Radice di trentadue
– Prego, signorina, accomodatevi.
Delia si sedette, scostando la gonna da un lato, quasi all’amazzone. Ma la somiglianza finiva lì. Gli occhi bassi, le ginocchia serrate, le mani in grembo, c’era molta più difesa che attacco nella postura della figlia del ragionier Bonci.
– Allora, signorina, ho bisogno di farvi alcune domande. Un paio di queste domande sono personali, per cui vi prego di scusarmi se potrei sembrare sfacciato.
La ragazza annuì, senza parlare.
– Per cominciare, volevo però sapere se è vero che avete visto un passaggio celato tra le mura del castello.
– Ve lo ha detto babbo?
– Sì, me lo ha detto vostro padre.
– Sì, è vero –. Delia annuì, con energia. – C’è una porta, sul lato dove tramonta. Si apre con una specie di paletto, ed è inquietante, veramente inquietante.
– Avete visto entrarci qualcuno?
– Sì. Due persone. Cioè, una è entrata e l’altra è uscita. Due persone che... ecco, è strano. Avevano addosso entrambe una di quelle maschere che si usano, sapete...
– Per tirare di scherma?
– Sì, esatto.
– Chi avete visto entrare lì dentro?
– Il signor Gazzolo. Era sabato. Oggi, poco fa, ho visto uscire una donna. Credo sia una domestica, l’ho veduta forse in giro per il castello in questi giorni. Di sicuro non è una di noi.
– Cioè?
– Cioè, non è una degli ospiti, ecco. Li conosco tutti, oramai, e poi sono l’unica femmina.
– Che cosa hanno fatto?
– Non lo so. Il signor Gazzolo è entrato. La donna, la domestica, è uscita. Ho visto solo questo.
– Avete idea di cosa ci potrebbe essere dentro?
Delia piantò in faccia all’ispettore due occhi grandi come i suoi dubbi.
E cosa ne so io? Api? Piante urticanti? Il Minotauro?
Magari sotto il castello c’è un labirinto, e io farò la fine di Arianna, sedotta e abbandonata, persa nei meandri di un maniero da fiaba che mi sono costruita intorno da sola, col principe azzurro che arriva da lontano e promette di portarmi via ma poi parte e io rimango qui come una pera, a pregare che non mi lieviti la pancia.
L’ispettore Artistico annuì. Va bene, la storia della porta era vera, ma vattelappesca cosa c’era dietro. Adesso che la ragazza sembrava più malleabile, era il momento di affondare un po’.
– Voi conoscete alcuni degli ospiti presenti per il fine settimana?
– Alcuni, non tutti.
– Per esempio?
– Il dottor Viterbo e babbo si conoscono da tempo.
– E il signor Aliyan?
– Non saprei. Lui e babbo non si prendono bene.
Vi ho chiesto chi conoscete voi, signorina, non chi conosce vostro padre, avrebbe voluto urlare l’ispettore Artistico. Ma sarebbe stato inutile. Quella ragazza si era chiusa a riccio. Occorreva lavorare piano, col coltello di traverso, per aprire, non menare fendenti.
– Il dottor Viterbo è amico di vostro padre, dicevate. Sembra una brava persona.
Delia riportò lo sguardo sulle sue mani, appoggiate in grembo. Le nocche erano bianche.
– Una gran brava persona, sì.
– Immagino che sia anche un amico di famiglia. Lo frequentate da molto tempo?
– Da un anno, circa.
– E avete intenzione di continuare a frequentarlo, in futuro?
La ragazza alzò di nuovo gli occhi sull’ispettore. Erano pieni di lacrime.
– Allora lo sapete anche voi?
– Permesso?
– Oh, caro signor Artusi, entrate, vi prego.
– Ispettore carissimo, nonostante le circostanze siano tragiche, è un vero piacere rivedervi.
– Anche per me, signor Artusi. Vi trovo in gran forma.
