«Non può interrompere ora la terapia.»
«Perché non posso?»
Laura Molteni, la psicanalista, aveva accolto con poca diplomazia la comunicazione di Luca Morando. Lui era entrato prepotentemente durante una seduta, scavalcando la segretaria svampita che non aveva opposto alcuna resistenza. Era entrato nello studio ed era stato educato: «Scusate», aveva esordito di fronte allo sguardo perplesso della sua psicanalista, curiosa di capire la situazione. Luca aveva pensato che quel caso di fronte a lei, quella donna grassa, obesa, non sarebbe mai uscita dal suo problema, tanto valeva concludere quella seduta.
«Perché il suo percorso non è ancora finito. Ecco perché non può smettere» disse la psicanalista.
Luca si sedette vicino alla donna grassa. «Ma, mi scusi, non dovrebbe essere contenta per me? Non dovrei decidere io?»
«Contestualmente con me. Dopo che abbiamo indicato chiaramente un percorso di conclusione.»
«Come va con suo marito?» chiese Luca alla psicanalista.
«Non mi sembra il luogo per…»
La donna grassa si mise in posizione per ascoltare meglio la risposta. Forse era abituata alle soap opera del pomeriggio, e sembrava non potesse credere di viverne una in diretta.
«Signor Morando, non mi pare la sede per…» balbettò la psicanalista.
«Suo marito è tornato?» insistette Luca.
La donna abbassò lo sguardo e abbozzò un sorriso. «Sì.» Un misto di soddisfazione che si trasformava in delusione.
«Cosa pensa di fare?» chiese Luca.
«Non lo so. Non mi ha raccontato nulla.»
«Lo sbatta fuori di casa. Prenda in mano la situazione e faccia l’uomo.»
«Ma poi lo perderò.»
«Sarà lui a perdere lei, ma tiri fuori i coglioni.»
«Luca…»
Luca si alzò dal divano e guardò la signora grassa. «E lei smetta di crogiolarsi con il cibo.»
«Signor Morando, ma lei ha bisogno…» aggiunse professionale la psicanalista, come se finalmente avesse scisso i propri bisogni da quelli del paziente.
«Il mio percorso termina oggi» la interruppe lui.
Luca non voleva sentire altro. Aveva deciso. Quel giorno sarebbe iniziato l’ultimo viaggio: «Ovunque andrò oggi, raggiungerò una destinazione. Non importa quale sarà. Se più avanti o più indietro. Sicuramente non posso più stare fermo ad aspettare un passato che ritorni. Facciamo l’errore di credere che il tempo sia circolare come il mondo, ci illudiamo che invecchiando si torni bambini, solo per dimenticare le sofferenze patite. Seguo la mia linea, curo le mie ferite.»
«Sua figlia Martina, sua moglie…»
Luca sorrise. Aveva la risposta, ma era troppo complicata da esprimere. Sistemare prima se stessi non voleva dire essere egoista. Il mondo non è fatto di settori precostituiti, ognuno ha un proprio percorso, con o senza altre persone. Ogni azione che compiamo influenza altre vite, nel bene e nel male. La nostra responsabilità è prenderne coscienza, capire che si fa parte di questo mondo in cui si è costantemente, e allo stesso tempo, insegnanti e allievi, mentori e puttane.
Luca guardò semplicemente la psicanalista con un sorriso.
«Dove andrà?» chiese la donna grassa.
Luca le sorrise, poi tornò a osservare la Molteni. «Butti fuori suo marito e lo ascolti.»
«Mi faccia sapere di lei» aggiunse Laura.
«No.»
La donna sorrise. Aveva capito che il percorso era proprio finito.
Luca uscì dalla stanza senza salutare. Non ce n’era più bisogno, sapeva che non l’avrebbe mai più rivista. Il migliore addio non è il saluto. Un saluto lascia sempre aperta una porta. Il silenzio è sempre esistito ed esisterà sempre, è infinito.
Come il tempo.
Come il dolore.
