiò alla parte della scrivania dove si trovava la Steel. «Avanti, capo, nessuno sospetterà mai di loro, giusto?».

Logan si morse le labbra. Doveva essere gentile. Non aveva senso farla sembrare una stupida, ma non sarebbe stato facile evitarlo. «Capisco cosa intende, detective McKenzie, ma la sua ipotesi non tiene conto del seme trovato sul corpo di Stephen Bisset».

Silenzio. Poi la McKenzie arricciò il naso. «Dannazione».

La Steel doveva aver deciso che dopotutto poteva anche dire la sua, perché si raddrizzò e indicò la detective. «Sono fratello e sorella, Becky. Non è molto probabile che ammazzino il loro caro vecchio padre per poi venire sul suo corpo ancora caldo, giusto? Siamo ad Aberdeen, non nel fottuto Trono di Spade».

Il rossore sul collo della McKenzie aumentò. La donna tentò un sorriso che sembrava più la smorfia di chi avesse appena usato un ananas intero come supposta. «Capisco…». Un respiro profondo. Poi alzò il mento. «C’è altro?».

La Steel agitò la mano verso la porta. «Vai a controllare se qualcuno ha avvistato Neil Wood, nel frattempo. I pervertiti non spariscono nel nulla».

Un secco cenno della testa. «Sì, capo». Poi uno sguardo astioso a Logan, come se fosse colpa sua. «Sergente». E se ne andò sbattendo la porta.

Lo spostamento d’aria fece arruffare i post-it incollati sulla scrivania di Logan.

Lui sospirò. «È andata bene».

«Te l’avevo detto… è a un passo dal farsi venire un aneurisma».

«E allora la smetta di tormentarla». Logan passò la punta delle dita sulla scrivania una o due volte. Guardò fuori dalla finestra, mentre un fastidioso senso di colpa gli si piantava come una lama sottile nel petto. «Il detective Dawson è ancora in ospedale?»

«Gli sta bene. Mai fidarsi del kebab, questo è il mio motto». La Steel sorseggiò il caffè e aggrottò la fronte. «Sicuro di non avere biscotti?».

I familiari e deprimenti rumori di un ospedale ticchettavano, ronzavano, tintinnavano e mormoravano lungo il corridoio. Logan si appoggiò alla parete con la schiena e premette un dito contro l’orecchio libero. «Puoi ripetere, Deano?»

«Sì, stiamo continuando a girare intorno a Rundle Avenue. Di nuovo. Abbiamo ricevuto una chiamata secondo la quale il suo amico Frankie Ferris stava ricevendo parecchi visitatori».

Logan controllò l’orologio. «Alle otto e venti di sabato mattina? Se è sveglio così presto, non deve essere andato a dormire ieri notte».

«È quello che ho pensato anch’io. Ma abbiamo ricevuto questa chiamata, quindi non siamo andati a Pennan per continuare a girare in circolo da queste parti, a caccia di drogati mattutini che non esistono».

La porta in fondo al corridoio si aprì, e una giovane donna in camice azzurro ne uscì, con un mucchio di fascicoli sotto un braccio. Capelli corti e castani, due cicatrici che da sotto il naso le raggiungevano il labbro superiore.

«Okay, fate un altro paio di giri e poi basta. Con Klingon e Gerbillo fuori dai giochi, qualcuno sicuramente sta cercando di colmare il vuoto. E potrebbe anche essere Frankie Ferris». Logan riagganciò la ricetrasmittente sulla spalla e si avvicinò alla donna. «Dottoressa?».

Lei gli rivolse un sorriso che faceva pensare a una notte di sonno mancata. «Come posso aiutarla?».

Logan indicò la porta da cui era uscita. «Jack Simpson».

«Ah, sì». Lei prese una delle cartelline e vi frugò dentro, tirandone fuori un foglio che osservò stringendo gli occhi. «Trauma cranico, lesioni alla milza, fratture alle costole, al femore sinistro, alla tibia e alla fibula destra, all’omero sinistro e…».

«Sì, è lui. Si è svegliato?».

Lei sporse le labbra per un attimo. Arricciò il naso. Probabilmente non era abituata a essere interrotta in quel modo. «Mr Simpson ha ripreso conoscenza questa mattina. La pressione intracranica sta recedendo, quindi siamo fiduciosi sul fatto che possa riprendersi completamente. Anche se, ovviamente, avrà bisogno di molta fisioterapia».

«Posso parlarci?»

«Devo avvertirla, è un po’… irritabile».

Non lo sorprendeva: Jack Simpson non doveva aver vissuto un giorno solo senza eroina da anni, ormai. Perlomeno, doveva essere rimasto sedato per tutto il periodo peggiore della crisi d’astinenza.

Logan entrò nella stanza.

Le serrande erano leggermente aperte, e proiettavano strisce di luce sul pavimento e sul letto. C’era un televisore montato sulla parete, con l’immagine che sfarfallava a tempo con qualche macchinario lontano. Un giornalista in giacca e cravatta parlava in camera, il microfono tenuto come un tirapugni. «…il Primo Ministro ha annunciato oggi che la detective deceduta Mary Ann Nasrallah, della Polizia di Merseyside, sarà insignita della Medaglia al Valore della Polizia. Ci colleghiamo live con Westminster…».

Jack Simpson era sdraiato sulle lenzuola, con le braccia e le gambe ingessate, un collare rigido che lo bloccava con il mento in alto e la testa fasciata. Il volto era una tavolozza di macchie violacee e giallastre, le labbra gonfie e piene di croste.

«…la coraggiosa agente sotto copertura la cui uccisione della scorsa domenica non fa che dimostrare…».

Logan afferrò il telecomando e spense la tv. Poi sorrise a Jack Simpson. «Klingon e Gerbillo ti hanno giocato un bel tiro mancino, eh, Jack?».

Gli occhi iniettati di sangue dell’uomo lo fissarono, furiosi. «Vvv ffft fttr».

«Avanti, è questo il modo di parlare a chi ti ha salvato la vita?». Prese una sedia di plastica da un angolo della stanza, trascinandola accanto al letto. Ci si accomodò. «Mi spiace, ho dimenticato di portarti un po’ di frutta».

«Nnn ti drrr nnnt».

«Okay, non devi dirmi niente. Perché invece non mi ascolti un po’? Quando ti ho trovato nella soffitta di Klingon, eri mezzo morto. Tra le lesioni interne, la crisi d’astinenza e la disidratazione, i medici hanno detto che saresti riuscito a resistere forse per un altro giorno. O forse due. Al massimo».

Simpson restò lì, fissando con odio il soffitto.

«Hanno cercato di ucciderti, Jack. Ti hanno quasi ammazzato di botte e ti hanno chiuso in soffitta. Se non fossi salito lì sopra, sarebbe stata la fine, per te. Niente più Jack Simpson».

Difficile che qualcuno potesse dispiacersi di quella perdita. Non c’era una singola cartolina di pronta guarigione nella stanza; niente orsacchiotti, palloncini o mazzi di fiori. Le uniche cose che decoravano il comodino accanto al letto erano una tazza e una confezione di fazzoletti di carta.

Ma, del resto, chi mai si sarebbe messo ad augurare a uno spacciatore di riprendersi presto? Ormai i suoi clienti dovevano aver trovato qualcun altro a cui chiedere il loro veleno preferito. Neanche alla madre o al padre di Jack Simpson importava qualcosa del figlio.

Logan si piegò in avanti e bussò sul gesso intorno al braccio destro dell’uomo. «Vuoi che Klingon e Gerbillo se la cavino? Vuoi perdonarli e dimenticare il passato, per caso?».

Un sibilo uscì dalle labbra spaccate di Simpson. «Li ammzzz».

«E come pensi di riuscirci, Jack?». Indicò la sacca appesa sotto al letto, collegata a un tubicino che spariva sotto il camice ospedaliero di Simpson. «Non puoi neanche pisciare da solo, al momento».

Logan curvò la schiena in avanti e abbassò la voce. «Al momento, staranno sicuramente patteggiando. Tireranno fuori i nomi di chi ha venduto loro la roba in cambio di una riduzione della pena. Chissà, se le informazioni sono davvero utili, potrebbero perfino ottenere la libertà. È questo che vuoi?».

Un colpo di tosse. Poi un altro. La saliva che lasciava a spruzzi le sue labbra. Serrò le palpebre, i denti scheggiati stretti contro gli spasmi convulsi del petto. Finché l’accesso di tosse non si esaurì e lui ripiombò sul cuscino, respirando ad ansiti rauchi. Il volto quasi scarlatto in mezzo ai lividi. «A…acqua…».

Logan prese la tazza dal comodino e la portò alle labbra di Simpson. «Fa’ piano. Ecco, così. Non soffocarti».

Il respiro dell’uomo si calmò, il volto gli tornò al pallore malsano di prima.

«Meglio?»

«Sono in arresto?». Le parole gli scivolarono tra le labbra un po’ sibilanti.

«No. Tu sei la vittima, qui, Jack. Vogliamo solo assicurarci che coloro che ti hanno fatto questo non se la cavino senza una condanna».

Lui restò a fissare il soffitto per un po’, accigliato.

Un carrello passò cigolando nel corridoio fuori dalla stanza.

Delle voci svanirono in lontananza.

Poi Simpson annuì. Non molto, appena un lieve movimento della testa bloccata dal collare. «È stato un bastardo del sud a fornire la roba».

«Un momento». Logan tolse l’elastico alla telecamera che indossava e iniziò a registrare. «Sergente Logan McRae, otto e trenta del mattino, ventiquattro maggio, Chalmers Hospital. Interrogatorio a Jack Simpson». Poi tirò fuori il taccuino. «Okay, torniamo all’inizio. Chi è stato a fornire l’eroina che si trovava nella casa della madre di Colin Spinney?»

A quelle parole, Simpson gli lanciò un’occhiata perplessa. «La casa di sua madre? Ma sei scemo? Quella è morta da… anni, penso».

«Anni? So che si trova in Australia, ma…».

«L’uomo che ha fornito la droga era uno della zona di Newcastle o di Liverpool. Insomma, aveva quel genere di accento».

Logan prese qualche appunto. «Come si chiama?». Probabilmente era una perdita di tempo: Klingon e Gerbillo dovevano averlo rivelato a chiunque stesse gestendo l’indagine nei primi cinque minuti di interrogatorio. Ormai il fornitore doveva essere stato arrestato, o in fuga. In ogni caso, di certo non si trovava a Banff. E tuttavia…

«Nah». Simpson sembrava voler aggrottare la fronte, ma il suo volto massacrato non collaborava. «Si faceva chiamare con uno stupido soprannome, come… Candelaio? O Uomo delle Candele? Una cosa del genere. L’ho visto solo una volta: era basso e largo. Come un giocatore di rugby in miniatura, o un pugile. Un duro».

«Età? Colore di capelli? Segni particolari?»

«Quel sadico bastardo se ne stava lì a incitare Gerbillo e Klingon mentre loro si davano il cambio con la mazza da baseball…». Le lacrime gli riempirono gli occhi, per poi rigargli le guance livide. «Diceva loro che dovevano… dovevano continuare a…». Tirò su la testa di qualche centimetro, lottando contro il collare rigido, spingendosi contro i cuscini. Sbattendo le palpebre per trattenere le lacrime. «Me ne stavo lì sul pavimento del garage, urlando e cercando di coprirmi la testa, e quelli continuavano a colpirmi, e tutto era… Dio, faceva così male». Le lacrime scorrevano libere, adesso, e un filo di muco traslucido gli scendeva da una narice, mentre lui tremava. «E quelli ridevano! Ridevano, mentre mi massacravano di botte». Un brivido lo scosse, facendo sussultare i gessi che gli bloccavano gli arti. Prese qualche respiro profondo, sibilante.

Logan posò la penna. «Vuoi fare una pausa?»

«Voglio una cazzo di dose. La morfina, qui, fa schifo…».

Ci volle qualche minuto, ma alla fine i tremiti si placarono e il respiro di Simpson tornò normale.

Logan prese due fazzoletti dal comodino accanto al letto. Si alzò e asciugò il volto dell’uomo dal grosso delle lacrime e del muco. «Cosa hai fatto, Jack? Come mai il…». Tornò a sedersi e controllò gli appunti. «Come mai questo Candelaio voleva che Kevin McEwan e Colin Spinney ti uccidessero?»

«Uccidermi? No, quello è stato solo il primo giorno». Quella che doveva essere un’amara risata gorgogliò fuori dalla bocca rovinata di Jack Simpson. «Quei bastardi mi hanno tirato fuori dalla soffitta il giorno dopo e l’hanno fatto di nuovo. E anche il giorno dopo ancora. Li ho implorati di uccidermi».

«Ma non l’hanno fatto».

«Il Candelaio ha detto loro che era così che si sarebbero costruiti una reputazione. Dopo una settimana passata a… rompermi ogni osso possibile, mi avrebbero dovuto abbandonare sulla strada. E quando la voce si fosse sparsa, nessuno avrebbe più osato mettersi contro di loro». Mostrò i denti spaccati. «Non era niente di personale, capisci? Era una questione di affari».

«Perché hanno scelto proprio te?»

Un lieve sorriso sollevò un angolo delle labbra di Simpson. «A quanto pare, a loro non piace quando ti prendi qualche campione gratuito…».

Capitolo 25

Logan era sul marciapiede all’esterno dell’ospedale, intento a ricontrollare gli appunti sul taccuino a partire dal lunedì precedente. Trovò il numero di Kirstin Rattray e lo compose sul cellulare. Ascoltò gli squilli susseguirsi, finché…

«Pmmmmph». Un denso sbadiglio si fece sentire dall’altra parte della linea. «Chi è?»

«Kirstin? Sono il sergente McRae».

Un piccolo gemito. Poi la voce di un uomo in sottofondo. «Chi diavolo è?»

«Mia… mia madre. Mi sta dicendo qualcosa di Amy. Non lo so… cose della scuola». Poi Kirstin tornò al telefono. «Mamma, aspetta un momento, vado a mettere su il tè e poi potremo parlare».

«E chiudi quella cazzo di porta».

Clunk. Poi la donna tornò al telefono, la voce ridotta a un bisbiglio nervoso. «Ma è pazzo? Non può chiamarmi a casa!».

«Metti su il bollitore. Non vorrei che chiunque sia con te cominci a chiedersi perché non fischia».

«Se Klingon e Gerbillo scoprono che ho parlato con la polizia, mi ammazzeranno!».

«Dopo quello che abbiamo trovato in casa loro? Non credo proprio. Quei due se ne staranno dietro le sbarre per almeno sedici anni».

«E l’uomo che li ha riforniti? Pensa che sarà contento di sapere che tutta la sua roba è finita in mano alla polizia?»

«Be’, dovremo fare qualcosa anche per quanto riguarda lui, no? Il mio capo vuole che tu sia registrata come nostra informatrice ufficiale, quindi…».

«L’ha detto al suo capo? Dio santo…». Si sentì qualche tintinnio e tonfo in sottofondo. Poi il borbottio di un bollitore. «Mi vuole morta, per caso? Vuole che la mia piccola Amy diventi orfana?»

«È per questo che è meglio fare tutto secondo le regole».

«Non capisco perché non ci può lasciare in pace. Non le ho mai fatto niente di male».

«È la polizia di Aberdeen a gestire ogni cosa, quindi non dovrai mai più parlare con me».

«Ha idea di cosa fanno alle spie? Preferisco che le mie dita restino dove sono, grazie tante!».

«Questo non è fare la spia, è contribuire alla sicurezza della propria comunità. Vuoi che la tua piccola Amy cresca in un posto sicuro, giusto?». Passò il cellulare da un orecchio all’altro, mentre una vecchia e malandata Land Rover gli passava davanti, seguita da una nuvola di fumo grigiastro emessa dal tubo di scappamento. «Hai mai sentito nominare un certo Candelaio? O forse Uomo delle Candele?»

«È pazzo o cosa?»

«Dovrebbe essere di Newcastle o di Liverpool. Un tizio basso ma tozzo e dall’aria pericolosa».

«No».

Una vecchietta scese dal marciapiede, con la schiena curva, tirandosi dietro un decrepito piccolo terrier che avanzava rigido sulle zampette tese, il pelo che doveva essere stato bianco ora macchiato come i denti di un fumatore.

Il conducente della Land Rover suonò un asmatico colpo di clacson.

La vecchietta tornò in fretta sul marciapiede e lo fulminò con lo sguardo mentre passava. Poi tornò ad attraversare la strada e rivolse il dito medio alla nuvola di fumo in allontanamento. Il povero terrier riuscì a tirare fuori un piccolo latrato infastidito.

Ah, c’era da amarle, certe vecchiette.

«…mi sta ascoltando, almeno?».

Ah, già. Tornò al telefono. «Sicura di non conoscerlo?»

«Posso tornare a letto, ora?».

Oh, be’, almeno ci aveva provato. «Salutami chiunque sia lì con te, quando ci torni».

La vecchietta avanzò verso di lì, borbottando e imprecando tra sé e sé. Il cagnolino che le veniva dietro come un giocattolo a molla rotto.

Hmm…

«…puoi andare a fotterti con un…».

«Senti, già che ci sono: la madre di Klingon».

«Che vuole sapere di lei?»

«Avevi detto che era andata in Australia. Ma quando?»

«Non ne ho idea. Forse un paio di mesi fa? Che importanza ha?»

«Com’era? Sciatta? Ubriaca? Una drogata anche lei?»

«Vuole scherzare? Quella donna sembrava nata inamidata, con il detersivo in una mano e l’aspirapolvere nell’altra. Ti costringeva a toglierti le scarpe prima di entrare in casa».

Le sarebbe preso un infarto, quando fosse tornata a casa e l’avesse trovata nello stato in cui l’aveva vista Logan, allora.

«Immagino che tu non abbia il suo numero di telefono, vero?»

«Sì, perché di cognome faccio “Pagine Gialle”. Dio santo…». E a quel punto, Kirstin attaccò. Tornandosene a letto con chiunque stesse finanziando la sua dipendenza in quel momento.