Ed era vero. L’occhio tranquillo, il passo sicuro, senza bastone, né occhiali, né altri tipi di protesi propriocettive che, passati i settant’anni, erano la norma all’inizio del secolo breve. E i baffoni da tenente austroungarico sempre al loro posto, ben curati e rigogliosi.
– Gli anni passano, ispettore. Un lustro intero, nel nostro caso.
Non credevo che avrei mai sentito qualcuno usare la parola «lustro» in una conversazione, in vita mia. Uomo d’altri tempi, il caro vecchio Pellegrino. E un uomo, finalmente. Non uno gnomo sfuggente come il Bonci o una ragazzina impaurita come Delia. Uno con cui poter parlare liberamente.
– Spero che sia una fatalità, caro signor Artusi, che ci ritroviamo di nuovo in un caso criminoso. Se fossi scaramantico come usa dalle mie parti, dovrei arrestare voi. Siete sempre sul luogo del delitto.
Poco prima, a due persone distinte, l’ispettore Artistico aveva detto che non poteva fidarsi di nessuno. Con una singola eccezione: l’uomo che aveva davanti, che anni prima gli aveva dimostrato la propria, di fiducia, ed era stato un testimone preziosissimo, indispensabile per la soluzione di un caso. Il primo omicidio della carriera di Saverio Maria Artistico, il momento dal quale la sua carriera in polizia era decollata. Dalle paludi malsane della Maremma amara ai palazzi di Siena, dove era arrivato fresco della promozione ad ispettore. Dove sua moglie aveva smesso di lamentarsi, dove sua figlia si sarebbe sposata con il rampollo di una delle famiglie più ricche della città.
Tutte cose che, bisognava essere sinceri, non sarebbero mai successe senza il signor Pellegrino Artusi da Forlimpopoli.
Sono cose che non si dimenticano.
Il baffone sorrise, sotto la vegetazione candida, poi si sedette scuotendo piano la testa.
– Quindi, è davvero un delitto.
– Tutto sembra indicarlo, sì. Non posso dirvi oltre. Ma voi, forse, potreste aiutarmi.
– A vostra disposizione, signor ispettore.
– Potreste raccontarmi come si è svolta la cena di ieri sera?
Il baffone inarcò le sopracciglia.
– Bah, quello che mi ricordo, volentieri. Cosa volete sapere, di preciso?
– Innanzitutto, partiamo dalle cose che vi ricorderete senza dubbio. Cosa avete mangiato a cena?
L’Artusi sorrise.
– Non ci vuol certo la memoria prodigiosa del povero delegato D’Ancona. Erano tutti piatti che conosco benissimo –. Il baffone di Romagna continuò a sorridere, gli occhi diventati piccoli piccoli sopra i baffi grandi grandi. – La padrona di casa, la signora Clara, mi ha voluto onorare facendo cucinare delle pietanze prese dal mio trattato.
– Ormai siete famoso, signor Artusi. Dovrete abituarvi.
– Ben più di quanto credessi, sapete? Pure il delegato D’Ancona mi disse che aveva letto il mio libro. Lì per lì credevo dicesse per cortesia, ma quando venne servita la testicciuola d’agnello in umido io raccontai una storiella spiritosa. Dissi che ero contento che la testicciuola fosse stata tagliata per il lungo, e non per traverso, come aveva fatto una serva di mia conoscenza: la stessa brava ragazza che un’altra volta aveva infilato i tordi nello spiedo dal di dietro al davanti. È la stessa storia che racconto nel mio manualetto, in cima alla ricetta della testicciuola. Il delegato ridacchiò e disse che le storie del mio libro erano sempre gustosissime, e che per quella serata sarebbe stata ben più appropriata la ricetta del numero centosettantasei. Vuol dire che aveva riconosciuto la storia, e sapeva che appariva nel mio libro.
Minchia. Altro che memoria prodigiosa, il delegato.
– E cosa dice la storia al numero centosettantasei?
