La spianata dei fori romani, e più oltre le rovine del Palatino, giù fino all’invaso del Circo Massimo, luoghi solitamente deserti di notte, la sera della domenica erano popolati da romani provenienti da ogni rione per assistere, sia pure da lontano, ai funerali del povero Tonino, che avrebbero avuto luogo nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, sorta sui resti del Carcere Mamertino dietro al Campidoglio, vicino all’arco di Settimio Severo.
La notte era buia e senza luna, l’oscurità rotta appena da sparse lanterne, e Marco e Guido con Gasparetto, accompagnati da Daniele e Paolo Nuzzi che avevano presto simpatizzato, si aggiravano tra i capannelli di gente in attesa, cercando di cogliere frammenti di conversazioni.
Regnava uno stato d’animo inquieto che apparentava ricchi e poveri. Daniele si fermò ad ascoltare una popolana anziana che assicurava a un gruppo di persone che nel convento vicino a casa sua si sentiva ogni notte il suono di un mandolino che nessuno sapeva da dove provenisse.
Nel buio si udì la voce colta di un uomo. «Non stento a crederlo. L’altra notte ho visto in sogno mio padre, notaio come me, morto due anni fa. Mi ha sorriso e mi ha toccato una spalla. E la mattina, rabbrividisco a ricordarlo, sulla mia camicia c’era l’impronta di una mano, come una bruciatura…»
«Signore benedetto» esclamò un pretino facendosi il segno della croce. «Una mia parrocchiana mi ha raccontato che nella sua cantina si sente bussare, come se un’anima in pena volesse essere liberata!»
Gli amici proseguirono fino ai piedi dell’arco di Costantino. Qui teneva banco un oste che reggeva una lanterna.
«Senza una luce in mano io non mi muovo» gridava sovrastando il brusio. «L’altro giorno con mia moglie abbiamo sentito uno sconquasso infernale provenire dalla cantina. Siamo corsi subito… non c’era nessuno, ma sulle pareti qualcuno aveva scritto più volte in rosso il numero 666.»
«Sarà stato uno scherzo» rise un’elegante signora accompagnata dalla cameriera.
«Macché scherzo!» si infuriò l’oste. «Sono i numeri di Satana!»
In quel momento dal piazzale della chiesa si udì provenire un salmodiare e apparve un lucore che presto si moltiplicò nel chiarore di innumerevoli torce. La compagnia dei veneziani fu svelta ad arrampicarsi sui plinti delle colonne dell’arco. Da lì, allungando il collo, la scena del corteo divenne visibile. Lo precedevano una compagnia di guardie pontificie che tenevano a bada la folla e lasciavano sgombro un corridoio idoneo al passaggio.
Il corteo era aperto dai confratelli incappucciati delle varie congregazioni, di mestieri e di carità, ognuna delle quali reggeva alto il proprio stendardo. Seguiva una lunga fila di frati mendicanti e conventuali che cantavano il Miserere di Gregorio Allegri e precedevano il catafalco.
Il povero Tonino, figlio di nessuno, ignorato nella sua breve misera vita, era stato adagiato su una piramide tronca ricoperta di fiori bianchi e rossi e ornata di nastri e cordoni dorati. Rivestito di una marsina di raso candido, in calze di seta e scarpe con fibbie d’oro, giaceva su cuscini dorati, circondato da quattro alti ceri che ondeggiavano tra la folla.
Chiudevano il corteo una doppia fila di sacerdoti e una decina di projetti accompagnati da alcune monache in rappresentanza dell’istituto.
La folla tratteneva il fiato mentre la chiesa spalancata man mano inghiottiva il corteo, quando un boato assordante indusse tutti gli astanti a volgere il capo verso il Colosseo. L’imponente monumento apparve in un lampo illuminato dall’interno, visibili gli intrecci degli ambulacri e gli arconi, e dall’enorme invaso eruppe una nuvola densa di vapore o di fumo, mentre voci cavernose si sovrastavano in lingue sconosciute.
Poi, nel silenzio terrorizzato della folla, per un tempo interminabile, dalla nuvola parvero uscire strane e terrificanti figure, draghi alati dall’alito di fuoco, chimere dalla coda squamosa, pipistrelli giganti, che sembravano volare su in cielo e poi svanivano.
Apparve un gigante con i piedi di capro e la testa d’orso che lanciò un grido disumano, e dopo di lui Lucifero, dalle tre teste, che con un ghigno orrendo sembrò aprire le braccia alla città e scomparve con un secondo boato in una nuvola di fumo.
