Uno
Placido, ma attento, Bartolomeo percorreva il corridoio a nord del piano nobile del castello.
E, mentre camminava, spuntava dalla sua lista mentale le mansioni appena svolte. Nonostante l’ora fosse giovane, di cose ne aveva già fatte parecchie.
Supervisionare il servizio della colazione: fatto. Ispezionare e istruire i camerieri: fatto. Scrivere in bella calligrafia il menù del pranzo per gli ospiti che sarebbero rimasti: fatto. Verificare che le carrozze fossero pulite e in ordine per gli ospiti in partenza: fatto.
E altro e altro ancora, che invece restava da fare.
Intorno a lui, nella penombra d’aurora delle sei di mattina, gli arazzi amici smorzavano con gentilezza il rumore già di per sé felpato del suo passo.
Un piccolo sbadiglio si fece strada sui lineamenti del maggiordomo. Era stato sveglio tutta la notte, a giocare a canasta con la cuoca e il fattore, come faceva tutti i sabati. E aveva anche vinto una bella sommetta. Ma le preoccupazioni rimanevano. Quella non era una domenica come le altre.
Nel resto del corridoio non c’era nessuno, e l’unico rumore era quello dell’interno dei pantaloni del domestico, che frusciavano ad ogni passo, e che Bartolomeo avrebbe potuto evitare solo camminando come un cowboy – cosa che al maggiordomo di una casa signorile non si addice.
In tutto il piano, insomma, regnava il silenzio.
Un silenzio ampio, calmo, pieno.
Eppure, non del tutto rassicurante.
In quel silenzio mancava qualcosa.
– Manca molto?
La domanda dell’Artusi era stata breve non tanto per scarsa educazione, quanto per scarsa respirazione. Corta come il suo fiato corto, dato che erano dieci minuti buoni che stava dietro all’Aliyan, il quale dopo avergli augurato il buongiorno era partito con passo elastico e, soprattutto, lungo in direzione dell’oliveto del castello, distante un chilometro buono.
Artusi ed Aliyan si erano ritrovati alle cinque e mezza in cucina, per un fugace caffè, e dopo un rapido scambio di convenevoli si erano incamminati fuori dal castello per andare verso l’oliveto.
In realtà, l’intenzione di Aliyan e Artusi sarebbe stata quella di installarsi a spentolare in cucina, al caldo: ma la cuoca, una virago di età indefinibile, aveva cortesemente fatto notare che ci pensava lei a dare da mangiare ai signori ospiti e che lì dentro c’era tanto da lavorare e poco spazio per muoversi e se i signori avevano voglia di giocare con le pentole c’era un bel forno da campagna nell’oliveto, quello con cui si facevano le caldarrostate all’aperto.
E così, i due si erano avviati fuori. Gli ingredienti li aveva con sé Aliyan, in una piccola sporta: a parte l’ultimo, da cogliere direttamente dall’albero.
– Che si trova esattamente dietro all’oliveto, Artusi effendi. Siamo stati fortunati.
Pellegrino Artusi non rispose. I due si erano messi d’accordo, è vero: il turco avrebbe preparato, mentre il baffone di Romagna avrebbe aiutato, osservato e, soprattutto, scritto. All’Artusi era sembrata una buona idea, una dozzina di ore prima, nessuna delle quali passata a dormire. Al momento, con gli occhi gonfi di sonno e i polmoni alle orecchie, un po’ meno.
– Siamo quasi arrivati, effendi. Lì, dietro quel filare.
Ed eccolo lì, infatti; un piccolo arbusto, quasi adolescente in mezzo a tanti ulivi vecchi e rugosi. Il melograno, nato dal sangue di Dioniso, con i cui frutti Ade legò a sé Persefone per metà dell’eternità. Questo avrebbe detto l’Artusi, se avesse avuto fiato a sufficienza. Vista la situazione del polmone, invece, si limitò ad annuire.
– Ottobre, il mese migliore – disse il turco. – I semi sono una primizia, maturi ma ancora aciduli. E lì c’è il forno da campagna.
– Meglio accenderlo subito?
– No, non abbiamo bisogno della brace, basta il fuoco –. Aliyan indicò l’arbusto verso il basso, a una cinquantina di centimetri da terra, dove tondeggiavano una decina di frutti promettenti. – Adesso la cosa da fare è cogliere melagrane e prendere i semi. Noci le abbiamo, bisogna solo di sbucciarle.
– Mentre voi cogliete le melagrane, allora, sarà il caso che io sbucci le noci.