L’Artusi allargò le braccia. Se non si ricordava male, era la ricetta dei carciofi fritti. Quelli che sanno fare solo in Toscana, mentre da altre parti o li lessano prima o li mettono in pastella. Probabilmente il delegato aveva voluto fare un complimento ai fritti della padrona di casa. Ma vattelappesca, con tutti quei cambi di edizioni aveva perso il conto.
– Ahimè, il delegato si ricordava il mio libercolo molto meglio di me. Feci un sorriso da uomo di mondo e cambiai discorso. Come ho fatto poc’anzi, anzi, e me ne scuso. Volevate sapere cosa abbiamo mangiato a cena –. Artusi iniziò a contare con le dita. – Allora, come principio dei fichi col prosciutto e le acciughe salate. Come fritto, dei bocconcini di pane ripieni di animelle. Come tramesso, uno sformato di funghi con rigaglie di pollo.
Per Artistico, quella sarebbe bastata come cena. Dal modo in cui aveva iniziato a enumerare l’Artusi, per gli ospiti della signora Clara non eravamo nemmeno a metà.
– Poi, di umido, un’anatra colle pappardelle all’uso aretino, e la testicciuola d’agnello di cui si diceva. Come arrosto, un rosbiffe allo spiedo con patate.
E poi dicono di noi calabresi.
– Niente altro?
– No, il rosbiffe è stata l’ultima pietanza.
Meno male.
– Di lì, siamo passati senza indugio al dessert.
Ah, ecco. Stavo in pensiero.
– Una crostata di conserva di albicocche, molto ben eseguita fra l’altro, e un budino di mandorle tostate.
– E poi, come è proseguita la serata?
– Non si è prolungata oltre. La cena è stata lunga e piacevole, ma alcuni piccoli dissidî durante il pasto mattutino consigliavano di non trattenersi troppo a lungo.
– Capisco. Quindi, visti questi dissapori, la disposizione dei posti a tavola poneva per caso dei problemi?
– No, la signora Clara è persona troppo accorta, e il maggiordomo è un vero e proprio libro di galateo vivente. L’avete conosciuto?
– Bartolomeo? Mi sembra uno che morirebbe sui bastioni per la propria famiglia. Il signor Gazzolo e signora, cioè.
L’Artusi ridacchiò.
– Sì, è così. Comunque i posti erano stati in qualche modo ridistribuiti. Io fui messo tra la signora Clara e il signor Aliyan. Accanto alla signora c’era il delegato D’Ancona, e subito dopo il signor Bonci, con la figlia al suo lato, come sempre. Dal lato sinistro della signorina Delia c’era il dottor Viterbo...
L’ispettore rabbrividì.
– ... e a sinistra del Viterbo erano il commendator Gazzolo e il professor Mantegazza. Sì, era così.
– Quindi, il Bonci si trovava esattamente accanto al D’Ancona?
– Sì, esatto.
– Allora, vediamo se ho capito bene –. L’ispettore fece un cerchio sul tavolo con l’indice, e iniziò a circondarlo di ditate. – Il Bonci si trovava accanto al D’Ancona, e il signor Aliyan al capo opposto. Mi sembra di capire che i dissapori fossero sorti fra loro due.
– Sì, è così.
– Sapete mica anche la ragione di questi dissapori?
Non che io la ignori, eh. Di sicuro il turco sa che l’amore della sua vita è stata promessa sposa a un banchiere che ha il doppio della sua età e pesa il triplo. Non so se il Bonci sa che l’ottomano mette tutte quelle mani addosso alla figliola. Mi sa che toccherà scoprirlo presto.
– Alcuni commensali mi hanno detto che sono sorte questioni di lana caprina sulla religione – incoraggiò l’ispettore, ma l’Artusi scosse la testa.
– Della quale secondo me non importa un fico secco a nessuno dei due. Vedete, ispettore, ho parlato con il signor Aliyan, stamattina.
– Mentre cucinavate?
– Esatto. Posso riferirvi cosa mi ha detto lui, premettendo che io ho sentito solo la sua campana.
– Dite, allora.