Luca si avvicinò alla Fiesta del Santo. L’amico aveva già acceso il motore. Il sole della tarda mattinata era sempre piaciuto al Cieco, non era troppo caldo e non era troppo inquinato da odori o rumori. Appoggiò la mano sulla maniglia dell’auto e si fermò: inspirò profondamente come se quell’aria gli potesse dare la forza di affrontare nuovamente il mondo.
Avevano bonificato l’auto prima di partire ed effettivamente avevano trovato un microfono. Lo avevano schiacciato senza fare alcun giochino di controspionaggio. Non c’era più tempo.
Luca si sedette sul lato del passeggero e con una mano strinse in tasca il suo tesoro. Le sentì pungere. Le conchiglie blu e viola che teneva come un oracolo nel suo appartamento. Fredde e solo all’apparenza insignificanti, erano la sua àncora di salvezza.
Sul sedile posteriore c’era il fascicolo sul Damerino avuto da Spillo. Era il motivo per cui non erano ancora stati uccisi o catturati. Spillo, intanto, era sparito, grazie al nuovo passaporto, perfettamente falso, che gli aveva procurato il Santo tramite gli amici che gli dovevano mille favori.
«Fatto?» chiese ironico il Santo.
«Sì.»
«Dove cazzo sei stato? Da una tua puttana?»
«Più o meno… Ma ci arriviamo con questa carretta o dobbiamo chiamare un taxi?»
Il Santo lo guardò e sorrise. In fondo si volevano bene, erano amici. Non potevano trattarsi diversamente e lo sapevano entrambi.
«Avanti, parti. Andiamocene. La sai la strada?» chiese guardando scorrere dal finestrino le case che prendevano vita.
«Se non hanno spostato la città…» rispose con una vena di strafottenza il Santo.
«Hai un navigatore satellitare?»
«Ti pare? Tecnologia di merda…»
«Ci segue qualcuno.»
Luca si era accorto della macchina rossa, un’Alfa Romeo Mito, che li seguiva. Non era certo un’auto che non dava nell’occhio. Si sarebbe aspettato che a seguirli fosse stato un 4x4 dai vetri oscurati, magari nero. Eppure quel rosso Ferrari aveva un suo perché: ormai dava meno nell’occhio di altre macchine.
«Chi è?» chiese il Santo.
«Non lo so, ma prova a cambiare qualche strada.»
Si trovavano in via Spezia, ormai fuori dal centro cittadino. Il Santo non mise alcuna freccia e cambiò più volte strada. Un paio di volte sembrò che la Mito sparisse, ma poi ricompariva nei tratti rettilinei. Tornarono in via Spezia, come se avessero fatto solo un giro a vuoto per le strade della città.
«Cosa facciamo, Cieco? Li fermiamo o torniamo indietro?»
«Lascia stare» rispose Luca. «Prosegui, vediamo cosa fanno. Evidentemente non hanno intenzione di nascondersi. Sanno che li abbiamo visti.»
Andarono avanti fino a immettersi sulla tangenziale. La strada era un fiume di auto. Sembrava che fossero delle processionarie in movimento sotto la calura estiva: lente e stupide, ognuna attaccata al culo della processionaria davanti. Qualcuna cambiava strada, prendeva un’uscita, e altre la seguivano senza porsi domande.
Il vantaggio di partire presto al mattino, per non perdersi nella bolgia del traffico, era ormai sparito. La Mito li seguiva in quel caos a quattro o cinque vetture di distanza. All’improvviso accelerò e superò un paio di auto, alla terza accese due volte gli abbaglianti, per dire all’autista di spostarsi. Fino a quando non arrivò attaccata al culo della Fiesta. Non fece nulla per qualche centinaio di metri.
«Cosa vorrà?» chiese Luca.
«Non lo so» rispose il Santo, «ma credo che lo scopriremo presto.»
Non riuscivano a vedere il guidatore per via del riflesso. Proprio in quel momento, la Mito li affiancò. L’autista fece cenno al Santo di fermarsi. Non lo conoscevano.
Il Santo sfoderò un sorriso e alzò il dito medio.
L’autista della Mito ricambiò, sembrava che non aspettasse altro.
Intorno, qualche altra auto li superava lentamente, altri suonavano. Occupavano due corsie, e dietro la coda di processionarie pareva infinita.
