LA CITTÀ BAMBINA

(nevrosi aerobica 2)

I was there,

Me in place and the place in me.

SEAMUS HEANEYa   

Avanzo a quattordici all’ora nel primo buio del pomeriggio. Tre passi al secondo, duecentoquaranta metri al minuto, quattordici chilometri all’ora. È la mia velocità di crociera e in questo punto senza marciapiedi sento nitido il metronomo delle scarpe sul ghiaino. Esco a correre ogni sera e ogni sera la corsa entra in me. Lava tutto quello che la giornata ha imbrattato. Scorre dentro e lucida le pietre dei pensieri più grossi. È un fiume che bevo per intero, con l’umidità, il fumo delle macchine, la puzza dei concimi. Prima di guadagnare l’aperto della campagna devo fronteggiare ancora qualche minuto di traffico. Fronteggiare è proprio la parola che cercavo, perché corro in senso contrario alla direzione di marcia, andando incontro agli anabbaglianti, offrendo la faccia e le righe catarifrangenti della pettorina al mondo che rientra.

Sul mio stesso lato si avvicina una sagoma complessa. Individuo in controluce un cane al guinzaglio, una donna non giovane, mi pare, e qualcosa come una bacchetta o un frustino. La sagoma cammina in modo scomposto, sembra una macchia di Rorschach in movimento nell’alone lattiginoso dei fari, ma è chiaramente una signora a passeggio col cane. È strano solo quel frustino, un tocco agreste, mandriano, in mezzo all’urbanissimo caos di viale Grigoletti. Per frustare chi, cosa? La donna è vecchia, adesso lo vedo bene, e impugna forse l’unico reperto fossile di tutto ciò che è stata. Solo il gesto è rimasto, dell’era delle vacche. Non le vacche, non la casa con la stalla. Anche il cane, smilzo, anfetaminico, non è certo un cane pastore. Quei due sono scesi da un appartamento qui intorno. Siamo tre cose fuori posto su questo bordo strada. Senza contare la bacchetta. Un attimo prima di passarmi accanto, dice una frase che dal tono potrebbe anche sembrare di incitamento: “Via! Via! In Zanussi!”b

La Zanussi è a un paio di chilometri alle mie spalle, già oltre le Colonne d’Ercole delle concessionarie, nel niente lampionato che precede la città. È lì che mi vorrebbe la vecchia, a stoccare lavatrici, a consumare le mie energie di uomo sano in maniera produttiva, redditizia, per me e per la comunità. Watt e watt di muscolatura adulta, sprecati lontano dalle fabbriche, dagli uffici, lontano dai campi, watt immorali. È questo che vede la vecchia con la bacchetta, mentre la incrocio. La Zanussi, acropoli eccentrica di una città bambina, sito fondativo, ara sacra, miracoloso giacimento attorno al quale i pionieri si sono raccolti nei favolosi anni sessanta e hanno urlato qui boom industriale!, qui miniera! La Zanussi, sineddoche di guerra vinta dal lavoro contro la miseria, di benessere sudato, conquistato. Sarebbe quella la mia ultima chance correzionale, il mio riformatorio.

Proseguo verso il centro. Percorro la mia strada preferita, via Oberdan. Non c’è nessun posto che renda meglio la gioiosa pubertà di Pordenone, nessuno meglio di questa palestra per architetti. Eccolo il pionierismo, la banca coi pinnacoli arabeggianti, le assicurazioni con la cancellata venusiana, il condominio a forma di Arca di Noè, la gelateria con la fontanella caleidoscopica e subito dopo, come un dente guasto non ancora estratto, una vecchia casa contadina con giornalaio e rivendita di telefonini. Ho sempre amato questa libertà pasticciona. Pordenone si è vestita in fretta. Fino all’altro ieri era nuda e non aveva specchi. Venezia è lontana, Trieste pure. Da Udine non ha mai voluto copiare. E allora è uscita così: le scarpe col tacco, la tuta da ginnastica, il rossetto fucsia, il cerchietto in testa. Via Oberdan è lo Strip di Las Vegas senza il colossal festoso dei casino, ma con lo stesso deserto intorno. È nata dal niente, piccolo azzardo del Nevada friulano, e solo ciò che è stato niente può diventare tutto. Cos’è altrimenti la selva di gru gialle che ingabbia l’orizzonte a sud? La classica ansia da prestazione urbanistica, naturalmente, sanata a suon di palazzine dai giovani leoni dell’edilizia privata.

Volo tra i taxi davanti alla stazione. Salto il trolley di un tizio con l’impermeabile troppo bianco. Rispetto al mondo fermo della pensilina la mia velocità è quella di un ladro, di uno scippatore, uno mosso da un’urgenza effettiva – il tizio mi guarda scappar via con un certo sospetto. Mi infilo nel sottopasso di via Cappuccini al fischio di un treno in arrivo, scendo in picchiata il ripido che porta al laghetto della Burida e la città è già un ricordo, minuscola downtown ingoiata con le sue luci e i suoi rumori dalla quiete gigantesca dei campi. Mi bastano otto minuti da casa per ritrovarmi solo col mio fiato, su questa immensa bocca silenziosa. Pordenone è per me soprattutto la rapidità con cui smette di esistere, il breve passo dopo il quale scompare in questa bocca. Città bambina tenuta sulla lingua rasposa della campagna.