– Il signor Aliyan sospettava che il Bonci stesse perpetrando una truffa. A suo dire, il Bonci aveva presentato una serie impressionante di documenti e di polizze per testimoniare la vastità e la salute dei suoi affari. Sapete che è agente di assicurazioni, no?
L’ispettore assentì, in silenzio.
– Bene, l’Aliyan ha il sospetto, o meglio, a suo dire, la certezza che la grande maggioranza di tali polizze siano false.
– In base a cosa, scusate? Ve lo ha detto?
– Il signor Aliyan è molto versato in statistica, e pare che il modo in cui è distribuita la clientela del signor Bonci sia molto, molto improbabile. Ci sono, ad esempio, lo stesso esatto numero di persone nate in gennaio, febbraio, marzo e via andare. Ogni mese ha lo stesso numero di nati. Ci sono ventenni, quarantenni e sessantenni in ugual misura. Secondo Aliyan, questo è impossibile o quasi. È come se queste polizze fossero state fabbricate ad arte.
L’ispettore continuò ad annuire, pensieroso.
Era la stessa cosa che gli aveva detto l’Aliyan. E aveva senso. La realtà non è un album di figurine. Ci sono sempre fluttuazioni, distribuzioni, deviazioni.
Dove si incontrano due linee? In un punto, Saverio. E quel punto era la posizione del signor Giuseppe Bonci.
Il quale la sera di sabato era seduto proprio accanto al delegato D’Ancona.
– Chi versava il vino e l’acqua, vi ricordate? Venivate serviti o provvedeva il maggiordomo?
– All’inizio della cena era Bartolomeo personalmente a riempire i bicchieri. Dopo, più d’uno se lo è versato vicendevolmente. Anzi, dato che siete entrato nell’argomento, e visto che il freddo si fa più pungente, col vostro permesso, che ne dite di un buon brandy?
– Fate pure, signor Artusi. Io sono in servizio. Faccio chiamare Bartolomeo?
– Vi prego, sono ancora in grado di servirmi da solo. E poi, visto quello che ci siamo appena detti, perdonatemi ma preferisco che nessuno si avvicini al mio bicchiere.
Il poliziotto guardò il borghese, con un mezzo sorriso.
– Mi sembra, caro signor Pellegrino Artusi, che il vostro cervello funzioni ancora benissimo.
– Quello sì – disse Artusi, avvicinandosi al mobiletto dei liquori. – Quello sì, grazie a Dio. Sono altre parti del corpo, che non funzionano mica più tanto bene. Son romagnolo, lo sapete, e per noi romagnoli ci son due cose importanti nella vita –. Artusi aprì il mobiletto, prese una bottiglia di vetro piena di liquido color dell’ambra e un bicchiere. – Per fortuna, lo stomaco funziona ancora che è una bellezza.
– Non mi dite che non vi godete più la vita, signor Pellegrino.
– Anzi. Ora più che mai, vi posso assicurare.
– Vedete? Voi, signor Artusi, siete di quelli che vedono il bicchiere sempre mezzo pieno.
– Voi dite?
Pellegrino Artusi fece roteare piano il bicchiere, guardando poi il liquido color dell’ambra che scendeva, in archetti morbidi.
Aveva avuto tante cose, dalla vita. Soldi, letture, cibo. Altre non le aveva avute mai: la pace di una famiglia. Aveva avuto un padre, una madre, sette sorelle. Nessuna moglie e nessun figlio, almeno a quanto sapeva lui. O meglio, chissà.
C’era una ragazza che era a servizio dai genitori, e che lui andava a trovare di notte. Poi lui era partito per il commercio, e quando era tornato, tre mesi dopo, la ragazza non c’era più. Licenziata. Era una svergognata, aveva detto la madre. E poi gli aveva detto una cosa che non si era scordato più.
D’altronde è meglio così. Vedessi com’era diventata già grossa.
Pellegrino Artusi guardò il bicchiere, in controluce, alzandolo verso la finestra.
– A volte è mezzo vuoto, ispettore, a volte è mezzo pieno. Dipende tutto da cosa c’è dentro.