CAPITOLO 33

Il dolore al viso e alla gamba aumentava quando rimaneva solo. Gli sembrò strano che Pietra non avesse fatto domande sul suo ematoma all’occhio, ma era da tempo che non si guardava allo specchio. Forse il livido era quasi sparito insieme al gonfiore.

La voglia di una vodka liscia aumentava la sofferenza. La gamba era un’altra storia: il ginocchio gli doleva, zoppicava ancora vistosamente. Ma Pietra non aveva detto nulla, nemmeno di quello. Come se per lei fosse del tutto normale avere intorno persone menomate.

Di fronte alle foto, Luca non sapeva cosa fare. Si concentrava sul dolore per non pensare a quei bambini. Sarebbe bastato scegliere e ne avrebbe avuto uno. Chissà quanti altri uomini avevano già incontrato, quando avevano mangiato, quando avevano visto i loro genitori l’ultima volta, quando avevano giocato. Nella stanza non c’era nessun altro, e non voleva immaginare che fossero tutti oltre quelle porte chiuse con il lucchetto, quelle gabbie con l’apertura solo per ricevere il cibo.

Luca deglutì. Doveva portare pazienza, essere egoista. Era lì per Martina. Per la sua bambina di cui non ricordava più il viso, se non attraverso la foto che teneva nella tasca dei pantaloni.

Sentì Pietra parlare con qualcuno, forse un vicino. Era una donna cordiale dalla voce, una casalinga a cui i residenti della zona forse affidavano i propri figli. In quel momento sentì che rifiutava la richiesta della vicina: non poteva tenerle il bambino, aveva gente a cena la sera. L’altra persona non se la prese, sarà per la prossima volta.

Non era stupida, Pietra, o come cazzo si chiamava quella donna. Non avrebbe mai fatto nulla ai bambini del vicinato. Non era una principiante. Sapeva che la prima regola degli investigatori, nei casi di scomparsa di bambini, è cercare nelle abitudini della famiglia. Lo diceva anche Hannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti: “Cos’è che desideriamo di più? Quello che vediamo ogni giorno.” La prima vittima di un maniaco seriale era sempre una persona conosciuta. Per Pietra chi era stato il primo? Dove si trovava oggi quella vittima?

La sentì scendere nuovamente le scale. La porta si aprì: aveva sciolto i capelli e adesso sembrava una donna come tante. Lo fissò in attesa di una risposta su quale foto avesse scelto.

Senza dire nulla, aprì il cassetto del comò e tirò fuori qualcos’altro. Una specie di album fotografico. Prese del materiale, mise via il raccoglitore e tornò al tavolo vicino a Luca, dove appoggiò altre immagini con nuove cifre: 66, 52, 58. Numeri più vecchi. Luca non voleva pensare cosa significassero o che rapporto progressivo avessero con il tempo passato tra quelle mura. Un brivido gli corse lungo la schiena, pensando agli incontri in cantina, alle riprese, alle soddisfazioni via Internet a cui Pietra aveva dato sfogo per far pagare al futuro quello che lei stessa aveva subìto in passato.

Rovinare il mondo, distruggerlo senza un perché preciso, farlo a pezzi com’era stata distrutta lei. Non era una giustificazione, non per Martina, non per tutti quei bambini. Arrivare ad annientare tutto, alla sintesi estrema del dolore, per non sentire più nulla. Questo sembrava essere l’obiettivo di Pietra. Oppure non aveva alcun obiettivo, e quello a cui pensava Luca era solo la ricerca di una motivazione per qualcosa di incomprensibile.

Guardò bene le foto, erano pose diverse da quella che aveva in tasca. Una di quelle immagini gli fece sgranare gli occhi, il cuore gli si fermò in gola.

Pietra se ne accorse.

«L’hai trovato» disse soddisfatta Pietra.

«Dimmi come ti chiami» chiese Luca guardandola negli occhi e cercando di nascondere la propria rabbia per la posa in cui era stata messa sua figlia, Martina, in quella foto che vedeva sul tavolo. Le mani gli prudevano, avrebbe voluto picchiare sul posto la donna che aveva di fronte. Picchiarla a sangue.

Lei sorrise senza rispondergli. Prese in mano la foto di Martina.

«È questo che hai scelto? Il numero 52?»

“Il numero 52? Ha un nome, cazzo!”, pensò Luca.

