ATTI IMPURI
(ritratti 3)
Alla fine decide che può farlo, basta prestare attenzione al modo. Il modo è tutto. “Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il male che è in noi,” dice la sua amata Simone Weil, una minuta insegnante di liceo che si è fatta assumere alla Renault in qualità di operaia di primo livello, per non parlare a vanvera di proletariato come succede di solito agli intellettuali.
Per farlo con cura deve dimenticare di essere lui, ovvero non deve curarsene. Deve accettare che la tentazione riempia il cervello con le sue volute di fumo azzurro, ma senza esserle complice. Basta non scendere a patti col desiderio, rispondergli come se la questione non lo riguardasse. Deve disincarnarsi, uscire da se stesso, guardarsi agire da un punto lontano fuori pericolo, seguire la linea luminosa tracciata dalla parola estasi. Già, l’estasi però è un problema. Perché è così bello quel momento? Così pieno di luce e calore, pochi istanti di oscena beatitudine.
Prima di accendere il fornello da campo si assicura che la porta del rifugio sia bene aperta. Agnieszka e Jozefina sono fuori con gli altri, sente le loro voci per brevi istanti, mezze frasi, spesso anche solo un paio di sillabe tintinnanti nel brusio generale, suoni venuti in superficie per lui, apposta per lui, dallo scrocchiare dei rami mossi dal vento e gli altri rumori dello sfondo. Pawel sta provando qualche accordo, tra poco si leverà il coro, prima in sordina, misurando il tono con gli sguardi e i sorrisi d’imbarazzo, poi sempre più forte, e anche loro si metteranno a cantare.
Il pane è diventato gommoso per l’umidità, ma il profumo è buono: segale e legna bruciata. Taglia grosse fette tenendo fermo il filone con la mano sopra la carta, svestendolo via via che si accorcia. Gli escursionisti che li hanno preceduti (chissà quanto tempo fa) hanno lasciato tutto in perfetto ordine. I coltelli e il bollitore sono puliti, le tazze per l’orzo appese ai ganci appositi. Nella credenza due scatolette di carne, un po’ di zucchero rappreso nel barattolo e il resto dei loro preziosi avanzi lasciati in dono al prossimo, come lui e i ragazzi faranno andandosene di qui a un paio d’ore. I ragazzi. Perché lui invece che cos’è? A guardarlo in mezzo al gruppo sembra un loro coetaneo, ma questo non significa nulla. Lui è il pastore, lui è la guida.
Le ragazze sono appena tornate dai cespugli al limitare del bosco con un paio di manciate di mirtilli e ora li distribuiscono. A Pawel li mettono direttamente in bocca indugiando sul gesto per far ridere gli altri, mentre quello continua a controllarsi serio le dita sulle corde della chitarra. La serietà dei suoi studenti, la fresca, briosa serietà di quel gruppo di giovani lo mette quasi in soggezione. “O Serafin, tu povero,” cantano, “fa’ che sprezziam la terra che ci fa guerra ognor,” eppure sono un nucleo pulsante di godimento terrestre, splendidi guerrieri rilassati durante una breve licenza, che scherzano con un’ombra di consapevolezza nello sguardo, la serena determinazione di chi è sempre pronto e non verrà mai sorpreso dal giorno del Giudizio.
Li tiene d’occhio dalla porta armeggiando sul cibo. Jozefina si era proposta di aiutarlo, ma lui l’ha spedita dagli altri con una spintarella, fianco e spalla a respingere l’attaccante lontano dalla palla, una pantomima scherzosa con le mani sporche di salsiccia sospese a mezz’aria, nel petto il grosso cuore che frulla disperato. È proprio questo che teme, l’astinenza provoca questo. Ogni volta che ha ceduto, un senso profondo di sconfitta si è impossessato di lui, ma dopo è stato meglio. Dopo affronta le ragazze disinnescato, i contatti fortuiti riconquistano la dimensione cameratesca, può partecipare alle partitelle di calcio senza paura, il corpo a corpo è solo un corpo a corpo, braccia e gambe intrecciate in una lotta sportiva, l’epifania dell’innocenza più assoluta.