Da ultimo si stagliò nel cielo l’immagine oscillante di una figura velata che agitava in alto una falce ricurva.
Poi, in un succedersi di fragori metallici misti a scoppi e urla belluine, la nuvola si disperse al vento e fu silenzio.
La folla iniziò a gridare e a piangere, alcune donne svennero causando ulteriore scompiglio, mentre i veneziani, scesi dall’arco, si affannavano a tranquillizzare i vicini. «È solo uno scherzo, non agitatevi, è come la burla dell’acqua rossa, sono i soliti buontemponi!»
«È il demonio che verrà a prenderci tutti» piagnucolava una camerierina inginocchiata.
«Macché demonio! Sono macchine. Andiamo dentro al Colosseo, sono ancora là, li vedrete con i vostri occhi.»
Pisani si sentì prendere per il bavero da un omone che indossava una casacca da facchino.
«Lei perché vuole andare dentro? Deve raggiungere i suoi amici diavoli?»
«Ma dove mi avete fatto venire?» sospirò Daniele tirandosi dietro Marco e il resto della comitiva in un luogo sicuro.
Il pomeriggio del giorno seguente erano convocati dal papa e in mattinata ebbero il tempo di approfondire i sospetti suscitati dall’esibizione al Colosseo.
Guido si eclissò in direzione dello Studium Urbis della Sapienza a Sant’Eustorgio, mentre Pisani e Paolo Nuzzi si dirigevano a piedi con Daniele verso i fori romani.
A differenza della visita precedente, trovarono l’anfiteatro completamente deserto, nessuno in giro per i maestosi ambulacri, nessuno sulle gradinate della cavea ricoperte di piante rigogliose radicate tra le fessure delle rovine, nessuno sul piano dell’arena, dove svettava la croce voluta da papa Benedetto, che per il Giubileo di tre anni prima aveva consacrato il monumento ai santi martiri, includendolo nel tragitto della Via Crucis in occasione della Pasqua.
«Lo spettacolo di ieri ha fatto fuggire i pastori che vi trovavano alloggio» commentò Paolo. «Ma non siamo qui per loro. Vediamo se i nostri saltimbanchi hanno lasciato tracce.»
Il piano dell’arena, anche se ingombro di detriti di ogni genere, verso sud presentava uno strano anello di cenere, come se qualcuno avesse fatto fuoco in un ampio catino rotondo che era stato in seguito rimosso.
«Il fumo doveva venire da qui» continuò Nuzzi. «Ma da dove sono passati con l’attrezzatura?»
«Non credo che siano entrati dall’esterno» meditò Marco. «Avrebbero dato nell’occhio. Dev’esserci un passaggio sotterraneo.»
«Venite!» chiamò Daniele che, affascinato dal monumento, stava percorrendo il perimetro dell’arena.
E infatti, sul lato opposto del diametro rispetto alle tracce di cenere, verso nord, una scaletta di pietra conduceva nel sottosuolo, e poco lontano qualcuno aveva scalzato di recente il tavolato di legno di copertura mettendo in luce un ampio vano sottostante.
I tre scesero con attenzione e si trovarono in un intrico di corridoi e locali con sconosciuta destinazione, in parte interrati, con scalette che si addentravano sempre più nel sottosuolo.
Dopo una breve esplorazione Nuzzi si fermò. «Mi risulta che i sotterranei si snodino per ben cinque livelli. Impossibile visitarli, perché la luce arriva appena oltre le scale. Cerchiamo invece di esplorare l’apertura.»
Il vano scoperchiato di recente mostrava segni del passaggio di uomini e del trascinamento di oggetti. Marco raccolse da terra una mezzaluna di legno del diametro di mezzo metro. «Questa viene da una ruota che si è spezzata» considerò rigirandosela tra le mani. «Sono sicuro che apparteneva a una macchina che è servita per lo spettacolo…»
«Già» assentì Paolo. «Ma vallo a raccontare al popolino che ha assistito!»
«Quei maledetti sono abilissimi e molto preparati. Ma dove si nascondono?»
«Guarda!» E Daniele indicò nella poca luce una scia di tracce che imboccavano un corridoio sotterraneo e si perdevano nel buio. «I nostri nemici seguono strade nel sottosuolo, ma anche se ci munissimo di lampade, praticare questi cunicoli sarebbe pericoloso e forse inutile. Non è detto che ci portino al loro rifugio.»
Quando, nel primo pomeriggio, incontrarono Guido di fronte al Quirinale, lo trovarono in compagnia di un signore segaligno vestito di nero, l’aspetto severo, che fu presentato come il professor Francesco Jacquiers, piemontese, insegnante di fisica alla Sapienza.