Strinse i denti e fece cenno di sì con la testa, mostrando probabilmente la stessa eccitazione di altri uomini che forse volevano solo nascondere col silenzio l’erezione tra le gambe.

«Devi darmi mezz’ora.» Pietra sorrise, mise via il fascicolo, chiuse a chiave lo schedario e tornò di sopra.

Mezz’ora? Perché? La risposta era una sola. I bambini non erano in quella casa. Non potevano essere in quella casa. Doveva avere una sorta di prigione da qualche altra parte. Sapeva di avere delle telecamere puntate contro, e nonostante le luci non fossero accese immaginò che quella donna le avesse comunque fatte partire. L’attesa faceva parte dell’eccitazione.

Luca avrebbe voluto aprire lo schedario e leggere i fascicoli, cercare quello di sua figlia e guardare da quanto tempo fosse lì, gli incontri che aveva fatto, cos’era stata costretta a subire. Ma non sapeva se lo avrebbe sopportato. A volte è meglio non sapere e rimanere nell’ignoranza per poter continuare a vivere.

Pietra doveva essere come Spillo: maniacale e lucida nelle proprie archiviazioni. Ma senza coscienza. Mentre Spillo faceva tutto per salvarsi la vita e assicurarsi un futuro, lei lo faceva per soddisfazione personale, per abitudine, come ingranaggio nel mondo. Aveva creato tutto quel meccanismo per non essere rintracciabile: pochi incontri ben remunerati e tante riprese. Il resto lo faceva Internet, con la vendita del materiale. Oppure incontri ben selezionati con persone che si potevano permettere di pagare fior di quattrini per soddisfare una libido malata e perversa. Ricchi senza uno scopo che avevano troppo e che davano sfogo alle proprie frustrazioni con rapporti impossibili che lei appagava.

Mezz’ora da solo. Con quei pensieri. In attesa di vedere e riabbracciare Martina. Ma cosa avrebbe fatto una volta che l’avesse vista? Lei lo avrebbe riconosciuto? Non aveva nemmeno una pistola. Doveva trovare una soluzione.

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«Lo abbiamo perso, non sappiamo dove sia» disse Bono al telefono.

«Non ha contattato nemmeno me» rispose Nicole, con il cellulare tra le mani. Era seduta nella camera da letto della figlia. Stava mettendo i giochi della piccola in una scatola.

Luca era stato lì due giorni prima, poco prima di pranzo. Lei non gli aveva aperto. Per almeno un’ora, immobili, con la porta che li divideva, senza dirsi una parola. Avrebbe voluto aprirgli, ma sapeva come sarebbe finita. Avrebbero fatto l’amore, con rabbia, in silenzio.

Si amavano ancora, ma non riuscivano a guardarsi negli occhi.

La porta blindata che li separava era come il peso di una colpa impossibile da sormontare. Ma chi aveva la chiave per superare quell’ostacolo?

Luca aveva pronunciato solo poche parole.

«Sistemerò tutto, torneremo come prima» aveva detto attraverso lo spioncino, nell’unico momento in cui Nicole aveva guardato se fosse ancora lì.

Lei non aveva risposto. Non aveva chiesto spiegazioni. Le si erano solo bagnati gli occhi. Tutto si era offuscato.

Poi era andato via. Luca sapeva che lei era lì ad ascoltarlo. Sentivano i loro respiri. Dopo anni di matrimonio i piccoli gesti sono inconfondibili. Riesci a capire l’umore della persona che ti sta accanto a occhi chiusi, ascoltandone solo il ritmo del respiro. La porta blindata non era un ostacolo ed entrambi avevano udito il proprio cuore, incostante e colmo di desiderio.

Non avevano smesso di amarsi. Nicole lo sapeva. Ma Martina era tra loro: ogni volta che si guardavano, lei e Luca vedevano l’uno nell’altro i tratti della bambina. Il contorno degli occhi di Nicole, i capelli di Luca, le gambe di lei, le fossette sulle guance di lui. Tutto portava a lei. Una continua sofferenza vedersi, incontrarsi, guardarsi.

Luca era andato via senza avere rassicurazioni da Nicole. Ma era strano, di solito era più testardo.

Lei aveva chiamato Bono, il vecchio amico di Luca. Anche con lui i rapporti si erano raffreddati in quegli anni. Ancora prima della sparizione di Martina. Ma non importava, era l’unico che forse avrebbe potuto spiegarle qualcosa.

