La cavalcata dell’Apocalisse nella notte tra domenica e lunedì aveva lasciato il segno negli umori della città.
Nei palazzi dell’alto clero e della nobiltà, al Corso, al rione Pigna, Trevi e Colonna o nella zona dei Santi Apostoli, come negli edifici della Curia intorno al Quirinale e al Campidoglio, cominciava a serpeggiare la paura. Principi e cardinali fino a quel momento non avevano preso troppo sul serio le esibizioni di acque colorate e di mostri eruttati dal Colosseo. Avevano aderito alle razionali spiegazioni di quella strana comitiva di veneziani delle cui imprese erano resi edotti dal passaparola del loro ambiente.
L’alta società si era preoccupata per la morte del bambino trovato davanti a palazzo Muti e del parroco di Santa Prassede, perché, confrontandosi nei salotti, tutti avevano capito che i delitti erano stati studiati per suscitare nel popolo l’ostilità nei confronti del governo papale e delle classi dominanti.
Ma quei quattro cavalieri, una mascherata anche quella, non c’era dubbio, avevano segnato una svolta, avevano terrorizzato il popolino insinuandosi nelle strade e nelle piazze, annunciando che il Male poteva colpire chiunque, entrare nelle case, senza che nessuno potesse sentirsi al sicuro.
Infatti nei rioni popolari di Trastevere e di Monti, nei vicoli alle spalle di Ripetta, nell’agglomerato di casupole intorno al ghetto, il fermento era inarrestabile. Ortolani, ambulanti, facchini, ma anche gli artigiani del rione Regola, gli impiegati di Parione, perfino membri del basso clero uscivano di casa timorosi e camminavano rasente i muri e, trascurando il lavoro, si riunivano in locande, osterie, bettole, qualunque luogo pubblico dove sentirsi sicuri in compagnia. E i suddetti luoghi pubblici stavano diventando centri di sedizione, volavano invettive sempre più esplicite contro le corti dei nobili e dei cardinali e accuse perfino nei confronti del papa.
Sul far della sera le confraternite dei mestieri organizzavano fiaccolate in direzione delle chiese dei santi protettori, Santa Maria dell’Orto a Trastevere per ortolani e fruttaroli, Santa Lucia della Tinta per i cocchieri, che procedevano a ranghi compatti in tuniche turchine. Dietro piazza Farnese, Santa Maria della Quercia era la meta dei macellai, seguiti da gruppetti di flagellanti dalle schiene orribilmente piagate, mentre osti e barcaioli si aggiravano per le vie di Campo Marzio diretti a San Rocco a Ripetta. I cortei si ingrossavano strada facendo con gli elementi più turbolenti che uscivano avvinazzati dalle osterie, tra voci di minaccia nei confronti di questa o di quella dimora di grandi famiglie.
Il governatore di Roma Cosimo Imperiali, chiuso nel palazzo Senatorio in Campidoglio, contemplava dall’alto la città senza sapere che fare. Fu perciò con vero sollievo che la mattina del 20 novembre accolse la visita del bargello accompagnato dall’avogadore Pisani e dal dottor Valentini.
Il giorno prima Guido aveva avuto un lungo colloquio con il papa per convincerlo a difendere in armi la città. Nonostante fosse molto occupato a disporre la cerimonia per l’imminente concistoro, il pontefice gli aveva dedicato volentieri il suo tempo, ma era stato riluttante ad autorizzare la convocazione dell’esercito. Conosceva la preparazione sommaria e la disciplina carente delle sue forze armate che, unite all’indocilità degli sbirri, potevano causare incidenti e morti tra la popolazione.
Ma Guido era stato così eloquente nel presentargli l’operazione come preventiva e nel promettergli che si sarebbe svolta sotto stretta sorveglianza, che alla fine Lambertini, sia pure addolorato, aveva ceduto. E ora bisognava accordarsi per l’operazione con il governatore.
Cosimo Imperiali, alto e magro, in veste vescovile violacea, accolse gli ospiti in una sala che dava sui fori romani e dopo le cerimonie d’uso li fece accomodare intorno a un antico tavolo fratino.
«Siamo qui, eminenza» esordì Pisani, «per concordare con lei come mettere in atto la volontà di Sua Santità.»
«Quali sono le vostre proposte?» chiese il governatore.
«Il bargello, che conosce la città ed è abituato a comandare le truppe, saprà esporvele meglio di me.»