Già mi hai fatto scarpinare, ora non vorrai mica anche che mi chini su quell’arbusto, vero? Sono sull’orlo di un infarto, sarebbe di per sé una morte dolorosa, mi ci manca solo il colpo della strega e siamo a posto.
– Tutto a posto, Bartolomeo?
– Abbassi la voce, per cortesia, Crocetta. Alcuni ospiti dormono ancora.
– Ma sono tutti dalla parte di là. Qui ad ovest sono tutti svegli.
– Non tutti. Manca il delegato D’Ancona.
Crocetta guardò Bartolomeo, con aria dubbiosa.
– Sta ancora dormendo?
– Così sembrerebbe.
– È un po’ strano, non vi sembra?
Bartolomeo annuì, più con gli occhi che con la testa.
– Di solito il delegato è alquanto mattiniero.
In realtà, sia Bartolomeo che Crocetta stavano pensando la stessa cosa: che se davvero il delegato stava dormendo, allora il silenzio in corridoio era veramente strano. A cose normali, il delegato D’Ancona russava come un mulino con dei sassi dentro; per questo Bartolomeo e Crocetta, nei fine settimana in cui era ospite, non mettevano mai nessuno nella stanza accanto a quella del delegato. Sarebbe stato come tentare di dormire in curva Nord. Questo, quando era in salute; con il raffreddore, non c’era alcuna speranza che le cose potessero migliorare.
Ciò nonostante, in quel momento in corridoio non c’era alcun rumore. E anche accanto alla porta della camera del delegato, dove si trovavano i due domestici, non si sentiva nulla.
– Credete che si senta male?
– Non escluderei la possibilità.
– Forse sarebbe il caso di bussare.
– Il delegato non ha espresso tale desiderio – rispose Bartolomeo, freddamente.
– Credo che non abbia espresso nemmeno il desiderio di sentirsi male, ma a volte le cose capitano anche se uno non le chiede al maggiordomo, non credete?
Si formò del ghiaccio sulle pendici più alte del domestico.
– Parleremo dopo di questa sua impertinenza – disse Bartolomeo, levando in alto la mano sinistra, guantata e chiusa a pugno (per bussare, eh, non penserete certo che, vero).
Le nocche di Bartolomeo batterono tre colpi discreti.
Non ci fu reazione.
Altri tre colpi discreti.
Non ci fu reazione.
Bartolomeo caricò di nuovo il pugno, e Crocetta lo guardò male. Stupidità è fare più volte la stessa cosa e aspettarsi un risultato diverso, dicevano gli occhi di Crocetta.
E cosa altro potremmo fare? chiesero le sopracciglia di Bartolomeo.
Levati di lì, ordinarono le pupille di Crocetta.
Che poi, chinandosi, portò la destra al buco della serratura.
– Credo che sarebbe meglio chiamare il dottore, Bartolomeo – disse a bassa voce, prima ancora di rialzarsi.
– Non sarebbe il caso di avvertire prima il signore?
– Avete ragione, Bartolomeo. Voi andate ad avvisare il signor Gazzolo, e io scenderò giù in sala colazione a chiamare il...
– Per carità – la interruppe Bartolomeo, alzando la mano. La cameriera addetta al piano che entra in sala da pranzo. Va bene le disgrazie, ma c’è un limite a tutto.
– Professore...
Mantegazza, che aveva il volto e il pizzetto orientati verso un magnifico piatto di uova e pancetta, alzò lo sguardo verso il maggiordomo. Del resto, l’unico professore di qualcosa, in quella sala, era lui.
– Mi dica.
– Sarebbe richiesta la vostra presenza al piano di sopra, professore, per cortesia.
Bartolomeo aveva rimarcato la parola professore non tanto per evitare gli equivoci, quanto per non chiamare il Mantegazza dottore, e quindi per evitare di allarmare qualcuno inutilmente. Del resto è noto che il dottore è richiesto spesso in condizioni di emergenza, e il professore invece viene consultato per avere un parere competente, ed evitare che tali emergenze si verifichino. Almeno, questo accadeva un secolo fa.
– Capisco.
Il Mantegazza, dopo una rapida occhiata al proprio piatto, guardò il maggiordomo, che era rimasto al suo fianco.
Una perla di maggiordomo. Uno che non avrebbe mai portato una richiesta a una persona che stava facendo colazione in santa pace, se non si fosse trattato di qualcosa di maledettamente urgente.
Altro che professore. Qui c’era bisogno del medico.
Casomai le uova me le faccio rifare dopo.
– Bene, Bartolomeo. Mi faccia strada.
– È morto, signor Gazzolo. Da parecchie ore.