«Non ti preoccupare. Ci penso io, so cosa sta facendo» le aveva detto l’amico quando lei gli aveva raccontato della strana visita notturna di Luca. «Sta cercando di riprendersi la sua vita.»

Aveva creduto a Roberto. Ma lei, invece, come avrebbe potuto riprendersi la propria vita? Non poteva andare avanti in quella maniera, con una porta blindata che la separava dal resto del mondo, anche da chi cercava di ripartire.

Aveva iniziato a inscatolare i giochi di Martina. Aveva deciso che anche lei doveva dare il proprio contributo a un cambiamento.

Avrebbe voluto scriverle un’ultima lettera, come le aveva consigliato la psicologa. Ma resistette a quella tentazione.

Si sentiva meglio nel dolore provocato dal tocco di quegli oggetti, sapeva che stava facendo qualcosa. Ma ora quella telefonata di Roberto. Nemmeno il poliziotto sapeva più dove fosse il padre di sua figlia. Il telefono muto. Anche suo marito era sparito.

Come Martina.

E lei costretta in quel limbo. Come la scatola di vestiti e giocattoli, mezza piena e mezza vuota, che aveva davanti. E la tentazione di rimettere tutto come prima.

Accanto al letto, le foto che le erano arrivate per posta nei giorni precedenti. Quelle di quei bambini che avevano sconvolto per anni Luca.

Piccoli che mostravano il loro volto. Tristi, spenti.

Nicole pregò.

Pregò che Martina non fosse tra loro.

Pregò che Luca non la trovasse.

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Pietra rientrò in casa, Luca sentì i suoi passi. Era rimasto immobile, al centro della stanza senza finestre. Non aveva avuto il coraggio di andare a controllare l’archivio. Gli era bastata la foto del numero 52, l’immagine di Martina su quel letto.

Guardò l’orologio: era già passata mezz’ora e lui non se n’era accorto, rapito dai ricordi e dal pensiero di quello che avrebbe fatto con lei. Le loro vite non sarebbero più state le stesse, ma avrebbero affrontato insieme la situazione, non l’avrebbe mai più lasciata sola, l’avrebbe riportata da Nicole, avrebbero pianto insieme e poi avrebbero riso. Avrebbero chiesto aiuto a un dottore, per dimenticare. Sarebbero ripartiti, in un’altra città, in un altro mondo. Avrebbe cercato un nuovo lavoro, basta vodka e locali notturni. Sarebbero esistite solo la loro casa e le domeniche sul lago. Ci sarebbe stata un’altra vita, un’altra possibilità, quella a cui tutti hanno diritto.

Tese l’orecchio per sentire cosa stesse facendo Pietra. Se era vero che i bambini erano da un’altra parte, qualcuno dei vicini avrebbe dovuto vedere i movimenti, insospettirsi, chiamare la polizia. Ma non era poi così scontato. Pietra avrebbe potuto farli scendere nel garage, da una macchina coi vetri sicuramente oscurati. E poi c’era da considerare l’indifferenza che imperava anche nei piccoli paesi.

I rapporti di vicinato erano diventati una merda. Dappertutto. Non si accoglievano più le persone, non ci si presentava, non si chiedeva nulla nemmeno nel momento del bisogno. Offrire un caffè e fare due chiacchiere era come sconfinare nella privacy. I vicini rimangono dei possibili mostri a vita, si vive nel dubbio di sapere chi siano le persone che ti vivono accanto. È meglio così: ci si chiude tra quattro mura, abbiamo tutto, non serve altro. I rapporti umani sono inutili, c’è la televisione, Internet. Così è più facile potersi lamentare: se conosci troppo qualcuno, è più difficile sparare sentenze. Ecco i nuovi rapporti di buon vicinato: la critica e le lamentele.

In quella cantina si accendevano le fiamme dell’inferno, e intorno i vicini consumavano la cena in silenzio davanti al televisore. Quegli stessi vicini che, quando si sarebbe scoperto tutto, avrebbero detto alle stesse televisioni le solite cose: era una persona per bene, insospettabile, mai un fastidio. Magari qualcuno aveva anche visto o sentito qualcosa, ma era meglio tacere, non smuovere gli eventi per non essere travolti.

