STERILITÀ

(i miei non-figli 1)

Il frisbee piega a sinistra e si suicida nella pozzanghera oltre la staccionata.

“Vado io a prenderlo, zio!” mi urla Marco. “Tu stai tranquillo!”

Non dico niente. Lo guardo mentre tenta di scavalcare e poi decide di aggirare l’ostacolo, giù a tutta birra, le braccia che remano lontane dai fianchi, la testa saldata chissà come su quel piccolo collo di gomma pane. Tu stai tranquillo. Come fossi inchiodato sulla sedia a rotelle. Marco è l’unico essere umano, anzi, l’unico essere vivente che mi ami in modo incondizionato. Altre persone mi hanno amato, alcune mi amano tuttora, ma tutte chiedono qualcosa in cambio, talvolta anche solo di essere amate con la stessa intensità. È normale, anch’io faccio così. Marco invece non mi chiede niente in cambio, mi adora e basta.

Riguadagna il campo di gioco, l’aria pensierosa, il frisbee tenuto in testa con entrambe le mani a mo’ di cappello cinese. Quando mi arriva sotto, guardandomi più o meno dall’altezza del mio ombelico, dice:

“Ma tu perché non hai bambini?”

“Perché mi stanno sulle palle,” gli rispondo d’istinto.

“Nooo!” mi dice lui. “È vero che stai scherzando, zio?”

Ha imparato che solo io posso dire parolacce. Quand’era più piccolo si divertiva come tutti a ripeterle per vedere le reazioni dei grandi. Adesso ha capito che sono una mia licenza e non me le tocca. Spesso anzi le sottolinea con smorfie da vecchio moralista, il che mi fa pensare che forse sono io a dirle apposta per vedere la sua faccia. Comunque sia, quello che non ha ancora imparato è non chiedermi se sto scherzando.

“Eh zio? Stai scherzando, vero?” ripete col naso in su, usando il frisbee come parasole.

“Torna al tuo posto,” gli dico, prendendogli il frisbee di mano, e lui indietreggia già pronto a ricevere. Uno gnomo di sei anni con i capelli a spazzola, due tre ciuffetti appiccicati alla fronte, piegato nella posizione di catcher.

“Dai zio, dimmi! È vero che stai scherzando?” Sa che sto scherzando, ma è un tipo di certezza che non si convalida col silenzio, ha bisogno di un’affermazione esplicita, in casi rari anche di un giuramento. “Allora?” Che la voce inveri la verità, questo vuole. Come quella volta in gita con l’artista vestita da sposa.

“Sì, sto scherzando. Prendi,” gli dico, e lui prepara le mani a pinza davanti al viso.

Ma io sto davvero scherzando? Per Marco sì, anche prima che glielo confermassi lui ne era convinto. E la ragione è semplice: Marco è circondato solo da adulti che amano i bambini, adulti che procreano, vanno ai saggi di fine corso, prenotano il McDonald’s per i compleanni, rinunciano all’avanzamento in ufficio, magari scelgono anche il part-time per fare bene i compiti e studiare le tabelline, adulti che guidano sempre monovolume zeppe di giocattoli e camminano per strada con gerle imbottite, marsupi, carrozzelle ergonomiche, adulti che per logica e necessità frequentano solo adulti dello stesso genere, comunicando ai loro e ai bambini degli altri una tale rassicurante devozione da rendere impensabile che un uomo di quarant’anni, per di più zio, non sopporti i bambini. Il fatto è che Marco e i suoi compagni di scuola conoscono l’altra metà degli adulti, forse l’altro trenta per cento.

Quelli che – di solito molto tardi, con molta fatica e molta determinazione – decidono per la riproduzione sono un’esigua minoranza, e sarebbe davvero ipocrita attribuire la scelta degli altri, di tutti gli altri, alla precarietà economica. Io gli altri li conosco. Non sono poveri. Neanch’io lo sono. Noi non siamo poveri, siamo sterili, penso, mentre raccolgo il frisbee dall’erba e lo mando a schiantarsi contro un pino. Noi siamo soggetti sterili, dotati di apparati riproduttivi fertili. Tutto qua.

“Ecco la mossa di Supercampione! Fooochh!” mi avverte Marco e fa partire un lancio moscio da sotto la gamba.

“Lascia perdere i superpoteri, tira normale,” gli dico. Avviando con la mia semplice impronta vocale una serie di lanci piuttosto fortunata.

La sterilità di quelli come me sta tutta nella paura di invecchiare. È una specie di scelta autoconservativa. Fare figli significa smettere di essere figli, significa sottrarre energia preziosa al proprio sostentamento per riversarla nel sostentamento di un altro, significa violentare il proprio egoismo, fare un passo indietro. Si dice che un figlio prosegua il cammino di chi lo ha generato, che continui da dove lui o lei si fermano. Il fatto è che noi sterili vorremmo proseguire con le nostre gambe, continuare senza fermarci mai. Ecco come vanno le cose. Per un buon pezzo di strada procediamo pensando che il mondo non abbia bisogno di un nostro figlio, ma di noi. Il mondo ne ha tanti di bambini, pensiamo, ma è da me che si aspetta qualcosa. Crediamo in una storia di eterni ragazzi, di individui davvero speciali, stiamo concentrati, trattenuti, pronti a lasciare il segno. Vogliamo essere liberi da responsabilità, leggeri, rapidi negli spostamenti, viaggiatori last minute, esploratori lonely planet, inquilini di monolocali mansardati, consumatori di quattro salti in padella, frequentatori di tapis roulant, non padri, non madri, ma ovunque potenziali amanti, il tutto per costruire un’altra prolunga, l’ennesima unghia di cemento alla nostra rampa di lancio, anche se abbiamo quarant’anni (o cinquanta, ma diremo sempre quaranta) ed è ormai evidente che non salteremo più, e non lasceremo nessun segno, e il mondo ci supererà senza neanche voltare la testa. Ecco, lungo questo pezzo di strada, almeno lungo questo pezzo, il solo pensiero dei bambini ci fa venire il latte alle ginocchia.

“Dai zio, perché non dici niente?” protesta Marco, che è abituato a sentirmi dire un sacco di sciocchezze in stile Supercampione mentre giochiamo, telecronache capaci di aumentare, talvolta anche di raddoppiare il suo rendimento.

“Perché il frisbee è uno sport serio, bisogna sentire il rumore del vento per indovinare le traiettorie,” dico con estrema convinzione.

“E come si fa?”

“Ascoltando il frisbee. Senti il fruscio? Senti che fa frszzbi?” gli dico, tirandoglielo teso al petto.

“Sì,” dice lui, dopo averlo parato con gli avambracci.

“Ecco, bisogna stare zitti,” dico, e Marco riprende a giocare tutto compreso nella nuova veste di ascoltatore di fruscii.

Noi sterili non sopportiamo i bambini anche perché, durante quel lungo pezzo di strada, l’altra metà degli adulti non fa niente per renderceli simpatici. Esattamente al nostro opposto, i genitori sono convinti che il mondo non abbia bisogno di loro, bensì dei loro figli. I genitori credono di aver lasciato un segno, e il loro segno, il loro ineguagliabile, meraviglioso, stupefacente segno, è quel coso che lancia brandelli di marinara in giro per la pizzeria. Eccolo lì, è quel coso che strilla perché la mamma ha rivolto la parola a un’amica. Eccolo lì, è quel coso che prende a calci il cane. Una volta, quando tutti gli adulti si riproducevano, i bambini crescevano ai margini delle tavolate senza per questo ricevere meno affetto, trovavano subito il proprio posto nella gerarchia del branco, chiedevano “papà, posso?”, giocavano tra di loro senza bisogno di animatori. Adesso che gli adulti sono in grande maggioranza sterili, i bambini sono i capolavori dei genitori, sono segni, gioielli creati non più con la naturalezza di chi semplicemente asseconda gli automatismi del ciclo vita-morte-rinascita, bensì con la pianificazione meditata e sofferta di un’opera unica. Ed eccola qui l’opera unica, che tortura un’intera carrozza di Frecciarossa coi suoi pianti rabbiosi perché la Playstation ha finito la batteria.

Guardo Marco preso nella sua mezza piroetta prelancio.

“Attenzione signori,” dico, perché mi fa tenerezza il suo silenzio, “attenzione alla lama rotante di Supercampione!”

Lui si esalta e manda il frisbee oltre la staccionata.

“Ma uffa, zio! Avevi detto che dovevamo ascoltare il fruscio!” mi dice dirigendosi verso la pozzanghera.

“Muoviti! Che se no il centro della Terra ce lo risucchia dentro.”

“Non è vero!”

“Come no! Lì, sotto la pozzanghera, c’è un buco che va dritto al centro della Terra. Se non ti spicci, parte un vortice e si tira dentro tutto.”

“Non è vero! Stai scherzando!” mi grida da lontano, affrettandosi a ripescare il frisbee con uno stecco.

“È vero che stavi scherzando?” mi dice quando torna in posizione.

“Sì, stavo scherzando. Tira, dai.”

Ieri in treno abbiamo smesso di leggere, quelli che lavoravano hanno richiuso i portatili, un paio di ragazzi si sono ficcati le cuffiette, e ci siamo messi ad aspettare tutti insieme con l’aria bovina di chi sta sotto un ponte durante l’acquazzone. Nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Signora mi scusi, faccia qualcosa, suo figlio non può tenere in ostaggio un’intera carrozza fino a Roma. Nessuno ha osato. All’inizio mamma e papà hanno provato a confortarlo – carezze, cioccolata, promesse solenni di una nuova versione di Playstation non appena scesi –, poi lo hanno lasciato fare, gli sono stati accanto nel suo inarginabile dolore. Quando sono scappato nella carrozza ristorante, li ho visti, ci siamo guardati. Non c’era imbarazzo nei loro occhi. Pur provati, pur leggermente scossi dalla loro impotenza, i due genitori – lui smilzo, pelato, in dolcevita, lei con un maglione etnico, senza un filo di trucco, non più ragazzini – erano convinti di una mia totale comprensione. In fondo, si trattava di un’opera unica. O forse avevano letto in me l’ostilità dell’altra parte, degli altri adulti, gli illusi, gli edonisti, gli sterili, e mi sfidavano con la compostezza delle persone raggiunte dall’illuminazione. Eravamo anche noi due sulla rampa di lancio, poi ci siamo accorti che l’unico modo per lasciare un segno era questo. Eccolo, ammiralo, adoralo, venera il suo pianto assordante. Mi ritrovo a pensare che quei due, e le mamme dei bambini che circondano il lembo di prato su cui io e Marco stiamo giocando, e alla fin fine anche mia sorella e mio cognato e gli altri adulti con prole che riesco a frequentare, non siano meno egoisti di noi sterili. Non donano al mondo nuovi esseri umani, né donano ai figli la vita, ma lasciano segni, esibiscono trofei, declinano in una forma più ambigua quella che resta a tutti gli effetti pura e semplice volontà di affermazione. Allora forse realizzarsi in questo modo è ancora peggio, perché a noi prima o poi arriva una botta di malinconia chiarificatrice e d’un tratto vediamo la rampa di lancio con le nostre sagome di spalle, ognuno la propria, ridicola, sola. Mentre i genitori pensano che in fondo almeno qualcosa di buono nella vita hanno combinato, invece non è vero, neanche loro hanno combinato niente, semmai stanno spacciando come gesto di generosità verso il prossimo un impulso cripto-narcisistico. Riprodursi non è né buono né cattivo. Non siete voi a riprodurre la vita, ma è la vita a riprodursi attraverso i vostri corpi. Voi non avete nessun merito, questo avrei voluto dire ai due tizi del Frecciarossa quando ci siamo guardati. Tu che con tanta ponderazione hai scelto di fare il padre non hai niente di cui andare fiero. Non ti sei realizzato. La natura si è realizzata, ancora una volta, per mezzo tuo, come sta facendo proprio ora con zebre, licheni, colibrì e le altre infinite varietà di organismi terrestri. Di tutto questo i genitori erano consapevoli fino a qualche generazione fa. I nostri padri e le nostri madri figliavano con naturalezza, con disinvoltura. È pur vero che non s’erano mai posti la questione della rampa di lancio, non sapevano neanche cosa fosse. Però, insomma, fino a vent’anni fa nessuno s’illudeva che procreare potesse essere un segno di distinzione.

Ma che ne sai tu di bambini, che non hai figli!, è la risposta, appena apro bocca. Ne so eccome, di bambini. Sono stato bambino. E poi comunque, ci dovete più rispetto, questo avrei voluto dire ai genitori di playstation. Anche se frequentiamo i locali per scambisti, anche se ci sottoponiamo alla liposuzione, anche se abbiamo ancora addosso i piercing e i jeans a vita bassa. Ci dovete più rispetto, perché alla fine saremo noi a restare soli. E qui, a partire dalla botta di malinconia, comincia un altro pezzo di strada. Di solito è a questo punto che i bambini smettono di starci sulle palle.

“Basta zio,” dice Marco, ciondolando la testa sul suo minuscolo petto di lontra.

“Bisogna sempre finire con una serie perfetta. Dai, Supercampione,” dico io ed eseguo un lancio appena discreto che Marco prende per puro caso con i due mignoli incrociati.

“Foochhh, presooo,” dice con la voce di Supercampione, e rilancia il frisbee con troppa forza, con troppa voglia di stupirmi, ottenendo una parabola diabolicamente magnetizzata dalla pozzanghera oltre la staccionata.

Ci guardiamo con la faccia di Duffy Duck dopo che ha controllato se il fucile funziona. Senza dirci niente andiamo tutti e due a recuperare il frisbee. Non corriamo più ora, camminiamo uno di fianco all’altro in silenzio. Penso alle grandi discussioni nelle compagnie senza figli, intere tavolate esperte di pedagogia. Coppie stanche, aggrappate alla propria sterilità come a un’obiezione di coscienza, quasi sempre gravate nascostamente da un pentimento intempestivo. Uomini e donne arrivati lunghi, troppo lunghi per sterzare senza cappottarsi. Persone che avanzano lente per la strada maestra, non potendo fare altro ormai che lasciarsi alle spalle il bivio e le sue promesse allarmanti, allettanti, di novità. Gente senza figli che per logica e necessità frequenta solo gente senza figli. Chi ama i cani sposi chi ama i cani, chi ama i gatti sposi chi ama i gatti, consigliava Danny De Vito nella Guerra dei Roses. E noi così abbiamo fatto. Solo che poi c’è questo altro pezzo di strada.

La pozzanghera ha un bel color senape. Il frisbee beccheggia solo per metà visibile, mentre Marco tenta invano di rimorchiarlo verso la terraferma con lo stecco di prima. La superficie del legno è inumidita e completamente priva di asperità, scivola sul bordo di plastica dopo pochi centimetri di navigazione. Lui è accucciato col sedere sui talloni come solo i bambini e gli yogi sanno stare. Ed è chiaramente sul punto di rinunciare.

“Dai, Supercampione, entraci dentro,” gli dico.

“Nooo, io no che non ci entro!” mi risponde scandalizzato.

“Hai ragione, potresti annegare,” dico e poi, approfittando della para alta dei miei scarponcini, muovo alcuni passi decisi nell’acqua melmosa. Marco mi osserva irretito dal gesto avventuroso. Raccolgo il frisbee, sento il primo freddo dell’acqua che penetra dolce nell’intersuola, ma resto fermo sul posto.

“Ho il piede bloccato,” gli dico. “Mi sa che l’ho messo dentro il buco che va dritto al centro della Terra.”

“Non è verooo!” esclama Marco.

“Se parte il vortice, mi risucchia e scompaio per sempre,” dico, fingendo di strattonare il piede fuori da chissà quale morsa malefica.

“Non è verooo!” grida Marco, sorridendo solo con la bocca.

“Dai, Supercampione, vieni a salvarmi,” gli dico serio.

E Marco, sapendo che a occhio le sue scarpe da ginnastica nuove finiranno sotto fino al nodo e che stasera sua madre s’infurierà, ma sapendo soprattutto, ne sono sicuro, che i suoi superpoteri non basteranno a salvarmi, entra in acqua dietro di me e mi abbraccia le gambe forte forte.