Come di consueto, erano attesi al portone da un capitano degli svizzeri, che questa volta li introdusse alla Sala del Balcone, dalla quale si accedeva alla Loggia delle Benedizioni del Bernini, sulla facciata del palazzo.
Essendo la prima volta che entrava al Quirinale, Daniele era il più emozionato. Si guardava intorno ammirato di tanto splendore e si accorse di essere arrivato solo quando una voce dall’accento emiliano tuonò: «Benvenuti, signori, era da molto tempo che non vi facevate vivi col vostro papa, ho dovuto convocarvi!».
Quando Zen si voltò di botto si trovò faccia a faccia con Benedetto XIV, sorridente e a braccia spalancate, e non sapendo se baciargli la pantofola o l’anello, si esibì in un profondo inchino.
Dall’imbarazzo lo salvò Valentini. «Santità, le presento l’avvocato Daniele Zen, di Venezia, che ci ha portato notizie finalmente interessanti. E mi sono permesso di farmi accompagnare dal professor Jacquiers della Sapienza, che sarà in grado di spiegare che cosa hanno combinato i nostri nemici stanotte al Colosseo.»
Il papa invitò gli ospiti a sedere intorno a un tavolo e come di consueto Nuzzi fu incaricato di servire come rinfresco un vinello bianco spumeggiante.
«È Albana della mia terra» spiegò. «Me lo hanno portato questa mattina e ha il sapore di un tempo più felice…»
«Più felice per lei, Santità» scherzò Valentini. «Per noi è migliore il tempo in cui è lei a occupare il soglio di Pietro.»
«Da quando sei diventato un leccapiedi, Guido?»
«Da quando sei diventato papa, Prospero.»
Il papa proruppe in una delle sue fragorose risate e, nell’atmosfera rilassata, si rivolse a Pisani. «Naturalmente sono stato informato giorno per giorno delle vostre attività, ma vorrei sapere cosa è successo di preciso al Colosseo.»
Marco gli descrisse la sceneggiata, senza tralasciare le reazioni degli spettatori, e aggiunse come in mattinata, insieme a Nuzzi e a Zen, avessero trovato le tracce del passaggio di uomini e macchine ben concreti e reali nei sotterranei del monumento.
«Quindi questa gente misteriosa si nasconde nel sottosuolo» concluse il papa. «Sfruttano abilmente i molti passaggi segreti lasciati dalla stratificazione dei secoli e si muovono senza dare nell’occhio. Ma come hanno messo in scena lo spettacolo dei diavoli?»
Gli rispose Guido. «Il professor Jacquiers me lo ha spiegato questa mattina.» E gli lasciò la parola.
«L’ottica è una scienza che viene dall’antichità» esordì il professore, «e con i suoi esperimenti possiede la peculiarità di ingannare l’occhio umano. E l’acustica, che l’ha accompagnata nei secoli, con la sua tecnologia può creare suoni paurosi. Già prima di Cristo Erone di Alessandria, che aveva creato macchine per sollevare pesi con l’energia del vento e pompe che estraevano l’acqua dal sottosuolo, progettò statue di dei che si muovevano davanti agli altari e trombe che suonavano da sole grazie a un sistema ad aria compressa.»
«E i fenomeni di ieri?»
«Ci arrivo» si risentì un poco Jacquiers. «Sono a conoscenza di un’invenzione del secolo scorso, citata la prima volta nel 1671 ma sperimentata anche da Leonardo, che fino a ora è stata ignorata. Si chiama “lanterna magica” e consiste in una scatola di legno, con un foro su un lato, chiuso da una lente. La scatola ospita all’interno una lampada, la cui intensità luminosa viene moltiplicata da uno specchio concavo che si interseca con altri specchi. Infilando dietro alla lente una sagoma ritagliata da un foglio di metallo, o una figura dipinta su vetro a colori traslucidi, l’immagine viene proiettata ingrandita e capovolta su un eventuale muro antistante.»
«Ma al Colosseo le immagini erano in movimento, e non su un muro bensì in aria…»
«Chi ha organizzato la rappresentazione deve essere uno scienziato molto preparato. Io credo che, usando diverse lastre in successione, si possa creare l’illusione del movimento, tanto più in quanto mi avete appena detto che avete trovato tracce di cenere. Debbo dunque pensare che sul lato dell’arena opposto alla macchina sia stato collocato un braciere che ha bruciato legna e qualche sostanza fumogena, e le immagini, proiettate sulla nube di fumo in movimento, sono apparse ancora più realistiche e paurose. In quanto ai rumori, non mancano i congegni di Erone per aumentare e deformare le voci. Ma è una materia ancora tutta da approfondire.»