Certo, come in passato: anche gli antichi greci avevano rapporti sessuali coi bambini, con la scusa dell’insegnamento delle scienze ai propri adepti. Ma il sistema alla fine si era ribellato anche su questo. Nel mondo globale di oggi, chi aveva il coraggio di opporsi? Chi di alzare la voce? Chi di dire basta? Meglio continuare a mangiare in silenzio mentre si guarda la televisione.

I passi sulle scale si fecero più vicini. La porta si aprì. A Luca si fermò il cuore nell’attesa di vedere chi vi fosse oltre.

Chiuse gli occhi.

“Non ce la faccio”, pensò.

Avrebbe voluto scappare. Ma per fortuna le gambe erano inchiodate al pavimento. Si immaginò come l’uomo di latta nel Mago di Oz. Un uomo d’acciaio, bloccato e arrugginito, perché sorpreso nel bosco da un temporale. La bella Dorothy lo libera ingrassando con l’olio i suoi ingranaggi. L’uomo di latta è alla ricerca di un cuore, per tornare a provare dei sentimenti.

Anche Luca, in quel momento, si sentiva svuotato, senza cuore. Non batteva più.

Il tempo si era fermato.

Pietra lasciò entrare prima la creatura che aveva portato con sé. Le gambe erano lunghe e nude, lasciate scoperte da pantaloncini corti, nonostante fuori le temperature non fossero certo estive. Pietra doveva averla preparata al piano superiore.

In testa aveva un cappuccio. Non opponeva alcuna resistenza e si muoveva come se sapesse perfettamente cosa fare. A Luca salirono i brividi lungo la schiena pensando che quel piccolo essere umano fosse già istruito sulla procedura da seguire.

Voleva togliere quel cappuccio, ma attese che Pietra gli desse istruzioni. Intanto, cercava sul corpicino qualche segno, qualcosa che gli ricordasse Martina, che confermasse i suoi pensieri. Si accorse con orrore di non ricordare nulla. Non aveva memoria di sua figlia, erano passati solo due anni e l’immagine di lei era solo un vago ricordo. La piccola era cresciuta sicuramente, ma ci sono dei tratti, non solo del viso, che non possono essere dimenticati.

Eppure Luca non ricordava.

«Io vi lascio soli. Ma ci sono tre regole da osservare.» La voce di Pietra lo riportò alla realtà. «Hai un’ora di tempo. Niente parole e niente violenza.»

Niente violenza? Cosa voleva dire “niente violenza”? Poteva abusare di quella creatura, ma non la poteva picchiare?

Quella donna aveva un codice. Per lei non era violenza quello che si sarebbero messi a fare sul letto, sotto gli occhi delle telecamere. La violenza erano solo i pugni e i calci.

«Ti dirò io quando iniziare» disse infine Pietra, indicando con lo sguardo un altoparlante sul letto.

Luca acconsentì con un’occhiata. L’attesa di poter incontrare Martina era estenuante.

La donna ripeté il concetto dell’ultima frase: «Solo al mio segnale.»

“Perché?”, si chiese Luca. “Un segnale? Non può iniziare a registrare subito? Poi tanto venderà tutto sul web.”

Pietra gli porse una maschera. Nemmeno lui sarebbe dovuto essere riconoscibile.

Luca capì.

Sarebbe stata una diretta video. Pietra aveva dato appuntamento ad altri in rete. Il segnale sarebbe rimbalzato di continuo su altri siti, irrintracciabile, e nessuno si sarebbe lamentato. Qualcuno lo avrebbe registrato, ma nessuno sarebbe risalito all’origine della trasmissione. Una visione multipla che le avrebbe fruttato molti soldi.

Quella donna era geniale nella sua perversione.

Pietra fece per uscire dalla stanza. Luca doveva agire subito, prima che lei chiudesse la porta a chiave, prima di lasciarlo da solo in quella cantina senza finestre.

Indossò la maschera. Come per darsi coraggio, come un supereroe che sta per entrare in azione. O forse solo per il timore di affrontare la situazione.

Perse solo istanti preziosi per poter reagire. Pietra chiuse la porta prima che lui potesse muoversi.

Gli scherzi del tempo, come le ellissi temporali nei film, le dissolvenze che fanno andare veloci le lancette, trucchi visivi che fanno scorrere i secondi più rapidamente. Ma erano solo trucchi. Quella che stava vivendo in quel momento era la realtà, dove le angosce non passano mai.

La porta era chiusa.

Erano bloccati.

Lui e quella piccola creatura silenziosa e incappucciata.

Nel lungo silenzio senza tempo.