CAPITOLO 32

La vecchia Fiesta si fermò. Luca non capiva dove fossero. Era pieno giorno, il cappello abbassato sugli occhi gli impediva di guardarsi intorno. Non voleva irritare Pietra, e aspettò. Dal silenzio che avvolgeva tutto capì solo che non c’erano molte case.

La donna spense la macchina, l’autoradio continuava a emettere voci non sintonizzate. Il vecchio modello dell’auto del Santo funzionava così, ecco perché aveva cambiato tante batterie, ci vuole poco a scaricare tutto dimenticando la musica accesa. L’ironia del momento colpì anche quella situazione: dagli altoparlanti uscivano a fatica e disturbate, quasi vomitate, le note di Knockin’ on Heaven’s Door nella versione lunga dei Guns N’ Roses. “Si sta facendo scuro, troppo scuro per vedere, è come se stessi bussando alle porte del cielo”, recitava il brano in inglese.

Avevano ascoltato la radio per tutto il viaggio. Tra lui e Pietra non vi era stata nessuna parola, nessun chiarimento. Forse erano passate un paio d’ore, molte delle quali a girare in tondo, pensò. Due ore di silenzio, una guida tranquilla, rispettando i limiti e tutte le indicazioni stradali, come un principiante, per non incappare in uno dei tanti, e inutili, controlli di carabinieri e polizia che c’erano sulle strade del Nord Italia. Controlli buoni soltanto per fare qualche multa per i fanalini rotti.

Luca aveva perso qualsiasi punto di riferimento, e sicuramente non avrebbe saputo tornare dov’erano arrivati. Chissà come avrebbe fatto a rientrare a casa. Se lei glielo avesse permesso.

Pensò a Nicole, alla medicazione che gli aveva fatto. Il ginocchio faceva male, ma il dolore era meno acuto. Quasi lo avesse preparato per un viaggio, per l’impresa che avrebbe dovuto compiere. Come il cavaliere che deve affrontare un nuovo combattimento per la libertà di entrambi. Come la loro vita insieme che sarebbe dipesa soltanto da quel combattimento. Doveva resistere.

«Togli il cappello» ordinò Pietra scendendo dall’auto.

Luca eseguì. La luce lo accecò. C’erano una serie di villette, a schiera e singole, un bel quartiere pulito e ordinato. Sembrava una di quelle zone residenziali di telefilm americani come Desperate Housewives. Storie dove quello che conta è soprattutto la vernice sulle pareti della casa, che sia pulita e in armonia con tutto il resto della via.

Agli occhi di quelle finestre indiscrete doveva sembrare un ospite. Ma i vicini ficcanaso non esistono più. O meglio, ci sono ancora, ma guardano, godono, e poi tornano a farsi i fatti loro e dimenticano tutto. È più comodo scordare che affrontare la realtà e la propria coscienza.

Luca prese la valigetta, scese dall’auto e si guardò in giro. La nebbia era sparita e le strade erano asciutte. Vide un gran nuvolone nero in lontananza. Si avvicinava velocemente. Non c’era nessun cartello che lo aiutasse a capire dove si trovasse.

«Entriamo» gli disse Pietra, che intanto aveva scoperto i capelli crespi, forse una volta anche belli, ma oggi quasi sporchi, raccolti in un’inutile coda, piegati da anni di incuria.

Era come un imperatore che si avvicina al proprio regno: aumentano le sicurezze per la propria persona, si abbassano le difese. Luca si ricordò di Sun Tzu nel suo libro L’arte della guerra: il padrone di casa è sempre avvantaggiato dalla conoscenza del proprio terreno. Non per la tifoseria, non per il sostegno morale, non per l’amore per la propria casa. Solo per la semplice conoscenza del posto in cui vive.

Ma quella non era una guerra, pensò Luca. Era lì per un motivo. In quel momento avrebbe voluto tirare fuori la foto della sua piccola, di Martina. Voleva guardarla, costringere Pietra a dirgli dove la tenesse, con qualsiasi mezzo. La foto si trovava nella tasca posteriore dei pantaloni, era quella che gli aveva dato il Damerino. Ormai era come se non gliene fregasse nulla del figlio di quell’uomo, gli interessava solo di Martina.

Sentiva un selvaggio impulso di violenza che avrebbe voluto usare su quella donna per farla parlare. Metterle le mani addosso, farle capire che quanto le era accaduto in passato non sarebbe stato nulla in confronto a quello che lui le avrebbe fatto: le mani al collo, un bastone in bocca, calci nello stomaco. Quanto sarebbe stato necessario. Che fosse una donna non gli importava nulla.