Un paio di mesi in Australia. Era abbastanza per permettere a Kevin e Gerbillo di trasformare la casa nel porcile che avevano perquisito?

Forse. O forse no.

La vecchietta si stava avvicinando, il capo chino e le labbra che proferivano una sfilza di oscenità senza fine.

Logan chiamò il numero di Maggie sulla ricetrasmittente. «Ehi, Maggie: il tuo Bill lavora ancora per il municipio?»

«Dipende dalla tua definizione di “lavoro”».

«Fammi un favore. Vedi se ha qualche conoscenza nell’ufficio del catasto. Ho bisogno di sapere chi è che paga l’affitto della casa di Klingon e Gerbillo».

«Di sabato?»

«Ci sarà un motivo se ti chiamano “donna dei miracoli”, no?».

La vecchietta si fermò, emanando un sentore di Voltaren e menta piperita. Puntò un indice contorto in direzione della nuvola di fumo di scarico ormai lontana, mostrando la dentiera come se volesse mordere Logan. «L’ha visto?». Da vicino, gli arrivava a malapena al petto.

«Okay, vedrò cosa posso fare, ma non prometto nulla».

«Grazie, Maggie. E metti su il tè, torno alla base tra cinque minuti». Mise via la ricetrasmittente. «Mi dica, come posso aiutarla?»

«Gente come quella dovrebbe essere fucilata! Ha suonato il clacson come se fosse colpa mia! Quell’idiota. Ho ottantadue anni!».

«Be’, almeno sta bene, è quello l’importante…».

«Non hanno un minimo di buone maniere. Per niente. È come vivere nel Signore delle mosche». La vecchietta tirò su con il naso e ruminò per qualche istante. «Ho una gran voglia di prendermi la licenza per un fucile e dare loro una bella lezione».

«Be’, forse non è una buona idea, signora».

«È tutta colpa dei genitori. Questo è ciò che succede quando dicono alla gente di non picchiare i figli. Io ho ottantadue anni e mio padre prendeva a cinghiate me e i miei fratelli se lasciavamo il coperchio del gabinetto alzato! Pensi cosa avrebbe potuto fare se non avessi portato rispetto agli anziani».

Alle sue spalle, il terrier si sedette sul marciapiede, ansimando a fauci spalancate, con la lingua penzolante tra i denti rovinati e gialli.

La donna strattonò il guinzaglio, facendo rialzare il cagnolino. «E ha visto cosa hanno fatto al cartello vicino al ponte? Un enorme uccello viola, proprio sopra alla faccia di quel brav’uomo del Partito Nazionale Scozzese. Che disgrazia».

Fantastico… Geoffrey Lovejoy, il giovane attivista politico del quartiere, aveva colpito ancora.

Logan annuì. Arretrò di un passo. «Sì. Ha ragione. Proprio una disgrazia».

«Secondo me sono i Conservatori a fare cose del genere. Sarebbe tipico di certa gentaglia. Questa non è una campagna elettorale, è una guerra». A ogni parola, la vecchietta si avvicinava, costringendolo ad arretrare contro il muro.

Logan si calcò il berretto in testa, scivolando di lato tra la donna e la parete di granito dell’ospedale. «Sì, be’…». Indicò alle proprie spalle verso la baia, il ponte e l’enorme uccello viola. «Sarà meglio che vada a vedere cosa possiamo fare per quel cartellone».

La sentì ringhiare alle sue spalle, mentre si allontanava: «Ho ottantadue anni, per la miseria!».

«Ricevuto, saremo lì entro due minuti…». Logan strinse tra le dita la maniglia sopra lo sportello del lato del passeggero mentre la Nicholson superava in corsa il furgone di un carpentiere. I lampeggianti della Macchina Grande pulsavano nell’aria del mattino, accompagnati dall’ululato delle sirene.

Entrarono a tutta velocità nei confini del centro abitato. “benvenuti a portsoy – guidate con prudenza”. Tanti saluti a quell’invito: l’ago del tachimetro superava i cento.

«Fate attenzione, i colpevoli sono ancora sulla scena».

C’era una fila di villette su un lato della strada, campi di un verde brillante sull’altro.

Logan premette di nuovo il pulsante, parlando nella ricetrasmittente agganciata al giubbotto antiproiettile. «Ricevuto».

La Nicholson si girò e gli rivolse un sorriso tutto denti. «Li beccheremo con le mani nella marmellata!».

«Guarda la strada».

Le villette lasciarono il posto al granito scozzese vecchio stile, e poi agli alberi, che sfilarono in tutta fretta oltre i finestrini dell’autopattuglia. E poi raggiunsero il centro di Portsoy, con le sue antiche case di marmo grigio. La Nicholson affrontò una brusca svolta a destra su Seafield Street, con il motore che urlava mentre lei scalava le marce e frenava, per poi premere di nuovo l’acceleratore a tavoletta. Oltrepassando a tutta velocità negozi e vecchiette. Poi superò un minibus con la scritta “w i soy!!!!” su una fiancata e file di bambini in divisa da calcio a righe bianche e nere che fissarono con gli occhi sgranati l’autopattuglia.

Logan puntò un dito. «Lì».

La Nicholson schiacciò i freni, facendoli fermare sbandando subito dopo la fermata dell’autobus.

Frammenti di vetro, lattine, confezioni e barattoli erano sparsi sulla strada davanti al supermercato. L’insegna sopra le vetrine pendeva dalla parte più vicina a loro, il supporto sotto la parola “Supermercato” mancante e il vetro che la sosteneva ridotto a una ragnatela di crepe intorno ai bordi. C’era un grosso buco nel muretto alto al ginocchio sotto l’insegna.

E non c’era traccia di chiunque l’avesse causato.

Logan saltò giù dall’auto, afferrando il berretto dell’uniforme. «Tu!», esclamò, rivolto a una giovane donna con un passeggino. «Da che parte sono andati? Che macchina hanno?».

Ci fu una pausa, poi la donna sollevò un braccio. «Una di quelle grosse quattro per quattro. Ehm… blu… credo».

Lui rientrò in macchina, dando un colpo al cruscotto. «Vai!».

La Nicholson schiacciò di nuovo l’acceleratore e la Macchina Grande scattò in avanti.

«Pattuglia Sette a Controllo, i colpevoli hanno lasciato la scena. Un testimone ha detto che hanno preso la strada per Cullen. Li stiamo inseguendo».

«Avete un contatto visivo?».

L’auto superò a tutta velocità una fila di giardini e qualcuno che passeggiava con il cane.

«Negativo».

Tre macchine, un autobus, un carro attrezzi e un’autocisterna che venivano dal lato opposto della strada si scansarono per farli passare. Cosa che non fece l’idiota con il camper dalla loro parte di carreggiata.

La Nicholson sbatté i pugni sul volante. «Togliti di mezzo, vecchia mummia!». Non appena oltrepassarono l’autocisterna, spostò bruscamente la Macchina Grande sulla carreggiata opposta e accelerò superando il camper. «Non possono essere molto lontani…».

Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Dove sono tutti gli altri?»

«Le unità stanno arrivando. La più vicina è a quindici minuti».

«Dite loro di convergere sulla a98 prima possibile. Stiamo cercando una quattro per quattro blu. Non si conoscono la targa o il modello, ma deve avere il lato posteriore ammaccato».

Alla loro sinistra sfilò via una stazione di servizio, poi il negozio di un idraulico e l’estremità di un condominio. L’ago del tachimetro toccò i 140, mentre superavano i confini del centro abitato e si ritrovavano in aperta campagna.

«Ricevuto».

Dieci secondi dopo, l’appello risuonò dalla radio dell’autopattuglia. «A tutte le unità, stiamo cercando una quattro per quattro blu che si dirige verso ovest sulla a98».

Con un po’ di fortuna, questa volta, sarebbero riusciti ad arrestarli.

Capitolo 26

«Si sa qualcosa?».

La Nicholson rialzò gli occhi dalla ricetrasmittente e scosse la testa. «Non c’è traccia di loro da nessuna parte».

Logan legò un’estremità del nastro della polizia alla grondaia tra le due parti del supermercato. Da un lato si sviluppava al pianterreno di un edificio di granito di tre piani, ma l’entrata principale, quella che era stata rapinata, era un’estensione di un solo piano, dipinta di bianco e con una facciata verde e una cassetta delle lettere rossa posizionata accanto all’ingresso. L’altra estremità del cordone bianco e blu era avvolta intorno a quest’ultima, come il nastro di un regalo molto brutto, e si allungava verso un cono arancione al centro della strada, per poi raggiungerne un altro davanti alla grondaia. Un grosso rettangolo che proteggeva la scena.

La Macchina Grande bloccava l’altro lato della strada, con le sirene che lampeggiavano al sole.

Logan sentì la ricetrasmittente animarsi con un pigolio, e poi: «Sergente, sono Deano. Può parlare?»

«Dimmi».

«Io e Ciuffo siamo stati a Pennan per quelle effrazioni. Non ci sono testimoni, ma gli oggetti rubati sono piuttosto strani. Ci sono i soliti iPad, dvd e cellulari, una certa quantità di denaro e gioielli, ma da un appartamento manca una Bibbia del 1875, una baionetta della prima guerra mondiale e un vaso giorgiano. Dall’appartamento accanto mancano dei dipinti degli anni ’20. E da un altro ancora un set di decanter di cristallo proveniente dal Cutty Sark».

Logan aprì il bagagliaio della Macchina Grande. «Come sono entrati?»

«Hanno rimosso un vetro dalla porta sul retro. Il fatto è, sergente, come facevano a sapere di un set di decanter, prendendo quello e ignorando un impianto stereo?»

«Forse rubano su commissione? Questo, oppure hanno un interesse particolare. Vai a controllare sul database, forse possiamo ottenere un risultato rapido». Logan recuperò la paletta e la scopa dal bagagliaio. «Tienimi aggiornato, okay?»

«Senz’altro».

Logan passò scopa e paletta alla Nicholson. «E, prima che cominci a lamentarti, non è perché sei una donna, ma perché hai il grado di agente».

Lei fece una smorfia. «Sì, sergente».

«Ripulisci questo lato della strada. A quel punto potrai spostare la macchina e far scorrere di nuovo il traffico. Non ripulire niente all’interno del cordone». Poi si allontanò verso il supermercato, zigzagando tra i detriti sparsi sull’asfalto. All’interno, sembrava come se ci fosse stata un’esplosione. L’epicentro era il buco al posto delle due vetrine, e da lì si dipartiva una rosa distruttiva di confezioni di caramelle, lattine e biglietti della lotteria istantanea. Uno scaffale metallico per i giornali era spezzato in due, e aveva sparso in giro la sua collezione di rotocalchi, riviste e copie di «Farmers Weekly».

Poi c’era un mucchio di mattoni di cemento dalla soglia distrutta.

La responsabile del supermercato era dietro al bancone, con una tazza di tè e una confezione di compresse per i bruciori di stomaco davanti a lei, il cellulare premuto contro l’orecchio. Indossava una gonna verde e una felpa nera. “stacey”, secondo quanto diceva la sua targhetta. Spalle cadenti, capelli che tendevano al grigio e con un vago profumo di menta. Masticò un’altra compressa antiacido. «Non lo so, Mike. Dovrà dircelo la polizia. Ma il supermercato…». Si guardò brevemente intorno. Le spalle si afflosciarono ancora di più. «Ti aggiorno appena so qualcosa».

Logan si fermò davanti al bancone, in mezzo al caos di giornali e biglietti della lotteria istantanea.

Sarebbe potuto capitare a chiunque.

Ma oggi era capitato a Stacey.

Lei alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. «Ora devo andare». Chiuse la telefonata e mise giù il cellulare. «Mi scusi. Era l’ufficio centrale. Volevano sapere se stavamo tutti bene».

Logan accennò al buco dove in precedenza si trovavano le due vetrine. Le altre erano bloccate da scaffali e ripiani. «Dove si trovava la cassa?».

La donna indicò uno spazio rettangolare vuoto sul pavimento, con quattro buchi su di esso e un tratto di cavi strappati. «È stato come… non lo so. La vetrina è esplosa e c’erano pezzi di vetro e oggetti ovunque ed è successo tutto in un attimo». Strinse le mani intorno alla tazza. «Pensavo che in casi come questo tutto scorresse al rallentatore, ma invece… whoosh». Alzò le spalle.

«Avete delle telecamere a circuito chiuso?».

Stacey annuì. «Sì. Le abbiamo».

Lo guidò dal punto d’impatto a degli scaffali intatti. Oltre le file di patatine e cibo per gatti, fino a una doppia porta. Entrò in un magazzino pieno di bancali di cereali per la prima colazione e sacchi di patate. Da un lato c’era un piccolo ufficio. Stacey aprì la porta e fece entrare Logan. «Ci sono tre telecamere sul davanti del negozio, due interne e una esterna».

Un tavolo correva lungo due pareti, con un computer, due telefoni e un paio di sedie da ufficio. Un monitor era montato nell’angolo, sopra a una postazione con dell’apparecchiatura di registrazione digitale. Otto diverse angolazioni del supermercato riempivano lo schermo, ognuna con un piccolo timer che segnava il tempo in un angolo. Solo una partizione dello schermo era oscurata.

Stacey prese un telecomando da sopra l’apparecchiatura di registrazione e si lasciò scivolare su una delle sedie. Premette i pulsanti, facendo tornare indietro le registrazioni.

Dieci minuti. Venti. Trenta. Quaranta… e il riquadro oscurato si schiarì, sostituito da una visuale del negozio da un punto sopra allo scaffale dove i clienti dovevano grattare i loro biglietti della lotteria istantanea.

«Ecco qui».

Gli schermi si bloccarono.

La telecamera quattro mostrava un vecchietto con un cestino della spesa e una bottiglia da due litri di birra. Nella numero sei c’erano una bambina con un orsacchiotto e una signora che sceglieva un filone di pane. La numero uno mostrava l’esterno fuori dall’entrata principale. E nella due si vedeva Stacey, dietro al bancone, intenta a lavorare a dei documenti.

La registrazione andò avanti.

Il vecchietto posò il cestino. La bambina si mosse lungo lo scaffale.

Una grossa quattro per quattro blu arrivò in retromarcia sulla telecamera uno, girò di scatto e fece finire il lato posteriore contro la vetrina accanto all’entrata.

La telecamera due si riempì di schegge di vetro e polvere, lattine e pacchetti sparsi ovunque. Tutto in un silenzio perfetto.

I detriti bloccarono la visuale delle telecamere due e tre, ma nelle altre si videro gli scaffali che ondeggiavano. La donna si strinse al petto il filone di pane come se fosse un paracadute.

La telecamera numero tre perse il segnale.

Ci volle qualche secondo perché la telecamera due si riprendesse, e a quel punto il retro dell’enorme quattro per quattro sporgeva all’interno del negozio. Non era una Range Rover e neanche un suv, ma un bestione gigantesco, con tanto di piano di carico e cappotta. Un Toyota Hilux, o forse un Mitsubishi Warrior. Difficile dirlo da quell’angolazione. Forse era un Isuzu? Qualcosa del genere. Quel tipo di mezzo in cui si potevano accatastare balle di fieno, o caricare un paio di pecore.

Sulla sommità della cappotta si intravedevano pezzi di intonaco e barattoli.

Telecamera uno: gli sportelli posteriori della quattro per quattro si aprirono e due figure ne uscirono di corsa, oltrepassando il buco irregolare aperto nelle vetrine. Passamontagna nero, guanti, tute. Uno dei due aveva una pesante catena tra le mani. La arrotolò intorno alla cassa, mentre il compagno ne agganciava l’estremità alla barra di traino dell’auto.

Quello della barra saltò di nuovo a bordo e bussò con la mano sul lato del veicolo. L’altro corse dietro alla cassa mentre chiunque era al volante schiacciava l’acceleratore, strappando via l’intero blocco dal pavimento.

Poi i due aprirono la parte posteriore della cappotta e lo sportello del bagagliaio e vi caricarono sopra la cassa. Chiusero tutto e uscirono di corsa dal buco nella vetrina.

La telecamera uno li inquadrava mentre montavano a bordo della quattro per quattro e fuggivano. All’interno del negozio, un pezzo di soffitto crollò di colpo.

Un secondo di pausa. Due. Tre. Quattro. Poi Stacey tirò su la testa da dietro il bancone.

Il tutto era avvenuto in poco più di un minuto.

Fantastico. Tanti saluti al «Fate attenzione, i colpevoli sono ancora sulla scena».

Logan posò una tazza di tè sulla scrivania della Nicholson.

«Grazie, sergente». Lei si schiarì la gola, piegandosi in avanti sulla sedia per sbirciare fuori dalla porta dell’ufficio degli agenti. Poi abbassò la voce a un sussurro: «Maggie mi ha detto che il detective Dawson è ancora in ospedale».

«Già». Logan prese un sorso di tè dalla sua tazza. Caldo e con latte. «Non dovevamo mai più parlarne, ricordi?»

«Sì, ma, sergente, forse… sa, se avessero idea di cosa ha ingerito, potrebbero aiutarlo meglio. Non so, potremmo farlo sapere in modo anonimo, o qualcosa del genere? Non dovrebbero per forza sapere che siamo stati noi…».

«Ma lo capirebbero. E tu non riuscirai mai a passare al cid, se non sai neanche mantenere un segreto».

Lei fece una smorfia. «Sì, sergente».

Logan tornò all’ufficio dei sergenti.

L’ispettore McGregor era seduta nell’altra sedia presente nella stanza, intenta a controllare il contenuto di un grosso scatolone. «Abbiamo delle batterie stilo tripla a? Riesco a trovare solo quelle doppia a…».

«Mi spiace, capo. Gli alcolometri vanno tutti con le doppia a». Logan si sedette dietro la sua scrivania. «Posso mandare Ciuffo a prenderne qualche confezione, mentre torna qui?».