Il capitano Beccari si schiarì la voce. «Ho pensato, finché l’agitazione non si calma, di tenere in servizio tutti gli sbirri della città.» Imperiali fece un cenno d’assenso col capo. «Divisi in compagnie di una ventina di uomini, armati di spada e archibugio e a cavallo, pattuglieranno giorno e notte, due compagnie per rione, tutti i rioni cittadini, mentre altre compagnie saranno di guardia alle porte di Roma.»
«Ottimo.»
«Ma non è tutto» continuò Beccari, e qui veniva la parte più difficile. «Il papa ha deciso di far confluire a Roma alcuni presìdi militari che stazionano nel circondario, presìdi di fanti, dragoni e cavalieri, armati di spade e pistole, che si facciano vedere per strade e piazze nelle loro divise, per intimorire chi avesse cattive intenzioni.»
Il governatore fece una smorfia. Non gli piaceva vedere l’esercito caracollare per la città. «È proprio necessario?» si azzardò a chiedere.
Fu Pisani a intervenire, stringendosi nelle spalle. «La situazione è preoccupante» confessò.
Dal giorno seguente, in giro per Roma, oltre agli sbirri insolitamente inquadrati e disciplinati, si sarebbero visti anche i fanti còrsi in divisa bianca, la fanteria pontificia in giubbe rosse, gli svizzeri del papa, i corazzieri muniti di spadone, mentre a Castel Sant’Angelo, posto di guardia del Vaticano, il presidio sarebbe stato raddoppiato.
E la città sembrava immobile, in attesa.
La mattina di sabato, era il 24 novembre, Nani uscì alla chetichella, raggiunse Trastevere e si appostò come le mattine precedenti in vista di quella che era stata la casa di Romolo Rambelli. Seguiva una sua intuizione. Non era possibile, pensava, che il carbonaio non avesse nessuna relazione oltre a qualche sporadico contatto con i vicini o i compagni di bevute. Con un po’ di pazienza, sperava, qualcuno si sarebbe fatto vivo, qualcuno che forse si sarebbe lasciato convincere a parlare.
La mattinata era freddina e Nani, stanco di battere i piedi seminascosto nel vano di una porta, fece una puntata all’osteria del vicolo vicino a bere un bicchiere di vino. Quando tornò, rimase attonito nel vedere una figuretta femminile che singhiozzava col viso nascosto nel grembiule sulla scala d’accesso a casa Rambelli.
Forse era la volta buona.
Salì qualche scalino e si avvicinò premuroso. «Perché piangi? Posso fare qualcosa?» chiese gentilmente alla ragazzina.
Era giovanissima, con un visetto tondo da campagnola e grandi occhi nocciola pieni di lacrime, che alzò a guardare Nani.
«Nnnno…» balbettò. E ricominciò a singhiozzare.
Nani le porse un fazzoletto e si accoccolò vicino a lei. «Raccontami che ti succede» la esortò. «A tutto c’è rimedio, fuorché alla morte.» Alla parola “morte” la ragazzina, come Nani aveva previsto, pianse ancora più forte, e lui ebbe agio di ribattere: «Scusa, sono stato indiscreto, ti è forse morto qualcuno? Che ci fai qui su una scala?».
Quella lo scrutò di nuovo: era un giovane gentile e distinto, forse si poteva fidare e, data la notizia che aveva appena ricevuto, aveva una gran voglia di sfogarsi.
«Mi chiamo Giovanni Pisani» si presentò Nani. «Sono veneziano, a Roma per affari. Passavo di qui per caso e ti ho vista… vorrei solo consolarti» insistette.
«Io sono Romilde, vengo da Bracciano» rispose la giovane tirando su col naso.
«E cosa ci fai qui?»
«Ho accompagnato mio padre che doveva comperare sementi al mercato, siamo partiti stanotte col carretto. E mentre lui fa i suoi affari, ho avuto il permesso di venire a trovare…» La ragazza ricominciò a piangere.
«A trovare chi?» insistette Nani. Sentiva di essere sulla strada buona.
«Ecco» rispose lei asciugandosi gli occhi. «Eravamo vicini di casa… Io e Tommaso ci volevamo bene fin da bambini… Ma poi due anni fa siamo dovuti andare via tutti… e noi siamo finiti in campagna.»
Nani esultò. Ora doveva stare molto attento. «E oggi sei venuta a trovarlo.» E si dispose ad aspettare che il nuovo accesso di pianto si calmasse.