Sapeva, però, che lei non avrebbe detto niente. Aveva subìto troppo per cedere a inutili e stantie minacce che sicuramente lui non avrebbe mai applicato fino in fondo.

Forse.

La casa verso cui si stavano dirigendo aveva i mattoni a vista. Come quasi tutte le altre del circondario. Non c’erano palazzi, i giardini erano piccoli. Il portone era di legno massiccio. Pietra vi infilò una lunga chiave.

Knockin’ on Heaven’s Door.

Che paradiso del cazzo. Era solo e avrebbe dovuto affrontare la situazione in quella maniera. Si chiese se Pietra lavorasse con qualcuno. Se così fosse stato, non sarebbe uscito vivo di lì.

Prima di entrare, diede ancora un’occhiata alla strada: nemmeno un segnale, neanche un cartello. Le nuvole avevano ormai coperto tutto. Quasi sicuramente sarebbe piovuto. Era come se stesse dando un ultimo saluto al mondo.

Che visione di merda.

Entrò nella casa.

La canzone non gli usciva più dalla testa: “Si sta facendo scuro, troppo scuro per vedere.”

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Bono era nella macchina di servizio con il lampeggiante blu che scorreva veloce sull’autostrada. Auto scura: una Fiat Marea potenziata. Non potevano mettere la sirena. Avrebbero allertato troppe persone. Infrangevano comunque tutte le regole del codice della strada. Loro potevano.

Poco distante Spallucci, con il suo autista che faticava a stare dietro alle macchine della polizia. A Bono non importava nulla: che quell’uomo morisse all’istante in un incidente. Purtroppo non sarebbe accaduto. Muoiono solo i disperati in quel modo, nelle disgrazie. I potenti, i politici, i corrotti o i boss mafiosi sono sempre protetti da una stella. Una stella marcia che mantiene l’equilibrio del mondo.

Sul sedile posteriore, il pivellino seguiva su un computer portatile il segnale del Cieco. Il giovane dava indicazioni perfette all’autista. Quel giovane non era così male, pensava Bono, forse aveva bisogno di trovarsi in una situazione estrema per far emergere le sue qualità. Ma sicuramente, per ora, gli mancava lo spirito intraprendente di Luca.

Non poteva rimpiangere l’amico a vita. Il pivellino sarebbe cresciuto, cambiato. Era anche suo dovere aiutarlo a imparare al meglio.

Ma non gliene fregava un cazzo. Era stufo di dover pensare sempre a tutto. Nessuno aveva mai pensato a lui. Aveva sgomitato, lottato, sbagliato, distrutto quello che lo circondava.

Bono non si sentiva un disperato a cui sarebbe capitata una disgrazia. Luca era un disperato. Lui, invece, si sentiva uno stronzo, corrotto e corruttore. Per la legge di questo mondo, sarebbe sopravvissuto a lungo. Luca, no.

«Ci siamo quasi» disse il pivellino, «esci dall’autostrada, alla prossima.»

Il segnale si faceva sempre più vicino.

«Si sono fermati» aggiunse il ragazzo.

«Dove?» chiese Bono.

«A circa venti chilometri da qui. Un paesino di campagna.»

Un quarto d’ora e avrebbero liberato Luca, pensò Bono. Ma soprattutto avrebbero preso il responsabile trovando il figlio di Spallucci. Un’altra operazione che aveva concluso grazie al Cieco, la prima dopo due anni. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo. Due anni passati tra mazzette e letti di puttane. Adesso stava provando piacere a fare qualcosa di giusto. Era una bella sensazione. In futuro non avrebbe abbandonato soldi facili e troie, ma serviva qualcosa per bilanciare quella sensazione, qualcosa che lo appagasse.

Mancava solo un incidente “giusto” alla macchina che li seguiva, a Spallucci.

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La casa, all’interno, sembrava finta. Una via di mezzo tra i bed and breakfast inglesi, con tazzine e ammennicoli sparsi ovunque in teche espositive, e una vecchia casa delle bambole. Tutto pulito, tutto in ordine. Non era asettica, pensò Luca, ma aveva una personalità artefatta. Come nei thriller americani, dove lo psicopatico di turno ha sempre la casa perfettamente a posto. Per molti è segno di un disordine mentale esteso. Ma è una minchiata. Pietra non aveva alcun disordine mentale: stava facendo rispettare al mondo il proprio ordine, lo stava imponendo dominando gli altri. Stava esprimendo se stessa e quella che considerava arte.