Quindi? Quindi sì, può, deve farlo.
Comincia a sistemare i pezzi di salsiccia nei panini, mentre la ogorkowa portata da Gabriel sobbolle mischiando l’odore di cetrioli e barbabietole al profumo di resina proveniente dalle assi con cui di recente è stato rattoppato il tetto. Alcuni hanno nascosto nello zaino qualche bottiglia di birra e gliel’hanno mostrata con aria colpevole una volta arrivati in vetta. Ma in fondo che male può fare un po’ di birra in una bella giornata di sole tra amici? Ovviamente ha storto il naso – avevamo detto niente birre – poi gli ha insegnato ad aprirle sulla roccia. Punti la corona, dai un colpo secco con il palmo della mano e zac, il tappo salta via. I soliti trucchetti da caposcout per mantenere alta la considerazione nel gruppo. Il fatto è che lui non è un caposcout e non ha certo bisogno di trucchetti: gli studenti accovacciati sul prato lì fuori hanno rinunciato al ballo di questo pomeriggio al dopolavoro ferroviario per seguirlo in montagna.
Chi balla meglio: Agnieszka o Jozefina? Agnieszka, così snella, gli occhi e le caviglie di cerva, i capelli raccolti in una coda alta fin quasi sopra la testa. Oppure Jozefina, sempre accaldata, con gli zigomi in fiamme, il tritolo nei polpacci e quella febbre da mistica, da invasata, nello sguardo. Mentre mescola la ogorkowa si accorge che ci sta cascando di nuovo, il che lo costringe ad appoggiarsi al tavolo e abbassare le palpebre per reggere all’ennesima ondata di prostrazione. La velocità con cui si riempiono di sangue i corpi cavernosi è impressionante. Se questo è l’effetto dell’astinenza, se non farlo comporta pensare a Jozefina in questo modo, anche Nostro Signore lo sospingerebbe a trovare un rimedio. E l’unico rimedio rivelatosi di una qualche efficacia, a dispetto degli infiniti sforzi e ripensamenti, è quello.
Con i ragazzi è diverso. Nei rari casi in cui glielo confessano, lui è costretto a redarguirli, abbassa la voce per ottenere un tono ancora più grave e dice: “Non va bene, amico mio, quello che fai è sbagliato, lavora con tutto te stesso per evitare di ricaderci.” Ma ormai, per averlo provato troppe volte su di sé, è quasi sicuro che quella proibizione, e l’aura fosca che l’avvolge, finiscano per alimentare il desiderio. È triste riscontrare quanto siano fondati i luoghi comuni in fatto di lussuria. Condividere le sensazioni degli altri, gli stessi automatismi mentali, da un canto lo scoraggia, dal canto opposto lo mette in maggiore sintonia col prossimo, lo costringe a non perdere di vista la debolezza e la fragilità della sua condizione, la meravigliosa avventura di uno spirito caduto, racchiuso per un tempo brevissimo dentro tuniche di pelle. Un uomo gettato nel mondo. E lui ama il mondo, ama la salsiccia secca, i panini che sta preparando, l’allegria dei suoi ragazzi e i suoni del bosco lì fuori. Non ha fretta di andarsene, vuole solo che la vita sulla terra gli permetta di godere e soffrire insieme alle altre persone restando un uomo diverso, in missione tra i suoi simili. D’altronde lo dice anche san Paolo agli Efesini: “La nostra battaglia non è contro creature di sangue e carne, ma contro gli spiriti del male che abitano in cielo.” Anche lui è di sangue e carne, e anche il Redentore. Tentare di sottrarsi a questa evidenza sarebbe ancora più blasfemo. Pretendere di bloccare il corso della natura per amore di Dio può finire per essere un oltraggio, il residuo di una superbia prebabelica. O forse il tocco sublime dell’infanzia, l’illusione romantica della forza del pensiero, la speranza che la salvezza avvenga per magia, in fondo la fede più alta.