Lei spinse via la scatola. «Un uccellino mi ha detto che per quasi tutta la giornata di ieri c’è stata una pletora di giornalisti assiepata qui fuori».

Ah. Logan prese un sorso di tè. Allineò il taccuino, i post-it e la tastiera del computer. Poi tentò una noncurante alzata di spalle. «Non me ne sono accorto. Ero impegnato a ridipingere casa».

«A quanto sembra, erano molto interessati a parlare con te. Ora che Stephen Bisset è morto, la storia è diventata molto più appetibile per la stampa. C’è qualcosa che vuoi dirmi in merito?».

Lui chinò il capo. «Non è stata colpa mia».

«A me non piace che i giornalisti si accalchino fuori dalle mie stazioni di polizia, Logan. La gente si innervosisce, quando succede. E inizia a pensare che abbiamo commesso qualche errore».

«Non è stata colpa mia! Io ho fatto quello che…». Logan sospirò. «Ci siamo già passati».

«Certo, le cose sarebbero andate sicuramente meglio, se fossi riuscito a catturare i rapinatori delle casse dei supermercati, stamattina, invece di farteli scappare».

«Non me li sono fatti scappare, erano già spariti da un pezzo quando siamo arrivati sul posto. Ho visto le registrazioni delle telecamere di sicurezza: è successo tutto in ottantadue secondi netti». Si piegò in avanti, premendo l’indice contro il pianale della scrivania. «L’unico modo in cui saremmo potuti arrivare a Portsoy prima che quei bastardi si dileguassero era essere forniti di un tardis».

«Si pensava che fossero ancora sulla scena?»

«Ho controllato: l’uomo che diceva che i rapinatori erano ancora sul posto era ubriaco. Niente male, per le nove e mezzo di un sabato mattina».

L’ispettore prese una busta di carta marrone, battendo contro la scrivania con un’estremità. «Hai sentito? Quelli del traffico hanno fermato un Isuzu D-max blu a un miglio a nord di Keith».

Un sorriso sbocciò sul volto di Logan. «Fantastico. E hanno…».

«Non erano loro. Ma comunque, non è più un nostro problema. Sarà l’ispettore McCulloch a occuparsene, con il suo Team Investigativo Primario».

Il sorriso gli svanì dal volto. «E questo non le dà fastidio? Ogni volta che incappiamo in qualcosa di grosso, ce lo portano via da sotto al naso».

Lei posò la busta sulla scrivania. «I risultati delle valutazioni, freschi freschi dal Quartier Generale. Il Grande Capo dice che Maggie potrà avere un aumento del due e mezzo per cento. Non un penny di più».

«Meglio di niente». Logan aprì la busta e tirò fuori le stampe. «Oh, ho parlato con Jack Simpson, stamattina».

«E come sta il nostro amico spacciatore?»

«È fortunato a essere ancora vivo, e sembra piuttosto vendicativo. Gli ho strappato una dichiarazione firmata in cui accusa Klingon e Gerbillo di averlo aggredito. Non stavano cercando di ucciderlo, ma di instillare il terrore in tutti gli altri. Inoltre, chiunque abbia fornito loro la droga era lì con loro. Quindi, non appena il Team Investigativo Primario avrà finito con le accuse per traffico di stupefacenti, potremo chiedere al Procuratore di procedere».

«Ottimo». L’ispettore si rialzò, raddrizzandosi la T-shirt nera. «Non è riuscito a identificare il fornitore?»

«Il massimo che è riuscito a dirmi è questo: un tipo basso e tosto da Newcastle o da Liverpool che si fa chiamare il Candelaio o l’Uomo delle Candele. Non conosce il suo vero nome. Proverò a fare un controllo in giro e vedrò se qualcuno riconosce il soprannome».

«D’accordo, tienimi informata». La McGregor si fermò sulla soglia. «E comunque, , mi dà fastidio quando un Team Investigativo Primario interviene e si porta via tutto. Ma è così che vanno le cose, adesso. Dobbiamo soltanto provare a tenerci qualche caso di tanto in tanto, senza che se ne accorgano».

Capitolo 27

Logan incrociò le braccia sul petto e si appoggiò al muro del vicolo. «Davvero?».

Sammy Wilson sbatté le palpebre un paio di volte con l’unico occhio buono – l’altro era gonfio e scuro, la pelle di tutte le tonalità del viola, del blu e del verde. Abbassò lo sguardo sulla busta di carta che aveva nella mano sporca e scheletrica. Si leccò le labbra sottili con la lingua pallida. Poi tirò su con il naso. «Sì… io non ero… questa…». Si guardò alle spalle, dove la Nicholson gli chiudeva la via di fuga.

Un colpo di tosse.

Un’altra secca annusata all’aria.

Poi l’occhio funzionante di Sammy scivolò a terra, verso le sue malandate scarpe da ginnastica. «L’ho trovata».

«Ah, davvero?».

Lui si passò l’altra mano lungo le macchie d’erba sulla parte superiore della tuta. «La busta era lì abbandonata».

«Sì, certo».

La Nicholson si avvicinò. Aprì la bocca per parlare, ma poi arricciò il naso, arretrò e ci riprovò da una maggiore distanza. «E allora perché sei scappato, Sammy?»

«Dovevo prendere l’autobus. Sì, un autobus, e non potevo arrivare tardi, altrimenti sarebbe partito, no? Insomma, come… il Ninky Nonk…». Aprì la busta di carta. «Ehi, guardate, ci sono dei panini al burro, dentro, sì, insomma, niente di che, giusto? Dei panini. Li ho trovati».

Lei lo indicò. «Come ti sei procurato quell’occhio nero, Sammy?»

«L’ho… trovato». Sammy ondeggiò da un piede all’altro. «Non avete bisogno di me, vero? Non sono, tipo, sul vostro radar o altro, e stavo solo passando vicino al panettiere… per prendere qualcosa per Jack Simpson. Sì, un regalo, perché ho saputo che è finito in ospedale tutto pesto, e cose del genere». Il sorriso di Sammy era un cimitero di lapidi gialle e marroni. «Per colpa di Klingon e Gerbillo. Che brutta cosa, eh? Molto brutta. Non avete bisogno di me, vero?»

«Non avevi detto di averla trovata, quella busta?».

Logan prese un respiro profondo. E se ne pentì subito. L’aria puzzava di carne marcia e cipolle. «La gente normale porta dei fiori e della frutta a chi è ricoverato in ospedale, Sammy. Non dei panini».

«Sì. Giusto. Me n’ero dimenticato. Fiori, non panini». Un altro sorriso punteggiato di denti marci. «Mi confondo sempre. Dovreste vedere la tomba di mia madre, tipo».

«Sammy, hai mai sentito parlare di un narcotrafficante che viene dal sud, e che si fa chiamare il Candelaio? O magari l’Uomo delle Candele, o qualcosa del genere. Basso e tozzo, da Newcastle o Liverpool».

«Sì, no, non conosco narcotrafficanti. Non so niente di droga, io. Una volta mi facevo, ma ora sono pulito come… sapete, no, ultimamente? Pulito, pulito, pulito».

Logan restò zitto e lo fissò.

Una mano salì a grattare un tatuaggio su quel petto da piccione.

Le scarpe sporche strusciarono sul marciapiede.

«No. Nessun narcotrafficante. Mai». Sammy si schiarì la gola. Abbassò lo sguardo sulle braccia piene di croste. «Non potreste prestarmi dieci sterline? Per una tazza di tè, tipo? Per accompagnarla ai panini…».

Silenzio.

«Se te ne do venti, devi dirmi il nome del tipo che ha fornito la roba a Klingon e Gerbillo. Il nome vero. E dove posso trovarlo».

Sammy deglutì. Si grattò il tatuaggio sul petto. Si morse il labbro inferiore. Poi tese la mano tremante, a palmo aperto e con le dita allargate.

Logan tirò fuori il portafoglio. Tirò fuori gli ultimi due biglietti da cinque, lasciandosi dietro nient’altro che polvere e lanugine fino alla fine del mese.

Sollevò le due banconote. «Ti avverto, Sammy: voglio quel nome, o ti verrò a cercare. Siamo intesi?».

L’unico occhio iniettato di sangue scintillò come quello di un ratto. La mano si allungò verso i soldi. «Sì, sì, il suo nome e dove potete trovarlo».

«Metà adesso, metà più tardi».

«Te lo prometto sulla tomba di mia madre…». Le dita di Sammy fremettero.

Logan lasciò cadere le banconote e lui le afferrò a mezz’aria come un gatto con due uccellini.

«E ora togliti di mezzo e trovami quel nome».

«Sì, certo, certo. Vado a trovare Jack Simpson. E poi trovo quel nome. Il nome, il nome, il nome». Si ficcò il denaro in una tasca della tuta e si allontanò con le gambe rigide, come un robot a molla il cui meccanismo di funzionamento si chiamava eroina.

La Nicholson si affiancò a Logan vicino al muro. Aggrottò la fronte, guardando Sammy che spariva dietro l’angolo, su Kingswell Lane. «È sicuro che sia una buona idea?»

«No». Logan mise via il portafoglio vuoto. «Ora sono al verde».

«Be’, temo proprio che quelle dieci sterline non le rivedrà mai più». Poi si sventolò una mano davanti alla faccia. «Pensa che abbia mai visto una saponetta in vita sua?»

«Non si sa mai, magari scoprirà qualcosa». Logan tornò verso la Macchina Grande, parcheggiata per metà sul marciapiede, dove l’avevano lasciata per inseguire Sammy.

La Nicholson scosse la testa. «Perché se ne preoccupa, comunque? Klingon e Gerbillo hanno la spina dorsale di un lombrico. Avranno fatto il nome del loro fornitore da un pezzo, ormai».

Perché l’ispettore aveva ragione: ogni tanto bisognava provare ad agire fuori dai radar.

«Pattuglia Sette, potete parlare?».

Logan premette il pulsante. «Parla pure, Maggie».

«Ho un’altra segnalazione di persona scomparsa per lei. Si tratta di Liam Barden, visto stamattina al Waterstones di Dundee».

La Nicholson portò l’autopattuglia verso il mare. Il porto di Macduff scintillava come una distesa di zaffiri, con un paio di piccoli pescherecci attraccati al molo. I gabbiani stridevano, facendosi portare dal vento.

Logan abbassò il finestrino, lasciando che l’aria carica di iodio e sentore di alghe irrompesse nell’auto.

Poi allungò una mano e punzecchiò la Nicholson su una spalla. «Visto? Te l’avevo detto che non va al supermercato di High Street». Poi tornò a parlare nella ricetrasmittente. «Maggie, puoi chiamare la stazione di Tayside e chiedere loro di controllare le telecamere della libreria? Potrebbe non essere lui, ma sarebbe carino far sapere alla sua famiglia che sta bene».

«D’accordo. E ho parlato con Bill, sta chiedendo tra i colleghi con cui va a pescare chi è che paga l’affitto di Klingon e Gerbillo».

«Grazie, Maggie».

Fuori dal finestrino, le strade di Macduff lasciarono il posto alla a98, che procedeva lungo la baia.

Logan risistemò la ricetrasmittente sul suo gancio. «Dunque… Liam Barden è a Dundee».

La Nicholson alzò il mento. «Non posso farci niente se sono meticolosa».

Lui sorrise. «Illusa, più che altro».

«Non sono io quella che ha dato a Sammy “Puzzola” Wilson le sue ultime dieci sterline».

Ah… Vero.

Superarono il ponte che portava a Banff.

Un cartellone era posizionato sul lato della strada, non lontano dal campo di calcio. L’orribile vecchietta con il terrier decrepito aveva ragione: qualcuno aveva davvero disegnato un enorme pene sul poster del candidato locale del Partito Nazionale Scozzese. Un grosso uccello viola. Geoffrey Lovejoy aveva colpito ancora.

Se non altro, sembrava che almeno il loro piccolo rivoluzionario marxista fosse equo nel distribuire disegni di peni in giro, e non risparmiasse nessuno dei candidati in causa.

«A tutte le unità, stiamo cercando una femmina bianca, un metro e cinquantacinque circa, magra, capelli biondi, nella zona di Peterhead. Ricercata per collegamento a un’aggressione a un volontario dell’Esercito della Salvezza».

«Scusami». Logan abbassò il volume, finché il brusio della ricetrasmittente non diventò appena udibile.

Il vapore aveva annebbiato il vetro della finestra della cucina, piena del profumo ricco della carne tritata e delle patate appena schiacciate. Logan affondò di nuovo la forchetta nel piatto. «È davvero buono».

Seduta di fronte a lui, Helen sorrise. «Natasha non voleva mai la carne tritata con le patate, se non c’erano anche piselli e carote. Non li voleva da soli, ma se li cucinavo con la carne diventavano il suo piatto preferito».

«Be’, molto meglio della zuppa di lenticchie».

Lei arricchì il suo piatto con una macinata di pepe. «Andrai a trovare Samantha, più tardi?»

«Una volta finito il turno. Non dovrei fare troppo tardi».

«Bene. Puoi darmi una mano a finire il soggiorno, allora. Dovrebbe venire grazioso, alla fine. E poi, pensavo… ti andrebbe una bistecca per cena?»

«Una bistecca?». Inghiottì un altro boccone di carne macinata e purè. Prese un sorso d’acqua. «Non so quando è stata l’ultima volta che…».

La ricetrasmittente suonò quattro volte.

Dannazione. «Non possono darmi cinque minuti?». La prese in mano, alzando il volume. «Scusami ancora». Poi premette il pulsante. «Pattuglia Sette».

La voce dell’ispettore McGregor si diffuse in cucina. «Logan? Puoi parlare?».

«Mi dia un secondo, capo». Scostò la sedia. «Devo prenderla per forza. Ci metto un attimo».

Poi uscì dalla cucina e si fermò in salotto.

Il divano era al centro della stanza, insieme alla libreria e al televisore, tutti coperti da teli di stoffa per proteggerli dalla vernice. Sopra di lui, il soffitto era di un bianco scintillante. Helen doveva averci passato almeno tre mani di vernice per farlo venire così.

Logan chiuse la porta e premette il pulsante. «Mi dica».

«Dove sei?»

«A pranzo. L’agente Nicholson doveva fare degli acquisti, quindi ci rivedremo alle due meno un quarto e torneremo a Macduff. Daremo un’occhiata a Melrose Crescent e vedremo di scoprire qualcosa del nostro guardone».

«Dovrai pensarci più tardi: c’è qualcuno che vuole vederti».

Di sicuro qualche altro onorato cittadino di Banff che voleva lamentarsi della raccolta differenziata fatta male, o del cane del vicino, o dei marziani che rubavano le loro lattine di birra e mettevano incinta la gatta di casa. Grazie tante, collaborazione con la comunità. «Non può pensarci Deano?»

«Logan, veramente…».

«Oh, e già che ci siamo: può farmi un favore, capo? Può chiedere a chi sta gestendo l’indagine di Klingon e Gerbillo se ha già ottenuto il nome del loro fornitore? Nel frattempo, sto cercando di sentire che dicono in giro sull’argomento».

«Non è più il nostro caso. E lo sai benissimo».

«Sì, ma se stanno arrivando altri carichi di droga da queste parti, ci sarebbe d’aiuto sapere con cosa abbiamo a che fare prima che arrivi sulle strade. E chi è che gestisce il giro».

«Be’, immagino che questa sia un’argomentazione valida. Ora, prima che torni alle mie patate al forno che si stanno raffreddando, la persona che vuole vederti…».

«Davvero, capo: Deano può cavarsela meglio di me. Io ne ho fin sopra le orecchie di matti, per oggi».

«Hai per caso battuto la testa, Logan?». La voce dell’ispettore si abbassò a un sussurro melodrammatico. «Non puoi permettere che qualcuno ti senta definirlo “matto”. E se dovesse scoprirlo? Dio solo sa cosa potrebbe succedere. Ed è già abbastanza spaventoso così com’è».

Logan si schiarì la gola. «Capo?»

«Il sovrintendente capo Napier è venuto fin qui da Aberdeen, e solo per vedere te. Tra l’altro, non penso di averlo mai visto così felice in vita mia».

Napier era felice?

Perché diavolo sembrava una cosa così terribile?

Capitolo 28

Il sovrintendente capo Napier giunse le mani, appoggiò i gomiti sulla scrivania e lo fissò. Si era appropriato della sala investigativa principale, all’ultimo piano, sedendosi all’estremità del lungo tavolo per le conferenze e dando le spalle alle finestre, in modo da far arrivare la luce in faccia a Logan.

Il sole gli faceva risplendere intorno alla testa il nembo di capelli biondi e diradati come un’aureola di fuoco. Un sorriso gli si allargò sul volto, facendo fremere la punta del suo lungo naso.

Non sembrava molto a suo agio nella T-shirt nera della polizia. Probabilmente non aveva abbastanza bottoni scintillanti per lui. O un posto dove appendere la sua medaglia di buona condotta. Non aveva niente per intimidire il prossimo, se non la corona argentea e la stelletta singola su ogni spallina.

Logan restò perfettamente immobile sulla sua sedia.

L’ispettore arrivato con Napier stava sistemando una videocamera digitale montata su un treppiede e borbottava tra sé e sé mentre controllava i settaggi. Poi una luce rossa si accese sul dispositivo e la donna annuì. Era una donna magra, di mezza età, con la frangia castana a cercare di coprire le rughe che le attraversavano la fronte.

Lei si sistemò su una sedia di fronte a Logan, in diagonale. Posò un registratore digitale sul tavolo tra loro. Infilò una mano in una borsa di pelle e ne tirò fuori un taccuino e uno spesso fascicolo. Li allineò sul tavolo e tolse il cappuccio alla penna. Infine si schiarì la gola. «Sabato ventiquattro maggio, ore due e quarantasette p.m.». Aveva una voce sorprendentemente alta e giovanile. «Sono presenti il sovrintendente capo Napier, l’ispettore Gibb e il sergente Logan McRae». Poi si girò e annuì verso il suo capo.