«Quindi» concluse sospirando Lambertini, «ci troviamo una volta di più davanti a un nemico astuto e colto. La ringrazio, professore, per l’esauriente spiegazione.»
Era un congedo, e Jacquiers si inchinò e se ne andò come gli aveva suggerito Valentini. Il papa e i suoi uomini rimasero soli.
«Capisco perché ieri sera i presenti siano rimasti terrorizzati e so bene che questo fenomeno sarà impossibile da spiegare sugli altari durante la messa, come abbiamo fatto per le acque rosse e le madonne piangenti. Però mi spaventa e mi addolora che per diffamare la Chiesa questi sconosciuti siano arrivati a uccidere il povero padre Lanciani, un sant’uomo, e poi addirittura un bambino…»
«È vero, Santità» meditò Nuzzi. «Sembra che stiano andando in crescendo.»
«Però abbiamo raccolto alcuni indizi significativi» intervenne Pisani. Il papa lo ascoltava con attenzione. «La congiura ha una matrice islamica, lo comprova la circostanza che l’uomo che il mio assistente e io abbiamo catturato ieri mattina, e che si è suicidato, all’esame del cadavere è risultato circonciso, e il suo tipo fisico nordico esclude che sia un ebreo. Inoltre al Caffè degli Inglesi, luogo frequentato dalla buona società, è stato ritrovato un raro amuleto islamico, di quelli in possesso solo di personaggi al vertice. Questo ci fa sperare che il capo della congiura si nasconda sotto mentite spoglie tra la gente del bel mondo: potrebbe spacciarsi per tedesco, inglese, piemontese, oppure emiliano o napoletano. Chissà… Di sicuro non è di antica famiglia romana, ed è probabile che risieda a Roma da non troppo tempo. Ci appare chiaro che possiede molto denaro e ha con sé parecchi uomini e scienziati di prim’ordine, ce lo ha appena confermato il professor Jacquiers, e sono convinto che sapesse benissimo in che giorno e a che ora si sarebbe verificata l’eclissi totale di sole, perché ha organizzato la scoperta del cadavere di quel povero bambino in modo che il sole scomparisse al momento giusto per terrorizzare la gente.»
«Una previsione che nemmeno alla Sapienza avevano saputo fare così esattamente» lo interruppe Valentini.
«E a terrorizzare la gente sembra che stiano riuscendo piuttosto bene. I loro interventi sono sempre più efficaci, e vanno in crescendo. Ora uccidono… Mi dicono che i romani, specie il popolino, siano a un passo da un’insurrezione contro la Chiesa. E non possiamo fare nulla…» sospirò il papa.
«Veramente» ammise Guido con reticenza, «di questo capo sconosciuto sappiamo forse il nome, e stiamo aspettando da Napoli un diplomatico che sarà in grado di identificarlo. E allora, come dice l’avvocato Zen, schiacciata la testa del serpente, anche la coda morirà.»
Dal volto di papa Lambertini scomparve in un attimo tutta la bonomia. Si drizzò sulla sedia. «Cos’è questa storia? Perché non me lo avete detto subito?»
C’era poco da fare. Bisognava confessare.
«Vedi, Prospero» ammise Valentini a occhi bassi, dimenticandosi di chiamarlo Santità, «la sera del dodici ottobre siamo stati convocati a palazzo di Venezia dall’ambasciatore Cappello che aveva ospite un famoso mistico svedese, tale Swedenborg.» Il volto del papa si faceva sempre più scuro. «Questo signore, di fede luterana, ehm… è famoso in tutto il mondo per la sua capacità di… mettersi in comunicazione con gli angeli.»
Il pugno del pontefice che si abbatté sul tavolo li fece trasalire tutti. «Mi meraviglio di te, Guido» ruggì, «e anche di voi» continuò rivolto agli altri che erano arrossiti. «Sapete benissimo come la penso sulle superstizioni, le apparizioni, le estasi, le rivelazioni e i rapimenti mistici! E senza dirmi nulla avete chiesto aiuto per la Chiesa a una specie di mago, luterano per giunta!»
«Ma abbiamo ottenuto dei risultati!» replicò Valentini a muso duro. «Se solo avessi la compiacenza di ascoltare…»
«Figuriamoci…»
«Il capo della congiura contro la Chiesa è Alvise Duodo, un veneziano.»