Si ricorda del film che hanno visto tutti insieme al cineforum della parrocchia la settimana scorsa: un cortometraggio antico di Alice Guy-Blaché, la prima donna regista della storia. Falling Leaves, 1912. La piccola Trixie assiste preoccupata al dialogo tra la madre e il medico sullo stato di salute della sorella maggiore Winifred. La tisi procede a grandi falcate, quei volti scuri non promettono nulla di buono, infatti a un certo punto, indicando gli alberi in giardino, il dottore sentenzia: “Quando sarà caduta l’ultima foglia, Winifred non sarà più tra noi.” Trixie resta sconvolta dalla notizia, ma a differenza della madre prende l’annuncio alla lettera. Il problema è fuori, non dentro casa. Dopo una notte di elucubrazioni trova la soluzione: si arma di ago e filo e scende in giardino a riattaccare le foglie. Quando si dice una lotta contro il tempo. Esiste un esempio migliore? Trixie non appende i giorni alle pareti come farà più tardi un cantante italiano. No, Trixie impedisce all’autunno di finire. Per amore della sorella eternizza il presente nel kairós, “il tempo designato nello scopo di Dio, il tempo in cui Dio agisce” come dice il Vangelo di Marco. Fanno così i bambini, non resterò senza mia sorella, i suoi polmoni guariranno, non sputerà più sangue, l’inverno non arriverà, io pregherò Gesù e il mondo diventerà il Paradiso qui e ora, alberi sempreverdi, l’affresco ideale di ciò che voglio e amo.
Ma lui è un adulto, un adulto tra adulti, esseri umani che hanno raggiunto una coscienza di ordine superiore e conoscono l’ineluttabilità della materia, la sua perpetua trasformazione, le sue gioie transeunti, la degenerazione e la morte secondo i disegni imperscrutabili di Nostro Signore. Nessuno sa in che modo le leggi della natura sono poste a servizio di Dio e lui non sarà certo il primo a ricevere una simile rivelazione. Lui sa solo che Dio sottopone tutti i suoi figli allo stesso trattamento e che il bosco dove si trova con i ragazzi non è ancora il Paradiso, ma un posto magnifico in cui vigono quelle leggi crudeli. In questo bosco, e ovunque sulla Terra, le foglie cadono e lui desidera Jozefina.
La desidera nel modo più lurido e avvilente: schiacciata alla parete, la lingua spinta in gola, una gamba sollevata, la gonna stretta in pugno. Deve appoggiarsi di nuovo al tavolo per sostenere la vergogna di un’eccitazione così violenta, una volontà cieca, totalizzante. Minuscole gocce di sudore gli imperlano il labbro superiore. Padre, perdonami. Si guarda le mani, forme plasmate il sesto giorno per distinguerci dagli altri animali. Lo farà, sta per rifarlo. Se le pulisce sui pantaloni, spegne il fuoco sotto la zuppa e taglia spedito il prato sul quale i ragazzi cantano: “In compenso al vostro amore accendete entro il mio petto casta fiamma e santo ardore, sacro cuor del mio Gesù.”
Allo sguardo interrogativo di alcuni – Agnieszka, ad esempio, mentre Jozefina seguita a cantare senza accorgersi di nulla – lui elargisce un sorriso vagamente autoironico, il segno più o meno convenzionale di un’urgenza corporale, e si dirige nella profondità del bosco. Nessuno oltre a lui sa che non va a orinare. Nessuno oltre a Dio onnisciente, l’ente perfettissimo creatore del cielo e della terra di fronte al quale peccherà per l’ennesima volta. Che succede in Paradiso? Forse tutte le anime vedranno i filmini delle cose che abbiamo fatto in perfetta solitudine? I suoi genitori, i suoi maestri, i suoi ragazzi, tutte le anime vedranno il filmino di quella volta in cui lui in mezzo agli abeti si contorceva infoiato come un cane, gemendo con la bocca semiaperta, mentre nella radura a cento metri da lì cresceva il coro “Ave Regina caelorum, ave Domina Angelorum, salve radix, salve porta, ex qua mundo lux est orta”?