Accanto al letto, il Mantegazza lasciò andare il polso del delegato D’Ancona, con una delicatezza resa necessaria più dal contesto che da altro.
Di fronte a lui, Secondo Gazzolo ancora in abiti da campagna, giacché la notizia gli era arrivata mentre era in fattoria, per l’usuale ispezione degli animali: vero che era domenica mattina, ma quando una vacca deve partorire non lo fa in orario di lavoro.
Sulla porta Bartolomeo, che era rimasto lì dopo aver aperto la camera col passepartout, le mani dietro la schiena e l’aria affranta. Così come affranta, e stanca, era l’aria del Gazzolo. Del resto, il pover’uomo non aveva dormito: dopo aver passato una notte insonne, alle cinque il fattore era andato a prenderlo per il giro mattutino.
– Non avremmo potuto far nulla, dunque. Anche se fossimo arrivati prima.
– No, temo di no. La morte risale a parecchie ore fa. Almeno quattro, forse di più.
– Capisco –. Il Gazzolo tentennò la testa. – Sapevo che era di salute cagionevole, e ieri l’ho visto piuttosto provato, ma non siamo mai preparati, non è vero, professore?
Il Mantegazza non rispose subito. In quel momento, come già detto, non si sentiva professore, ma dottore. E una delle caratteristiche innegabili dei dottori è che solitamente sono piuttosto pronti a indossare il camice mentale della loro professione. Anche nelle situazioni peggiori, passando da un piatto caldo a un corpo freddo.
– Avrei bisogno di una cortesia, caro Gazzolo.
– Ce ne saranno molte da fare, oggi, temo. Dite, dite.
– Potreste chiamare qualche garzone robusto, sì da spostare la salma in un luogo più adatto?
– Ma certo. Bartolomeo, chiama Dante e digli di venire qui con Troccolo e con un paio di stanghe –. Il maggiordomo chinò il capo in un cenno di assenso e prese l’uscio. – Sì, è una delicatezza a cui avrei dovuto pensare. Dovremo portarlo lontano da dove sono gli ospiti. Voi avete esperienza di queste cose. Dove pensate che sia meglio?
– Principalmente, basta che sia un luogo luminoso. Avrei bisogno di osservarlo bene.
– Osservarlo bene? Ma, caro professore, avete detto voi stesso che il povero delegato è morto...
Mantegazza mantenne lo sguardo sul cadavere. Fu il respiro del Gazzolo, profondo, forzato, a dirgli che aveva capito.
Perché il D’Ancona era morto, ma quando il Mantegazza l’aveva visto l’ultima volta era sempre vivo. Lo aveva addirittura visitato.
E quell’uomo non era morto per un infarto, o per un colpo apoplettico.
– Non posso dir nulla prima di aver esaminato a fondo il cadavere, caro Secondo.
Ma questo tizio, secondo me, è stato soffocato.
Sì, si soffoca.
Nelle grandi città, si soffoca.
Troppe persone, troppo poco spazio.
Pellegrino Artusi prese un respiro profondo, godendo di uno dei doveri più elementari dell’essere umano, ancora prima del mangiare e del dormire.
Respirare. Ne abbiamo così bisogno, e ci facciamo così poca attenzione. Ce ne rendiamo conto solo quando il fiato ci manca, di cosa sia. Ora, l’Artusi non si ritrovava spesso ad avere il respiro alterato, nella vita di tutti i giorni: era un uomo tranquillo, privo di ansie, e a cui l’età avanzata impediva quelle attività che di solito fanno venire il fiatone, sia quelle con i pantaloncini che quelle senza le mutande. E quindi, in quel momento, si godeva il proprio respiro, tornato netto, regolare, profondo.
Gli uomini hanno bisogno di aria. L’aria della mattina, particolarmente. È fresca, è nuova. Ti rimette al mondo.
Artusi guardò il tavolo, dove stavano tutti gli ingredienti pronti per essere cucinati. I peperoni, le noci, il succo di melagrana, l’olio e il pane. Mancava solo il fuoco.
Giusto al momento di accendere il forno da campagna, Aliyan e Artusi si erano accorti che non c’era legna, né nell’interno del coso né nei dintorni; a quel punto Aliyan aveva detto che sarebbe andato a prenderla al castello.
– Le cucine saranno ancor più indaffarate a quest’ora. Non vorrei che vi capitasse qualche guaio come a me – aveva detto Artusi, mostrando il petto e le mani ricoperti di colature e schizzi rosso scuro. In effetti, capita, quando si devono spremere i semi della melagrana e gli unici utensili a disposizione sono due mani e tanta buona volontà. Aliyan si fermò un attimo a pensare.