Lui allargò il sorriso. «Sergente McRae, che cosa gentile, da parte sua, trovare un buco nella sua agenda piena di impegni per parlare con noi, oggi».

Regola numero uno delle interviste registrate: tieni la bocca chiusa finché non ti viene rivolta una domanda diretta.

Napier appoggiò il mento sulla punta delle dita unite. «Forse le piacerebbe togliersi un peso dalle spalle prima di cominciare? Qualcosa che le opprime la coscienza?».

Non era una domanda diretta. Logan tenne la bocca chiusa.

«D’accordo, magari più tardi». Il sovrintendente capo controllò il fascicolo aperto sul tavolo davanti a lui. «Per esempio: vedo che ha trascorso un enorme ammontare di tempo su un certo Francis “Frankie” Ferris. Centinaia di ore di lavoro trascorse senza alcun risultato. Pensa davvero che questo sia un valido utilizzo delle risorse della polizia?»

«Sì». Regola numero due: rispondi solo alla domanda che ti viene posta, niente di più. Mai offrire qualcosa d’altro. Mai partire per la tangente.

«Davvero?». La fronte di Napier si increspò. «Può spiegarsi meglio?»

«I raid bloccano il flusso di droga in arrivo nella zona e tengono gli spacciatori sempre sulle corde. L’ambiente diventa più pericoloso per loro». Non era proprio la recita a memoria del documento strategico antidroga della Divisione b, ma vi si avvicinava molto. «È una strategia proattiva».

Napier non poteva essere venuto fino a lì da Aberdeen solo per chiedergli di Frankie Ferris. Quello era solo l’antipasto dell’orribile banchetto che aveva apparecchiato. Un cocktail di scampi prima dell’arrivo della portata principale.

Non poteva tornare di nuovo alla morte di Stephen Bisset in ospedale, giusto? Si era già lamentato abbastanza di quella storia al telefono mercoledì sera. Perché ripetere tutto di persona?

L’ispettore Gibb se ne stava lì con la penna pronta. Fino a quel momento non aveva preso un singolo appunto.

Logan strinse gli occhi. Fece per aprire la bocca… e poi la richiuse. Regola numero tre: mai fare una domanda di cui non conosci già la risposta.

Napier lasciò che il silenzio si protraesse. Poi piegò la testa di lato. «Lei ha una fidanzata di nome Samantha Mackie, vero?»

«Sì».

«Al momento risiede presso una casa di cura privata, non lontano dalla costa e da qui, da quello che mi risulta. Sunny Glen, giusto?»

«Esatto».

«Hmm…». Il sovrintendente capo rialzò la testa, per poi piegarla dal lato opposto. «Da quello che ho inteso, si tratta di una clinica privata piuttosto costosa. Cure continue e totali per una persona in stato vegetativo… deve essere difficile permetterselo, per un sergente con il suo stipendio».

Mai aggiungere nulla.

«Mi dica, sergente, come fa esattamente a pagare per le cure di Miss Mackie?».

La penna dell’ispettore Gibb cominciò a scribacchiare sul taccuino.

Okay, quella era una domanda. «Ho venduto il mio appartamento in città. Avrei voluto affittarlo, ma non mi sarebbe bastato per coprire le cure di Samantha».

«Quindi ha venduto il suo appartamento per prendersi cura della sua fidanzata in coma. Che gesto nobile, da parte sua».

Ti prego, non chiedermi a chi l’ho venduto. Resta lontano da quel vespaio.

Logan appoggiò le mani sul tavolo, sentendo i muscoli delle spalle tendersi. «È rimasta ferita come risultato diretto di un’indagine in corso, quindi le spese mediche sarebbero dovute essere coperte dall’assicurazione lavorativa!».

Napier si appoggiò allo schienale della sedia. «Le sue indagini hanno la brutta abitudine di causare danni collaterali, vero, sergente McRae? La sofferenza del prossimo la segue come un fetore indesiderato».

«Non è stata…». Logan chiuse di scatto la bocca. Stupido. Ecco quello che si meritava per aver infranto la regola numero due. Non sarebbe dovuto partire per la tangente.

«E, a proposito di danni collaterali, abbiamo Stephen Bisset. Ucciso nel suo letto d’ospedale, per la gioia della stampa».

Napier accennò con un dito in direzione dell’ispettore Gibb, e la donna controllò qualcosa nel grosso fascicolo davanti a lei.

Ne trasse un mucchietto di pagine di giornale – le prime pagine di sei o sette quotidiani – e le sistemò davanti a Logan. «Una piccola selezione da “Daily Mail”, “Daily Record”, “Scottish Sun”, “Aberdeen Examiner”, “Evening Express”, “Scotsman” e, ultimo ma non meno importante, “Press and Journal”».

I titoli andavano da “padre distrutto ucciso nel suo letto d’ospedale” a “vittima di un pervertito uccisa con il cuscino del suo letto d’ospedale”. L’«Aberdeen Examiner» esordiva con “‘mio padre non era un pervertito!’, dice il figlio della vittima”.

Su ogni pagina c’era una foto di Stephen Bisset, sorridente in mezzo alla sua famiglia felice. Non disteso su un lenzuolo lurido, coperto di sangue e sporcizia, in un capanno, nascosto nel mezzo di un bosco coperto di neve.

In un articolo c’era una piccola foto di Logan in uniforme, mentre accettava la menzione d’onore per aver arrestato il Mostro di Mastrick. “poliziotto eroico accusato di aver ‘incastrato’ graham stirling”. Un altro titolo commentava: “secondo la giuria, un poliziotto ha inventato le prove”.

Dunque era questo.

Napier non era lì per parlare dell’assassino di Stephen Bisset, o delle spese di Samantha, bensì per il fatto che lui non aveva seguito le procedure a gennaio. Perché obbedire alle regole aveva più importanza di salvare la vita a qualcuno.

Tenne la bocca chiusa.

Napier imbronciò le labbra. «Mi dica, sergente…». Una pausa a effetto. «Dov’era ieri notte tra le undici e le tre?».

Cosa?

Okay, questo non se l’aspettava.

Lo fissò. «Perché?»

«È una domanda semplice. Dov’era?»

«Ero a casa a dipingere la camera da letto».

Napier piegò di nuovo la testa di lato. «Fino alle tre del mattino?»

«No, fin circa all’una. Poi sono andato a dormire». Regola numero due.

Quel sorriso furbo e affilato sul volto del sovrintendente capo non si era mai affievolito. Se ne stava lì, su quella stupida faccia, come se ce l’avessero incollato. «E c’è qualcuno che può confermare il suo alibi?».

Certo, come se potesse dirgli tutto riguardo a Helen Edwards che era ospite in casa sua, vero?

La luce rossa sulla telecamera digitale scintillava come una brace, mentre la lente sembrava un occhio vuoto, nero e morto.

Logan spinse indietro la sedia di qualche centimetro. Al diavolo le regole. «Devo avere per caso qui con me un rappresentante sindacale?»

«Pensa di averne bisogno?»

«Voglio che sia chiaro, per la cronaca, che non ho mai ricevuto una richiesta formale di interrogatorio, né sono sotto giuramento, né sono stato minimamente informato di che diavolo stia succedendo». Si scostò di qualche altro centimetro dal tavolo.

Napier allargò le braccia, con le mani a palmo in su e le dita distese. Come un cattivo di un film di Bond pronto a spiegare il suo piano diabolico. «È interessante sentirla dichiarare che pensa di aver fatto qualcosa che richiede un interrogatorio formale».

Logan si alzò. «Per me abbiamo finito».

«Si ricorda di aver discusso di Graham Stirling con Miss Mackie la mattina di mercoledì ventuno maggio?»

«Discusso? Cosa dovrebbe essere, questo, uno scherzo?». Logan serrò le mani a pugno, fino a farsi sbiancare le nocche. «Samantha non pronuncia una sola parola da quattro anni».

«Ha discusso…».

«No». Avanti, colpiscilo. Un ultimo atto glorioso da poliziotto: staccagli la testa a pugni.

«Ispettore Gibb?».

La donna tornò a controllare il fascicolo e tirò fuori due fogli uniti da una graffetta. «Abbiamo la dichiarazione di un certo Mr Kevin Cooper, infermiere del Sunny Glen. Il ventuno maggio l’ha sentita parlare a Miss Mackie della chiusura del processo contro Graham Stirling. Mr Cooper ha affermato di averla sentita dichiarare: “Andrò a casa di Graham Stirling nel cuore della notte e gli spaccherò la testa con un piede di porco”».

Napier raddrizzò la schiena e accavallò le gambe. Non indossava un paio di robusti stivali neri, come tutti gli altri in uniforme. No, aveva ai piedi un paio di sottili scarpe eleganti di cuoio, perfettamente lucide. Non potevano essere più grandi di un quaranta. Probabilmente non aveva bisogno di qualcosa di più lungo, per coprire i suoi zoccoli caprini. Una mano si mosse in un pigro cerchio nell’aria. «Ricorda di averlo detto, sergente McRae?»

«No. Forse. Non lo so. Se l’ho fatto, era solo…».

«Il motivo per cui glielo chiedo è che Graham Stirling è scomparso. Sua sorella è andata a casa sua alle nove di stamattina e… vuole sapere cosa ha dichiarato?». Napier sorrise all’ispettore Gibb.

La donna prese un foglio dal fascicolo. «Secondo le sue testuali parole: “Sono entrata usando la mia chiave. Ho chiamato Graham, ma non ho ricevuto risposta. Sono entrata in cucina, ed era come se ci fosse esplosa dentro una bomba. C’erano piatti e bicchieri rotti e una sedia con le gambe rotte. E c’era del sangue sul pavimento e sul frigorifero”».

Ah…

Logan tornò a sedersi. «Non ho niente a che fare con questa storia. Niente».

«Ma ora capisce perché volevamo parlare con lei? Eccola qui…». La mano del sovrintendente capo descrisse un breve cerchio in aria, considerando la stanza, e probabilmente l’intera stazione di Banff e l’area circostante. «Ridotto ai minimi termini, degradato da vice ispettore con una brillante carriera davanti nel cid a sergente nel bel mezzo del…».

«Non sono stato degradato. Questa è stata l’idea del sovrintendente capo Campbell per…».

«Non mi interrompa. Da quello che ho saputo, si è lamentato per il fatto che alcune indagini le siano state tolte per essere affidate a dei Team Investigativi Primari, più adatti a gestirle. Dunque: degradato e frustrato». L’uomo tornò a unire le dita e ad appoggiarvi sopra il mento. Il sorriso da Stregatto era sempre al suo posto. «E ora il caso contro Graham Stirling crolla perché lei sembra ritenere che seguire le procedure sia qualcosa da cui può esimersi all’occorrenza. Perché non fare un po’ di giustizia sommaria, allora? Giudice, giuria e boia».

«Io non ho ucciso Graham Stirling!». Logan spinse indietro la sedia e scattò in piedi, sbattendo i pugni sul tavolo. «E se avesse delle prove a mio carico, non ce ne staremmo qui a chiacchierare, ma saremmo in una sala per gli interrogatori, con un avvocato e un rappresentante sindacale. Quindi, sa dove può ficcarsi le sue accuse!».

Napier non si mosse di un millimetro. Il sorriso non svanì dal suo volto. Se ne restò seduto a fissarlo.

Logan si raddrizzò. «E adesso, se volete scusarmi, ho del vero lavoro da fare». Si girò e puntò alla porta.

Stava già abbassando la maniglia, quando la voce di Napier lo raggiunse.

«Cosa mi direbbe, se le dicessi che sappiamo chi ha ucciso Stephen Bisset?».

Logan spalancò la porta. «Se sta implicando che sono stato io, può…».

«Ehi!». L’ispettore capo Steel entrò nella stanza, tirandosi su i pantaloni con una mano e stringendo un cellulare nell’altra. Lanciò un’occhiataccia a Logan e poi a Napier. E infine alla telecamera digitale. «Qualcuno vuole spiegarmi che sta succedendo?».

Napier sollevò un dito. «Il sergente McRae ci stava aiutando a capire la scia di distruzione che sembra lasciarsi dietro come una petroliera bucata. Morti. Gente in coma. Cose del genere».

«Be’… abbassate la voce. Qualcuno sta cercando di lavorare, qui dentro. E tu», la Steel pungolò Logan sul petto, «dovresti aiutarmi ad arrestare l’assassino di una bambina, quindi adesso saluta i tuoi cari amici, qui, e porta le chiappe nel mio ufficio. Subito».

Napier si alzò, continuando a sorridere. «Non ha risposto alla mia domanda, sergente. Qualcuno può confermare il suo alibi per ieri notte?».

La Steel si tirò su di nuovo i pantaloni. «Il sergente McRae era con me, ieri notte. Stavamo ridipingendo quel cesso di casa in cui vive. Vernice color magnolia, credo».

L’ispettore Gibb scribacchiò un altro appunto.

Il suo capo si leccò le labbra, per poi tornare a sedersi. «Capisco. Be’, in questo caso, veda di mettersi a lavorare sul serio, sergente. Per adesso non ho bisogno di altro, da lei».

«Parole sante». La Steel spinse Logan fuori dalla stanza, nel corridoio. «E non fate rumore, qui dentro». Chiuse la porta con un tonfo e si allontanò lungo il corridoio coperto di moquette grigia fino all’ufficio successivo, facendovi entrare Logan.

Si chiuse la porta dietro e vi appoggiò contro le spalle. Abbassò la voce a un sussurro. «Cristo a cavallo di un emù, ci è mancato un pelo».

L’ufficio della Steel sfoggiava un paio di vecchissimi armadietti, uno schedario, una sedia e una scrivania piena di fascicoli. Un computer portatile il cui screensaver consisteva in file di gattini che facevano capolino da dentro stivali e teiere si trovava dietro i mucchi di scartoffie, e le pareti erano occupate fino all’ultimo centimetro di spazio libero da cartine e lavagne di sughero. Le ultime piene di foto e rettangoli di carta collegati tra loro da tratti di spago rosso.

Lei tirò fuori il cellulare e iniziò a toccarne lo schermo mentre tornava dietro la scrivania. «Sai che mi sto perdendo la gara di danza di Jasmine per questa storia, vero?»

«E dovrebbe essere colpa mia

«Se non avessi trovato quella bambina morta, adesso me ne starei seduta in una palestra, circondata da altri genitori, a guardare i loro marmocchi saltellare in giro come elefanti ubriachi…». Sbuffò. «Quindi direi che non è andata poi così male». Si lasciò scivolare sulla sedia. «Accomodati».

L’unica altra sedia nella stanza era di quelle blu e con le ruote, ma lo schienale mancava, lasciando sporgere il supporto come una spina dorsale spezzata. Lei la indicò. «Piazza lì le chiappe».

Lui si sedette, restando appollaiato sul davanti del sedile. «Grazie per avermi aiutato con Napier. Come faceva a…».

«Shhh!». Lei si portò un indice alle labbra. «Quel Nosferatu lì accanto ha orecchie come le antenne di una stazione di ascolto dell’nsa». Poi strinse gli occhi, fissandolo. «Per cosa ti ho appena fornito un alibi? Cos’è che non hai fatto?»

«Uccidere Graham Stirling».

Lei spalancò la bocca, fino a renderla una caverna tonda e umida. Poi la richiuse di scatto, sgranando gli occhi. «Non l’hai fatto, vero

«Certo che no!».

«Pfff… è già qualcosa».

Delle voci soffocate si avvertivano dall’altra parte del muro. E poi quella che sembrò una risata.

Logan si girò a fissare la parete.

Sarebbe dovuto rientrare in quella dannata stanza e presentare i denti di Napier al suo retto.

Poi si sentì il tonfo di una porta che si chiudeva, e le voci del sovrintendente capo e dell’ispettore Gibb si allontanarono verso le scale. Di sicuro per andare a tormentare qualcun altro.

Logan si afflosciò sulla sedia. Poi si bloccò e scattò di nuovo dritto, prima di finire sul supporto che sembrava una spina dorsale spezzata. «Gah…».

La Steel sogghignò. «Forte, vero? Evita che gli agenti si distraggano quando li rimproveri».

«Come ha fatto a saperlo?»

«L’ho fatto a Rennie per mesi. A volte cerco di essere super noiosa, per scoprire se riesco a farlo finire gambe all’aria. Basta allentare un paio di viti e il supporto viene via come niente».

«No, intendevo dire come faceva a sapere che stavo ridipingendo la casa».

«Non ti avevo detto che hai bisogno di qualcuno che ti protegga?». Tirò fuori un foglio bianco dalla scatola sulla scrivania, poi si accigliò e iniziò a rovistare nei cassetti. «Dannazione, non di nuovo. Questo posto è il Triangolo delle Bermuda delle penne…».

«Gliel’ho detto: è Hector».

I fogli sulla lavagna di sughero mostravano ciascuno il nome di una persona condannata per crimini sessuali, insieme ai dettagli della condanna e al tempo trascorso in carcere. Tutti quelli che erano andati a trovare lunedì notte erano lì, insieme a qualcun altro. Tutti sistemati sui fili scarlatti di una ragnatela. Con la foto della bambina uccisa al centro.

Logan la indicò. «Ha ottenuto niente?»

«Ti sembro una che ha ottenuto qualcosa? Questo posto ti sembra il luogo pieno di attività di un’indagine vincente?». Scrisse qualcosa sul foglio. «Tutto quello che riesco a fare è infastidire dei pervertiti a casa loro e salvare dei sergenti idioti che non dovrebbero cacciarsi nei guai».

Lui abbassò lo sguardo sul tappeto. «Grazie per aver confermato il mio alibi, lì dentro. Si è presa un grosso rischio».

«Pfff… hai delle macchie di vernice sulle orecchie e in quella buccia di kiwi che chiami taglio di capelli. Come ci sarebbero dovute finire?». La Steel sorrise. «E inoltre, sono rimasta per un po’ davanti alla porta di Napier, prima di venire a salvarti».

«Ha detto che sanno chi ha ucciso Stephen Bisset».

