Sono stato.
Sono stato a lungo uno stronzo.
Nel corso della vita ho amato molto e sono stato, per mia fortuna, riamato, ma ho causato anche tanta sofferenza, spesso proprio a chi amavo di piú. Ho sottovalutato, ho tradito, ho perso, ho buttato via, ho trattato male donne che avevano l’unica colpa di voler superare i muri che mi ostinavo ogni volta a innalzare, per paura o per orgoglio, al punto che se potessi tornerei indietro a chiedere scusa, in ginocchio e a chi so io. Ma le scuse non cambierebbero, ormai, niente di niente. Non lo fanno mai. Questo per dire che ho avuto a lungo problemi sia con l’amare che, soprattutto, con il mondo femminile, anche con quello che abita dentro di me. Avere una figlia, poi due, poi tre, è stato in questo senso una specie di risarcimento e di salvezza insieme. Avere la possibilità di vedere tre piccole donne crescere, assistere a come si sviluppa e si arricchisce il loro sguardo sul mondo, come cambiano le richieste, le domande, i corpi, di bambine che diventano preadolescenti prima, poi ragazze e infine donne, e come tutto accada in una specie di spazio invisibile – che per quanto presti attenzione ti sembra sempre di esserti perso qualche pezzo – tutto questo è e sarà un vero privilegio. Mi piace vederle giocare ai finti fidanzati, travestirsi da principesse, da Arlecchino, da supereroi, arrampicarsi sempre piú in alto sugli alberi, fare disegni col naso affondato nel foglio, col naso affondato nel naso che stanno disegnando. Assistere alla loro tenacia nel ricostruire quel che cade, si tratti di una torre di Lego crollata per troppa fiducia o di un’amicizia dopo un litigio a scuola. Sentirle interrogarsi sulla vita e sulle loro aspettative. Adoro ascoltare i primi discorsi sui «maschi», capire quanto hanno ragione o torto quando cominciano a considerarci, fin da piccole, una manica di insensibili codardi – e qui le ragioni sono piú dei torti, va detto. Oggi, se potessi tornare di nuovo dove dico io, amerei in modo diverso. Anzi oggi, spero, lo faccio, anche se sono sicuro che non sempre mi riesca. Ma, quando mi riesce, è soprattutto merito loro.
Le donne vengono definite l’altra metà del cielo, mi sono chiesto spesso il perché. Adesso so che è perché le donne non sono tanto la metà di cielo che ci manca, ma quella che ci mette in comunicazione con una parte di noi che troppo spesso ci neghiamo, e questa parte non sta né in cielo né in Terra, ma ben nascosta dentro, seppellita sotto tonnellate di stronzate. Per questo le donne non ci completano, ma ci cominciano, mentre noi uomini invece a volte le finiamo, ed è questa la vera tragedia.
Lo facciamo da sempre con quel che piú ci spaventa: la possibilità di diventare davvero liberi.
Baciarsi in cucina.
Stavo tornando a casa in auto, erano le sette di sera, ero in coda al semaforo dopo la galleria.
Guardavo come ogni volta la casa bianca di fronte, nascosta in parte dal grande abete sul davanti che sembra proteggerla come un fratello maggiore. La casa bianca ha sempre le finestre chiuse, le tapparelle abbassate, i muri esterni sono scrostati da anni, nella mia fantasia la casa è disabitata. Stasera, la portafinestra del balcone al primo piano era aperta. Dentro si intravedevano un uomo e una donna che si baciavano, appoggiati a quello che mi pareva essere il lavello della cucina. Si davano baci lunghissimi, incendiari, l’uomo abbracciava la donna, le stringeva i fianchi, la donna aveva un braccio attorno al collo di lui. Io li guardavo fermo al semaforo sentendomi un intruso, ma erano cosí belli, perfetti come un quadro, non riuscivo a smettere. Ho pensato che meraviglia, di venerdí sera le persone di solito escono, loro invece sono a casa a baciarsi in cucina. A un certo punto l’uomo è scomparso e la donna è uscita sul balcone, sola. