CAPITOLO 34

Il bambino incappucciato rimase immobile nel centro della stanza. Sembrava sapesse già cosa fare, aspettava istruzioni in silenzio. Luca si guardava in giro in cerca di un piano, ma era chiuso in una cantina senza via d’uscita.

Notò che vi era persino la ventilazione forzata, per evitare odori stagnanti.

Non vi erano finestre da dove poter fuggire.

Ma dovevano andarsene.

Per prendere tempo si tolse la maschera che Pietra gli aveva lasciato. Sicuramente li stava osservando. La plastica nera dell’ennesima finzione puzzava di sudore e detersivo. Pietra l’aveva lavata, ma qualcun altro l’aveva già usata.

La osservò in cerca di qualche indizio.

«Indossa la maschera» disse la voce proveniente dall’altoparlante. Metallica, vecchia, gracchiante.

Di malavoglia se la rimise. Non sapeva ancora cosa fare.

La maschera gli copriva solo gli occhi, ma tanto bastava per farlo sembrare l’uomo nero. L’elastico gli stringeva dietro la testa, sulle orecchie. Non poteva allargarlo, ma la sensazione si abbinava al dolore che sentiva al ginocchio.

Il bambino era immobile. Avrebbe voluto chiamare Martina, ma aveva ancora la freddezza di non far saltare la copertura. Avrebbe voluto abbracciarla, tranquillizzarla, infonderle coraggio. Doveva parlarle, cercare di dirle qualcosa che la rasserenasse.

Non riuscì a fare nulla di tutto ciò. Era sceso in un tunnel da cui non trovava uscita.

Fece un passo verso la piccola.

Improvvisamente, si accesero i piccoli fari intorno al letto. Potenti luci che avrebbero aiutato e supportato le riprese, per evidenziare meglio i particolari, soprattutto nella bassa qualità di Internet.

Erano tre le telecamere che aveva notato: una centrale, per riprendere il totale della scena, e due laterali, per osservare meglio i particolari dei protagonisti. Si misero in posizione, comandate a distanza. “Manca solo il braccio meccanico che vola sulla stanza”, pensò Luca, “il dolly delle grandi riprese hollywoodiane.”

Lo spettacolo stava per iniziare.

Sulle telecamere si accese la luce rossa della registrazione.

Luca non poteva più rimandare.

Anzi, sì.

Lasciò la bambina dove si trovava, incappucciata all’ingresso della stanza, fuori dalla scena.

Guardò il resto dello spazio intorno a sé.

Avrebbe voluto cagare su quel letto, dimostrare il proprio disprezzo defecando di fronte a Pietra e al mucchio di spettatori che stava guardando. Ma ai loro occhi sarebbe sembrata solo una perversione, non un atto di ribellione. Come quell’attesa, che per molti era solo un modo per aumentare la libido.

La rabbia gli cresceva nelle mani.

Una vodka, solo una per reggere la situazione. “Il mio regno per un cavallo”, recita Riccardo III nell’opera di Shakespeare, ma Luca non aveva un regno, non aveva più niente da dare in cambio per la salvezza.

Rimase immobile a guardare il pavimento.

Martina, rimani immobile anche tu, ti prego.

La creatura, poco lontana da lui, non si mosse. Purtroppo sapeva già che le perversioni sono molte e mutevoli per ogni persona. Per lei poteva essere l’ennesimo gioco.

Passarono i minuti. Nessuno diceva niente.

Luca aspettava. Pietra si sarebbe spazientita e sarebbe sicuramente scesa.

«Allora?» chiese ancora la voce metallica.

Luca non rispose. Si sdraiò sul letto. La puzza di candeggina gli riempì le narici. Si mise su un fianco, in posizione fetale, e chiuse gli occhi cercando di rilassare il più possibile i muscoli del volto, senza serrare i denti. Le mascelle contratte mostravano tensione, voleva sembrare rilassato. Fece anche lunghi respiri per distendere i nervi.

Martina, stai ferma.

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Pietra doveva aver già venduto quello spettacolo. Non poteva rimanere troppo tempo collegata per uno snuff movie dove non succedeva nulla. Se Pietra avesse interrotto, avrebbe perso un sacco di soldi.

Voleva farle perdere la pazienza. Ma quando sarebbe successo?

«Vai verso il letto, 52» disse la voce metallica di Pietra.

Martina, rimani ferma!

Luca tenne gli occhi chiusi. Non sentì alcun passo. Voleva sorridere, ma rimase impassibile.

Il suo naso toccava quasi il copriletto. Emanava lo stesso odore di sudore e detersivo della maschera. Ma anche di piscio e sperma. La candeggina non aveva tolto quel disgusto, l’aveva accentuato.

Non voleva eliminare anche il leggero copriletto. Temeva di sentire l’odore del sangue.

Non doveva pensarci.

Stava digrignando i denti. Doveva rilassarsi, mostrarsi tranquillo, innervosire Pietra.

Lei si sarebbe spazientita, sarebbe scesa, tornata in quella cantina trasformata in uno studio TV, e Luca l’avrebbe sorpresa. L’avrebbe colpita con qualcosa, dietro la nuca, dove gli avevano insegnato in polizia, nei corsi che ogni tanto era costretto a fare.

Non aveva mai pensato di utilizzare quelle mosse, non era mai stato un agente operativo. Adesso era dall’altra parte dello schermo e per sopravvivere aveva scelto l’immobilità.

Aveva scelto.

Calò nuovamente il silenzio.

Martina, stai lì, sto per arrivare.

Lunghi secondi che non passavano e in cui lui doveva rimanere immobile.

Dove erano le ellissi temporali? Le dissolvenze dei film? Il tempo sembrava essersi fermato.

Attese che quel nervosismo avvolgesse anche Pietra, che le facesse commettere qualche errore.

Silenzio. Un lungo tremante silenzio.

Un colpo secco.

Finalmente.

Dei passi.

Molti passi.

Luca immobile sul letto.

Rumore di vetri rotti. Pietra doveva aver perso la pazienza. Finalmente.

Altri passi e colpi. Stava distruggendo qualcosa. La rabbia la stava invadendo, non sapeva controllarla. Luca ne era convinto, soddisfatto.

Tra poco quella donna sarebbe scesa.

Luca aveva bisogno di un piano: si sarebbe alzato dal letto appena avesse sentito i passi sulle scale. Ma doveva prepararsi. Cercare qualcosa che sarebbe servito come arma. Aprì gli occhi e cercò di guardarsi in giro.

Martina era ancora immobile al centro della stanza. Lui non riusciva a pensare, ma doveva farlo per lei.

Cercò di individuare qualcosa intorno che potesse usare come arma. Sarebbe bastato un martello, un’asse di legno, una scopa, un bastone.

Non vide niente, ma non poteva muoversi.

Finché non sentì i passi sulle scale.

Martina, ci siamo, rimani ancora immobile. Tra poco arrivo.

Dalla scala il silenzio.

Passi di una corsa dal piano superiore.

Vetri rotti. Ancora.

Non digrignare i denti, Luca.

Altri rumori sordi, poi il silenzio.

Una corsa veloce per le scale.

E se fosse stata armata? Doveva colpirla subito.

Luca scattò in piedi.

Andò verso l’archivio.

Cercò di aprire un cassetto del mobile di legno.

Era chiuso a chiave.

Buttò a terra il mobiletto e fece forza con mani e piedi.

La serratura saltò.

Prese un cassetto.

Rovesciò d’istinto tutto il contenuto per terra.

Le schede dei bambini finirono sul pavimento. Erano cadute le foto di decine di piccoli. Sorridenti o meno. Nudi o vestiti.

Tutti lo guardavano.

Tutti chiedevano vendetta o giustizia.

Tutti volevano tornare a casa.

Cercò di non guardare quelle foto.

Il cassetto vuoto sarebbe stata la sua arma. I pugni non bastavano per chi li aveva presi fin da piccolo. Sarebbe stato come colpire Superman senza essere un supereroe.

Prese Martina per un braccio, per scostarla dalla direzione della porta. La strattonò. Lei lo lasciò fare, abituata a quelle maniere, non oppose alcuna resistenza.

Il braccio era magro, troppo magro, pensò Luca.

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Passi sempre più veloci sulle scale.

Doveva rimanere concentrato.

La porta.

In posizione.

I passi erano vicini.

La serratura.

Il cassetto di legno sopra la testa, pronto a colpire.

La maniglia si abbassò. La porta si aprì leggermente.

Troppo piano, troppa prudenza.

Luca decise per la sorpresa. Sempre secondo Sun Tzu e L’arte della guerra, la sorpresa è un altro fattore fondamentale per la vittoria della battaglia. Utilizzata al meglio, può decidere subito l’esito dello scontro.

La porta si aprì quanto bastava. Luca fece scendere il cassetto come un fendente. Colpì al braccio Pietra, ed era pronto a colpire ancora. Non doveva darle il tempo di estrarre la pistola. L’avrebbe uccisa se necessario, anche a mani nude. A colpi sul capo.

«Fermo!» sentì ripetuto più volte. Ma il Cieco non badò a quelle parole. Chissà quante volte Pietra le aveva sentite dire da quei bambini.

Luca era diventato un giudice.

Colpì, colpì e colpì ancora. Lui non sentiva dolore, probabilmente lei non aveva nemmeno reagito. Ma non si voleva fermare. Quello che aveva passato lui, che aveva passato Nicole, che aveva subìto Martina, non lo avrebbe dovuto subire mai più nessuno.

Le braccia gli facevano male.

Colpì ancora. Urlò, ma solo per non sentire altro intorno a sé.

«Luca!»

Non poteva fermarsi.

Un altro colpo. Sentì spezzarsi un osso della sua vittima.

Un urlo, si sentiva quasi liberato, felice. Ma non si fermò.

«Cieco! Luca! Basta!»

Il cassetto venne bloccato dall’alto, prima che fosse sferrato un nuovo colpo.

Qualcun altro lo aveva immobilizzato. Forse un complice, forse i vicini erano d’accordo, ecco perché non dicevano nulla.

Luca cercò di vedere meglio tra i buchi della maschera, per colpire il proprio bersaglio a calci e pugni. Non poteva fermarsi. Il cuore andava talmente veloce che sembrava non battere nemmeno.

«Luca!» La voce sotto di lui non urlava più.

Come faceva a sapere il suo vero nome? La persona che gli aveva preso il cassetto gli bloccò anche le braccia.

Era immobile. Ma lui lottava ancora, doveva ribellarsi. Non conosceva altre tecniche di lotta, se non quelle dei corsi, ma contro più persone non aveva speranze.

Non doveva arrendersi. Doveva farlo per Martina che era lì, immobile, ad aspettare di essere liberata. Per tornare a casa grazie a lui.

Si agitava e dimenava. Non sentiva nessuno. Fino a quando un ferro, una pistola, non gli si piantò sulla fronte. Solo allora cercò di respirare e capire, per riorganizzare la propria difesa. Non poteva nulla contro la pistola.

«Calmati, Cieco» sentì una voce alle sue spalle.

«Luca, stai fermo» proseguì un’altra di fronte a lui.

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Come se stesse uscendo dalla nebbia, dalla dissolvenza di una favola, vide il volto davanti a sé materializzarsi dietro quella pistola.

L’arma veniva allontanata dai suoi occhi e Bono stava riprendendo un’espressione più rilassata, anche se dolorante.

«Mi hai rotto il braccio» disse toccandosi l’arto sinistro. «Mi prenderò qualche giorno di malattia, testa di cazzo.»

Luca non capiva. Cercò di ricostruire quanto accaduto: aveva sentito dei passi, era iniziata la diretta. E poi? Cos’era successo?

La bambina.

Le domande le avrebbe fatte dopo.

Senza dire una parola, si liberò dalla presa di chi lo teneva alle spalle. Vide con la coda dell’occhio la mole dell’uomo, il Santo. Non capiva cosa fosse accaduto, ma non aveva tempo di fare collegamenti.

La sua bambina lo aspettava.

Il tempo si era fermato. O meglio, era diventato lento, come quei sogni in cui immagini di correre e sei invece pesante, molto pesante. Corri, corri, ma non riesci ad arrivare alla destinazione prefissata.

Lo sguardo di Luca era perso, incredulo e colmo di gratitudine allo stesso tempo. Il Santo non faceva mai sorrisi, ma in quel momento avrebbe giurato di aver visto qualcosa sul viso dell’amico.

«Devo proprio spiegarti tutto» disse il Santo mentre si chinava per togliere una scarpa a Luca.

«Cosa diavolo…?»

Il Santo tirò fuori dall’interno del tacco una piccola trasmittente, sottilissima. Quanto bastava per segnalare la sua posizione.

Luca si era rifiutato con Bono di mettere qualsiasi localizzatore, avevano il segnale del telefono cellulare al massimo. Non voleva correre il rischio di perdere la fiducia di Pietra. Aveva anche litigato con il Santo che gli aveva proposto la stessa idea. «Niente aggeggi» gli aveva detto Luca, come se volesse espiare una colpa, fino in fondo.

Nella sua rudezza, il Santo era un uomo scrupoloso. Forse mentre dormiva al motel gli aveva piazzato la trasmittente. E poi, doveva essere stato lui a contattare Bono, andando oltre la propria riluttanza a parlare con i poliziotti.

Sentì uno spintone alle spalle. Era proprio il Santo che lo invitava rudemente ad andare dalla bambina. Sentì l’odore di sudore di altre persone entrargli nella pelle e si tolse quella ridicola maschera.

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La piccola era ancora incappucciata, a pochi metri da lui, immobile. Possibile che nessuno l’avesse ancora aiutata? Ma erano passati solo pochi attimi. Un’eternità per Luca.

Andò da lei, e il tempo era come se si fosse sbloccato.

Era di fronte alla creatura. Non la riconosceva dal corpo. Erano passati due anni.

Il cuore gli batteva forte.

Nonostante i rumori di poco prima, era rimasta immobile.

Le mise una mano sul braccio nudo e la piccola ebbe come un brivido.

«Non ti preoccupare, sono qui per aiutarti, non ti farò nulla.»

Chissà cosa aveva passato in quei mesi, o anni, pensò Luca.

Il cappuccio aveva un doppio nodo, non facile da sciogliere. Segno che Pietra faceva rimanere incappucciati quei bambini per le riprese. Magari lo faceva togliere solo per costosi incontri privati.

Sciolse il nodo.

La bambina teneva le braccia lungo i fianchi. Era immobile. Quasi sicuramente l’inerzia era la sua unica difesa. Luca avrebbe voluto che lei lo toccasse, che si muovesse, che gli facesse sentire che era viva.

Ma ci sarebbe stato tempo per quello. Avrebbero lavorato insieme per uscire da quell’incubo.

Sollevò il cappuccio. Lentamente.

Lei lo bloccò. Come se quel sacco, ormai, fosse parte di sé.

O forse solo per vergogna.

Oppure come un elmo, una protezione.

Luca aveva paura di vedere sua figlia.

Appoggiò una mano su quella di lei. Per tranquillizzarla.

«Tranquilla» disse con dolcezza.

La piccola si lasciò sfilare il cappuccio.

“Scusa”, avrebbe voluto dire lui. Voleva abbracciarla.

Luca chiuse gli occhi.

Volevo solo farti felice. Ti ho perso, è tutta colpa mia. Perdonami.

Il cappuccio cadde a terra.

Aprì gli occhi e vide Martina. Sorrideva. Non era cambiata. Gli ritornò in mente tutto: le fossette, i capelli lisci, il volto pulito e paffutello. Ricordava ogni cosa. Era lo stesso viso da piccola simpatica peste che aveva quel giorno sulla spiaggia. Quel viso che aveva visto prima di immergersi per quelle cazzo di conchiglie.

Scusa, piccola mia, non ti perderò più.

Luca sentì gli occhi che gli si bagnavano. Le lacrime offuscavano la sua vista. Li asciugò per un attimo, un battito di ciglia, per vedere meglio la sua bambina.

Dopo quel battito, la piccola Martina non c’era più.

C’era un bambino coi capelli ricci, scuro, intimorito. Uno sconosciuto che stava per scoppiare a piangere. Intorno a Luca erano tornati il rumore e la confusione.

Il tempo aveva ripreso a scorrere.

Il piccolo lo guardava in cerca di aiuto.

«Dov’è Martina?» chiese Luca sottovoce.

Il piccolo non rispondeva e lo guardava spaesato. Aveva paura.

Bono si avvicinò e appoggiò le mani sul bambino. Il piccolo si scostò d’istinto, impaurito. Il commissario si abbassò e lo tranquillizzò con calma: «Tuo padre è qui fuori, ti aspetta.»

Luca osservò la scena immobile. Dov’era Martina?

«Andiamo» sentì dire dal Santo che gli si era avvicinato, aiutandolo a mettersi in piedi.

Luca non si mosse.

Aveva visto sua figlia, ma dov’era? Era lì, aveva lottato per lei.

Luca salì le scale della cantina, accompagnato dal Santo. Vide nel salotto Pietra, su un divano, ammanettata, che opponeva il silenzio e uno sguardo vuoto all’interrogatorio dei poliziotti.

Altri agenti scesero di sotto, avevano attrezzi da scasso e sigilli.

Luca tornò a guardare il salotto e incrociò lo sguardo di Pietra. Sembrava impassibile, ma lui vi lesse un sorriso.

Quel silenzio, per lei, equivaleva a una vittoria.

Dovevano trovare gli altri bambini, farla parlare, ce n’erano molti. Tanti. Ma non sarebbe stato facile.

Un agente stava avvolgendo il bambino con una coperta.

Dov’era Martina?

Si ricordò della foto che aveva nella tasca dei pantaloni, l’unica che avesse portato con sé, per sentire Martina sempre vicino a lui, per ricordarsi in quali condizioni si trovasse. Era la foto più recente che avesse, quella che gli aveva dato il Damerino, per convincerlo a entrare in quello schifo di ricerca.

La trovò, era tutta spiegazzata.

Si liberò dalla presa del Santo.

«Fermo» gli disse l’amico.

Luca corse verso Pietra.

I poliziotti lì vicino tentarono di bloccarlo. Il primo che lo toccò si prese un pugno da Luca.

Bono vide la scena e con un gesto fermò gli altri poliziotti.

Luca arrivò di fronte a Pietra. Lei lo guardò, si scrutarono.

Lui era quasi in ginocchio. Con calma, le mostrò la foto spiegazzata. «Dov’è mia figlia?» chiese pacatamente.

Pietra guardò la foto. Poi tornò a guardare Luca e ancora la foto. Lo sguardo della donna finì poi su Bono.

«Luca, fermati» gli disse l’amico.

«Voglio solo sapere» rispose lui.

Ma lo sguardo gli cadde sulla foto che teneva tra le mani.

Non era Martina. Era quel bambino riccio. Il figlio del Damerino. Quello che l’uomo di merda aveva ceduto per una partita a poker andata male.

Bono si avvicinò. «Hai fatto quel che dovevi, è finita.»

Eppure era la stessa foto, la stessa posa, le stesse pieghe.

Non c’era mai stata Martina in quella foto.

Luca sentì le gambe molli. Non si reggeva più in piedi. Si fece trascinare dal Santo fuori dalla casa.

Non capiva, o meglio, non voleva capire.

Anche quel bambino si meritava di tornare alla vita. Ma dov’era la sua Martina? Lei gli aveva sorriso, si erano guardati. Lei lo aveva perdonato.

«L’hai trovato» gli disse il Santo, accanto a lui, mentre si appoggiavano a una macchina della polizia.

Intorno vi erano altre auto, altri poliziotti, un dispiegamento di forze spropositato per una persona sola.

Un volontario della Croce Rossa gli chiese se fosse tutto a posto. Luca non rispose e il Santo fece cenno di sì con la testa.

Il volontario, non soddisfatto, diede a Luca una bottiglia d’acqua.

«Forse dovrebbe farsi medicare meglio quell’occhio» disse il corpulento volontario. Luca lo guardò con sguardo assente e l’uomo se ne andò.

«L’hai trovato, Cieco.»

Luca lo guardò, voleva dirgli di Martina, che l’aveva vista. Ma non gli uscirono le parole dalla bocca.

Martina non c’era mai stata. In nessuna foto. In nessun indizio. La strada che aveva percorso non era quella di sua figlia. Era lui che aveva voluto vedere il volto della figlia in quell’immagine, si era inventato tutto, aveva sperato, aveva lottato. E adesso non aveva niente. Solo un ricordo.

Guardò la casa da dove era uscito. Una come tante, in un quartiere come tanti, in un paese o città come tante.

«Devo rientrare» disse Luca.

«Non puoi, stanno sigillando tutto» lo fermò Bono che era arrivato in quel momento per vedere come stesse l’amico.

«In cantina c’è un archivio.»

«L’abbiamo visto.»

«Devo vederlo.»

«Stiamo controllando noi.»

«Martina…»

«Lì dentro non c’è.»

«Deve esserci» disse Luca chiudendo gli occhi.

«No, amico mio, ho già guardato tutte le foto.» Il commissario gli appoggiò una mano su una spalla, poi dovette rispondere a degli agenti che lo chiamavano per portare Pietra in questura per il primo interrogatorio.

«Dobbiamo trovare gli altri bambini» aggiunse il commissario congedandosi, «grazie a te.»

Luca lo guardò andare via e incrociarsi con il Damerino che usciva dalla casa in quel momento, abbracciando il suo bambino.

Un uomo di merda, corrotto, senza palle, che aveva fatto uccidere la moglie e che aveva perso il suo bambino giocando a carte.

Eppure, lui stava per avere una seconda possibilità come padre.

Luca nemmeno quella.

Quel bambino meritava di vivere e avere una nuova occasione. Come tutti i bambini. Era giusto che anche il padre ce l’avesse.

Come tutti i genitori.

Luca non l’aveva avuta.

Martina non c’era.

Incrociò lo sguardo del Damerino. Lo vide sorridere. Era un ringraziamento. Luca l’avrebbe voluto picchiare. L’uomo abbracciava suo figlio, lo teneva stretto, lo proteggeva. Il bambino aveva lo sguardo nel vuoto, ma stringeva il padre. Chissà quando se lo sarebbe giocato di nuovo a poker. Non ci voleva pensare, ma era una sofferenza vedere quella scena: quel bambino non meritava quel padre.

E lui, Luca? Che padre era stato?

Che padre meritava Martina?

Fu il Santo a interrompere i suoi pensieri, come se gli leggesse nella testa. «Pensa solo al bambino.»

Arrivarono alla vecchia Fiesta arrugginita. Luca appoggiò le mani sul tettuccio e chiuse gli occhi.