«Ma sono morti tutti» singhiozzò infine la ragazzina, disperata.
«Morti chi?»
Romilde alzò il viso congestionato e con una mano indicò la porta alle sue spalle. «I Rambelli… Abitavano qui. Tommaso era il figlio più grande! Ci volevamo bene…»
«Povera bambina!» Nani azzardò una leggera carezza sul capo. «Chi te l’ha detto?»
«Due vecchietti che abitano lì.» E Romilde indicò la scala vicina. «Sono morti tutti, avvelenati dai funghi! Non lo vedrò più…»
Nani prese la palla al balzo. «Era molto che non lo vedevi?»
«Due anni, te l’ho detto.»
«Da quando avete cambiato casa tutti…»
«Sì. Ma qualche volta ci siamo scritti. Io veramente non so scrivere, ma le lettere me le leggeva il parroco.»
«E prima dove abitavate?»
Romilde esitò. «Non dovevamo dirlo a nessuno… Eravamo poche famiglie e il padrone del palazzo ci ha sistemato sulle sue terre in campagna. Meno i Rambelli, che erano proprietari e non si sono voluti muovere da Roma. Così io e Tommaso non ci siamo più potuti vedere… Ma ci eravamo promessi di sposarci, da grandi.»
Era dura farla parlare. «Ormai sono morti. Me lo puoi dire dove abitavi.»
«Perché ti interessa?» replicò lei sospettosa.
A Nani venne una delle sue felici ispirazioni. «Lo sai perché? Perché non posso lasciarti qui sui gradini a piangere, ma posso affittare una carrozza e accompagnarti dove abitavi, a ricordare i momenti felici…»
All’idea della carrozza e di rivedere la sua vecchia casa Romilde cedette. «Abitavamo alla Torre dei Conti.»
Era fatta, finalmente era fatta!
Nani si era ben guardato dal recarsi in carrozza alla Torre dei Conti, dove di sicuro erano appostate sentinelle dalle quali non era il caso di farsi notare. Aveva distratto Romilde portandola in carrozza per il Corso, le aveva offerto un gelato al Caffè degli Inglesi e l’aveva accompagnata a piazza Navona dove era attesa da suo padre.
Nel primo pomeriggio poté finalmente tornare a palazzo Nuzzi, dove trovò gli altri che avevano appena finito il pranzo. Un frettoloso saluto al conte Innocenzo e a sua moglie e poi…
«So dove abita! Finalmente lo possiamo prendere!» si mise a strillare saltellando dalla gioia. E agli amici che, balzati in piedi, gli si facevano intorno spiegò: «Un colpo di fortuna! Erano giorni che stavo appostato, e finalmente quella ragazza…».
«Ma insomma, dove sta?» lo interruppe Marco.
«Alla Torre dei Conti, ma non so dove sia.»
Si udì la voce del conte Innocenzo. «Si tratta dei resti di una fortezza medievale che svetta con i suoi sette piani tra le casupole costruite sui fori romani e su quelli di Nerva e di Traiano. So che fu distrutta da un terremoto e poi ricostruita, e alcuni anni fa apparteneva alla famiglia Poli. Ma è un luogo dove non va nessuno…»
«Il luogo ideale per nascondersi» obiettò suo figlio.
«Stanotte andiamo a vedere» decise Marco.
«Ma la cosa più importante è sapere a chi appartiene ora» fece notare Guido.
«A quello posso provvedere io domani» assicurò Paolo. «Senza insospettire nessuno mi recherò negli uffici dell’archivio vaticano a consultare i documenti.»
«Dovremo fare molta attenzione» mormorò Chiara. «In questi giorni ho percorso in lungo e in largo tutta la zona dei ruderi di Roma antica; quella fortezza, se ho capito, vi si trova proprio al centro. Ma tutta la zona è come contaminata dalle forze del Male, le ho sentite venire dal sottosuolo… I nostri nemici non sono solo alla Torre, si espandono per la città. Sono numerosi, hanno armi, l’ho avvertito…»
Marco le sorrise. «Da un po’ di tempo sospettiamo che si nascondano nelle viscere della terra, ma almeno ora sappiamo da dove entrano e presto conosceremo finalmente chi è il loro capo. Sei stato grande, Nani» concluse abbracciando il suo gondoliere.