«Un nome… cos’è un nome? Cosa prova che abbia un senso?» Lambertini si era un poco calmato.
«L’avvocato Zen, che è venuto a Roma apposta per parlarcene, le spiegherà, Santità, l’esito delle sue ricerche, e lei potrà convincersi che gli indizi che portano a questo Duodo sono precisi.»
Toccò a Daniele raccontare la storia delle sue indagini e come, con l’arrivo di Francesco Biondo, sarebbe stato possibile arrivare all’identificazione di Duodo, sotto qualunque identità si nascondesse, qualora, come faceva sperare il ritrovamento dell’amuleto, frequentasse l’alta società.
«E se, e ma, e speriamo, e forse…» cantilenò papa Lambertini. «Guardate come sono ridotto, a confidare nelle apparizioni degli angeli e nelle spie come il vostro Vannucci. Ma per una volta mi auguro che la superstizione l’abbia vinta. Non c’è molto tempo: tra meno di un mese terrò il più importante concistoro della storia, con la nomina di sedici nuovi cardinali, e speriamo che per quel momento sia tutto a posto e che questi nuovi principi della Chiesa siano migliori di molti che li hanno preceduti.»
Scossi e avviliti, arrivarono in via dei Giubbonari a fine pomeriggio, ed entrando nella sala grande si stupirono nel trovare buttati alla rinfusa su una poltrona i neri panni da abate di Nani.
«Cos’è successo?» chiese Pisani a Clemente, che li aveva seguiti trotterellando. «Nani sta male?»
«No no, sta benissimo» ridacchiò il cameriere apparecchiando la tavola. «La Gigia servirà tra poco la cena.»
«Sì, ma dov’è Nani?»
«È arrivato poco fa arrabbiatissimo e si è chiuso in camera sua con Gasparetto.»
«Va’ a chiamarli» ordinò Marco mentre si sedevano a tavola.
I due assistenti non si fecero attendere molto. Nani entrò cupo in volto indossando una marsina blu che gli era stata donata da Marco, seguito da Gasparetto che faticava a trattenersi dal ridere.
«Allora?» lo apostrofò Pisani.
«Sa cosa le dico, paròn?» rispose Nani sedendosi davanti a un piatto di fettuccine. «Le dico che io ho finito di fare l’abate, e a palazzo Muti non ci torno più!»
«Racconta» sospirò Marco.
«Lei, conte Nuzzi, mi poteva avvertire!» esordì rivolto a Paolo. «Quel palazzo è un covo di depravati! No» prevenne le proteste. «Con il bambino ucciso non c’entrano niente. Anzi, il cardinale è una persona pietosa e gentile, anche se ha fatto tutta la carriera a rovescio.»
«Cioè?»
«Oh, lo sanno tutti. A vent’anni era soldato e ha combattuto col fratello per restaurare il trono del padre. Poi a ventidue è stato fatto cardinale senza avere nemmeno gli ordini minori. È stato papa Benedetto a ordinarlo sacerdote, e ora, a ventotto anni, ha una miriade di incarichi.»
«Qual è il problema?»
«Il problema è che si circonda di una moltitudine di amanti…»
«Già. Il palazzo pullula di bei giovani nullafacenti vestiti da abati, e il cardinale per causa loro litiga spesso col padre e col fratello. Mi hanno puntato appena sono arrivato…»
Tutti ridacchiavano immaginandosi la scena.
«Non c’è proprio niente da ridere» ribatté Nani tra un boccone e l’altro. «La prima notte qualcuno è venuto a bussare alla mia porta, e ho dovuto chiudermi dentro. Poi hanno cominciato a mettermi le mani addosso, non potevo passare per una stanza senza sentirmi toccare il sedere, e se mi voltavo infuriato mi trovavo di fronte le facce più innocenti e non sapevo con chi prendermela…»
Ora ridevano tutti apertamente, Guido aveva le lacrime agli occhi. «Hai dovuto difendere la tua virtù» sghignazzò.
«Si fossero limitati a quello!» continuò Nani addentando l’arrosto. «Stamattina ero solo nella saletta della colazione, in piedi davanti alla finestra. Ho sentito due braccia robuste che mi voltavano rudemente. Era monsignor Lercari, maestro di camera e favorito del cardinale, che mi ha spiaccicato contro il muro e mi ha infilato a tradimento la lingua in bocca! Che schifo!» E Nani fece il gesto automatico di pulirsi le labbra con una mano. «Ridete, ridete» continuò affrontando la torta della Gigia. «Ma io a palazzo Muti non ci torno più.»