L’UOMO-CHE-SOFFIA

(nevrosi aerobica 3)

Quando stavo a Pordenone mi piaceva andare a correre nel parco di San Valentino, soprattutto nelle mattine più rigide d’inverno, magari passando direttamente dal letto alle scarpette e saltando la colazione. Per raggiungere l’ingresso nord ci mettevo circa quattro minuti – un incrocio, un paio di scatti da tartaruga ninja nel flusso delle macchine, qualche colpo di clacson di risposta – poi, una volta dentro, mi limitavo a seguire il grande anello che circonda il parco. Prima di concludere il giro di riscaldamento incontravo l’Uomo-che-soffia. Era una questione matematica, lui procedeva in senso contrario al mio: quindi, a prescindere dal momento in cui arrivavo, capitava sempre che ci incontravamo quasi all’inizio della mia corsa. L’Uomo-che-soffia doveva essere un dipendente del comune, o forse un pensionato volontario di quelli che fanno attraversare i bambini davanti alle scuole, o forse un contrattualizzato per lavori socialmente utili (ma dall’età tenderei a escluderlo). L’aspetto era quello di un uomo vissuto, il volto ricco di esperienza, direi alla Bud Spencer, accumulata però in decenni di lavoro nei campi. Indossava un giubbetto di piuma sintetica, trapuntato e senza maniche. Aveva i baffi, le gote rosse dell’iperteso. Nei primi giri l’Uomo-che-soffia camminava con un sacco nero delle immondizie e raccoglieva le cartacce.

Un po’ perché i frequentatori del parco erano pochi, un po’ perché l’Uomo-che-soffia eseguiva ogni mattina con grande cura il suo lavoro, le cartacce erano al massimo due o tre e il sacco nero restava sgonfio, come quasi intonsi restavano i cestini dei rifiuti di cui era dotata con generosa abbondanza l’intera superficie del parco.

A quell’ora del mattino non c’era praticamente nessuno oltre a me e all’Uomo-che-soffia. Un tizio che portava il pane raffermo alle anatre, un paio di mamme in tuta col neonato intabarrato nella carrozzina, un nigeriano che veniva a lavarsi nei bagni puliti e riscaldati del parco, ma erano presenze davvero sporadiche. Dopo arrivavano le baby-sitter, i nonni, i liceali baudelairiani o gruppetti di più risolti somari in fuga dalle interrogazioni, dopo ancora, i podisti in pausa pranzo, ma di fatto, alle otto e mezza, i signori del parco eravamo io e l’Uomo-che-soffia. Il che, al contrario di quanto potrebbe sembrare, non era un bene, perché io e l’Uomo-che-soffia ci eravamo vicendevolmente ostili.

Si trattava di un’ostilità viscerale, primigenia, del tutto evidente ancorché ben controllata. La mia prima apparizione, in quello che anche lui come me considerava il proprio territorio, lo devastava. Io rappresentavo tutto ciò che non doveva esistere: lo spreco, l’inutilità blasfema, un adulto sano che dilapidava le fresche energie del mattino lontano da una qualsiasi attività produttiva, lontano dalla minuscola city e dai suoi santuari open-space che sembravano raggiungerci anche lì, tra gli aceri rossi, con le loro emanazioni ultrasoniche di efficienza e devozione al lavoro. Non ero handicappato, non ero un maratoneta professionista, non ero ricco – per l’Uomo-che-soffia tutto questo era evidente nello stesso modo preintellettivo con cui io avevo riconosciuto le fatiche della vita di campagna sulla sua faccia da Bud Spencer – ma allora perché perdevo il mio tempo? Perché correvo? Perché gli facevo questo? Per l’Uomo-che-soffia era del tutto escluso che potessero esserci attività svolte in tempi e modi diversi dai suoi, ma soprattutto era letteralmente impensabile che a svolgere dette attività fosse uno che viveva a Pordenone – invece che a Roma o a Milano o a New York – e veniva a correre proprio nel suo parco.

Quanto a me, be’ lui rappresentava in modo speculare lo stesso lancinante, minaccioso enigma: perché quell’uomo soffiava?

