Dal diario di Pellegrino Artusi
Campoventoso, 23 ottobre 1900
Son due o tre notti che dormo male, troppo o troppo poco, e in questo momento non ho punto sonno. Ho congedato proprio adesso il Mantegazza, che mi è apparso oltremodo angustiato.
Sono arrivati infatti dal laboratorio cittadino dei risultati, circa la morte del povero delegato D’Ancona, che non danno adito a dubbi. Pare che non sia stata ravvisata alcuna traccia di veleno nello stomaco e nel sangue della vittima. Il delegato, quindi, non è stato assassinato. Il Mantegazza, però, non sembra darsi pace, e sinceramente fatico a capirlo. Che qualcuno muoia, è ben triste; ma se fosse stato accoppato, sarebbe stato peggio. Ho l’impressione che il buon Mantegazza sia più dispiaciuto per aver vista confutata la propria teoria che non per la disgrazia in sé.
Ma forse sono troppo severo col mio sodale. Anche io, devo ammetterlo, continuo da ore a essere crucciato dalla stessa idea fissa.
È tutta la giornata che i miei pensieri continuano a tornare al piatto che io ed Aliyan non abbiamo fatto in tempo a preparare, e la cui mancata ricetta mi tormenta. Seguito a lambiccarmi il cervello per capire come potrei combinare quegli elementi, ma non ne vengo a capo.
Dovrei forse sentirmi in colpa, mi viene da pensare. Non nascondo che sia stato un sollievo il sapere che il povero delegato D’Ancona è passato a miglior vita per conto suo, senza che nessuno gli abbia dato una spinta. Ma, anche quando credevo che fossimo in mezzo a un omicidio, il mio cervello continuava a baloccarsi con questa diavolo di ricetta.
Ebbene, io a sentirmi in colpa non riesco. Sento di aver fatto adeguatamente il mio in giusta misura parlando con l’ispettore e dicendogli la verità su quello che so, evitando di congetturare su quello che non so, con lui e con altri. Se siamo preparati in ciò di cui si parla, il nostro dovere è fare; nel caso contrario, credo che sia nostro preciso dovere l’astenerci dal fare qualsivoglia cosa, di quelle che si fanno pur di non apparire indifferenti.
Questa nostra società funzionerebbe assai meglio se ognuno si sforzasse di fare al meglio ciò che sa fare, tentasse di imparare ciò che non sa fare, e avesse sempre ben presente ove si trova il confine tra queste due cose. Diceva il grande Socrate: «Io so una cosa sola: di non sapere niente». Sarà una cosa sola, ma è una cosa grande. Io non sono Socrate, e difatti alcune cose mi illudo di saperle. Una, massimamente, la so: so come si cucina e come si mangia. Sembra questa una ben piccola cosa, ma non lo è.
Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare: ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio. Come abbiamo fatto noi, che abbiamo trovato naturale sancire un accordo commerciale con l’impero dei Turchi con una bella tavolata.
Io sono convinto che il rispetto reciproco tra i popoli possa passare proprio attraverso questa pratica apparentemente sì umile. Perché tutti mangiamo, e tutti possiamo apprezzare e capire la cucina altrui. Se mi metteste di fronte un turco, o un cinese, che mi declamano nella loro lingua i poemi più elevati, ebbene, non capirei nulla; ma se mi mettete di fronte un loro piatto, sia esso di carne o di pesce o di erbaggi, sono benissimo in grado di mangiarne e di trarne nutrimento, e forse anche gusto. La cucina è un linguaggio universale, che ha bisogno di essere capito solo da chi lo pratica: forse solo la musica può stargli a pari. Eppure, si può stare giorni, settimane e mesi interi senza ascoltare melodie, ma provatevi a stare un giorno senza mangiare! Possiamo filosofare quanto vogliamo, ma se vogliamo stare bene tutti, è necessario partire non dalle cose che ci migliorerebbero tanto se le facessimo, ma di quelle delle quali non possiamo fare a meno. Oggi abbiamo automobili a carburante, treni a vapore, carrozze a cavalli, carriole e biciclette; eppure, nessuno di questi esisterebbe se non avessimo... la ruota, potrebbe pensare qualcuno. No, io dico il mozzo. L’umile perno che non si vede, e intorno a cui gira la ruota, indiscusso caposaldo dell’inventiva umana, trasmettendo il moto che qualcos’altro genera. Se non ci fosse questo elemento, o se fosse debole, non andremmo da nessuna parte.
Se noi...
Pellegrino Artusi restò con la penna a mezz’aria.
Non perché non sapesse cosa scrivere. Ma per via del rumore.