Ora, di nuovo, sento solo il metronomo delle mie scarpe. Ogni tanto qualche cane e la televisione delle ultime case. Inspiro l’odore di stufa, che non farà bene ai polmoni ma è buono. Abbandono la civiltà asfaltata del bordo strada e subito lo sterrato mi prende con sé e mi trascina via, al largo. Corro alla cieca. Sistema propriocettivo, si chiama. È la sapienza delle caviglie, la loro capacità, acquisita anche a suon di storte, di dialogare con i sassi e le pozzanghere. Qui smetto di far fatica. Sto al traino del sentiero. Ondeggio, beccheggio. Dire quattordici all’ora non ha più senso, adesso la velocità andrebbe misurata in nodi.

Intorno, solo stoppie, increspatura pointilliste di un’oscurità più scura del cielo, curva dove curva la Terra, continua ben oltre l’orizzonte. Ecco il mare. Sì, il mio mare, l’ho portato qui. Non è stato facile trovargli un altro golfo. Per la bora mi devo ancora attrezzare. Dopo, di Trieste non mi mancherà niente. Qui, su queste onde di terra nera, mi sento a casa. Anche la frazione che piantona i campi ha il nome giusto. Portovjeli. Porto vecchio perché là sotto, dietro i pioppi, si aggira il Noncello. Ma non è il fiume a farmi contento, è l’illusione che i contadini di quelle quattro case una volta fossero marinai. Gente magari un po’ meno parsimoniosa, meno prudente, meno stacanovista dei metalmezzadri.c Mi piace immaginare che nessuno di loro abbia un parente diventato mobiliere, che nessuno di loro possieda vigneti doc nelle Grave o sui Colli Orientali. Mi figuro famiglie dal carattere levantino, ereditato nei secoli di piccoli dazi, trasporti, affari mercantili su questa via di comunicazione tra il contado tardofeudale dei marchesi e delle badesse e la Serenissima Repubblica dei dogi. Mi figuro una contrada di mezzi triestini e mezzi veneziani, un’enclave di perdigiorno assediati dall’agricoltura intensiva, friulani imbastarditi che vivono di espedienti e non coltivano niente. Mi figuro simpatiche canaglie, ma anche drop-out di ultima generazione, uomini freschi di divorzio che hanno deciso di condividere la casa con un branco di lupi. Oppure – impossibile escluderlo – faccendieri, ex bravi ragazzi, di passaggio nel rudere ereditato dai genitori prima di consacrare il weekend a un rigenerante safari umano.

Tengo a sinistra ancora per due minuti il puntino luminoso della Fiera nuova, poi lascio che la mia stella polare mi getti l’ombra tra i piedi mentre riconquisto, sul lato opposto dal quale sono entrato, la riva infangata della provinciale. È strano, all’aperto non è mai buio abbastanza. Non è mai così nero da non potersi permettere un’ombra lievemente più nera. Anche qui, sotto questo cielo notturno e rasoterra. Centoquaranta pulsazioni al minuto, sotto i primi lampioni della pista ciclabile do un’occhiata al cardiofrequenzimetro, smetto di navigare, riprendo il controllo dell’andatura, mi ricollego al tempo presente, accordo il flusso delle macchine e delle biciclette al flusso della vita. Ritorno.

Porcia, Rorai Grande, Rorai Piccolo, il suburbio postmoderno, coi lacerti di affresco tra i gialli canarino e lo spatolato, le pievi restaurate e subito imitate da villette pauperiste, la palestra della scuola media affittata alla comunità battista per le liturgie domenicali. Una ragazza esce dalla panetteria con in mano una baguette. La porta senza sacchetto perché è stata a Parigi – dottorato?, umile Erasmus?d – e insomma pare che dica so come si fa, che ti credi?, siamo in provincia ma la metropoli non è lontana. Passando, le sorrido. Lei mi guarda di brutto e tiene il broncio fino alla macchina. La metropoli è già qui, in queste periferie di un centro che non c’è, nei parcheggi con la pittura nuova e un sacco di Fiat salvate dalla rottamazione, nelle ex contrade abitate da aspiranti parigine e da giovani proletari ghanesi. Al Bar Cavallino, agli stessi tavoli su cui gli operai di vent’anni fa si concedevano un ultimo giro di calici e tresette prima di cena, adesso ci sono gli africani. Alcuni indossano ancora la tuta da lavoro, sono fieri del posto in fabbrica, non camminano più rasente ai muri come i primi tempi. Vengono anche loro al bar per l’aperitivo. Parcheggiano bene nelle righe e ordinano birra – il vino non lo sopportano.

Qui, in mezzo alle loro gloriose Tipo e alle Duna verde pisello, ricamo gli ultimi metri prima della doccia. L’allenamento è quasi finito. Ecco laggiù viale Grigoletti, il semaforo della vecchia col cane. Tranquilla, signora, tenga a riposo la bacchetta. L’uomo sudato in mutande toglie il disturbo.

a Lì fui, io nel luogo e il luogo in me (S. Heaney, “Un erbario”, in Catena umana, trad. di Luca Guerneri).

b I nuovi proprietari svedesi le hanno cambiato nome, ma a Pordenone nessuno si rassegna a chiamarla Electrolux.

c Gli operai che, terminato il turno in fabbrica, impiegano il resto del giorno a lavorare i campi di famiglia.

d European Region Action Scheme for the Mobility of University Students.