Attraversarono in silenzio il corridoio di quella casa a due piani. Vide il salotto, uguale alle stanze precedenti, con tazzine dipinte a mano sparse dappertutto. Vide la cucina, con il classico tavolo all’americana al centro della stanza.

Arrivarono di fronte all’ingresso del sottoscala: una piccola porta di legno, con la vernice azzurrina che saltava via a pezzi, portava in cantina. Era il primo segno di disordine, quasi voluto, come un avvertimento dantesco per gli intrusi, per coloro che si avventurano alle porte dell’inferno. Un altro inferno. Quello con le fiamme vere. “Dinanzi a me non fuor cose create | se non etterne, e io etterna duro. | Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate.”

«La valigetta» gli disse Pietra prima di aprire la porta.

«Adesso?» Luca prese tempo.

«Altrimenti quando?»

«Prima il servizio, poi te la consegno.»

«Voglio almeno vedere il contenuto.»

Quella donna dai capelli di paglia e dagli occhi di ghiaccio aveva la decisione nella voce. Luca notò solo in quel momento un sopracciglio leggermente calato rispetto all’altro. Capitava di solito ai pugili, per i numerosi colpi presi negli anni di ring. O a chi ha preso una marea di botte, pugni e calci per altrettanti anni. Era un’altra conferma sul passato della donna che aveva di fronte. Non era un mostro, era una persona che aveva avuto e aveva ancora dei problemi da affrontare, da gestire. Luca non doveva provare pietà, era necessario rimanere distaccato, freddo, attento a non scoprirsi troppo. Non poteva permettersi di umanizzarla o comprenderla.

Nella cantina c’erano quasi sicuramente dei bambini che aspettavano il loro destino, tra cui Martina. Morte o vita. E Luca era da solo.

«Voglio scegliere i bambini» disse deciso Luca.

«L’accordo è per un bambino solo.»

«Okay. Ma lo voglio scegliere io.»

Lei rimase in silenzio. Sostenne lo sguardo di Luca.

Accordo fatto.

«La valigetta. Aprila» disse infine lei.

Luca non poteva più rimandare. Spostò i fiori finti dal tavolino appoggiato al muro del sottoscala. Vi posò la valigetta, compose la combinazione della vecchia ventiquattrore nera e la aprì. Lasciò esaminare a Pietra il contenuto.

Lei si avvicinò e controllò tutte le carte, una per una. Vide le foto e prese in mano i CD con i file. Alcuni avevano anche l’annotazione “video” e indicato l’anno a cui erano riferiti. Risalivano a parecchio tempo prima, agli anni Settanta, quando per fare i video si utilizzavano le videocamere in super8.

Luca notò un sorriso sul volto di lei, sembrava soddisfatta.

«Va bene» disse Pietra.

«Cosa cercavi?» osò chiedere Luca.

Lei lo guardò come per dire che non erano affari suoi. Chiuse la ventiquattrore e gliela porse nuovamente. «I patti vanno rispettati.»

«Cosa cercavi?» insistette Luca deciso.

«Non credo siano affari tuoi» rispose mentre infilava una chiave nella serratura della porta scrostata.

«Invece sì, io mi sto fidando.»

«Non faccio venire qui tutti quelli che conosco via Internet.»

Luca non capì l’inizio del discorso. Rimase spiazzato, ma cercò di non far trasparire il proprio disorientamento. Attese. Lei si voltò, la porta aperta, la luce della scala proveniva da una lampadina appoggiata al muro con un filo, senza alcun lampadario o faretto.

«Mi hai fatto vedere il primo filmato e ho capito subito che si trattava di una ripresa vecchia, d’epoca. Tutti hanno le proprie fissazioni. La mia è il passato. Il passato dei film che tieni in quella valigia.»

Luca trovò altre conferme. La casa vuota. I tagli sulle braccia. La faccia tumefatta dai colpi. L’eccessiva magrezza. La vittima che diventa carnefice. Quella donna cercava di rivivere quel passato, forse per cercare di affrontarlo. Lei aveva capito subito che quei filmini erano vecchi di almeno quindici o vent’anni, fin dal loro primo incontro su Internet. Ma era proprio quello ad averla attirata. Era il suo punto debole. Erano gli anni delle sue violenze. Gli anni che avevano stabilito i confini tra giusto e sbagliato. Che avevano definito il senso di giustizia.

Gli anni vissuti prima dell’attuazione della sua vendetta verso il mondo. Pietra non avrebbe mai avuto figli, Luca ne era sicuro. È spesso una delle conseguenze, fisiche ma anche psicologiche, che riportano le bambine vittime di abusi. Il trauma, se non affrontato, non passa più. Ecco la rivalsa sugli altri, sconosciuti oggetti per cui non esiste redenzione, ma solo salvezza. Dopo la tortura, la morte. Di quanti piccoli aveva abusato in quegli anni? Impossibile dirlo.

