La domenica si preannunciò tranquilla fin dalla mattina. Il bel tempo perdurava e invitava la gente al passeggio. Le chiese erano di nuovo affollate e tutti i sacerdoti della città avevano avuto ordine dalla Curia di spiegare durante la predica i trucchi con i quali sconosciuti irriverenti avevano voluto screditare il clero e spaventare i fedeli.
Marco e Guido, in compagnia di Nani e Gasparetto, a mezzogiorno varcarono la soglia dell’elegante palazzo Nuzzi a San Luigi dei Francesi per conoscere la famiglia di Paolo.
Il guardaportone li accompagnò per la scalinata fino a un’ampia sala dove l’amico romano li accolse con un abbraccio e li presentò ai genitori. Il conte Innocenzo, anziano ma ben in salute, dai lineamenti scolpiti come quelli del figlio e un paio di insoliti baffetti candidi, si fece loro incontro con cordialità. Vestiva abiti eleganti ma senza ricercatezze. La contessa, alta e magra, dal viso segnato ma dagli occhi vivaci, osservava con benevolenza i nuovi amici dell’unico figlio mentre li faceva sistemare su comodi divani di velluto e serviva personalmente i rinfreschi.
«Sedete anche voi, ragazzi» esclamò rivolta ai due assistenti che, intimiditi, non osavano avanzare nella sala, pur essendo stati espressamente invitati a casa Nuzzi.
«È un onore» esordì il conte, «ricevere gli amici di nostro figlio che tanto si stanno adoperando per scoprire chi attenta alla serenità della città e del nostro amato pontefice.»
«Ci consideriamo fortunati ad avere l’aiuto di Paolo» rispose Pisani, «che ci illustra le particolarità di Roma e dei suoi abitanti. Ma purtroppo finora abbiamo conseguito scarsi risultati.»
«Si potrebbe quasi pensare» obiettò Valentini sorseggiando un calice di vino, «che si tratti veramente di una serie di scherzi bene architettati, come andiamo raccontando in giro. Se non fosse che dagli specchi ustori di Santa Maria degli Angeli o dalla manomissione dei getti d’acqua del Fontanone traspaiono cognizioni scientifiche e un’organizzazione di alto livello…»
Lo interruppe la contessa. «C’è qualcos’altro che mi inquieta» rivelò. «Questa mattina alla messa qui, in San Luigi, dopo la spiegazione dei fenomeni illustrata dal parroco, si sono levate alcune voci. Uno scrivano che abita poco lontano ha lamentato che da diverse notti in casa sua compare un’ombra bianca che passa attraverso i muri cantando un’antica ballata, e tutta la famiglia l’ha vista… Ma non si sono spaventati, l’ombra si lascia dietro profumo di rosa e un’atmosfera di serenità. Invece l’armaiolo di Campo de’ Fiori ha raccontato che nella sua stanza, alla presenza sua e della moglie, all’improvviso ha preso fuoco un quadro della Madonna; e nelle cucine della famiglia Lancellotti a palazzo Torres questa mattina i cuochi hanno trovato tutte le stoviglie a terra, frantumate, senza che nessuno sia entrato né abbia udito il fracasso. E sui cocci, tracce di zoccoli di cavallo insanguinate…»
D’impeto, Nani prese la parola.«È così! Ci sono fenomeni inspiegabili! Io stesso ho visto un cavedio di palazzo Poli misteriosamente dipinto, dalla sera alla mattina, a fiamme dell’Inferno.» Si interruppe e divenne tutto rosso.
Marco lo trasse d’impaccio. «Ma la cosa che più ci preoccupa è la presenza di stranieri indefinibili che arrivano alla spicciolata e si insediano chissà dove, e le bande di sconosciuti diretti a Roma che stanno attraversando le terre di Napoli e dello Stato della Chiesa.»
Valentini, che era stato a sentire, sbottò: «Temo il peggio, e il nostro papa non se lo merita».
«È vero» assentì il conte. «Sono anch’io un buon amico di papa Lambertini, e lo stimo profondamente. Ci conosciamo da quarant’anni, quando l’allora monsignor Lambertini fu ospite della mia famiglia a Orte, di cui siamo originari, e lì ebbe modo di apprezzare l’apertura mentale e l’originalità di pensiero di mio zio, il cardinal Ferdinando, in tema di agricoltura.»
Li interruppe il maestro di casa annunciando che il pranzo era servito. La piccola comitiva passò attraverso un’infilata di saloni di cui Pisani apprezzò l’eleganza delle tappezzerie e il gusto sobrio degli arredi risalenti al secolo precedente, fino a raggiungere una luminosa sala da pranzo nella quale una parete era interamente occupata da un dipinto raffigurante le terre ortane dei Nuzzi.
«Il cardinale Ferdinando» spiegò Paolo, «arrivò a proporre di dividere parte dei latifondi in piccole proprietà da assegnare ai contadini, in modo da variare la produzione e incoraggiare i braccianti a rioccupare le terre abbandonate, strappandole allo stato di paludi.»
«Geniale» esclamò Guido.
«Naturalmente a Roma non se ne fece nulla» continuò il conte Innocenzo. «Però le nostre terre del Viterbese» aggiunse indicando il dipinto, «coltivate secondo questi princìpi, danno ottimi redditi.»
«Perdoni la curiosità, conte» si intromise Pisani mentre tutti prendevano posto. «Lei non ha seguito le orme del celebre zio e ha preferito lo stato laicale…»
Il conte Innocenzo si aprì in un largo sorriso. «Eh no!» ammise. «La colpa è di mia moglie Virginia.» E rivolse alla contessa, seduta all’altro capo del tavolo, uno sguardo intenerito, subito dolcemente ricambiato, che lasciò commosso Marco al pensiero che quello fosse amore vero. «Ci siamo conosciuti e innamorati giovanissimi» continuò, «e subito sposati, visto che le nostre famiglie erano consenzienti. Avremmo voluto una famiglia numerosa, ma il Signore ci ha fatto la grazia di un unico figlio, che è arrivato quando ormai disperavamo…» E il suo sguardo si posò su Paolo con orgoglio. «Del resto io avevo preferito studiare Arte al Collegio Clementino, dove ho conosciuto Domenico Silvio Passionei, e ho servito la Chiesa da laico, occupandomi di antichità romane per evitarne almeno in parte la dissennata dispersione a cui assistiamo.»
«Ed è da lei che Paolo ha ereditato la passione per l’arte e l’antichità» concluse Marco. «Ha una profonda cultura e grande interesse per i problemi sociali.»
«Ma anche mia moglie non è da meno. Fin da piccolo lo portava insieme a me sui luoghi degli scavi e gli ha fatto visitare ospedali e orfanotrofi di cui si occupa attivamente.» Una famiglia eccezionale, pensò Marco soddisfatto della visita mentre, finito il pranzo, la comitiva si accingeva ad accomiatarsi. «Che il Signore ci protegga e non permetta più che accadano eventi sconvolgenti!» li salutò la contessa.
Il Signore, però, non ascoltò le preghiere di Virginia Nuzzi.
La mattina dopo, prima delle otto, Paolo arrivò al galoppo nella casa di via dei Giubbonari e, lasciato il cavallo a Clemente, salì di corsa le scale e si precipitò in camera di Marco e subito dopo in quella di Guido, che dormivano beatamente.
«Sveglia, signori» esclamò concitato. «Ci siamo: è successo il peggio. Siamo al salto di qualità!» E ai due che, scattati in piedi, lo guardavano stralunati, e a Nani e Gasparetto che richiamati dal frastuono facevano capolino dalle loro stanze, spiegò: «Mi ha raggiunto poco fa un biglietto del bargello, il capitano Francesco Beccari. Pare che a Santa Prassede il parroco si sia impiccato dopo aver accoltellato una puttana che era con lui. Gli ho risposto che corra con i suoi a tenere lontana la gente, ma è urgente andare a vedere cosa è accaduto davvero…». E tirò il fiato ingollando d’un sorso il caffè che Clemente gli aveva prontamente offerto.
«Santa Madonna!» si lasciò scappare Guido vestendosi in fretta e furia e afferrando la borsa da medico. «Le cose stanno prendendo la piega peggiore, era proprio quello che temevo.» Poi gli venne un dubbio. «È sicuro che si tratti dei nostri misteriosi nemici?»
«Pare che il capitano sia stato convocato in gran segreto dai canonici della vicina basilica di Santa Maria Maggiore, accorsi subito sul posto, che hanno riferito in un dispaccio sigillato di non avere mai visto una scena così impressionante… Di più non so.»
In breve erano tutti pronti e riuscirono anche, dietro le insistenze della Gigia, a far colazione al volo mentre Clemente sellava i cavalli.
«Dobbiamo andare lontano?» chiese Marco mentre inforcavano le cavalcature.