Era notte di luna nuova e la città era immersa nel buio. I veneziani, tutti vestiti di nero e muniti di cannocchiali, si divisero in due gruppi. Marco, con Nani, Maso e Chiara, che non c’era stato verso di lasciare a casa, si appostarono sulla spianata della via Biberatica in vista della Torre, mentre Guido, Daniele e Paolo guadagnarono la sommità del Colosseo.
Nessuno fece grandi scoperte, però. Chiara individuò una figura che si muoveva dietro le finestre del piano superiore illuminate, mentre verso le nove Daniele osservò lo spegnersi contemporaneo delle luci ai piani più bassi. Guido mise a fuoco col cannocchiale un’ombra china su una bilancia alla luce di una lampada. Nani, che aveva insistito per spingersi furtivamente fino alla piazza delle Carrette alla base dell’edificio col favore delle tenebre e tenendosi rasente il muro, poté scorgere un paio di sentinelle semiaddormentate davanti al portone.
Il giorno seguente, il 25, Marco, Guido e Daniele furono molto impegnati a predisporre il piano di attacco, mentre Paolo vagolava tra i labirinti della burocrazia pontificia.
Concordarono col bargello di attaccare la Torre la mattina seguente. Per quel momento, l’esercito sarebbe stato pronto a presidiare le porte della città, mentre compagnie di sbirri sarebbero state disposte per i fori e un manipolo di truppe scelte avrebbe fatto irruzione nella fortezza.
Verso sera Guido e gli altri decisero di passare al Monte d’Oro per vedere Francesco Biondo, che dava qualche segno di miglioramento da quando Chiara lo visitava regolarmente imponendogli le mani sul capo. Trovarono infatti la ragazza al capezzale del malato insieme a Gasparetto, che non lo aveva lasciato un minuto. Ambedue stavano constatando con soddisfazione che Biondo muoveva le palpebre e il colorito era roseo.
«Anche il polso è regolare» sentenziò Guido. «Il peggio è passato.»
«Quando pensi che si sveglierà?» gli domandò Marco. «Sarebbe utile conoscere il nuovo nome del nemico prima dell’attacco…»
In quel momento la porta della stanza si aprì con fragore e comparve Nuzzi tutto eccitato. «Uomini di poca fede!» scherzò. «È da un’ora che vi cerco per tutta Roma! Il nome? Volete sapere il nome?»
Si volsero tutti a guardarlo con aria interrogativa.
«Lo volete sapere, vero, quel nome che inseguiamo da due mesi? Lo volete sapere chi è Alvise Duodo?»
Dal letto di Biondo si udì provenire una voce flebile. «È Antonio Piro» svelò il diplomatico, ancora debole ma cosciente.
«Piro?» chiese Marco.
«Proprio lui» confermò Paolo. «Il presunto mercante maltese di spezie è il nostro uomo. Chi l’avrebbe mai detto! Il più tranquillo…»
«Piro!» esclamò ancora Marco. «Ecco cosa mi tormentava! Dovevo capirlo subito che era un impostore! Un giorno mi ha detto che la cattedrale dell’isola era San Matteo anziché San Giovanni. Come poteva un vero maltese commettere un simile errore? Sul momento non l’ho notato, ma poi mi è rimasta come un’impressione…»
Guido lo interruppe. «Francesco Biondo è uscito dal coma» dichiarò chinandosi sul letto a esaminare il paziente.
Biondo era disorientato. «Ma perché mi trovo qui? Cosa mi è successo? Dove sono? E voi chi siete?» Alla domanda su Duodo aveva risposto automaticamente, ma non sapeva rendersi ragione di ciò che gli era successo.
Guido presentò gli astanti. «Pensiamo, signor Biondo, che qualche malintenzionato l’abbia colpita la sera stessa del suo arrivo. Noi l’abbiamo trovata priva di sensi la mattina dopo, quando siamo venuti ad accoglierla. Ma ora sta molto meglio.»
«Finalmente!» osservò Marco. «Due belle notizie che arrivano insieme. Ma tu, Paolo, come sei arrivato al nome di Piro?»
Mentre Biondo si riprendeva sotto le cure di Guido, Nuzzi raccontò di avere seguito le tracce del proprietario della Torre dei Conti in prima battuta negli archivi vaticani. Il prefetto Garampi era stato molto gentile, lo aveva condotto in giro per gli immensi stanzoni colmi di documenti, ma aveva confessato candidamente che cercarvi un atto di compravendita, che di sicuro era archiviato da qualche parte, era come andare a caccia di un ago in un pagliaio.