Al quarto, talvolta al quinto giro, sentivo partire il suo infernale strumento, l’attrezzo con cui s’identificava con una perfezione non dissimile a quella che gli dèi, i santi e le figure dei tarocchi vantano con il loro attributo. Per forma e tipo d’impiego sarebbe stato un aspiratore, non fosse che quel coso era stato invece concepito per soffiare. L’Uomo-che-soffia lo teneva a pieni giri salvo in casi di eccezionale minuzia, rimarcando a mano ferma il confine labile tra il terreno degli alberi e il ghiaino rosa del sentiero. Le foglie si sollevavano in volo come cialde di fango, piccoli pesci morti. Erano fradicie, incollate al ghiaino, ma l’Uomo-che-soffia spingeva al massimo la macchina soffiatrice e le puntava con determinazione assoluta finché non si staccavano. L’umidità non poteva nulla contro la sua indefessa missione di soffiatore. Si fosse trattato di un tempo caldo, secco, l’Uomo-che-soffia non avrebbe avuto soddisfazione a spingere via le foglie; era solo ingaggiando queste battaglie con le avversità del clima che si sentiva davvero compreso nella sua mansione. Stava concentrato con lo sguardo sulla foglia renitente, la soffiava fino a sfinirla, fino a farla soccombere al suo soffio e alla sua sovrumana tenacia. A ogni sfida vinta ripartiva con un guizzo di orgoglio. Quando ci incrociavamo sul rettilineo lungo, potevo osservarlo già da lontano. Il sole luccicava sulla brina dei prati, intrideva di luce gli aceri, le betulle, i ginkgo biloba, l’infinita varietà di quell’orto botanico trasformato in parco per le corse e i picnic. Lui era lì in fondo, chino come se stesse innaffiando, davanti a sé le quattro foglie cadute la notte, dietro le linee nette da simulatore digitale dei bordi del camminamento. Anche senza alzare la testa sapeva che stavo per tornare. Correvo a velocità costante, dopo qualche giro era facile indovinare il mio passaggio, non c’era bisogno di tenere il conto dei minuti, era una questione di ritmo mentale. L’Uomo-che-soffia fermava la macchina quando gli ero a una decina di passi, mi guardava un attimo con il soffiatore sospeso in una mossa incompiuta, un gesto che se portato a termine avrebbe infranto il cristallo della nostra ostilità, ma che così appena accennato poteva significare qualsiasi cosa, anche una dimostrazione di rispetto nei confronti di chi si godeva (usurpava secondo lui) il suo parco (il mio pensavo io). Quel gesto completo avrebbe significato: “Adesso ti soffio via,” anzi, sarebbe stato proprio spararmi il soffiatore in faccia per vedere come reagivo. Così invece quel gesto significava: “Vedi, hai a che fare con un lavoratore pieno di senso civico.” Io passavo ricambiando il suo sguardo con altrettanta asprezza, trattenevo il respiro finché non uscivo dalla nuvola di benzina rarefatta e poi abbandonavo l’apnea con una specie di gioia animale, o forse addirittura vegetale, assaporando quel tipo di complicità con gli elementi – l’aria gelida, il terreno croccante, il fuoco nei polmoni, il vapore del fiato – che solo gli sforzi a digiuno consentono. Il tutto mentre lo strumento dell’Uomo-che-soffia aveva già ripreso a ruggire alle mie spalle.