«L’hanno scoperto un’ora fa». Lei spostò una pila di scartoffie e girò il portatile così che lo schermo fosse rivolto a Logan, per poi premere un paio di tasti. «Dai un’occhiata». I gattini sparirono, sostituiti da una finestra che copriva gran parte dello schermo. Il filmato di una telecamera a circuito chiuso. Probabilmente doveva essere quello della telecamera montata sulla parete di un ospedale: si vedevano persone in camice con delle cartelline in mano, e altre in pigiama e vestaglia, spinte su sedie a rotelle. Tutti sembravano tristi e sconfitti. La data e l’orario in sovrimpressione in un angolo facevano sapere che il filmato risaliva a mercoledì sera, sette minuti dopo le otto. «Questa telecamera era all’esterno del reparto dove si trovava Bisset».

La Steel premette un altro pulsante e il video andò avanti a doppia velocità, per poi dipanarsi a 8x e 12x. Medici, infermieri e pazienti schizzarono dentro e fuori dall’inquadratura. Quelli che sembravano i figli di Bisset entrarono nel reparto con un grosso mazzo di fiori, poi uscirono di nuovo. Poveri ragazzi.

Poi la Steel si piegò in avanti e premette un tasto, facendo scorrere di nuovo il filmato a velocità normale. «Ecco».

I numeri nell’angolo indicavano le dieci di sera.

«Dove».

Lei sospirò. «Ma dici sul serio? Rennie l’ha notato subito».

Capitolo 29

Logan sbirciò verso lo schermo. Che diavolo avrebbe dovuto…? «L’uomo con il cappotto lungo? Probabilmente stava morendo di caldo: l’Aberdeen Royal Infirmary tiene il riscaldamento a livelli mortali».

«Gli infermieri non si sono preoccupati, perché quell’uomo fa il volontario in ospedale da anni. Parla ai pazienti in coma, fa ascoltare loro la loro musica preferita, legge loro i libri che amano di più. Quel genere di cose. Durante l’ultimo mese e mezzo è andato a trovare Stephen Bisset almeno una volta al giorno».

Proprio come aveva fatto Logan con Sam per quasi quattro anni. «Come fate a sapere che si tratta di lui?».

Un sorriso rovente le si piantò sulle labbra. «Elementare, mio caro Logan: è un pervertito. Si chiama Marlon Brodie. Ha un sito dove scrive di strane e bizzarre fantasie sessuali. Com’è che lo chiamano, sexblogging?». Il sorriso si allargò. «Rennie l’ha notato e tu no. Battuto da Rennie, ma quanto stai messo male?».

Lui la fulminò con lo sguardo. «E che mi dice del fatto che non avevo mai visto questo filmato prima d’ora e non visito i siti dei sexblogger?». Premette un tasto sul portatile, zoomando sulla figura in cappotto lungo. Un uomo come tanti: altezza nella media, costituzione nella media, i lineamenti poco chiari nella registrazione. «E il dna…

«Ovviamente corrisponde. Finnie ha ordinato a Ding-Dong di arrestarlo e fargli fare il test, e un’ora dopo… bingo. Il seme sul corpo di Stephen Bisset è quello di Marlon Brodie». La Steel si appoggiò allo schienale della sedia, facendola roteare a destra e a sinistra un paio di volte. «Ovviamente, ora Finnie sta cercando di prendersi il merito della scoperta, ma vedrò di fare qualcosa».

Logan chiuse il portatile. «È riuscita a ottenere i risultati del test in un’ora? E Helen Edwards? Lei è in attesa dei risultati da mercoledì».

«Sì, be’, se non fossi stato così noioso e mi avessi permesso di far sapere qualcosa ai giornali, adesso avremmo quei dannati risultati. Ma no, Mr Moralità doveva mettersi in mezzo». La Steel riprese il portatile, girandolo verso di sé. «Contento?»

«Oh, non cominci. Sa che ho ragione, altrimenti l’avrebbe fatto comunque». Si girò a guardare la lavagna con i nomi dei pedofili. «La famiglia lo sa? Di Marlon Brodie?».

«E tanti saluti alla teoria del sergente Muso Becky. I figli che uccidevano il padre. Idiota».

«Dovrebbe andarci un po’ meno pesante con lei. Se continua a trattarla come la scema del villaggio, alla fine lo diventerà. Più carota e meno bastone».

«Bla, bla, bla». La Steel agitò una mano in aria, come ad allontanare un odore sgradito. «Marlon Brodie nega di aver soffocato Stephen Bisset, ma cosa ci si poteva aspettare? E che razza di sadico chiama suo figlio “Marlon”, comunque? È volerseli cercare, i guai. Non mi stupisce che sia diventato un killer. E un pervertito. Hai visto il suo sito? Ci ha messo roba che farebbe arrossire perfino me».

«Be’… almeno è…».

«Pattuglia Sette, potete parlare?»

«Dio santo». Logan si afflosciò. «Aaargh…». Si riprese prima di finire a gambe all’aria e si raddrizzò. Lanciò un’occhiataccia alla Steel. «Sta cercando di farmi ammazzare?». Poi premette il pulsante della ricetrasmittente. «Parlate pure».

«Sergente McRae? Sono Maggie. Il solito amico ha segnalato di nuovo movimenti sospetti su Rundle Avenue. Dice che tre persone sono entrate e uscite dalla casa di Ferris negli ultimi quindici minuti».

«Grazie, Maggie. L’agente Nicholson è già rientrato?»

«Proprio in questo momento».

«Bene. Dille di scaldare la Macchina Grande, andiamo a caccia di drogati». Anche se, con la fortuna che aveva negli ultimi tempi…

La Steel si alzò e prese la giacca. «Che stiamo aspettando?».

Logan arretrò verso la porta. «È solo una faccenda locale. Niente di importante. Lei ha un assassino da acciuffare, ricorda?»

«Oh, no, non ci provare. Ogni volta che ti perdo di vista ti cacci in un guaio. E io mi siedo davanti».

Ovviamente.

«Pfffff…». La Steel si afflosciò ancora di più sul sedile, le spalle che sfioravano appena l’estremità inferiore del finestrino. «Tutto qui? È questo tutto quello che fai?».

La Nicholson svoltò l’angolo su Rundle Avenue. Di nuovo. Villette bifamiliari grigie da un lato e un codice Morse di brevi terrazze delimitate da assi di legno dall’altro. Come capanni da giardino troppo cresciuti, dipinti di marrone. Muretti alti al ginocchio delimitavano giardini fatti di ghiaia, erba e siepi varie a seconda della proprietà.

L’ago del tachimetro toccava appena i dieci chilometri orari.

Seduto sul sedile posteriore, Logan controllò la strada. Non c’era nessuno. «Non doveva venire per forza».

La Steel sospirò di nuovo. «Che noia».

«Non possiamo entrargli in casa, perché non abbiamo un mandato. Quindi controlliamo i dintorni e fermiamo chiunque vediamo uscire da quella porta, perquisendolo».

«Come se qualcuno fosse così idiota da andare a prendersi una dose sapendo che girate qui intorno come avvoltoi in una grossa e sporca autopattuglia».

Le terrazze simili a capanni da giardino lasciarono il posto ad altre dipinte di bianco.

La Nicholson svoltò a sinistra, attraversando Tannery Street e raggiungendo Alberta Place. «Oh, resterebbe sorpresa a scoprire quanti lo fanno».

In lontananza, un angolo di Mare del Nord si faceva vedere tra due case di un’altra strada. Di un blu cristallino contro un cielo senza una nuvola.

Logan bussò con un dito dietro al sedile della Nicholson. «Quando hanno interrogato Klingon, si sa se ha detto qualcosa su sua madre? Dove si trova, quando dovrebbe tornare, cose del genere?»

«Non ne ho idea. L’ultima volta che ho parlato con il secondino, ha detto che sembrava una storia da thriller di spionaggio. Che era arrivata tanta gente in completo nero e occhiali da sole. E che non si poteva parlare con i prigionieri, come se fosse una faccenda top secret». Ingranò la retromarcia e fece un’inversione in tre tempi, tornando indietro da dove erano venuti.

Logan si sporse in avanti e tentò con la Steel. «Lei deve aver sentito qualcosa. Lei e tutti i suoi amici dei Team Investigativi Primari».

La Steel tirò su con il naso. «Mi stai prendendo in giro? L’unico modo per tirare fuori qualche informazione a un altro team è usare le pinze e una sbarra di ferro».

«Allora mi faccia un favore: faccia qualche domanda. Veda se viene fuori qualche informazione».

Lei strinse gli occhi. «Perché? Dove vuoi arrivare?».

Logan si strinse nelle spalle. «È solo una sensazione».

Svoltarono a sinistra su Tannery Street e poi subito a destra. Lì non c’erano case, ma solo due file di una trentina di garage, con le saracinesche blu tutte uguali, ai due lati della breve strada chiusa. Non c’era anima viva.

La Steel sbuffò. «Sono ancora annoiata. E affamata. Direi che possiamo fare una pausa per il pranzo».

La Nicholson fece un’altra inversione.

Logan staccò la ricetrasmittente dal gancio. «Stiamo lavorando, qui».

«Pranzo, pranzo, pranzo, pranzo, pranzo!».

«Qui Pattuglia Sette, mi senti, Maggie?»

«Prego, parli pure».

«C’è qualche descrizione che puoi darci?»

«L’ultima era di una donna bianca, con una tuta grigia e una felpa arancione con il cappuccio. E degli stivali Ugg».

Quello sì che era stile.

La strada scivolava oltre il finestrino. Un tranquillo quartiere di periferia. Giardini curati e auto altrettanto curate, con i proprietari che le tiravano a lucido per il sabato sera con spugna e panno di camoscio.

«Pranzo, pranzo, pranzo, pranzo, pranzo!».

Logan chiuse gli occhi, serrandosi la radice del naso tra pollice e indice. «Se ci fermiamo davanti al panettiere, mi promette di piantarla?».

L’odore di pasticcio di pollo al curry riempiva la Macchina Grande di note speziate di cardamomo e cumino, lottando contro il vero piatto nazionale scozzese: le patatine fritte. La Steel se ne ficcò un paio in bocca, commentando mentre masticava: «Ve l’avevo detto».

Seduta dietro il volante, la Nicholson prese un boccone del suo pasticcio. Poi mugolò come una scimmia, aprendo la bocca in un piccolo cerchio. «Brucia…».

Logan se ne stava sul sedile posteriore, con lo stomaco che gorgogliava. «Dieci minuti e torniamo a caccia di drogati».

«Pattuglia Sette, potete parlare?»

«Dimmi, Maggie».

«Da Tayside hanno dato un’occhiata alla registrazione delle telecamere della libreria a Dundee. Non era Liam Barden, mi dispiace».

«Ah, be’, valeva comunque la pena fare un tentativo».

«E quelli del traffico dicono di aver trovato un Toyota Hilux bruciato in un campo fuori da New Pitsligo. Il veicolo corrisponde a quello rubato da una fattoria a nord di Strichen tre giorni fa, ma a quanto pare ora il lato posteriore è distrutto».

Probabilmente il bestione era stato mandato in retromarcia a tutta velocità contro la vetrina del supermercato di Portsoy.

«I ladri delle casse».

«L’ispettore McGregor è lì, adesso».

«Okay, fammi sapere se dobbiamo fare qualcosa». Chiuse la chiamata mentre un rombo di tuono proveniva dalle sue viscere, abbastanza forte da far voltare sia la Steel che la Nicholson.

«Sicuro che non ti vada qualche patatina?». La Steel gli offrì il contenitore di polistirolo.

Una pausa. Poi Logan ne prese una manciata.

Lei gli sottrasse il contenitore. «Ehi! Ho detto “qualche”, non “tutte”!».

Lui uscì dalla macchina con le patatine rubate. Se ne ficcò una in bocca e staccò la ricetrasmittente dal gancio. Immise il numero di Deano sulla tastierina con un dito unto. «Deano, puoi parlare?»

«Ci dia un minuto, sergente».

Piccole villette scozzesi si allineavano su un lato della strada ricurva, ma dall’altro lato c’erano soltanto erba e ciuffi di ginestra che finivano sul bordo della scogliera. Poco oltre, non si vedevano che il mare e il cielo. Qualche barchetta dondolava sulle onde, con le carene dai colori vivaci che brillavano come luci al neon contro il blu intenso dell’acqua.

Logan masticò le ultime due patatine. Non erano buone quanto il piatto di carne tritata e purè che aveva lasciato a raffreddarsi sul tavolo della cucina, ma sempre meglio che un calcio nel sedere.

Poi Deano tornò a parlare. «Eccomi, sergente, dica pure».

«Avete fatto un controllo con il database su quelle effrazioni a Pennan? Ci ha dato qualche sospetto?». Logan si succhiò il sale e il grasso delle patatine dalle dita.

«Cosa, i furti storici? Sì. Abbiamo trovato un paio di corrispondenze. Un tizio sta scontando sei anni a Berlinnie, quindi non è il nostro uomo. L’altro si chiama Tony Wishart. È una specie di pazzo ossessionato dalla storia, secondo quello che dice l’assistente sociale. Ha un mandato d’arresto per aver rapinato quel piccolo museo dell’Aberdeenshire Heritage a Mintlaw. Quindi lo stiamo già cercando».

Era qualcosa, almeno.

«Abbiamo ancora una ventina di minuti. Se puoi, passa da Alex Williams, per un controllo volante. E assicurati che Ciuffo resti in macchina. Non voglio un bis dell’ultima volta».

La Macchina Grande girò di nuovo su Tannery Street, facendo il giro lungo. La Steel sonnecchiava sul sedile del passeggero, con la testa contro il finestrino. Aveva il respiro più profondo e sbuffava di tanto in tanto dalla bocca.

La Nicholson si allungò dal sedile posteriore. «Che facciamo se comincia a russare?».

Logan accese la radio, riportandola in vita. Questa volta niente boy band, ma un’insipida band di ragazze che trascinava avanti una canzone da dimenticare all’istante. «Temo che non riusciremo a ottenere molto, qui. Tanto vale tornare in stazione e riprovarci domani».

La canzone zoppicò fino alla sua inutile conclusione, rimpiazzata dall’idiota al microfono. «Lo giuro, mi piace di più ogni volta che la riascolto. Non dimenticate: saremo in collegamento live con la Cattedrale di Liverpool per il funerale della detective Mary Ann Nasrallah, tragicamente uccisa in una sparatoria la scorsa domenica. Restate con noi. Però adesso è ora di riascoltare un po’ di Bieber!».

La Nicholson colpì Logan su una spalla. «Noooo!».

«Gah!». Lui premette il pulsante della radio appena in tempo, e una sinfonia classica riempì l’abitacolo. Logan si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Grazie al cielo… «Un ultimo passaggio davanti alla casa di Frankie e ce ne andiamo».

Lei sporse in avanti la testa, tra i due sedili anteriori. «Lo sa cosa mi fa rabbia di questa storia della detective sotto copertura che è finita uccisa? Come mai i politici si mettono a parlare bene di noi soltanto quando un poliziotto muore? Che ne è di tutto il resto del tempo che passiamo a lavorare?»

«Lo so».

«Oh, certo, facciamo un lavoro spettacolare quando moriamo, ma a parte questo, niente».

«Sfondi una porta aperta, Janet». Logan tornò su Rundle Avenue con la sua sfilza di linee e punti di casette terrazzate simili a capanni da giardino. Erba. Erba. Ghiaia. Altra erba.

La Nicholson lo toccò di nuovo su una spalla. «Sergente? Laggiù… quella Ford Fiesta blu, nuova di zecca. Non è quella del tizio brutto che abbiamo fermato lunedì perché guidava parlando al cellulare?». Una piccola pausa, poi il fruscio delle pagine di un taccuino che venivano rapidamente girate. «Sì, eccolo: Martyn Baker. Ovvero Paul Butcher, ovvero Dave Brooks. Possesso di stupefacenti e possesso ai fini di spaccio…».

Okay, quindi l’auto di Martyn con la y era parcheggiata proprio fuori dalla casa di Frankie Ferris, ma quello non era poi tanto strano. «Pensi che stia comprando o consegnando droga?»

«Già».

«Anch’io». Logan si fermò accanto al marciapiede. Spense il motore e la radio.

La Steel si raddrizzò. «Cosa? Stavo ascoltando, eh…». Sbadigliò. «Dove siamo?».

La Nicholson indicò la Fiesta blu. «Quell’auto appartiene a uno spacciatore che viene da sud».

«Buon per lui». L’ispettore capo si infilò una mano sotto il seno sinistro e si diede una grattata. «Perché non abbiamo del caffè? Pensavo che voi poliziotti in uniforme foste sempre pieni di caffè e ciambelle».

Logan uscì dall’auto. Si calcò in testa il berretto dell’uniforme. Poi si girò e aprì lo sportello per la Nicholson.

Lei lo seguì sul marciapiede, schiacciandosi il berretto così tanto da piegarle le orecchie. «Abbiamo un piano?».

Rundle Avenue non aveva molti posti per nascondersi. Non c’erano vicoli dove rintanarsi per controllare da lì la casa di Frankie. Né alberi o grossi cespugli di rododendro. «D’accordo, tu vai da quella parte», decise Logan, indicando la Fiesta, «torni sulla Tannery, vai a sinistra, prosegui fino in fondo, giri su Golden Knowes e torni su dall’altra direzione. Trova qualcosa dietro cui nasconderti. Io controllerò da questo lato. Lo beccheremo quando esce e lo perquisiremo».

E, ti prego, Signore, fa’ che abbia abbastanza roba addosso da finire dietro le sbarre per molto, molto tempo.

Logan attraversò la strada mentre la Nicholson si allontanava. Restando sullo stesso marciapiede su cui si trovava la casa di Frankie Ferris. Lui si accucciò dietro a un Transit con la scritta “disinfestazioni big jeemie – chi chiamerai?” sulla fiancata, con tanto di logo dei Ghostbusters copiato.

«Pattuglia Sette, potete parlare?»

«Dimmi, Maggie».

«Bill ha detto che l’affitto della casa al numero trentasei di Fairholme Place veniva pagato ogni quattro settimane con addebito su conto corrente dal conto bancario di una certa Mrs Lesley Spinney. Questo fino a dieci mesi fa. Poi ci sono stati due mesi di pagamenti in contanti».

Sopra di lui, i gabbiani planavano sulle correnti. Un furgoncino dei gelati emetteva la sua musica in lontananza.

Logan premette il pulsante per parlare. «Stai cercando di creare un po’ di suspense, Maggie? Rischio di morire di vecchiaia, nel frattempo».

«Mi scusi, c’era qualcuno alla reception. L’affitto adesso viene pagato dal conto di Mr Colin Spinney, aperto presso la Bank of Scotland».

Quindi la madre di Klingon aveva smesso di pagare l’affitto circa un anno prima e aveva lasciato l’appartamento a suo figlio. Sul serio? Come era possibile che chiunque si fidasse di un bastardo spacciatore come lui per pagare l’affitto? Era praticamente garantito che un giorno ci si sarebbe svegliati con un avviso di sfratto nella buca delle lettere.

E se invece la madre di Klingon non aveva smesso di pagare l’affitto? Se invece l’addebito sul suo conto aveva smesso di funzionare perché il conto era stato svuotato?

«Sergente McRae, è ancora lì? La reception…».

«Sì, grazie, Maggie. Di’ a Bill che è il mio eroe».

E se la madre di Klingon non fosse mai andata in Australia, in realtà?

Logan si sedette sul marciapiede e sbirciò da dietro il furgone.

Probabilmente la Nicholson ci avrebbe messo cinque minuti per fare il giro dell’isolato. E a quel punto avrebbero dovuto soltanto aspettare che Martyn con la y finisse quello che stava facendo con Frankie, e poi scoprire cosa era successo alla madre di Klingon, arrestare chiunque avesse ucciso la bambina della Tarlair Outdoor Swimming Pool, fermare i ladri dei registratori di cassa, risolvere i furti negli appartamenti di Pennan, e tutto sarebbe andato per il meglio.

Quanto poteva essere difficile?

Qualcuno sbuffò contro la spalla di Logan. «Mi sto annoiando».

Lui chiuse gli occhi, premendo la fronte contro la fiancata dipinta del furgone delle disinfestazioni. «E allora se ne torni alla stazione e faccia il suo lavoro, invece di lamentarsi del mio». Si girò e indicò la strada. «Vada. Da quella parte. Giù fino in fondo alla collina, poi attraversa la strada e segue le indicazioni per il porto. Le ci vorranno dieci, quindici minuti al massimo».

La Steel imbronciò le labbra intorno alla sigaretta elettronica che le sporgeva dalla bocca. «Dammi un passaggio».

«Stiamo cercando di beccare uno spacciatore. Non le sta bene?»

«Tu sergente, io ispettore capo. Io chiede passaggio, tu dà passaggio».

«No». Logan tornò a guardare verso la casa. «Lei dovrebbe essere alla stazione, a lavorare per arrestare chiunque abbia ucciso quella bambina. Vada a farlo».

«Ti dirò: perché non agito la mia bacchetta magica ed evoco l’assassino? Ma certo! Perché non ci ho pensato prima? Aspetta un attimo…». La Steel agitò la sigaretta elettronica in aria. Poi si accigliò. «Niente. Che strano. Stamattina funzionava».

Ancora nessun movimento da dentro la casa.

«Be’, che mi dice della sua analisi degli isotopi stabili?».

La Steel rimise la “bacchetta magica” in bocca e prese un tiro. «È stato un bene affidarlo a un team esterno. Non c’è niente di meglio di una bottiglia di Macallan invecchiato per ungere a dovere gli ingranaggi. Il mio guru di Dundee ha analizzato dei campioni di capelli della bambina, ieri sera, e secondo lui, la nostra vittima ha trascorso gli ultimi quattro mesi nel nord-est, l’anno prima a Glasgow e il resto del tempo tra la costa sud del Galles e la zona a nord di Londra».

Logan annotò tutto nel taccuino. «E se andiamo ancora più indietro?»

«Non si può sapere senza un campione di osso o un dente. Ho già inoltrato la richiesta al Procuratore».

«E allora perché se ne sta qui a non fare niente, invece di mettergli fretta? Lo sa com’è il Procuratore!». Logan si girò a guardarla. «È questo quello che succede quando nessuno le sta dietro con il fiato sul collo, vero? Tutto va al diavolo».

Lei lo guardò male. Poi un sorriso le si allargò sul volto, e il tono di voce si fece gongolante. «Dammi un passaggio, o non ti dirò cosa ha detto l’ispettore Porter».

Neanche un briciolo di rimorso. Tipico.

Logan prese un respiro profondo. Sospirò. E poi tornò a guardare verso la casa.

Forse Frankie e Martyn con la y si erano messi davanti alla tv a guardare la partita di calcio? Magari con un paio di birre e pacchetti di patatine a non finire. Dannazione.

La Steel lo sgomitò, insistente. «Non me lo chiedi?»

«D’accordo: chi diavolo è l’ispettore Porter?»

«Niente passaggio, niente informazioni».

Lui afflosciò le spalle. «Senta, questo è il nostro lavoro, okay? Stiamo lavorando, qui».

La Steel gli tirò la manica. «Sì, ma io mi sto annoiando».

«Sa cosa non mi è mai mancato? Questo. Il fatto di dover essere il suo babysitter, e di doverla gestire come una bambina petulante». Strattonò via la manica dalla sua presa. «Se vuole andare, vada. Io resterò qui finché Martyn Baker non uscirà da quella casa».

«D’accordo, come ti pare».

Il rumore dei suoi stivali si perse in lontananza.

Finalmente.

Logan sbirciò dall’altra parte del furgone. La Nicholson era appostata dietro a una Fiat Punto, a un centinaio di metri da lui, lungo la strada. Stava usando il berretto dell’uniforme per sventolarsi la faccia, evidentemente accaldata. Del resto, era comprensibile: una giornata come quella, con il sole che picchiava forte, non era l’ideale per vestirsi di nero e indossare anche un giubbotto antiproiettile.

Un filo di sudore gli scivolò lungo la schiena, infilandoglisi nelle mutande.

«Avanti, Martyn, dove diavolo sei?».

Se fossero rimasti lì ancora un po’, qualcuno si sarebbe insospettito. Sempre che lui e la Nicholson non crollassero prima per un colpo di calore.

Un secco crepitio di plastica schiantata ruppe il silenzio. E poi accadde di nuovo.

La Nicholson scattò in piedi sul marciapiede, fissando con gli occhi sgranati qualcosa alle spalle di Logan.

Il clangore del metallo colpito fu seguito all’istante dallo stonato e furioso ululato di un allarme.

Logan si girò e vide la Steel, ferma sul marciapiede con le mani dietro la schiena. Gli sorrise, con la sigaretta elettronica che le dondolava dall’angolo delle labbra. «Che c’è?».

La Ford Fiesta nuova di zecca di Martyn Baker aveva due fari rotti e una grossa ammaccatura sullo sportello del passeggero. Le frecce lampeggiavano e l’allarme strillava impazzito.

La Steel si strinse nelle spalle. Alzò la voce oltre l’urlo dell’antifurto. «Cosa, quella?». Accennò alla macchina. «Era proprio così, quando l’ho trovata».

Fantastico. E poi era lui quello che veniva braccato dagli Affari Interni.

«Ma è impazzita?».

Una porta si aprì di scatto, ed ecco comparire Martyn con la y, il viso paonazzo e le labbra arricciate a mostrare i denti. «la mia macchina!». Il suo accento di Birmingham allungò a dismisura l’ultima parola, facendola somigliare a un grido. Tuttavia, non era uscito dalla tana di Frankie, bensì dall’appartamento di fronte alla sua povera Fiesta ululante. Quello con cespugli di rose, fontana e casetta di plastica per bambini.

Percorse a passo di carica il vialetto e raggiunse il marciapiede, la bocca che si muoveva come se stesse cercando di tirare fuori le parole e gli occhi fuori dalle orbite. Probabilmente notando i fari distrutti e l’ammaccatura nella fiancata. Poi si girò verso la Steel. «lei ha…».

«È stato un tizio grosso come un armadio, e poi è scappato». Lei gli mostrò il distintivo. «Uno dei miei colleghi gli è corso dietro. Lei è il signor…?».

L’uomo appoggiò i palmi sul tetto della Fiesta, come se potesse evocare un miracolo del Signore per guarire gli ammalati. «La mia macchina!».

«Questo veicolo è suo, signor Lamiamacchina? Potrebbe gentilmente spegnere l’antifurto? Mi sta facendo venire il mal di testa».

Lui arricciò le labbra in un ringhio. Poi arretrò, tirò fuori le chiavi della macchina e premette un pulsante.

Silenzio.

«Molto meglio». La Steel si ficcò un dito nell’orecchio, rigirandolo. «È residente in zona, signor Lamiamacchina?».

Martyn con la y strinse gli occhi, serrando i denti e facendo risaltare la linea di foruncoli lungo la mascella. «Se metto le mani su quel piccolo…».

«In realtà, sarebbe meglio di no». La Steel si tolse la sigaretta elettronica dalle labbra e accennò con quella alla strada, verso la casa di Frankie Ferris. «Per caso è mai stato in quella casa? Quella al numero quindici? Quella brutta con la porta color lime e l’odore strano?».

Logan gli si avvicinò alle spalle, bloccandogli ogni via di fuga. «C’è qualche problema, Mr Baker?»

«Ma guardate cosa ha fatto quel bast…».

«Baker? Un momento», la Steel si rimise in bocca la sigaretta elettronica, «quest’uomo mi ha detto di chiamarsi Lamiamacchina. Non lo sa che è un reato dare false generalità alla polizia, Mr Baker?». Lanciò un sorriso a Logan. «Credo che sia il momento di perquisire questo signore, giusto, sergente?».

Logan si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Può allargare le braccia, Mr Baker?».

La Steel prese un lungo tiro dalla finta sigaretta, mentre Logan perquisiva l’uomo. «Tra l’altro, non ha risposto alla mia domanda. È mai stato nella casa del vostro amichevole spacciatore di quartiere? Magari a prendere qualcosa, oppure a lasciargliela?».

Se l’uomo avesse stretto ancora di più la mascella, uno di quei vulcani dormienti sulla sua pelle si sarebbe sicuramente risvegliato. «Mi state arrestando?»

«Dipende da quello che troverà il sergente, no?».

Logan finì di passare le mani lungo le gambe di Martyn con la y. «Ha qualcosa nelle tasche che sarebbe meglio dichiarare? Oggetti affilati, coltelli, aghi, lamette?».

Lui gli mostrò i denti. «Queste sono molestie».

«Paul?». Una donna comparve sulla soglia della casa da cui l’uomo era uscito. Accento di Birmingham pesante come un macigno. Jeans tagliati e una T-shirt con la scritta “barney deve morire”. Arricciò le dita dei piedi nudi, uscendo sul vialetto. «Tutto a posto?». Una bimbetta le venne dietro barcollando, per poi aggrapparsi alla sua gamba, succhiandosi il pollice.

La smorfia aggressiva sul volto di Baker svanì, e l’uomo si girò, forzando un sorriso verso di lei. «Va tutto bene, Elsie. Torna dentro con Mandy e metti su il tè, d’accordo?»

«Paul?».

Il sorriso forzato cedette appena. «Ho detto che va tutto bene. Qualcuno ha vandalizzato la macchina e questi… agenti sono un po’ pignoli, tutto qui. Torna dentro».

Lei annuì e sparì di nuovo all’interno della casa. La bimba esitò sulla soglia, fissandoli. Martyn con la y la salutò agitando una mano e lei seguì la madre. La porta si chiuse.

Martyn Baker tornò in posizione. «Vediamo di farla finita».

Capitolo 30

«Dunque chi è Paul quando è a casa?». La Steel si girò a sbirciare dal lunotto posteriore della Macchina Grande che si allontanava lungo la strada. «Be’, più che “a casa”, direi “a spassarsela a Teuchter Town con una biondina dalle gambe lunghe”».

«È un alias». La Nicholson li condusse oltre la rotonda e su Whinhill Terrace, con le mani che scivolavano sul volante in una buona imitazione di qualcuno che cerca di superare l’esame della patente con il massimo dei voti. «Martyn Baker, ovvero Paul Butcher e Dave Brooks».

«Quindi quella poveretta che si porta a letto non sa neanche il suo vero nome? Non vi sembra un po’ triste?».

Seduto sul sedile posteriore, Logan gettò i guanti di nitrile azzurro in una vecchia busta di plastica del supermercato e la ficcò in una delle tasche del giubbotto antiproiettile. «Non riesco a credere che fosse pulito».

La Nicholson si strinse nelle spalle. «Magari la prossima volta…».

«Comunque potrebbe risultare parecchio strano anche per lui, no? Insomma, ve lo immaginate, lì a spingere come un forsennato e lei che se ne esce: “Oh, Paul, che stallone! Ancora, Paul, ancora!”, e lui pensa: “Ma chi diavolo è Paul?… Oh, giusto, sono io”. Insomma, è roba che ti fa ammosciare, suppongo».

La ricetrasmittente di Logan pigolò. «Pattuglia Sette, potete parlare?»

«Dimmi, Maggie».

«Stiamo ancora cercando un certo Charles “Craggie” Anderson? Perché abbiamo ricevuto una segnalazione: qualcuno l’ha visto stamattina mentre scendeva da un autobus a Inverness».

La Steel prese un tiro di sigaretta elettronica, facendone brillare la punta.

«Pensate che la bambina sia sua? Che situazione: crescere senza sapere il vero nome di tuo padre».

«Siamo sicuri che sia Charles Anderson?»

«Non al cento per cento. Lo sa come vanno queste cose. Qualcuno vede un tizio che somiglia vagamente alla foto di una persona scomparsa vista su un volantino che a malapena ricorda, e ci chiama».

«C’è altro?»

«Deano e Ciuffo si stanno occupando di un’overdose a Keilhill, l’ambulanza è sulla scena».

«Grazie, Maggie».

La Nicholson svoltò a destra su Castle Street. Era piena di coppie e famiglie. Passeggini e buste della spesa.

Lei premette con forza il piede sui freni e indicò. «Lì! Stavolta è sicuramente lui!».

Un uomo di mezza età piuttosto corpulento, con i capelli radi in cima alla testa, procedeva lungo il marciapiede, portando con sé due sedie di legno con le etichette ancora attaccate.

La Nicholson si slacciò la cintura e saltò fuori dall’auto. «Liam Barden?». Non ci fu risposta. «ehi, liam!». Ancora niente. Lei afferrò il berretto, se lo infilò e gli corse dietro a piedi.

La Steel si girò sul sedile. «Perché siete tutti ossessionati da questo Liam?»

«Non è lui». Logan si sistemò meglio sul sedile. «E comunque, avanti, la stiamo riportando alla stazione in macchina. Cosa ha detto questo ispettore Porter?».

Lei lo guardò perplessa per un attimo, poi sembrò ricordare. «Ah, sì, Porter. È una donna, ed è a capo dell’indagine di quel grosso sequestro di stupefacenti… con quei due, lì, come si chiamano? Kevin e Costello?»

«Klingon e Gerbillo».

«Okay, quello che è». La Steel prese un lungo tiro dalla sigaretta elettronica. «Volevi sapere qualcosa della madre di Kevin».

«Di Klingon. Dovrebbe essere in Australia da un paio di mesi, ma sembra che non sia a casa da molto più tempo».

«E quindi?»

«E quindi volevo sapere se Klingon o Gerbillo hanno detto qualcosa di lei».

Ancora un tiro. «Perché?»

«Non ha visto in che stato era quel posto. Non possono averlo ridotto così in poche settimane. Quella casa era un porcile da mesi. E lei invece è una maniaca del pulito. E, secondo il municipio, è Klingon a pagare l’affitto da quasi un anno. Quindi, cosa è successo alla madre?»

«È tutto quello che hai in mano? Che la casa è sporca?». La Steel si indicò una guancia con l’unghia rossa e scheggiata dell’indice. «Questa ti sembra la faccia di qualcuno a cui frega qualcosa sulla capacità di due tossici di tenere in ordine una casa? Per quando saranno usciti di prigione, quella donna avrà rimesso tutto in ordine, no?».

Una famiglia di cinque persone superò l’autopattuglia passeggiando sul marciapiede, il padre e la madre con l’aria di non aver mai trascorso un giorno felice in vita loro.

Logan abbassò la voce. «E se quella donna non fosse mai andata in Australia, tanto per cominciare?»

«Continua a non fregarmene niente».

«E se fosse morta?».

La Steel spense la sigaretta finta e la infilò in tasca. «Pensi che questo Kevin sia il tipo da ammazzare la madre?»

«Dio santo, è Klingon. Kevin è il vero nome di Gerbillo». Logan si appoggiò allo schienale. «Potrebbero averla uccisa loro, oppure potrebbe aver avuto un incidente, ma c’è qualcosa che non torna». Tamburellò con le dita sul poggiatesta del guidatore. «Mi domando se stia ancora ritirando dei soldi dal suo conto in banca. Pensa che potremmo scoprirlo?».

La Steel tirò fuori il cellulare e armeggiò per un po’ con lo schermo.

Logan la pungolò. «Allora?»

«Allora cosa?».

Santo cielo. «Cosa ha detto l’ispettore Porter? Riguardo alla madre di Klingon?»

«Niente. Non se ne è mai parlato». Poi gli tese il telefono. Sullo schermo campeggiava una foto di Susan e Jasmine. Si trovavano nell’atrio di una scuola, Susan in un abito a fiori che poteva essere uscito dritto dal set di un film di Doris Day, Jasmine in body nero con un tutù verde, sorridente e con una piccola coppa dorata in mano. Doveva essere una foto della gara di danza. «È arrivata terza. Pensi che dovrei chiedere loro di venire a Banff per un paio di giorni?»