«C’è un po’ di strada» lo informò Paolo. «Santa Prassede si trova nel rione Monti, oltre il Quirinale, nel luogo delle terme di Diocleziano, dove la città cede il posto a campi e vigneti. È affidata da secoli ai monaci benedettini vallombrosani, ma è anche una delle ottantuno parrocchie della città.»
Nuzzi in testa, percorsero al piccolo trotto il primo pezzo di strada, tra i vicoli degli artigiani dove le botteghe stavano aprendo e si incrociavano passanti e carrette. Poi, superata piazza Venezia, la colonna Traiana e i resti dei mercati traianei, imboccarono il rettilineo di via Magnanapoli e poterono lanciarsi al galoppo.
Raggiunsero il vasto spiazzo in cima all’Esquilino dove troneggiava solitario il grande edificio candido di Santa Maria Maggiore, rasentarono il fianco della basilica e davanti ai loro occhi si aprì una distesa verdeggiante. Fino all’orizzonte, l’oro autunnale dei vigneti si fondeva col verde di orti e carciofeti, popolati di braccianti al lavoro; qua e là una villa signorile circondata da un parco alberato interrompeva la ruralità del paesaggio. Una visione di pace.
Presero una stradina di fronte alla basilica, svoltarono e si trovarono di fronte a un protiro romanico a due colonne sotto il quale un portone spalancato immetteva a una scalinata coperta. Un manipolo di sbirri sorvegliava l’accesso e dall’alto venivano voci concitate.
«Il capitano Beccari?» chiese Nuzzi a uno di loro mostrando i documenti.
«Lo troverà nel cortile» rispose lo sbirro indicando la salita.
Legarono i cavalli agli anelli di ferro e salirono di corsa lasciando indietro Valentini che brontolava e sbuffava. «Bel modo di cominciare la giornata» esclamò una volta raggiunto un elegante quadriportico dominato dalla nuda facciata romanica di mattoni di Santa Prassede. «Guarda un po’… Chi avrebbe mai detto che ci fosse una chiesa qui dietro, così nascosta tra le abitazioni della strada…»
Nonostante il portone fosse spalancato, la chiesa sembrava deserta, mentre il cortile era affollato. Tra un altro gruppo di sbirri si fece strada il capitano.
«Brutto affare, signori» avvertì i nuovi arrivati facendo un leggero inchino. «Nessuno vuole avvicinarsi ai cadaveri. Sono entrato solo io, ed è spaventoso… E il peggio è nella cripta sotto l’altar maggiore…»
Pisani lanciò intorno uno sguardo. Tra la gente che gremiva lo spazio esiguo del cortile notò una quindicina di monaci benedettini in vesti scure che si stringevano l’un l’altro con aria sconvolta. Poco lontano, seduti sulla lastra di un antico sarcofago, due popolani in abiti da lavoro, un uomo e una donna, piangevano a dirotto col viso nascosto tra le mani. Immaginò che si trattasse degli inservienti della parrocchia.
«Quella chi è?» chiese al capitano indicando una signora corpulenta dal naso appuntito.
Beccari fece cenno di avvicinarsi a un monaco macilento di mezza età e gli rivolse la domanda.
«Sono il viceparroco Antonio Salvini» si presentò il benedettino. Aveva gli occhi rossi e cerchiati. «La signora è Caterina Marchetti, direttrice del Conservatorio delle Trinitarie che si prendono cura delle orfane degli impiegati della Cancelleria. Una donna molto caritatevole.»
«Caritatevole e curiosa» osservò Pisani. «Accompagnatela fuori e fatela tornare alle sue opere di carità. E quel signore in nero che parla con il mio amico?»
«Si tratta del dottor Nicola Zarlatti» spiegò il viceparroco seguendo il dito di Marco. «È il medico del rione.»
«Bene, lui può restare. Ma accompagnate fuori anche quei tre domestici che stanno conversando con gli sbirri e quelle cinque ragazze in abito turchino al seguito della signora Marchetti. Vorrei parlare invece con i due canonici di Santa Maria Maggiore che hanno avvertito il capitano.»
«Li ho chiamati io… Quando ho visto la scena, non sapevo cosa fare… Devo avvertire anche il cardinal Gerolamo Colonna, titolare della loro basilica?»
«Assolutamente no» rispose seccamente Pisani. «Ora aspettateci qui mentre entriamo a esaminare la scena del delitto.»
«Devo entrare anch’io?» chiese una voce ben nota. «Non è meglio, paròn, se qualcuno resta fuori a osservare come si comporta la gente?»
