CATTIVE MADRI
(i miei non-figli 3)
In attesa che si aprano i cancelli ripasso ancora una volta i miei appunti. Il 30 gennaio del 2002 in una villa di un paesino valdostano viene ucciso un bambino di tre anni di nome Samuele con diciassette… – pugnalate? martellate? – appena sopra la fronte. La madre, da subito l’unica sospettata, dichiara la propria innocenza. Niente arma del delitto, niente movente, ci sono solo indizi. Il medico legale stabilisce che il fatto è accaduto tra le 8,00 e le 8,29. Alle 8,16 Anna Maria esce per accompagnare il bambino più grande allo scuolabus. Alle 8,24 rientrando trova o dice di aver trovato Samuele agonizzante. Il suo alibi copre solo otto minuti su ventinove. Gli inquirenti stabiliscono che quando il piccolo è stato aggredito stava sul letto dei genitori ed era sveglio. La perizia psichiatrica stabilisce la sanità mentale dell’imputata, che in primo grado viene condannata a trent’anni. Anna Maria ricorre in appello.
Eccolo, l’appello. Antenne, gruppi elettrogeni, cavalletti, riflettori. E poi pubblico, tanto pubblico, chiuso nei recinti prima dell’ingresso in aula, ammassato coi numeri salvacoda nel nuovo ordine precario dei transennati.
I transennati sono stanchi. Stanno qui da un paio d’ore e hanno già risposto a una decina di interviste. In più, nell’ombra squadrata di questo palazzo di giustizia così simile all’ennesima fortezza Ikea, il termometro segna tre gradi sottozero. A essere ripresi sono sempre gli stessi, quelli addossati alle transenne. Le troupe sbocciano via via dai furgoncini nella classica endiadi inviato-cameraman, eseguono una panoramica veloce sulla gente in fila e poi cominciano a raccogliere opinioni. Puntano sulle donne, naturalmente. E lei perché è qui? E lei cosa pensa? E lei? E lei? La signora col cappotto rosa dice che Anna Maria è colpevole perché ha detto subito che voleva un altro figlio. La ragazza con la cartellina Gucci dice che è colpevole perché altrimenti può essere stato solo un marziano. La signora bionda con la sigaretta sottile dice che è colpevole perché ha approfittato di ogni occasione per ottenere un passaggio televisivo, lo dice guardando dritto in camera e calibrando di giornalista in giornalista le parole della propria sentenza. È l’unica, questa signora contro la tv, a reggere alla distanza, nel susseguirsi delle interviste. Le altre la guardano un po’ amareggiate. Non sono abituate a ripetere mille volte la stessa cosa. Hanno dato il meglio di sé alle nove, quando è arrivato il primo gruppo di emittenti locali, ma alle dieci rispondevano in modo sempre più sciatto. Un vero peccato perché solo adesso – sono le 10,45 – compaiono le troupe di Rai e Mediaset. I divi, si sa, arrivano per ultimi. Ci sono gli inviati dei telegiornali nazionali, segnalatori inequivocabili del mondo in diretta, del tempo reale, facce fresche di dopobarba che ti dicono semplicemente apparendo, guarda che oggi le cose succedono qui. E la signora bionda dalle sigarette sottili – ecco che ne ha accesa un’altra – sta aspettando che gli arrivi sotto il naso il microfono con il logo di Canale 5 per giocarsi il jolly. E lei cosa pensa? Be’, io non approvo il suo abuso del video, però… però… per me non è stata lei, nessuna madre può mentire così a lungo senza crollare, lo dico da nonna.
Madri. E madri di madri. Tempo fa ho letto un numero della rivista Ippogrifo dedicato all’argomento. C’era un saggio di Francesco Stoppa che iniziava con la citazione della celebre sentenza di Salomone. Due donne rivendicano la maternità dello stesso bambino, il re dice: “Tagliate in due il figlio e datene metà all’una e metà all’altra.” La madre vera sarà quella in grado di dominare l’istinto naturale e privarsi del suo bambino purché resti intatto e sopravviva. La madre falsa sarà quella disposta a smembrarlo pur di averne un pezzo. Ecco cosa significa essere madre. Sapersi separare dal figlio, rinunciare a considerarlo un proprio frutto, accettare di non poterne rivendicare il possesso, riconoscerlo come un soggetto diverso da sé, dotato di vita e mente proprie. La madre che si rassegna alla perdita del suo oggetto del desiderio, come nella vicenda salomonica, lo riavrà nella separazione. Ma non tutte riescono a compiere questo passo, ci sono anche le “cattive madri” come le chiama Stoppa, cercando di cancellare, con il titolo di un quadro di Giovanni Segantini, l’alone di mostruosità che ce le rende aliene. Donne che negano al figlio l’identità di un essere umano completo, che dispongono del bambino come di ciò che è uscito da loro e in quanto tale gli appartiene, donne umorali, uterine, che proiettano sul figlio le proprie frustrazioni, donne piene di angoscia, apprensive, soffocanti. Chi non conosce donne così, oggi che i bambini sono pepite preziose da esibire come obiettivo esistenziale, da usare nell’eterno contenzioso con i mariti, con le madri? Chi non ne ha una per amica, magari per compagna? In casi estremi loro, le nostre donne, possono uccidere. Non sarà forse questo che ci terrorizza più di tutto? Non sarà questo che ci fa correre al tribunale di Torino? Sotto la pseudomotivazione mediatica che gli stessi transennati ammettono, d’accordo in modo paradossale con i corsivisti più affilati dei nostri giornali, sembra esserci una motivazione conoscitiva. Autoconoscitiva. Io posso uccidere quando percepisco mio figlio come qualcosa che non sono io e che pure non si è staccato da me, qualcosa che ha compromesso l’integrità del mio corpo, qualcosa che ha reso evidente, con l’emergere dei suoi bisogni primari, la mia inadeguatezza a essere una buona madre. Io posso uccidere quando rivendico il diritto naturale di essere una cattiva madre.