La Mito si avvicinò. Il Santo non aveva la corsia di emergenza dove spostarsi, ma solo il guardrail. Le due auto si toccarono, si sentì il rumore di carrozzeria graffiata.
“Ma dove sono le scintille?”, si chiese Luca: nei film aveva sempre trovato un certo fascino negli inseguimenti. Se fosse stato Il braccio violento della legge, quel momento sarebbe durato almeno mezz’ora. Ma entro pochi minuti sarebbero arrivati al casello dell’autostrada. Nei film non ci sono mai caselli o passaggi a livello durante gli inseguimenti.
La Mito toccò la Fiesta un’altra volta. Il Santo imprecò.
«Fermati» gli disse Luca, «alla prossima sosta di emergenza.»
Poche decine di metri dopo, la Fiesta si fermò e dietro di loro la Mito.
Nessuno scese dall’auto. Da nessuna delle due parti.
«Vado io» disse Luca.
Il Santo lo fermò per un braccio e gli fece vedere la pistola che teneva nella fondina. «Potrebbe essere utile.»
Luca sorrise ironico. «Non penso vogliano fare un’esecuzione in mezzo alla tangenziale.»
«Allora se sento un colpo, scappo.»
«Grazie, sapevo di poter contare su un amico.»
«Farò scrivere sulla lapide: “Con onore di fronte all’Ikea”.»
Aveva ragione. Quel posto era uno schifo per morire. Qualunque posto lo era, ma la tangenziale Ovest di Milano, proprio di fronte al mega centro svedese, era squallida. Luca fu tentato di prendere l’arma, ma non l’avrebbe mai usata.
La pistola l’aveva utilizzata solo al poligono di tiro. Nei tanti anni di servizio, nonostante le numerose operazioni a cui aveva partecipato, anche solo come supporto esterno, non aveva mai avuto bisogno di far esplodere un colpo. Estrarla dalla fondina sì, ma sparare mai. A differenza dell’amico Bono, che invece aveva il grilletto facile e che era finito parecchie volte sotto inchiesta per aver sparato senza motivo.
Erano le cazzate da uomini che piacevano ai militari, ai superiori che decidevano le promozioni. Bono era un operativo e come tale era normale finisse sotto inchiesta, doveva prendere delle decisioni e lo faceva alla svelta. I risultati si vedevano, le cronache parlavano della polizia e questo piaceva a tutti. Fino ad arrivare ai superiori della questura e del ministero. Milano non passa mai inosservata.
Luca scese dalla macchina. La Mito era a pochi metri di distanza nell’area di sosta. Le auto sulla tangenziale rallentavano di fronte all’autovelox poco distante. Alcuni se ne fregavano. Sapevano che non funzionava. Dal lato opposto della strada, l’enorme edificio blu dell’Ikea di Corsico, ormai meta delle gite domenicali delle famiglie della zona. Non più laghi o parchi, ma l’Ikea, nel fascino di una casa già arredata, pulita e profumata. Tutto questo dava una sensazione di sicurezza, meglio di un parco giochi: ti potevi portare le attrazioni a casa. Bastava pagare, come sempre, anche se poco.
Cercava di pensare ad altro, Luca, mentre si avvicinava alla Mito.
La portiera dell’auto si aprì. Ne uscì la figura sgraziata del Damerino.
D’istinto, guardò la Fiesta del Santo. Temeva che l’amico potesse scendere e sparare a quell’uomo, lì in mezzo all’autostrada. Sangue sull’asfalto e vendetta consumata. Ma sapeva anche che il Santo era più furbo: sicuramente si stava trattenendo, la rabbia lo stava consumando in quell’abitacolo e probabilmente aveva già rotto qualcosa. Sapeva che nella Mito c’era qualcun altro, forse un piccolo esercito, pronto a proteggere il proprio insulso ma potente capo.
Il Damerino scese da solo.
Si incontrarono a metà strada.
Luca notò che aveva finalmente abbandonato l’aria supponente del riccone. Quello che aveva di fronte era un uomo stanco e preoccupato.
«Non so perché, ma non mi stupisce vederti ancora» disse ironico Luca.