«Resta pure fuori, Nani, sei sempre il solito fifone!» Marco sorrise, poi radunò a cenni Guido e Paolo, seguiti da Gasparetto che ai cadaveri era abituato.
La chiesa era grande, semibuia, a tre navate. Man mano che avanzavano, i loro passi cadenzati risuonavano nel vuoto, e verso il fondo, dove alcune lampade perpetue illuminavano il presbiterio, si cominciava a scorgere uno scintillio multicolore che pian piano prendeva la forma di una folla di angeli, santi, apostoli della Gerusalemme celeste, in coro intorno alla figura di Cristo redentore, ad adornare di splendidi mosaici l’arco trionfale e il catino absidale.
Dal baldacchino a colonne di porfido che sovrastava l’altare, appeso a una grossa fune agganciata a un pinnacolo della cimasa a un paio di metri da terra, gli occhi fuori dalle orbite, la lingua penzoloni, le gambe grassocce illividite, vestito solo di un corto camiciotto, sembrava osservarli il corpo oscenamente esposto di quello che era stato padre Livio Lanciani, parroco di Santa Prassede.
Mentre Guido e Gasparetto raccattavano da terra uno sgabello che forse era servito al sacerdote per raggiungere il nodo scorsoio e discutevano tra loro, Paolo portò al naso un fazzoletto profumato e insieme a Marco si allontanò di qualche passo.
«Brutto mestiere» commentò alludendo a Valentini. «Però sembra proprio un suicidio. Cosa terribile, ma forse senza attinenza con i nostri nemici.»
«Aspetta a dirlo» lo ammonì Pisani. «Dobbiamo ancora vedere il resto. E in quanto a Guido, non puoi immaginare come l’esame autoptico di un cadavere sia capace di entusiasmarlo.»
«Mah!» sospirò Paolo seguendo di malavoglia Marco che, scorta nella cappella di destra una scala che si inoltrava nel sottosuolo e afferrata una lampada, si accingeva a scendere nella cripta.
Percorsero un corridoio fiancheggiato da sarcofagi paleocristiani, in direzione della luce ondeggiante di una fiaccola infissa nella parete di fondo. E qui si fermarono inorriditi quando, adagiato su un altare cosmatesco, scorsero il cadavere seminudo di una donna pesantemente truccata, il cui braccio scivolato verso terra rivelava l’abbandono della morte. Dal petto e dal ventre rivoli di sangue rappreso avevano formato una pozza davanti all’altare.
Nuzzi sospirò e si allontanò di qualche passo. Pisani, avvezzo a certi spettacoli, poté osservare che la donna era stata più volte pugnalata con un robusto coltello abbandonato a terra.
«Quindi» commentò, «o è tutto vero e questo padre Lanciani era un vizioso assassino oppure qualcuno ci vuole far credere che abbia ucciso la donna e si sia impiccato…»
«Ma perché?»
«È quello che dobbiamo scoprire.»
Riguadagnando il presbiterio, incrociarono Valentini che si recava a esaminare la seconda scena del crimine. Bastò un’occhiata per intendersi.
Di sopra il lavoro investigativo era già in atto. Qualcuno aveva portato una scala a pioli, in cima alla quale Gasparetto prendeva le misure del cadavere e della corda. «Ehi, voi due!» esclamò rivolgendosi a un paio di sbirri che stavano a guardare col naso in aria. «Ora taglio la corda. Voi state pronti ad afferrare il corpo e ad adagiarlo a terra con delicatezza.»
«Ma se è già morto…» obiettò uno.
«Intanto il rispetto è dovuto anche ai morti» lo rimbeccò Gasparetto. «E poi non vanno compromesse eventuali tracce.»
Li raggiunse Guido, reggendo con due dita il coltello che infilò in un sacchetto di tela cerata tratto dalla sua borsa. «Orribile» commentò. «Quella povera donna di sotto dev’essere morta lentamente, dissanguata… E il prete non ha tracce di sangue addosso» aggiunse osservando il cadavere composto a terra. «Occorre disporre l’autopsia. Se non sbaglio, all’ospedale di Santo Spirito in Sassia sono attrezzati.»
«Infatti» confermò Nuzzi che si era un po’ ripreso. «Dispongono anche di un’ambulanza. Bisognerebbe chiamarla.»
«Carlone!» chiamò Pisani rivolgendosi a uno sbirro alto. «È quello che l’altro giorno ci ha condotti a Ripetta, si tratta di una persona sveglia e fidata» spiegò a Guido.