Non è questo il modo. Il modo è tutto, e lui sta sbagliando. Non si sta disincarnando, non sta raggiungendo nessun punto lontano da cui guardarsi agire, non è affatto fuori pericolo, nella sua mente si agitano forme concrete, immagini irresistibili dotate di terza dimensione, e lui è lì dentro con loro. Quelli sono i polpacci di Jozefina, se tiene chiusi gli occhi gli pare davvero di poterla toccare. Si è mentito. Una pratica da espletare con indifferenza infermieristica, l’abilità di trasformare con la forza del pensiero il desiderio in bisogno: tutte sciocchezze. Sogna ancora per qualche secondo, poi gli si piegano le ginocchia, sente il calore crescere nel ventre e sollevarsi in fiocchi rigonfi, aggregati tra loro, ancora in costante espansione, qualcosa di molto simile a una nuvola di neve calda che si allarga premendo ai suoi confini fino a prendersi tutto, dentro e fuori di lui, una condizione panica di benessere e sperdimento. Liberazione e dissolvimento. Estasi. Ex stasis. La nuvola riempie per un istante ogni sua cellula e l’istante dopo svanisce.
Di nuovo l’odore di terra, il fulgore smeraldino del muschio, di nuovo le cortecce lucide, la penombra, il martellare del picchio, di nuovo la chitarra e le voci lontane. Era preparato allo sconforto, eppure vi precipita con tale immediatezza da restare quasi senza fiato. Contempla i miliardi e miliardi di vite non nate che colano giù dal tronco, gente piena di futuro, un potenziale immenso di amori, amicizie, esperienze personali, ricordi. Fratelli e sorelle privati della fortuna di godersi in allegra compagnia un panino con la salsiccia secca. Si guarda dove non vorrebbe: come possono quelle povere mucose produrre un piacere così intenso? Non è ingiustizia questa? Prega, chiede ancora perdono.
I ragazzi sono rimasti nella stessa formazione a farfalla, quattro losanghe di coristi con la chitarra al centro. Il sole intride di luce i capelli, compatti e splendenti come livree di corvo, come carrozzerie. Agnieszka e Jozefina sono sedute vicine, sulle note più alte si studiano l’un l’altra sorridendo. “Per le piaghe che soffristi, Gesù mio, con tanto amore.” È meglio farlo, averlo fatto, via via che esce dal bosco torna a convincersene. Lo scoramento si dilegua a ogni passo. Ora riesce a guardarle come deve, com’è giusto: studentesse in età da marito che presto troveranno l’anima gemella e proseguiranno sulla via della verità e della bellezza, nonostante la brutale volgarità del regime. I materialisti che irridono le persone di fede non potranno mai nulla contro la purezza di quelle ragazze e dei loro amici. Che studenti. Che quadretto.
Ci vorrebbe un falò, ma la legna è fradicia e poi di qui a poco ridiscenderanno a valle. Gli viene in mente la gita sul torrente l’estate di due-tre anni fa, la messa celebrata sul kayak rovesciato a mo’ di altare, il crocifisso fatto coi remi tenuti insieme dalla sua cintura. Oggi però niente messa, pensa. Almeno questo. Grida di venire a prendersi la ogorkowa, se non vogliono che si freddi.
Grazie Karol. Grazie Karol. Si avvicinano ognuno con la propria gavetta da soldato e lo ringraziano. Distribuisce anche i panini prima di sedersi sul prato di nuovo tutti insieme. Cominciano a circolare le pilsner. Il solletico del luppolo nel naso. Luppolo e ossigeno rarefatto a milleseicento metri sul livello del mare. Il sole è già abbastanza caldo per essere ai primi di maggio, e la salsiccia è buonissima. Si appoggia schiena contro schiena a uno dei ragazzi più robusti, chiude gli occhi e continua a mangiare. Non sa cosa chiedere alla vita che già non abbia. La guerra è ormai solo un ricordo, presto Cracovia tornerà graziosa come prima. Ecco, forse un giorno gli piacerebbe viaggiare un po’.