«Morando, mi consegni il fascicolo» rispose secco il Damerino.
«Quale fascicolo?» Un ghigno comparve sul viso dell’ex poliziotto.
«So dove state andando.»
«Bene, vuoi unirti alla gita? Il posto dovresti conoscerlo già.»
Il Damerino rimase in silenzio. Accusò il colpo, ma il suo viso era impassibile. Luca tentò di giocare l’unica carta che aveva. «Posso darti quel fascicolo. Ma dimmi dove hai preso la foto di mia figlia.»
«Morando, lei è pazzo. Glielo ripeto, non so di cosa stia parlando.»
«Quella che hai fatto avere anche a mia moglie.»
«Sto dicendo la verità: non ne so nulla.»
«Stronzo.» Luca fece per andarsene.
«Non ho pensato io a quel lavoro» disse il Damerino, ma non sembrava convincente.
Luca si voltò e guardò l’uomo che aveva di fronte.
«Chi lo ha fatto?» chiese il Cieco.
«Mi dia il fascicolo.»
«Vaffanculo!»
Sembrava che i due non avessero più niente da dire. Ma a Luca non andava di essere preso in giro, non da un damerino che agiva come un boss mafioso, senza averne l’eleganza.
Luca si convinse che quell’uomo non meritava alcun rispetto. «Perché non mi hai detto subito che eri il figlio dell’Algerino?»
«È lei il poliziotto. Non vado certo in giro con i biglietti da visita. Mi riporti mio figlio.»
«Perché non vai tu a prenderlo? Con tutto il tuo arsenale.» Luca indicò con lo sguardo la Mito.
L’uomo sorrise sarcastico. «Dovrebbe saperlo. Le questioni personali si fanno risolvere ad altri. Non ci si sporca le mani direttamente.»
«È tuo figlio.»
«Hai ucciso sua madre.»
«Incidente collaterale. Ci sono in tutte le guerre. Doveva essere solo un avvertimento. E poi sapeva troppe cose. Le puttane non sanno stare zitte.»
Il Damerino ci credeva in quel che diceva. Nel suo essere tranquillo e apparentemente inutile, sembrava ci fosse una certa lucidità. Come quella follia che animava il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: servito da chi lo credeva un dio. Seppur fosse solo un film, comunque tratto da un’opera letteraria di Conrad, quel militare era lo specchio della follia del mondo, il frutto di altri pazzi che hanno generato il bisogno della guerra, di un mondo dominato da ribellione e ingiustizia. Ma l’uomo che aveva davanti in quel momento sulla tangenziale aveva solo la follia di Kurtz, non le motivazioni, non l’ideologia.
«C’è anche Martina con tuo figlio?» chiese Luca.
Spallucci rimase in silenzio per qualche secondo, forse per prendere tempo sulla risposta. «Non lo so» rispose alla fine. Per Luca era una speranza. «Le darò altri cinquantamila euro a lavoro finito.»
«Ne voglio cento.» Trattò per sembrare ancora più un mercenario. «E nessuna ritorsione sul mio collega.»
«Questo non posso garantirlo, ne va del mio onore e di quello di mio padre.»
«Ne va di tuo figlio. Vai a prendertelo.»
Luca fece ancora per andarsene. Lo fermò la voce del Damerino. «Non vuole sapere se c’è anche Martina?»
Luca si bloccò. Le mani gli prudevano. Non capiva quanto quell’uomo giocasse con i suoi sentimenti, quanto dicesse la verità, quanto sapesse usare le persone.
Non si voltò. Alzò la mano e sollevò il dito medio in direzione del Damerino.
Prima di salire sull’auto, aveva ancora una cosa da chiedere a Spallucci. Si girò e gli andò incontro di nuovo. L’uomo sembrava avere un’espressione soddisfatta.
«Come hai fatto a giocarti tuo figlio?»
Il sorriso sul volto del Damerino si congelò.
Luca insistette su quella strada. «Ricordi il fascicolo?»
Aveva giocato quella carta per pura cattiveria. Aveva studiato le informazioni che aveva fornito Spillo. Per una notte intera, rimanendo incredulo e basito che quanto vi fosse scritto potesse essere vero.