Con molte raccomandazioni di tenere la bocca chiusa, Carlone fu spedito a cercare l’ambulanza, mentre Valentini e il suo assistente confabulavano e prendevano appunti interrogando il viceparroco e Paolo scambiava due parole col capitano e i canonici di Santa Maria Maggiore.
Come attirato da una calamita, Marco si voltò verso il portone spalancato della basilica, proprio mentre in controluce si stagliava sulla soglia una delicata figuretta di donna che gli parve di riconoscere.
«Viola» esclamò stupefatto facendosi avanti. «Che ci fai qui?»
La ragazza era in preda a un forte turbamento, non riusciva a trattenere le lacrime. Avvolta in un leggero mantello che copriva un semplice abitino da casa, aveva l’aria di essere uscita di corsa per correre lì.
«Marco Pisani!» ribatté mentre l’avogadore si inchinava. «Sono sconvolta! È vero che padre Livio…» E si lanciò verso l’altare per raggiungere il gruppo al lavoro nel presbiterio.
«È vero, è morto, ma tu non avvicinarti» la trattenne Marco per risparmiarle la scena. E nell’atto di afferrarla la sentì calda e palpitante. «Però non mi hai ancora detto come mai sei qui.»
«È il mio parroco» spiegò la ragazza singhiozzando. «Io abito in una casa qui vicino al rione Monti. Sono corsa appena ho saputo. Un sant’uomo, se mai ce ne sono. Vieni, sediamoci nella cappella di San Zenone che te ne parlo.» E lo guidò in una cappellina della navata destra, rivestita dei più bei mosaici che Marco avesse mai visto, dove la luce oscillante di un candelabro sottraeva al buio una corte di sante, regine, madonne, sotto la protezione di Gesù e dei quattro angeli della volta.
«Secondo te» chiese Pisani, «è possibile che frequentasse una… meretrice e che sia arrivato a ucciderla?»
«Lo escludo nel modo più assoluto. Padre Lanciani era puro come un giglio e mite come un agnello. Di sicuro si tratta della maledizione che da qualche tempo ci perseguita qui a Roma.» I suoi occhi viola scintillavano di sdegno.
«Ma tu lo conoscevi bene?»
«Mi stai chiedendo come mai frequentava una come me?» replicò Viola con amarezza.
«No, io…»
«Via, Marco.» La giovane sorrise tristemente. «Immagino benissimo che tu sappia tutto di me. Ma vedi, anche a noi cortigiane è possibile fare del bene… E padre Livio aveva capito il mio desiderio di riscatto, la compassione che nutro per i disgraziati, e mi aveva permesso più volte di affiancarlo nelle sue opere di carità.»
E mentre Marco contemplava quella singolare ragazza, quasi una bambina, che non finiva di riservargli sorprese, Viola raccontò che il parroco, seguendo la tradizione dei Vallombrosani e di san Carlo Borromeo che prediligeva quella chiesa, si era sempre adoperato per dare ricetto ai pellegrini, per fare la dote alle ragazze povere e approntare mense per i bisognosi nei periodi di carestia.
«Qui al rione Monti» concluse, «ci sono tanti borini, lavoratori stagionali, che per lunghi periodi dell’anno sono disoccupati, e ci sono vedove senza risorse, e malati anziani di cui nessuno si occupa. Spesso mi è capitato di portare pasti caldi nelle baracche dove i bambini morivano di fame e di curare le piaghe dei mendicanti…»
«Chissà perché se la sono presa con lui» si chiese Marco.
«Se c’è qualcuno che vuole screditare la Chiesa» osservò Viola, «è logico che incominci dai suoi elementi migliori.»
Che Viola avesse pienamente ragione Pisani lo constatò non appena si risolse ad accompagnarla alla sua carrozza.
Attraversato il cortile, dove Nani allungò il collo al vedere il suo avogadore dare il braccio a una bella ragazza sconosciuta, e scesa la scalinata, i due si accorsero che, al di là del cordone degli sbirri, si era radunata una folla vociante che si ingrossava a ogni minuto provenendo dai rioni vicini.
Non era una folla amichevole.
«E sembrava un santo!» esecrava una lavandaia che strattonava un bambinetto attaccato alla gonna.
«Sono i peggiori» le dava sulla voce un vecchio appoggiato a un bastone.
«Che vergogna per tutto il rione!» commentava impettita Caterina Marchetti con aria disgustata. «Ora come troverò marito alle mie ragazze?»