Nessun abuso. Per Pietra era dare loro la salvezza dal mondo.

«Andiamo.» La donna cominciò a scendere le scale dandogli le spalle, come se mostrasse fiducia in lui.

Luca la seguì. Non sapeva fino a dove si sarebbe dovuto spingere. Voleva scappare, ma non poteva più tornare indietro. Martina lo stava aspettando. La foto nella tasca dei pantaloni bruciava, come se fosse infuocata.

Piccola mia, arrivo.

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Le auto erano parcheggiate per strada. Immobili, con sirene e lampeggianti spenti. La Fiesta di Luca non si vedeva, ma forse l’avevano solo lasciata più lontano. Bono stava aspettando che tutti fossero in posizione. Era tempo prezioso che si consumava, ma non poteva fare altro prima di effettuare l’irruzione. Non aveva il permesso del magistrato. Era un’altra provincia ed era sempre difficile compiere operazioni in territori diversi senza coinvolgere le forze di polizia locali. Ci sarebbe voluto troppo tempo, troppe spiegazioni che non sapeva dare. Avrebbe inventato tutto nel rapporto finale.

Era stufo e trepidante. Per questo aveva deciso di intervenire subito, senza aspettare rinforzi. Ma servivano più agenti. Altre volte non aveva rispettato le regole. Si sarebbe preso la solita ammonizione e poi l’encomio per l’ottima operazione. Ma in quell’intervento non c’era nulla di ufficiale: aveva dovuto muoversi in fretta e nemmeno il magistrato era stato avvisato.

I rinforzi, le due Fiat Marea blu senza lampeggiante, parcheggiarono poco lontano.

Il sole era alto nel cielo e non c’era nemmeno una nuvola.

«Pronti?» disse al proprio microfono Bono. Gli arrivarono una serie di via libera.

«Procediamo.»

Scesero dall’auto tutti armati. Lui era in borghese, con il giubbotto antiproiettile sotto il maglione un po’ largo. I poliziotti appena arrivati erano pronti in assetto da combattimento. Si posizionarono in giardino, nascosti dietro la siepe.

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Arrivarono in cantina. Un grande salone, con diverse porte improvvisate, in cartongesso, che davano forse su altrettante stanze, tutte chiuse con un lucchetto. C’era odore di mangiare ancora fresco. Ogni porta aveva un’apertura con cassettone in metallo, tipo quello delle carceri nei film americani, dove i secondini passano il cibo ai detenuti.

Era tutto troppo finto, troppo costruito su un immaginario generale dato dalla TV o dal cinema. Eppure era così reale. Come se quella donna non avesse avuto mai un contatto con la realtà e avesse solo riprodotto quello che conosceva meglio. Quello che vedeva in televisione o al cinema. Luca si sentiva come lei: anche lui aveva una passione per la finzione, per quello che vedeva attraverso uno schermo. Passione o malattia?

Luca appoggiò la valigetta sul tavolo.

Pietra prese da una cassettiera una serie di fascicoli.

Solo in quel momento Luca notò le telecamere. Erano sparse ovunque, un circuito chiuso, la cui regia andava sicuramente in una delle stanze di sopra.

L’occhio gli cadde poi sul letto poco lontano. Matrimoniale, appena rifatto, con tanto di lenzuola bianche, immacolate. Di fianco, poco distanti, alcuni stativi con appesi i faretti, luci di ogni genere, a diffusione o dirette. Un vero set televisivo.

«Tu vuoi che sia italiano, vero?»

«Sì» rispose debolmente Luca. La sua voce poteva essere presa per quella dell’attesa, una voce emozionata.

Era orrore.

Gli salì la pelle d’oca e si chiese fino a quando avrebbe dovuto continuare con quella farsa. Non era armato, ma sicuramente Pietra lo era. E nella casa non aveva visto telefoni. Era bloccato lì dentro. Doveva fingere. Ma fino a quando?

Pietra buttò sul tavolo una serie di fascicoli. Erano chiusi. Cinque. Ognuno con un numero scritto sopra. A due cifre: 71, 72, 77, 80 e 81.

«Guardali e scegli, Occhio.»

Era la prima volta che lo chiamava con il nome con cui si erano conosciuti. Luca si stava quasi tradendo nel chiedere spiegazioni. Guardò quei fascicoli, non voleva pensare a cosa fossero quei numeri.