Gli faceva male lo stomaco. Voleva una vodka, liscia. Subito. Anche il ginocchio ormai non lo sorreggeva più. Strinse i denti e rivide il sorriso di Martina. Adesso si ricordava il volto della figlia. Dalla sua scomparsa non era più riuscito a vederne il viso, era come annebbiato, anche nei sogni.

Lei gli aveva sorriso, quando aveva tolto il cappuccio al bambino. Era serena. O così la stava vedendo lui.

Doveva immaginarla così, pensò, o sarebbe impazzito.

Non è stata colpa tua, papà.

Così diceva quel sorriso.

E lui ci credeva, lo sapeva. Ma tutto rimaneva senza un perché. Se non era una punizione, cos’era?

Martina non c’era più. Avrebbe dovuto fare i conti con quella realtà.

Non è colpa tua, papà.

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Il primo grande passo era stato fatto. Era uscita dalla porta di casa. Poteva farcela a fare gli altri.

Dopo la telefonata di Roberto, Nicole aveva deciso che non sarebbe bastato mettere in una scatola gli oggetti di Martina.

Non sarebbe bastato smettere di scriverle quelle stupide lettere.

Non sarebbe bastato nulla.

Il frusciare degli alberi sarebbe rimasto per sempre. Avrebbe solo dovuto accettarlo: non puoi capire il mondo per cercare di vivere, lo puoi solo accettare. E cercare chi è simile a te.

E così aveva deciso di andare a cercare Luc. Lo voleva con sé, non sapeva dove fosse, ma avrebbe aiutato Roberto a trovarlo. O almeno ci sarebbe stata se lo avessero trovato.

Era andato via per lei, per tornare da lei.

E Nicole sapeva di dover andare da lui. Nulla sarebbe tornato come prima, niente torna come una volta. Ma si può sempre cominciare di nuovo, ogni giorno.

Un passo alla volta.

Adesso era scesa dalle scale. Era nell’atrio del palazzo. Un altro sforzo e avrebbe aperto la porta a vetri che dava sul piccolo giardino. Quello dove giocava con Martina.

Chiuse gli occhi, prese un respiro.

Li riaprì e oltre il vetro lo rivide.

In fondo al vialetto, a pochi metri, c’era lui.

Luc.

Si era fermato. L’aveva vista.

Non sorrideva. Si era bloccato al di là del cancelletto.

Immobile, in attesa che lei andasse da lui. Che finalmente respirasse l’aria del mattino, libera dalla prigione che si era costruita.

Si guardarono negli occhi, nero contro verde.

Nicole non rivide Martina in quello sguardo. Sentì Luca, il suo Luc. Distrutto dal dolore, come lei. Non un albero che cammina. Ma suo marito, l’uomo che aveva sempre amato e che amava ancora.

Mise un po’ di forza nella mano che sembrava bloccata sulla maniglia. Aprì la porta a vetri, si fece coraggio e uscì.

Si sentì invasa dall’odore del gelsomino. La piccola siepe che aveva piantato insieme a Luc anni prima. I fiori stavano per sbocciare. Come ogni anno. Le piaceva quel profumo. Le diede ulteriore coraggio.

Inspirò.

Luca l’aspettava. Come se volesse incoraggiarla.

Il cancelletto già aperto. Non li separava più alcuna barriera fisica.

Lei fece un nuovo passo e sentì l’aria che le avvolgeva il viso, frizzante, fresca. Bella.

Luc fece un cenno, un passo verso di lei.

Nicole lo fermò alzando una mano, senza dire nulla. Lui si immobilizzò.

Lei prese un lungo respiro, chiuse gli occhi, e corse verso di lui.

Veloce. Fino ad abbracciarlo.

Lo investì. Quasi caddero a terra.

Calore. Lacrime. Paura. Sentiva che anche lui stava provando quegli stessi sentimenti.

La stringeva. Senza paura di farle male.

«Niki… non…» le disse lui.

Lei gli appoggiò un dito sulla bocca. «Lo so, Luc…»