– Non sarà necessario andare in cucina, credo.
– Avete bisogno di una mano d’aiuto? – aveva chiesto l’Artusi, col tono subdolo di chi insinua che se non ce la fai da solo a portare una decina di chili di legna sei un posapiano e probabilmente anche un po’ finocchio.
– Vi ringrazio, posso farcela da solo – assicurò il turco, consapevole che se il suo compagno di merende si era fatto venire un enfisema per una passeggiatina di dieci minuti con addosso solo un cappotto, se rifaceva la stessa passeggiata avanti e indrè con qualche chilo di legna rischiava di scapparci il morto. A dire la verità, un altro morto. Ma quello, Aliyan non poteva saperlo.
Così l’Artusi era rimasto da solo, lieto e tranquillo. Beata solitudo, sola beatitudo. Certo, dipende. Se te la scegli, la solitudine è meravigliosa. Purché sia breve. Ogni cosa, a prolungarla troppo, stanca. E quindi?
Quindi, come l’Artusi aveva realizzato da molto tempo rimpiangendo di non averlo capito prima, l’importante è il cambiamento. I nostri sensi si abituano, se vengono esposti sempre agli stessi stimoli. E allora, delle due l’una: o se ne dà loro di più, o gli si deve dare qualcosa di diverso.
E se gliene dai di più, prima o poi non ce la farai. Cambiare, certo, ma col giusto ritmo, e nelle giuste cose. Non è che devi cominciare a camminare a capo all’ingiù. Ma nemmeno mangiare per tutta la vita solo pasta al pomodoro.
Mentre l’Artusi si perdeva nei propri pensieri, vide da lontano Aliyan avvicinarsi con due fascine di ciocchi sotto le ascelle, il passo elastico di chi va da qualche parte.
– Ecco qua – disse il turco, scaricando di fronte al forno il combustibile. – Non c’è stato bisogno di passare dalla cucina.
– Bene – si riscosse l’Artusi. – Direi che adesso possiamo accendere il fuoco. Avverto già un certo appetito, devo dire.
– Sì, anche io.
Artusi guardò il compagno di merende con aria complice.
– Sentite, è necessario il fuoco o possono andar bene anche le braci?
Aliyan guardò in direzione del castello, poi si voltò verso il buon Pellegrino.
– No, forse le braci sarebbero la cosa migliore.
– Benissimo. Allora, suggerirei di accendere e poi tornare dentro a fare colazione. Quando si saran formate le braci, torneremo qui e daremo agio alla cazzaruola.
Anche perché va bene la solitudine, va bene l’aria pura, ma io ho fame e qui si sta rialzando il vento. Ottimo per i fuochi, ma pessimo per gli Artusi.
Così, Aliyan aveva formato una piramide di ciocchi, mentre Artusi aveva accartocciato alcuni fogli di carta gialla e li aveva porti al turco.
– Ce ne vogliono di più – disse Aliyan, il quale aveva preso il comando delle operazioni con piglio militaresco e quindi non c’era pericolo di chinarsi.
– Dite? Con questo vento due o tre fogli dovrebbero ben bastare.
– Sì, ma la legna è umida. Umida e fredda. Sarà bene abbondare. Abbiamo ancora carta?
– Siamo nel mezzo di una trattativa con un organo ufficiale del Regno d’Italia – disse l’Artusi, sorridendo mentre prendeva altri fogli. – La carta, in questi casi, non manca mai.
Acceso il fuoco, l’improvvisato sodalizio italo-ottomano si era avviato verso casa e, varcato il portone, si era diretto con decisione verso la sala colazione.
Trovarono la stanza discretamente imbandita, ma vuota. Poco male, si vede che gli altri avevano già mangiato; a casa Gazzolo, aveva detto il Mantegazza, la colazione era sempre informale e prevedeva un flusso continuo, chi prima si sveglia prima mangia, senza posti assegnati. I due si sedettero quindi a due posti vicini, e suonarono il campanello.
– Buongiorno, Bartolomeo – disse l’Artusi, come il maggiordomo si palesò sulla porta. – Mi corregga se sbaglio, ma mi sembra di avvertire l’odore di uova con la pancetta. Se ne potrebbe avere una porzione?
– Sono costernato, signori. In questo momento la cucina è ferma.
– Non capisco – disse Aliyan, con tono lievemente risentito. – Siamo forse in ritardo?
– Assolutamente no, signori. Non è a cagione vostra, signori –. Bartolomeo tossicchiò. – Temo di dovervi dare una bruttissima notizia.