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Il camioncino del fiorista superò Bono. Era arrivato, si poteva agire. Dal mezzo scese un uomo vestito con una tuta da lavoro verde e una scritta banale, VIVAI VIVI, con tanto di cappello e scatola lunga trasparente con dentro delle rose bianche, a gambo lungo.

Il finto fiorista si avvicinò alla porta e suonò il campanello.

Bono osservò tutta la scena mentre fingeva di essere un passante sul marciapiede, fasciato dal suo invisibile giubbotto antiproiettile. Altri poliziotti erano nascosti dietro la siepe.

Non rispose nessuno.

Il fiorista suonò di nuovo.

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La decisione per Luca sarebbe dovuta essere facile. Sicuramente nel guardare le foto avrebbe dovuto scegliere al volo una bambina che assomigliava a sua figlia. Ma non c’era.

Erano immagini di bambini, seduti sul letto che c’era in quella stanza. Foto che sembravano quelle di un fotoromanzo, con le luci ben studiate. Con i sorrisi finti e tristi che sembravano chiedere aiuto.

«Nessuno di loro» rispose Luca dopo la prima occhiata.

Il suono, proveniente dal piano di sopra, aveva distratto Pietra. La donna si limitò a dirigersi verso l’uscita della stanza. Giunta sulla porta lo guardò e, prima di chiudere, cercò di convincerlo: «Quello è il materiale che hai oggi. Quando hai deciso, dimmi il numero. Pensaci con calma.»

Luca osservò quella donna ferma sulla soglia. Aveva un sorriso quasi materno, un tono comprensivo di chi lascia del tempo per pensare, per maturare, per crescere con una decisione consapevole.

Un altro strano squillo arrivò da lontano. Pietra chiuse l’unica via d’uscita e girò la chiave. Luca era bloccato in quell’inferno.

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Il finto fiorista guardò l’orologio al polso. Era ancora immobile sull’uscio. Stava per fare un ultimo tentativo prima di dare il via all’incursione, quando la porta si aprì, lentamente.

Una donna ancora in vestaglia si presentò e lo guardò con sospetto. Dei fiori? Perché dei fiori?

Lei aveva evidenti borse sotto gli occhi, segni di chi fa i turni di notte e viene svegliata in pieno giorno.

Bono osservò da lontano il finto fiorista cercare di entrare per consegnare i fiori, ma la donna lo respinse, richiudendo la porta e rifiutando il regalo.

Bono non poteva più aspettare. Anche il capo della squadra d’assalto, nascosto dietro la siepe, lo guardò, in attesa di istruzioni.

Diede il via libera per entrare nella casa.

La donna vide materializzarsi nel giardino cinque poliziotti in uniforme operativa, armati di pistole e fucili. Forse le sembrava di essere in un film d’azione, con l’FBI che non fa tante domande.

Il fiorista la riportò alla realtà.

«Siamo della polizia» le disse, «meglio se ci fa entrare subito.»

La donna lasciò andare la porta. La vestaglia, che portava stretta, lasciò uscire una spalla nuda.

Gli agenti iniziarono veloci i controlli.

Bono entrò per ultimo. Tra poco avrebbero risolto quel caso del cazzo e tutto sarebbe tornato come prima.

Dalla prima stanza non arrivò alcun segnale.

Dalla seconda neppure.

La donna osservava senza dire una parola. Era sotto shock.

I due poliziotti scesi in cantina urlarono solo una parola: «Vuoto!»

Bono guardò l’ingresso della casa. Pulita, in ordine, con le foto di famiglia sul comò nell’ingresso. La sicurezza di poco prima si stava scontrando contro il muro di una realtà che il commissario non si aspettava.

Due poliziotti uscirono da un’altra stanza con un ragazzino di circa dodici anni che inveiva contro gli agenti: «Ridammelo! È mio.»

Un poliziotto consegnò a Bono quello che temeva: il cellulare di Luca. Sul display un’auto si stava schiantando contro un muro.

La madre del bambino guardò stupita quel telefono che non si sarebbero mai potuti permettere e inveì subito contro il figlio: «E quello dove l’hai preso?»

Bono chiuse gli occhi e lasciò cadere il telefono per terra.

Sulla porta di quella casa comparve anche Spallucci, che comprese cosa fosse successo e uscì in strada mantenendo una calma solo apparente. Dentro di sé bruciava di rabbia, tanto da stringere i pugni fino a sanguinare.

Bono capì di essere a un punto morto.

Luca era davvero solo.

E loro non sapevano dove cercare.