Sì, diritto naturale. Ecco ciò che ci scandalizza di una madre assassina, la componente naturale del suo gesto, la rivelazione di un nostro desiderio inconscio. È solo per falsa coscienza che parliamo di reato contro natura. Semmai, come scrive Stoppa: “È la Legge che, in quanto elemento culturale, si impone contro natura, è la Legge che dà limiti (innanzitutto a chi potrebbe abusare degli altri) e custodisce il valore dell’alterità di ciascuno.” Il cosiddetto istinto materno non è mai così istintivo. Alla fin fine, in senso stretto, uccidere un figlio è più naturale che crescerlo, il che ovviamente ci fa orrore. Mi viene in mente una foto del libro di Martin Amis Koba il terribile: un uomo e una donna davanti ai resti del figlio di cui si sono cibati. Non manca a quei due adulti la forza istintuale – che anzi si esprime proprio nel potere di vita e di morte –, manca bensì la norma di un amore genitoriale il cui principio primo consiste nella protezione del nuovo essere, nella tutela della sua integrità e identità.
Sono le undici, è ora di entrare, comincia l’udienza. Legno alle pareti, vetri al posto delle sbarre, timidi tentativi per attenuare la sensazione immancabilmente metallica della giustizia. Quando sono entrati i giudici ci siamo alzati tutti in piedi – abbiamo visto Un giorno in pretura, abbiamo visto Forum, sappiamo come si fa. LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI, dice la scritta sulla parete alle spalle della corte. Noi esseri umani capiamo la Legge perché la troviamo già dentro di noi, inscritta da nostra madre e nostro padre nella forma della parola. E cos’è il figlicidio se non la vittoria dell’urlo sulla parola? Se mia madre ha usato le sue carezze non come doni ma come strumenti di potere, io saprò rispondere solo con angoscia al vagito di mio figlio – “Non lo sopportavo più, continuava a urlare, a urlare…” dicono le cattive madri di Stoppa – e lo sacrificherò sull’altare dell’onnipotenza materna. Se mio padre ha usato la parola non per individuarmi, grazie a un nome, nel tutto indifferenziato e preverbale, ma per lasciarmi in balia di una madre che produce copie di sé e a sé le trattiene, io vedrò nel mio compagno la ripetizione di quella promessa disattesa di affrancamento, colpirò il secondo per ferire il primo, ucciderò il mio bambino, mi priverò della cosa che amo di più al mondo per oltraggiare la legge paterna, dimostrerò che il potere naturale delle madri, il potere di vita e di morte, è più forte di qualsiasi ordine di senso. Per vendicarmi farò vincere l’urlo sulla parola. “Non rimembrar che tu di lor sei madre, che tanto li ami,” dice Medea a se stessa. “Scordati pur questo breve dì de’ tuoi figli, e piangi poi. Ché, sebbene or li uccidi, a te pur molto fur cari”.*
Non urla Anna Maria, ma nemmeno parla più. Si piega piano nei brevi sussulti del pianto. È iniziato il filmato da analizzare nell’udienza di oggi. Guardiamo, come nella lente di una maschera subacquea, i vani della nave affondata nei mari di Cogne. Una coppia di pensionati seduta accanto a me si cerca, si tiene per mano, fa venir voglia di volersi bene la sequenza di immagini offerte dagli inquirenti. La telecamera scende nelle stanze sommerse, tra le cose immobili, intatte di quel giorno, ha la lentezza del fluire naturale del tempo, senza tagli narrativi, senza sintesi televisive. Sul fondo dell’abisso c’è un letto matrimoniale uguale a quello che tutti abbiamo in casa, i due cuscini sono perfettamente allineati, ancora con il calco delle nuche, da una parte il piumino è scostato come se la persona che ci dormiva fosse appena andata a lavarsi i denti o si stesse preparando per accompagnare il figlio allo scuolabus. Potrebbe essere davvero la nostra camera, è in un posto identico che riposiamo ogni notte. Solo che questo è sott’acqua, solo che lì sul materasso c’è la scaturigine dell’abisso, ciò che siamo venuti a vedere e che ora ci guarda col suo occhio insanguinato. “Gli è scoppiato il cervello, è stata la prima cosa che mi ha detto,” dichiara l’amica psichiatra di Anna Maria nel video degli inquirenti. “Mi sembrava un’assurdità, ma quando sono arrivata qui ho capito che avrei detto così anch’io.”
Anch’io dico così, a Samuele è scoppiato il cervello. Fossero pure colpevoli, le cattive madri sono innocenti.
* Euripide, Medea, traduzione del grande Felice Bellotti (1834).