Ricordo che la prima volta avevo accennato un saluto benevolo – era ancora nella fase “raccolta cartacce” – e gli avevo sorriso. Lui era rimasto da subito devastato dalla mia presenza fuori orario, fuori schema, fuori tutto, e mi aveva guardato nel modo più torvo possibile. Così io al secondo giro mi ero vendicato enfatizzando a tutto braccio un gesto di asfissia. Da quel momento, senza dirci né farci più nulla, ci siamo odiati schiettamente. Benché mi fossi ormai abituato al nostro odio, non riuscivo a smettere di chiedermi perché soffiasse (come lui non riusciva, immagino, a smettere di chiedersi perché corressi). L’autunno era finito da un pezzo, le foglie ne davano testimonianza in sparute guarnigioni superstiti, impossibile scivolarci sopra. Non puzzavano, non rappresentavano un problema di nettezza urbana, meno che meno una calamità naturale. La loro caduta, oltre a non dare alcun fastidio, rendeva cromaticamente più mossa la superficie del parco. Se si vuole, anche in un modo piuttosto banale, lo abbelliva. Con le foglie a terra il parco avrebbe avuto un’aria meno leziosa, i cestini intonsi avrebbero dato un po’ meno nell’occhio, la scriminatura tra la terra e il ghiaino non sarebbe risaltata con tanta violenza. In più, se l’Uomo-che-soffia si fosse limitato a raccogliere cartacce, si sarebbero sentiti i cigni che dispiegavano le ali, le cornacchie che litigavano in mezzo al prato, le mie scarpette che scricchiolavano sul ghiaino, in una parola si sarebbe sentito il silenzio. In più ancora, se l’Uomo-che-soffia avesse rinunciato a mettere in moto la sua furiosa macchina soffiatrice, dal parco sarebbe scomparsa, insieme al rumore, anche la puzza di benzina bruciata. E non potevo – né tuttora posso – immaginare che lui fosse davvero costretto a farlo. Non potevo credere che un suo superiore fosse sempre pronto a un’ispezione a sorpresa per vedere se lui soffiava abbastanza, se aveva soffiato anche oggi, come da contratto. No, impossibile, l’Uomo-che-soffia lo faceva solo per darmi fastidio, lo faceva contro di me, ecco come mi ritrovavo a pensare ogni volta. Esattamente come lui finiva per pensare che io andavo lì a correre tutte le mattine solo per devastare la sua logica, i suoi schemi, la sua egemonia. In effetti la domanda aveva senso: io perché correvo? Non sarà che davvero lo facevo solo per, cioè contro di lui? In fondo, l’Uomo-che-soffia poteva sempre dire che soffiava le foglie per rendere più bello il parco – secondo un’estetica dell’ordine, cripto-nazista d’accordo, eppure legittima e piuttosto diffusa –, poteva sempre dire che stava lavorando per noi frequentatori, per me, anche per me. Ma io? Per chi correvo io? Immaginavo che cosa avrebbe potuto scrivere lui al posto mio: ogni mattina, mentre sono lì a svolgere le oneste mansioni che mi competono, arriva uno (come mi avrà chiamato? L’Uomo-che-corre? No, mi avrà chiamato Deficiente, Quel-deficiente, ecco come) arriva Quel-deficiente e si mette a girare per più di un’ora, sfiancandosi senza che nessuno glielo chieda né tantomeno lo paghi per starsene lì tutto quel tempo a disturbare il mio lavoro. Non viene dopo, come gli altri, Quel-deficiente, no, lui viene a esibirsi nella sua inutile manfrina – come inutile dev’essere tutta la sua vita – quando sono ancora lì impegnato a soffiare.

Per me era un piacere irrinunciabile andare al parco al mattino, ma in effetti non c’era niente di ragionevole nel godimento che ottenevo dalla sensazione di padroneggiare una fatica prolungata. Che bisogno c’era di soffrire? Intendo, di soffrire inutilmente, di provocare da sé la propria sofferenza. Forse la noia. Me la prendevo con l’Uomo-che-soffia, ma cosa faceva lui che io non facevo? Smaltiva la noia in una missione quotidiana, convogliava la nevrosi nell’alveo della pratica, della pratica ascetica (e io?). Invece di scoppiare le bollicine delle imbottiture – metri, ettari di succulente bollicine procurate, poniamo, dal figlio traslocatore –, invece di leggere gli opuscoli dei supermercati sulla panchina, invece di chiedere il porto d’armi e iscriversi a un poligono di tiro, l’Uomo-che-soffia si concentrava sulle quattro foglie della notte (e io?). Tre cartacce e quattro foglie. Ma poi col soffiatore si potevano ricamare delle perfette righe di pulito anche attorno agli alberi, squadrando immaginarie aiuole, e si poteva continuare così per due, tre ore, finché rimaneva benzina. Io non so quanto durasse di preciso il lavoro dell’Uomo-che-soffia, quando me ne andavo il suo ordigno era sempre ancora in funzione. E il mio lavoro quanto durava? Quale smania da Pastore errante andavo a spegnere lì dentro? “Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / e un fastidio m’ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace o loco.”

Talvolta ho cercato di identificare l’Uomo-che-soffia con i monaci che curano i giardini zen – un Bud Spencer giapponese – mi sono sforzato di considerare il suo soffiaggio, i suoi allineamenti millimetrici, come una celebrazione delle geometrie cosmiche, una forma di abnegazione, di autosperdimento nel ciclo della vita universale. Ma non c’era sintonia tra lui e la vita, c’era spasmodica, dolorosa distonia, chiunque se ne sarebbe accorto. E temo proprio si potesse affermare lo stesso di me. “Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il male che è in noi.” Sarà vero, cara Simone Weil? E il tizio (o la tizia) che dopocena si ritira in cantina a fabbricare piccole amorevoli bombe come velieri in bottiglia? E l’arte forse ancora più minuziosa di questo operaio del comune? E la mia?

Ogni mattina quando lo lasciavo di nuovo solo nel parco, avrei voluto dirglielo. Guardi che lei non lo sta facendo perché sta bene, perché è una brava persona. Lei lo sta facendo perché sta male. Come me. Abbiamo deciso di odiarci – in fondo anche la guerra aiuta – ma la nostra non è una questione personale. Io e lei siamo fratelli. A domani.