Gli sbirri aprirono a fatica un corridoio tra la folla e Marco e Viola poterono raggiungere la carrozza della giovane, un tiro a due laccato a fiori azzurri, sul quale il cocchiere aspettava a cassetta.
«Forse verrò a trovarti per chiederti altro» la salutò Pisani prendendo nota del suo indirizzo.
«Sarà un piacere.» Viola sorrise e in una nuvola di polvere svanì per una strada di campagna, mentre la folla si ingrossava ancora per il sopravvenire di rivoli di curiosi da tutta la città.
Pensoso, Marco ritornò sui propri passi e si fermò nel cortile davanti al gruppo dei monaci che si stringevano fra loro quasi a darsi reciproco conforto. Il viceparroco Salvini li aveva raggiunti insieme ai canonici della vicina basilica e fu a lui che Pisani si rivolse.
«Padre Antonio, devo farmi un’idea di come sono andate le cose. A che ora chiudete la chiesa?»
Il monaco si asciugò gli occhi con un fazzolettone cincischiato e si soffiò rumorosamente il naso. «I due portoni» rispose con una vocetta sottile che si adeguava alla corporatura macilenta, «quello della chiesa e l’altro che dà sulla scalinata, vengono chiusi alle otto di sera.»
«Chi ne ha le chiavi?»
«Io e… padre Livio. Ma da quella parte…» E indicò un portoncino sul lato destro del cortile. «… si entra nella casa parrocchiale e nei locali della mensa, che hanno un altro accesso da via Santa Prassede. Noi monaci invece dormiamo nelle stanze dall’altro lato del cortile.»
«Padre Livio dormiva solo?»
«Sì, in quanto parroco aveva due vani vicino all’entrata dal vicolo, dove riceveva visite senza far passare gli ospiti dalla scalinata.»
«E chi riceveva?»
Il monaco si asciugò nuovamente gli occhi. «Era un sant’uomo, cosa crede? È tutta una macchinazione per screditarlo!»
«Non lo metto in dubbio» lo rassicurò Pisani. «Ma devo capire come sono andate le cose.»
«La gente veniva da lui a raccontargli i propri guai, a cercare conforto e spesso aiuto…»
«So che faceva molte opere di carità, ma lo visitavano anche di notte?»
«Eh sì» sospirò padre Antonio. «All’esterno c’era una campanella collegata con le sue stanze, e lui apriva sempre. Mi sono fatto l’idea che anche stanotte sia andata così…»
«Perché apriva?»
«Di notte andavano a chiedere aiuto quelli in stato di bisogno che non volevano che si sapesse in giro.»
«E la donna, quella poveretta, si era mai vista prima?»
Padre Antonio scosse il capo. «Non è delle nostre parti.»
«Questa notte non avete sentito niente?»
«No, come le ho detto dormiamo dal lato opposto del cortile. È stato questa mattina, quando sono andato ad aprire la chiesa, che ho visto…» E si rimise a singhiozzare scosso da un tremito convulso.
Si intromise il più anziano dei canonici. «Appena padre Antonio è corso da noi, lo abbiamo seguito e gli abbiamo consigliato di avvertire il capitano degli sbirri…»
«Ottima iniziativa, ma anche voi, mi raccomando, non descrivete a nessuno ciò che avete visto.»
«Ma qualcosa trapelerà! Quella povera donna è stata lasciata proprio sopra l’altare che racchiude le spoglie di santa Prassede, e tutta la chiesa andrà riconsacrata…»
«A suo tempo riceverete ordini dai vostri superiori» concluse Pisani.
Non restava che aspettare l’esito dell’autopsia.
Proprio in quel momento un movimento della folla all’ingresso annunciò l’arrivo di un carro coperto con le insegne dell’ospedale, da cui scesero quattro portantini con due barelle.
Si incontrarono sulla soglia della chiesa con Valentini, che fece loro alcune raccomandazioni e si riunì con Gasparetto al gruppo di Nani e Paolo sul sagrato.
«Avete saputo qualcosa di interessante?» chiese il dottore.
«Io ho fatto chiacchierare gli sbirri» informò Nani. «Pare che la donna fosse una puttana da lume, come si dice a Roma. Abitava nella parrocchia di San Pietro in Vincoli e viveva sola con tre bambini. Si chiamava Cesira, Cesira Parri.»
«Povere creature!» commentò Nuzzi. «Interesserò mia madre al loro caso.»