«Quindi non hanno mai parlato della madre di Klingon?»

«Certo, non potrebbero stare in quel buco di casa con te, ma sarebbe carino, non ti pare? Un bel viaggio qui, in questi giorni di sole».

«Come ha fatto a non chiederglielo?»

«Potrebbero partire oggi, passare la notte qui e tornare a casa domenica. Sarebbe bello se potessero rimanere più a lungo, ma queste idiote di maestre impazziscono se non mandi a scuola i bambini nel periodo delle pagelle». La Steel osservò la foto. «Potremmo organizzare un barbecue. Andare a fare una passeggiata sulla spiaggia e una nuotata in mare».

«Ma mi sta ascoltando?»

«No».

D’accordo. Se non voleva dargli una mano…

Logan tirò fuori il cellulare e controllò la rubrica. Selezionò un numero e aspettò di sentirlo squillare. Suonò a lungo, senza risposta.

Poi la voce di un uomo si fece sentire dall’altra parte della linea. Dizione perfetta, a parte un leggerissimo accento dell’Essex. «Dipartimento di supporto amministrativo».

«Derek? Sono Logan McRae. Ci siamo conosciuti al weekend per le norme di sicurezza dei Commonwealth Games, ti ricordi? Tu e il tuo capo stavate per essere cacciati da uno strip…».

«Ah, sì, Logan. Certo. Come stai?». L’uomo si schiarì la gola. «Pensavo che non avremmo più parlato di quella storia».

«Sei ancora con la Squadra degli Scoiattoli Segreti?».

La Steel passò a una foto sul telefono di Susan e Jasmine in costume su una spiaggia di sabbia bianca, con tanto di palme e lattine di Irn-Bru.

Derek tacque per qualche istante. «Non so di cosa tu stia parlando».

«Okay, lo prenderò come un sì. Ascolta, ho bisogno di sapere se una persona ha lasciato il paese. Dovrebbe essere in vacanza in Australia. Potresti scoprire quando, e se, è partita?».

La Steel girò il cellulare verso di lui. «Qui eravamo a Tiree. Ci bruciavamo al sole ogni mattina, le zanzare ci mangiavano vive ogni sera, ma ci siamo divertite un mondo».

«Logan, il Dipartimento di supporto amministrativo non si occupa di antiterrorismo. Al massimo requisisce cucitrici e penne Bic. Segue i contratti di manutenzione delle fotocopiatrici. Cose così, molto terra terra».

«Certo, lo so. Ma mi devi ancora un favore, ricordi? Lo strip…».

«Non è stato…». Un respiro profondo. «Sì, be’, magari potrei fare qualche controllo discreto per darti una mano. Hai il nome di questa persona?».

Logan prese il taccuino. «Lesley Spinney, nata a Fraserburgh l’otto di aprile del 1971».

«Vedrò cosa posso fare». Poi attaccò.

La Steel gli mostrò di nuovo lo schermo del cellulare. Erano tutte e tre, stavolta, sedute intorno a un falò con del pesce infilzato su rametti di legno. «Ed eccoci a Lossiemouth. Siamo andate a pescare su una barchetta». Sorrise. «Susan ha preso uno sgombro; quando l’ha staccato dall’amo ha cominciato a dibattersi come un forsennato. L’ha schiaffeggiata in faccia con la coda e si è lanciato di nuovo in acqua. Pesce: uno, Susan: zero». Un sospiro. «Penso che le chiamerò».

Lo sportello del guidatore si aprì e la Nicholson tornò dietro al volante. Sospirando.

Logan mise via il cellulare. «Fammi indovinare: non era lui».

«Ma ci somigliava».

«È lo stesso tizio dell’ultima volta vero? Quello che hai inseguito nel supermercato. Senza baffi e che tifa per la squadra sbagliata».

«Be’… ma chi è l’idiota che se ne va in giro assomigliando a una persona scomparsa? Insomma, è andare a cercarsi dei guai, questo!». La Nicholson rimase immobile per qualche secondo, poi girò la chiave e avviò il motore. «Avrei potuto giurare che si trattava di lui».

«Pattuglia Sette: è urgente».

Logan sganciò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile. «Vi ascoltiamo».

«Sono arrivate segnalazioni di un alterco violento e urla al numero sedici di Chapel Hillock Crescent. C’è una bandierina di grado uno a questo indirizzo…».

«Alex Williams». Logan batté un colpetto sulla spalla della Nicholson. «Vai!».

Lei ingranò la marcia e premette il pulsante per attivare lampeggianti e sirene. Schiacciò il piede sull’acceleratore.

Il didietro dell’autopattuglia sbandò per un attimo, con le ruote posteriori che stridevano, poi fecero presa sull’asfalto e la macchina si lanciò in avanti, spingendo Logan contro il sedile.

Il traffico si divise per farli passare, con la gente intenta a fare shopping che si fermava a guardarli a bocca aperta, mentre l’autopattuglia schizzava via a sirene spiegate.

Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Ricevuto, ci stiamo avvicinando. Da chi è arrivata la segnalazione?». Si aggrappò alla maniglia sopra lo sportello, mentre la Nicholson sbandava in curva in fondo a Castle Street. Cespugli, alberi e lampioni scivolarono via, indistinti, dietro ai finestrini. La macchina schizzò sulla corsia opposta per superare un furgone pieno di bestiame.

«I vicini di casa. Hanno detto che si sentiva il rumore di piatti e altri oggetti rotti».

La Nicholson si piegò in avanti sul volante. «Gliel’avevo detto, sergente: tutto a posto e tutti felici, finché qualcuno non avvia il frullatore».

La Steel si sistemò sul sedile. «Ora sì che va meglio. Un po’ di adrenalina, tanto per cambiare».

Logan inserì il numero di Deano nella ricetrasmittente. «Deano, dove sei?»

«Siamo in ospedale. Di nuovo. La tizia dell’overdose ha reagito violentemente quando le hanno fatto un’iniezione di Narcan. A momenti staccava la testa del paramedico che se ne è occupato. Che succede?»

«Alex Williams».

«Merda. D’accordo, ci dia un minuto. Arriveremo prima possibile».

Il campo di calcio sfilò via in tutta fretta, poi arrivarono al ponte per Macduff. L’autopattuglia sfrecciò per le strade del centro abitato, le casette di granito che slittavano via, sfocate, fuori dai finestrini.

La Macchina Grande affrontò la curva di Chapel Hillock Crescent con un forte stridio di gomme. Altre casette squadrate, villette bifamiliari e piccole terrazze. Facciate grigie. Facciate bianche. Tegole rosse.

La Nicholson schiacciò il pedale del freno, facendoli fermare di colpo davanti al numero sedici. Saltò giù dalla macchina, allungando una mano per aprire lo sportello a Logan.

Lui era già con un piede sull’asfalto quando la ricetrasmittente fece sentire quattro trilli.

«Ispettore capo McInnes a Pattuglia Sette».

Chi diavolo era adesso l’ispettore capo McInnes?

Logan scattò fuori dalla macchina e premette il pulsante della ricetrasmittente, parlando contro la spalla. «Dovrò richiamarla, signore, siamo…».

«Neanche per sogno! Lei mi parlerà adesso, o manderò personalmente qualcuno ad aprirle a calci un buco nel posteriore grosso abbastanza da farci passare un autobus!».

La Nicholson corse fino alla porta rossa della casa. Bussò con forza. «polizia! aprite!».

«C’è una lite domestica in corso. Faccia quello che vuole».

Altri colpi sulla porta. «polizia!».

Logan lasciò andare la ricetrasmittente. «Buttala giù».

La Nicholson fece un passo indietro e colpì con un piede il battente di pvc non plastificato, pochi centimetri sotto la maniglia. La porta ondeggiò con un tonfo, ma non cedette. Lei ci riprovò. Un altro colpo sordo. Niente.

«Sergente, la avverto!».

La Steel scese dalla macchina e portò le mani a megafono intorno alla bocca. «prova a usare la maniglia, idiota!».

La Nicholson seguì il consiglio. E la porta si aprì. Il rumore di voci alterate arrivò di colpo fino a loro. Poi qualcosa si schiantò.

Lei corse dentro, con Logan alle spalle. La Steel li seguì sbuffando.

C’era un breve corridoio, con una rampa di scale da un lato che conduceva a un piccolo pianerottolo. Al pianterreno c’erano due porte aperte. Una dava sulla cucina, l’altra…

Un urlo, a destra.

La Nicholson si lanciò in salotto, estendendo il manganello con uno scatto. «polizia! nessuno si muova!».

Un uomo di mezza età si bloccò con un pugno sollevato a mezz’aria, pronto a colpire. Aveva schegge bianche tra i capelli e sulle spalle della T-shirt strappata. Gocce scarlatte gli colavano dal lobo di un orecchio.

Una giovane donna si raggomitolò sul divano, cercando di schiacciarsi contro i cuscini. Aveva un occhio pesto e chiuso, con la pelle che già cominciava ad arrossarsi intorno. Un angolo della bocca era macchiato di sangue. I capelli lunghi e castani le formavano un groviglio selvaggio intorno al viso.

Logan allungò a sua volta il manganello estensibile. «basta così!».

Il braccio dell’uomo tremò, per poi ricadere lungo il fianco. Restò immobile, afflosciando le spalle, il petto che si sollevava per il respiro affannato. «Mi… mi dispiace…».

La Steel si fermò accanto a Logan. «Sì, e ti dispiacerà ancora di più, tra poco».

Entrò nella stanza e tirò fuori il distintivo. «Ispettore capo Steel». Fece un cenno a Logan e alla Nicholson, per poi indicare l’uomo tremante. «Portatelo via».

Il sole inondava il giardino sul retro della casa, facendo scintillare di un verde quasi impossibile l’erba e le siepi. Logan era seduto sul primo gradino di una piccola veranda, con la ricetrasmittente premuta contro l’orecchio. Con l’altra mano si stava massaggiando la fronte, ma il gesto non sembrava avere alcun effetto sulle lattine arrugginite che gli stridevano fastidiosamente dietro agli occhi.

«Sono stato chiaro?»

«Perfettamente».

«Non voglio che provi ancora una volta ad aggirare il mio Team Investigativo Primario. E se dovessi venire a sapere che ha infastidito di nuovo l’ispettore Porter…».

«Io non ho…». Ma che senso aveva? «Sì, signore».

«Lei si terrà lontano dall’Operazione Troposfera, o giuro su Dio che gliene farò pentire amaramente».

«Operazione Troposfera?».

A un paio di giardini di distanza, un cane si mise a latrare, scatenando una reazione a catena lungo la strada. Uno staccato ritmato con assolo di tosaerba e coro urlante di bambini felici.

«Sì, Operazione Troposfera. Pensa davvero di saperne di più di noi solo perché è incappato per primo in quel carico di droga? Be’, non è così. E poi che diavolo le è venuto in mente di chiamarla Operazione Schofield? Chiunque abbia mezzo cervello potrebbe collegarla a uno che si fa chiamare “Kevin il Gerbillo”. Stava cercando di farlo ammazzare?».

«No, signore. In realtà…».

«È per questo che usiamo il generatore casuale di nomi, sergente, per evitare stronzate come questa. In ogni caso, non è più la sua indagine. Tutti gli aspetti dell’Operazione Troposfera sono al di là dei suoi ambiti di competenza».

Logan prese un respiro profondo. Valeva la pena di fare un ultimo tentativo. «Signore, con tutto il rispetto, saremo noi a doverci occupare delle conseguenze di certe faccende nelle strade. Se c’è un flusso imponente di stupefacenti in arrivo a Banff, dovremo essere a conoscenza del…».

«No, niente affatto. Sono io a decidere cos’è che lei deve sapere o meno, sergente. E al momento, deve semplicemente farsi gli affari suoi. Stia lontano dalla mia indagine!».

Silenzio.

Logan controllò lo schermo della ricetrasmittente. L’ispettore capo McInnes aveva chiuso la comunicazione.

Un lungo, lento sospiro gli sibilò tra i denti stretti. «Vaffanculo, signore». Agganciò la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile e si girò verso la cucina.

La Nicholson gli dava le spalle, visibile attraverso la finestra. Dietro di lei, una testa brizzolata si intravedeva appena sopra il davanzale. Doveva essere l’uomo, seduto al tavolo della cucina, intento a fornire le solite patetiche spiegazioni sull’intera faccenda. Ad Alex dispiaceva. Alex non voleva farlo. Alex non l’avrebbe fatto mai più. In realtà si amavano.

E alla fine uno dei due sarebbe andato all’ospedale. O all’obitorio.

Non era strano che tanti poliziotti finissero per diventare alcolizzati.

Logan rientrò in casa dalla porta sul retro. Si appoggiò al pianale della cucina. «Allora?».

Il pavimento era pieno di schegge di ceramica e stoviglie rovesciate. Macchie da test di Rorschach punteggiavano le pareti, a segnalare il punto di impatto di bottiglie e barattoli di vetro. I loro resti schiantati giacevano sul pavimento al di sotto.

La Nicholson fece una smorfia. «La solita storia. Tutto è cominciato da una discussione su chi sarebbe uscito da The Voice stasera, e poi sono passati alle minacce di morte».

La porta che dava sul corridoio si spalancò di scatto, e la Steel entrò a passo di marcia. Aggrottò la fronte e puntò l’indice contro la figura seduta e curva in avanti. «Ritieniti fortunato, tesoro. Sai cosa succederà se sarò costretta a tornare qui?». Sbatté il palmo sul pianale del tavolo.

Lui sussultò, coprendosi il viso con le mani. «Mi dispiace così tanto…».

«Questo è il tuo ultimo avvertimento». La Steel schioccò le dita. «E ora andiamocene». Nessuno si mosse. «Ora!».

Logan e la Nicholson la seguirono in corridoio.

La porta del salotto era ancora aperta. Si intravedevano un tavolino distrutto, una cornice staccata dalla parete e una figuretta minuta raggomitolata sul bordo del divano, che li guardava passare, con un occhio ormai gonfio e pesto.

Logan uscì dalla porta d’ingresso e se la chiuse alle spalle.

La Nicholson tirò su con il naso. «Che disastro. La prossima volta di sicuro arriveranno le ambulanze a sirene spiegate».

«Non dirlo a me».

La Steel stava già raggiungendo la macchina, fumando a tutto spiano la sua sigaretta elettronica, quando si fermò e agitò un pugno verso la casa. «Mi fa venire voglia di urlare».

«Ma allora perché non abbiamo arrestato…».

«Come diavolo è possibile che lei non voglia denunciarlo? Ma che cazzo ha nella testa, si può sapere?».

Logan aggrottò la fronte. «Cosa?»

«Ma è tutto okay, perché si amano. Be’, allora è tutto a posto, no?». La Steel decapitò con rabbia una rosa che cresceva lungo la siepe davanti alla casa. Un’esplosione di petali color sangue volò verso il marciapiede. «Non si può sopportare una cosa simile, okay? Non si può!».

Logan si avvicinò di un passo, accigliandosi ancora di più. «Di cosa sta parlando?»

«Quel bastardo l’ha colpita!». L’estremità della sigaretta elettronica lampeggiò, fredda e feroce. «Ma non preoccuparti, ho parlato a lungo con lei. Le ho detto che non deve farsi trattare così da nessuno. E ho aggiunto che se fossi stata al suo posto, avrei staccato le palle a quello stronzo con un cucchiaio arrugginito».

Logan sgranò gli occhi. «Cosa ha fatto?».

La Nicholson deglutì. «Oh, Dio…».

La Steel decapitò un’altra rosa. «Come può un uomo di quell’età comportarsi così con una ragazzina?»

«cosa?». Logan si girò verso la casa. «Le ha detto di tagliargli…? Oh, no, no, no, no, no!».

La Nicholson stava già tornando indietro di corsa. Lo superò e afferrò la maniglia, strattonandola più volte. «È chiusa a chiave!».

La Steel li fissò entrambi dal marciapiede. «Ma che diavolo state facendo? Ho sistemato tutto».

Logan tirò fuori il manganello estensibile. «Quell’uomo non è il colpevole… è lei il problema, razza di idiota. È stata dentro per aggressioni domestiche da quando ha sedici anni, e lei le ha suggerito di castrare il compagno!».

Delle urla soffocate si udirono da dentro la casa.

La Steel spalancò la bocca. La sigaretta elettronica le cadde dalle labbra, piombando sul marciapiede. «Non startene lì impalato, butta giù quella cavolo di porta!».

Capitolo 31

Le sirene soffocavano la voce dall’altra parte del telefono. Poi l’ambulanza si allontanò velocemente, sparendo dietro l’angolo.

Logan girò le spalle al baccano. «Scusa, non ho sentito, Derek. Puoi ripetere?».

Un sospiro. «Ho detto che non c’è traccia di lei. I controlli non rilevano che il suo passaporto sia stato scansionato per un viaggio all’estero. In teoria, potrebbe essere andata in qualche paese europeo usando la carta d’identità e poi essere partita da lì, ma l’Electronic Travel Authority non riporta un suo arrivo in Australia».

Alex Williams lo fissò dal finestrino posteriore della Macchina Grande, con un occhio nero e le labbra imbronciate. Mi dispiace, non volevo, non succederà mai più. Noi due ci amiamo.

«Quindi la madre di Kevin Spinney non è mai andata in Australia».

«No, a meno che non ci sia andata con dei documenti falsi, ecco. Ora credo di aver ricambiato appieno il favore, che ne dici?»

«Grazie, Derek».

«Non parlarne in giro. Ti prego. Non dirlo a nessuno». E a quel punto attaccò.

La Steel uscì borbottando dalla casa, al telefono con qualcuno. «No, in realtà… Non avrebbero dovuto farla uscire. Il team, qui, ha fatto tutto il possibile». La Steel alzò lo sguardo e controllò la strada. I vicini si erano assiepati dietro al nastro della polizia e guardavano con gli occhi sgranati la casa e i poliziotti che andavano e venivano. Poi sembrò notare Logan, perché gli rivolse un cenno e gli si avvicinò. «Sì, signore… ne sono certa… grazie, signore». Si fece scivolare il cellulare in una tasca interna della giacca. Fece una smorfia. Si fermò accanto a lui e abbassò la voce a un bisbiglio appena udibile. «Saremo fottuti, appena qualcuno lo scopre».