Dal Vaticano Paolo si era allora diretto alla parrocchia di San Quirico, sotto la quale era ubicata la Torre, ma il parroco, dopo aver sfogliato a lungo i registri nei quali erano annotati nomi e residenze dei parrocchiani, oltre alla composizione familiare, aveva dichiarato che non vi era traccia della dimora in questione. Era probabile che, al momento della visita annuale del parroco alla Torre nessuno vi si fosse fatto trovare.
«Stavo per disperare» confessò Nuzzi, «quando ho ricordato le parole di mio padre, che attribuiva ai conti Poli il possesso precedente. Che fare? Mi sono diretto a palazzo Poli, quello dietro la fontana di Trevi, e la giovane contessa mi ha ricevuto con cortesia. Senza pormi troppe domande, mi ha condotto nell’enorme biblioteca del palazzo, una sala che si affaccia sulla fontana, e qui, frugando nell’armadio dei documenti di famiglia ha trovato l’atto di vendita risalente al 1751. Così è emerso il nome del compratore, il conte Antonio Piro.»
«Dovremo mandare un mazzo di fiori alla contessa» ironizzò Marco. «E glieli faremo portare da Nani, di cui pare sia molto amica. Ma lei, signor Biondo» continuò rivolto al diplomatico che, seduto sul letto, seguiva con attenzione lo scambio di battute, «avrebbe dovuto fermarsi a Roma per individuare, confidando nella fortuna, chi era diventato oggi il veneziano Alvise Duodo. Invece a quanto pare già a Napoli ne conosceva il nome…»
«Mi sono incuriosito e ho fatto le mie ricerche» ammise Biondo. «L’avvocato Zen…»
«Sono io» l’interruppe Daniele con un inchino.
«Lietissimo. Dunque lei mi ha scritto che avrei dovuto averlo incontrato vent’anni fa sulla nave che portava entrambi a Costantinopoli. E infatti lo ricordavo benissimo. Mi aveva colpito per la sua cultura e la personalità… ecco, al limite della morale comune. E per un’ambizione divorante. Ma non posso rimettermi in ordine e parlarvene, per esempio, domani?» sospirò Biondo riadagiandosi sui cuscini.
«Abbia pazienza» gli rispose Valentini. «Ora lei è in condizioni stabili, e noi abbiamo urgente bisogno delle informazioni che può darci.» E per sommi capi lo rese edotto della minaccia incombente su Roma.
Chiara gli porse un bicchiere d’acqua e Biondo si rassegnò a parlare. «L’avvocato Zen nella lettera accennava alla possibilità che costui avesse fatto fortuna in Oriente, quindi mi sono ricordato che a Napoli in quei giorni soggiornava lo sceicco al Walhid, un alto funzionario dell’Impero turco da anni mio buon amico, incaricato di curare le relazioni traballanti tra i Borboni e la Sublime Porta. Al Walhid ha sempre avuto vaste conoscenze e un’ottima memoria, quindi sono andato a trovarlo. Gli ho chiesto se ricordasse un veneziano che aveva fatto fortuna nei territori dell’Impero, e lui subito mi ha fatto il nome di Duodo, ma non solo.»
Tutti pendevano dalle sue labbra.
«Mi ha raccontato che costui pochi anni prima si era presentato al sultano proponendogli una guerra santa contro l’Occidente, e il sovrano, persona di buon senso, l’aveva congedato con un rifiuto e consolato col titolo di sceicco Ismail. Pare che fosse molto ricco e avesse un vasto seguito di uomini, ma praticava un Islam rigoroso e fanatico.»
«Proprio il nostro uomo, un rinnegato.»
«Proprio, perché il mio amico ha rivisto Duodo circa tre anni fa a Tunisi. Sotto il nome di Antonio Piro stava allestendo una flotta di stanza a Malta a scopi commerciali, ma un po’ troppo armata e numerosa per non nascondere qualcosa d’altro.»
«È veramente lui…» commentò Pisani. «Ma, signor Biondo, se non sono indiscreto, come mai queste notizie non ce le ha comunicate subito per lettera? Avremmo potuto individuare il nostro uomo circa un mese fa…»
Biondo si strinse nelle spalle. «Ma lei saprà, avogadore, che in diplomazia non si mettono mai per iscritto le notizie delicate. Esistono per questo gli ambasciatori.»
Per fortuna non vide gli occhi di Marco e Daniele levarsi al cielo.