Secondo quel fascicolo, il Damerino aveva il vizio del gioco, che spesso si trasformava in orge di gruppo con ragazze vestite da bambine. Spallucci non sembrava mai soddisfatto. Fino a quando era uscito dal giro di Spillo, dopo il rifiuto di lui.
L’ultima cosa presente nel fascicolo era la partita a poker di poche settimane prima, nei dintorni di Pavia. In quei festini era presente anche molta cocaina, che nessuno disdegnava. Il Damerino aveva perso tutto un’altra volta e uno dei presenti aveva messo sul piatto la propria moglie.
Il festino era stato organizzato da una persona che si faceva chiamare Pietra. Per Luca era la terza volta che spuntava quel nome, non poteva essere una coincidenza: lo aveva trovato online tramite le corrispondenze con il computer di Spallucci, glielo avevano detto i “servitori” del Damerino e ora compariva nel fascicolo. Pietra aveva evidentemente odorato la debolezza di Spallucci: prima gli si era avvicinato con delle esche via mail, poi fornendogli del materiale, e ora organizzando quegli incontri per persone malate, bische dove scommettere qualsiasi cosa. Tanto prendere di mira persone che avevano tutta la loro vita da nascondere era più semplice: nessuno avrebbe denunciato un torto subìto.
Il tavolo da gioco. Una scommessa. Come posta la moglie di uno dei giocatori.
Ma a Spallucci non interessava. Voleva la figlia, di cui aveva visto la foto nel portafoglio. L’uomo negò, alterandosi per la richiesta.
Spallucci non si scandalizzò, era talmente sicuro di quella giocata che avrebbe voluto ottenere qualcosa di più di una manciata di soldi, ebbro del mix di coca ed eroina che aveva appena tirato. Propose di mettere sul tavolo i propri figli, lui avrebbe messo il suo. Non gliene fregava un cazzo di altre scommesse, voleva una bambina con cui giocare. Lo eccitava il solo pensiero.
Gli altri accettarono. Il Damerino perse. Due giorni dopo, suo figlio scomparve tornando da scuola.
«Come ti sentivi a masturbarti pensando a tuo figlio?» gli disse Luca guardando il Damerino negli occhi. Era come se le auto sulla tangenziale avessero smesso di muoversi, come se il tempo si fosse fermato.
L’uomo, d’istinto, cercò di rifilare un pugno a Luca. Con un riflesso che non aveva mai avuto in vita sua, Luca evitò l’ennesimo colpo sull’occhio ferito. Di riflesso fece partire un destro che colpì sul fianco il Damerino. L’uomo si accasciò per terra. Le portiere della Mito si aprirono e Spallucci fermò i suoi uomini con il gesto di una mano. Gli mancava il respiro, ma non smise di guardare Luca negli occhi.
«Trova mio figlio» lo implorò in ginocchio.
Era la disperazione di un padre. La riconobbe. Luca avrebbe voluto prenderlo a calci sul posto. Ma non lo fece.
«Vai a prendertelo in quella casa.»
«Non c’è più» rispose il Damerino abbassando lo sguardo, «e non so dove stai andando.»
Luca attese qualche secondo. Non sapeva più chi fosse il padre disperato. Pensò a come si sentiva lui, ai sensi di colpa di quel giorno in spiaggia, all’uomo che aveva davanti e che si era giocato il figlio a una partita a poker, a quello che entrambi avrebbero potuto fare per non essere lì in quel momento. Quanto successo era una punizione che un genitore non dovrebbe mai subire.
«Vado a riprendermi mia figlia» disse infine Luca, voltandosi e tornando verso la Fiesta.
Aprì la portiera della macchina e vide la fodera anni Ottanta, tutta colorata, piena di tagli. Il Santo guardava dritto nel vuoto.
«Ci dà altri cinquantamila euro se gli portiamo il figlio. E dimentica i diverbi con te» disse sedendosi sul sedile distrutto a coltellate.
«I cinquanta testoni glieli infilo su per il culo» rispose il Santo accendendo l’auto. «Per la vendetta, non è lui che deve dimenticare.»