Logan la fissò dall’alto in basso. «Che intende con saremo? Non siamo stati noi a dirle di tagliare le palle al compagno, è stata solo lei».

Il bisbiglio divenne un ringhio. «Te lo ricordi chi è che ti ha fornito un alibi quando il Ninja Biondo voleva fotterti?».

Lui accennò alla Macchina Grande e ad Alex Williams seduta sul retro. «Non sono io quello di cui si deve preoccupare, ma lei. Probabilmente è già convinta che è stata lei a persuaderla a farlo».

«Be’… almeno…». La Steel si accigliò. «Il lato positivo è che…». Strusciò un piede sull’asfalto. Poi tirò fuori la sigaretta elettronica. «No, niente».

Da dietro la porta di una delle celle, qualcuno cantava, facendo arrivare la voce fino in fondo al corridoio. Era una vecchia canzone di Elvis, in cui Mr Presley si incendiava l’anima, ma cantata con un pesante accento del nord-est, e il ritornello che recitava, cambiato: «Viva, Pee-ter-heed».

L’agente della polizia penitenziaria tolse le manette ad Alex Williams, poi uscì dalla cella, mentre lei si massaggiava i polsi.

L’uomo chiuse la porta con un solido tonfo sordo. Poi abbassò la tapparella della finestrella. Il blocco femminile era molto più tradizionale, rispetto al nuovo blocco maschile. Niente file di porte d’acciaio fantascientifico, lì. Soltanto il vecchio stile industriale e il vecchissimo colore blu scuro.

Il secondino tirò fuori un pennarello e scrisse le parole “violenta, fare attenzione!” sul cartellino apposito. Poi bussò sulla porta. «Se ha bisogno di qualcosa prima che arrivi il suo avvocato, prema il pulsante del citofono accanto alla porta».

Alex si avvicinò alla finestrella e sbirciò verso Logan, alle spalle del secondino. «Io lo amo, questo lo sa, vero?». Un piccolo sorriso. «Solo che a volte… lui mi infastidisce, ecco».

Logan allungò una mano e chiuse la tapparella. Si girò e puntò verso il cancello con le sbarre e l’ufficio della reception. «È completamente pazza».

«Non lo dica a me». Il secondino chiuse il cancello con un tonfo metallico e lo bloccò. «È pieno di matti, qui dentro, dopo ieri sera. Durante il matrimonio si sono massacrati di botte, e ora cantano una canzone a testa, a turno. Sarà un lungo weekend».

Dal blocco maschile, qualcuno attaccò: «Welcome to the Hotel Fraserburgh… such a lovely place…». Subito, una mezza dozzina di voci si unì al coro.

Il secondino si strinse nelle spalle. «Almeno sono intonati. Ed è meglio delle solite imprecazioni e bestemmie».

Logan lo seguì fino al bancone all’entrata, con i vari volantini, avvisi e fogli attaccati sopra. Si fermò, posando una mano sul pianale. «Quando Kevin McEwan e Colin Spinney erano qui, hanno detto niente sulla madre di Spinney?»

«Gerbillo e Klingon?». Il secondino si grattò un braccio tatuato con il mazzo di chiavi che aveva in mano. «Hmm…». Un occhio si chiuse, e lui si grattò ancora di più. Poi si fermò. «Non era andata in Australia? Tipo a Sydney o a Perth?».

No, neanche per sogno.

«Grazie».

«Posso chiedere, se vuole. Ho un amico che lavora come secondino a Craiginches».

«Però mantieni un basso profilo. Se qualcuno scopre che mi sto interessando a questa faccenda, vorranno la mia testa». E, a proposito… «Scusami, ora. Devo fare una telefonata».

Uscì dalla porta laterale, raggiungendo il parcheggio sul retro dell’edificio. C’erano due autopattuglie parcheggiate vicino alla porta. Un furgone Transit se ne stava un po’ più a destra, con una ruota anteriore a terra. E poi c’erano due grosse berline. Nessuno in vista.

Logan prese il cellulare e chiamò la Nicholson. Aspettò che rispondesse.

Poi la sua voce si udì dall’altra parte del telefono. «Sergente? Perché non ha usato la ricetrasmittente?».

Perché almeno nessuno l’avrebbe potuto ascoltare o registrare.

«Come sta?»

«Ha perso molto sangue. Resterà sotto i ferri per almeno un altro paio d’ore».

Logan inspirò profondamente. «Ascolta, se qualcuno ti chiede cosa è accaduto oggi…».

«Io non ho sentito niente. Non finché qualcuno non si è messo a urlare, lì dentro».

«Janet, l’ispettore capo Steel…».

«Credo proprio che in quel momento stessi ascoltando qualcuno sulla ricetrasmittente, perché non l’ho sentita parlare».

«Janet. Devi dire la verità: niente scuse, niente invenzioni. Un errore si può accettare… insabbiare una cosa del genere, no. Se i nostri rapporti non collimeranno alla perfezione, cominceranno i guai».

Silenzio.

«Janet, hai capito?»

«Sì, sergente».

«Bene». Attaccò. E tornò nel braccio di detenzione.

Sentì la ricetrasmittente suonare.

«Pattuglia Sette, potete parlare?».

Neanche due minuti di tregua… Logan premette il pulsante e parlò contro la spalla. «Dimmi, Maggie».

«Sergente McRae, temo che abbiamo un problema con il turno di stanotte. Il sergente Muir si è rotto una gamba».

Il coro delle celle di Fraserburgh doveva aver raggiunto un punto difficile della sua ultima canzone, perché le parole erano state sostituite da una serie di “la, la, la”, fino a tornare al ritornello.

Logan chiuse gli occhi. «Che è successo?»

«Un incontro poco piacevole con uno springer spaniel. È caduto dalla mountain bike».

«Lasciami indovinare. L’ispettore McGregor vuole qualcuno che sostituisca Muir. E non c’è nessun altro libero?»

«Mi dispiace».

Ovviamente non c’era nessun altro libero.

E tanti saluti all’idea di aiutare Helen a ridipingere il salotto, quella sera. Comunque, almeno era uno straordinario pagato. «Sì, okay. Ci penso io, segna il mio nome per sostituirlo».

Logan fece girare la sedia a destra e a sinistra, più volte. Ogni movimento causava un cigolio acuto, come se il meccanismo fosse piazzato su un topo arrabbiato. «No, sono bloccato al lavoro. Volevo solo controllare che la nuova terapia antibiotica stesse funzionando».

Dall’altro capo della linea, Louise della Sunny Glen Care Home mugugnò appena. «Ci vorrà qualche giorno, ma credo che finalmente siamo riusciti a tenere sotto controllo l’infezione alle vie respiratorie di Sam. E ho parlato con il consulente dell’Aberdeen Royal Infirmary. Il prossimo turno libero per un intervento chirurgico è tra tre mesi. Potresti farlo privatamente, ma ti costerebbe una fortuna, e sarebbero gli stessi chirurghi a effettuare l’operazione, quindi…».

«Fa qualche differenza, per la sua ripresa, se la facciamo operare subito o più tardi?».

La sedia continuò a squittire.

L’ufficio dei sergenti di Fraserburgh era molto più moderno di quello della stazione di Banff. Niente architravi, porte a pannelli o cornici sui soffitti, lì. Era tutto soffitti piastrellati, pareti gialle, mobilia minimalista, computer datati e pavimenti scricchiolanti. E tutto era molto più grande: almeno il triplo delle dimensioni del suo ufficio, con scrivanie tutt’intorno alle pareti e un appendiabiti in un angolo, con giubbotti catarifrangenti e antiproiettile.

«Pronto? Sei ancora lì?»

«Logan, lo so che è difficile, ma ne abbiamo già parlato. Le speranze che Sam si riprenda sono…». Un sospiro. «Ascolta, procediamo un passo alla volta, che ne dici?».

Il suo giubbotto antiproiettile era appeso all’appendiabiti come gli altri, ma a volte il suo peso sul petto non andava mai via. Come in quel momento.

«Pensi che dovremmo procedere con l’intervento tra tre mesi, quindi».

«Sì, infatti. Comunque, adesso devo andare». Fece una pausa. «Abbi cura di te, Logan».

«Okay».

Rimise il cellulare in tasca. Fissò l’enorme edificio vittoriano dall’altra parte della strada, ben visibile dalla finestra.

Ne abbiamo già parlato.

Già. Ma non rendeva le cose più semplici, in ogni caso.

Sospirò profondamente, sentendosi svuotato.

Meglio chiamare anche Helen. Doveva farle sapere che non sarebbe tornato a casa, quella sera.

Rispose dopo due squilli, con il respiro affannoso e la voce di un quarto di ottava più alta del normale. «Sì, pronto?»

«Helen, sono Logan. Ho…»

«Oh, hanno i risultati delle analisi? È Natasha?»

«Ci stanno ancora lavorando. Ascolta, purtroppo sono bloccato al lavoro, stasera. Il sergente che doveva fare il turno di notte si è rotto una gamba».

«Oh… Ma avevo preso le bistecche per cena».

«Lo so. Mi dispiace». Passò un dito su un graffio sulla scrivania, infilando l’unghia sotto il rivestimento di formica. «Come va con il salotto?»

«Avremmo mangiato patatine, funghi e cipolle fritte».

«Stai parlando con qualcuno che si è cibato solo di zuppa di lenticchie per le ultime quattro settimane. Credimi: non sai quanto mi dispiaccia».

La porta dell’ufficio si aprì, e la Steel entrò, accigliata, mettendo su l’espressione di un pesce moribondo. Poi si avvicinò e si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania di Logan, in una valanga di sbuffi e mugugni. «Sono distrutta».

La voce di Helen si fece allegra in modo quasi forzato. «Be’, niente paura: mangeremo le bistecche domani, per stasera mi inventerò qualcosa d’altro».

La Steel si grattò un’ascella. «Hai mica delle patatine?».

Logan fece girare la sedia, dandole le spalle. «Okay, d’accordo. Ci sentiamo dopo. Ciao».

«Immagino che tornerò a dipingere i muri, allora…».

Lui attaccò, rimettendo il telefono in tasca.

La Steel tirò su con il naso. «Allora, con chi parlavi?»

«Solo con… un testimone di un caso. Abbandono di rifiuti. Niente di serio». Logan rigirò la sedia verso di lei. «Come è andata?».

Il pesce moribondo ci diede un taglio. «Che fortuna che Napier sia già qui, no? Almeno non sono dovuta tornare fino ad Aberdeen per farmi spellare viva». La Steel si afflosciò ancora di più sulla sedia, rovesciando indietro la testa e fissando le luci al neon. «Se avessi saputo che Alex era lei e non lui…».

Il senno di poi. C’era davvero da amarlo.

«Forse può farsi dare un passaggio a Banff da Deano. Io dovrò restare qui ancora per un po’». Logan si collegò al computer.

«E, come se questo non bastasse: Susan non potrà venire qui fino a domani. È venuta a trovarla quell’impiastro di sua madre. Ti giuro, non appena mi allontano un attimo da casa, quella donna arriva come un dannato avvoltoio. E ficca il becco dove non dovrebbe». La Steel fece una smorfia rivolta al soffitto. Silenzio. «Sai cosa dovremmo fare, Laz? Dovremmo andarcene in città. Berci qualche pinta di birra, mangiarci un curry e poi innaffiarlo con qualche altra pinta. E al diavolo Napier, e Alex Williams, e l’orribile madre di Susan, e tutti gli altri».

«Non posso: ho una divisione da gestire».

Lei agitò una mano in aria. «Eri più divertente, una volta…». Poi fece una pernacchia. «A pensarci bene, no, sei sempre stato un noioso musone».

«Si senta libera di togliersi dai piedi quando vuole». Logan prese il foglio dei turni del sabato sera e scrisse i nomi e le matricole degli agenti nel taccuino a4 dalla copertina rigida che aveva preso dallo scaffale della cancelleria, elencandoli in base all’area operativa di ognuno. Erano quasi le quattro e mezzo, quindi avrebbero iniziato il turno nelle varie stazioni nel giro di un quarto d’ora, pronti a cominciare un altro magnifico sabato sera pieno di ubriachi da arrestare, risse da placare, atti osceni da fermare.

Già, la gente che vale è tutta nelle divisioni, giusto?

La Steel tirò fuori la sua finta sigaretta e se la ficcò in bocca. «Hai sentito del detective “Cacarella” Dawson?».

Logan si schiarì la gola e mantenne lo sguardo sul taccuino. «È ancora in ospedale, da quel che ho saputo».

Avevano quattro agenti a Banff e altri due a Mintlaw. Ce ne sarebbero dovuti essere sei a Peterhead e quattro a Fraserburgh, ma lì andavano contati anche quelli che dovevano controllare le celle, perciò si riducevano effettivamente a quattro e due. Per un sabato sera.

Se qualcuno si fosse reso conto di quanto fosse esiguo il numero di agenti che avevano a disposizione per controllare tratti enormi della Scozia, si sarebbe scatenato il panico nelle strade.

La Steel si grattò di nuovo l’ascella. «Pensa, se ne sta lì a farsi fare le spugnature da tutte quelle infermiere carine. Bastardo fortunato».

«Che lei ci creda o no, essere ricoverati in ospedale non è piacevole come pensa».

Quindi, avrebbe dovuto mandare due agenti di Banff a Fraserburgh? O uno a Fraserburgh e un altro a Peterhead?

«I medici l’hanno controllato, quando hanno visto che non la smetteva più con la diarrea. E hanno trovato un nodulo».

Forse avrebbe potuto mandare un agente di Mintlaw a Peterhead, e uno di Banff a Fraserburgh. Sarebbe stato un minimo più giusto. Tutti avrebbero avuto un agente in meno, in quel modo, e in fondo Mintlaw non era un covo di… Ehi, un momento. «Hanno trovato un nodulo

«Già. Un tumore. E l’hanno scoperto appena in tempo per salvarlo». Annuì, prendendo un lungo tiro dalla sigaretta elettronica. «Te lo dico io, Laz, mai parlare male di un kebab avariato: può salvarti la vita».

Silenzio.

Lei strinse gli occhi, fissandolo. «Ti senti bene? Sembri uno a cui abbiano appena ficcato un Kinder Sorpresa su per il culo».

Lui chiuse la bocca con uno scatto. Sbatté le palpebre. Poi sorrise. «Sì. Sto bene. Be’, è una buona notizia, no? Una dose di lassativi gli ha salvato la vita. Fantastico».

Perlomeno, ora la Nicholson avrebbe potuto smettere di sentirsi in colpa.

La Steel intrecciò le dita dietro la testa. «Okay, quindi ora che sai che potresti cavartela, come toglieresti di mezzo Napier il Cataclisma Biondo?».

Logan tornò al taccuino. «Non aveva l’omicidio di una bambina da risolvere, lei?»

«Io penso che userei un martello. Lo so, lo so: è un classico abusato, ma penso che mi darebbe più soddisfazione spaccargli la testa che accoltellarlo».

«Non ha la minima idea di cosa fare per quell’omicidio, vero?»

«Le coltellate sono per i ragazzini e i perdenti. Un bel martello, quella che è un’arma seria per una donna». La Steel sollevò un braccio sopra la testa e mimò il gesto di prendere a martellate in testa un immaginario Napier. «Bang, thunk, thud, crack, splinter, squish, squelch…».

«Sa, Helen… Mrs Edwards probabilmente se ne sta da qualche parte a rosicchiarsi le unghie, angosciata, mentre lei è qui a dire sciocchezze».

La Steel sospirò, per poi posare il suo martello invisibile sulla scrivania. «E cosa dovremmo fare?». Iniziò a contare sulle dita. «Non ci sono tracce, non c’è dna, non ci sono testimoni e non sappiamo neanche chi sia. Se riuscissimo a trovare almeno l’arma del delitto, potrebbero collegarla alle schegge di metallo trovate nella ferita alla testa della bambina, ma non serve a niente, se non sappiamo dove sia».

«Ma…».

«L’unico sospetto al momento è Neil Wood, ed è scomparso. Hai ragione, a parte cercare di interrogare di nuovo tutti i dannati pervertiti della zona, prendendoli a schiaffi finché qualcuno non parla, non ho la minima idea di cosa fare». Incrociò le braccia sul petto, sollevando le spalle. «Avanti, Sherlock Holmes, dimmi cosa faresti tu al mio posto».

Silenzio.

Logan si mordicchiò il labbro inferiore. Abbassò lo sguardo sulla penna che stringeva tra le dita. «Be’…».

«Non è così semplice, vero?»

«Un appello nazionale per…».

«Già fatto. E abbiamo scatenato un pandemonio di mitomani». La Steel sollevò il mento. «Qualche altro brillante consiglio?»

«Avete pensato ai movimenti delle maree? Si potrebbe capire dove il corpo…».

«Abbiamo già un gruppo di biologi marini di Aberdeen che ci sta lavorando. Altro?».

Logan tamburellò con la penna contro il taccuino. Guardò fuori dalla finestra, poi abbassò gli occhi sulla moquette. «Qualcuno deve pur sapere dove è finito Neil Wood».

«E rieccoci all’idea di interrogare i pervertiti». La Steel sbuffò. «Accettalo, non stiamo facendo che girare in cerchio, sperando di ottenere qualcosa di nuovo. Dio solo sa come e quando arriverà, quel qualcosa di nuovo, però».

«A tutte le unità, segnalato il furto di un barboncino fuori dal Lidl di Peterhead. Risponde al nome di “Knitted Dough”».

Lei controllò l’orologio. «Tutto questo non ottenere nulla mi sta facendo venire fame. Quando si cena?»

«Ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare».

«Non appena ti viene in mente, fammelo sapere e me ne prenderò il merito».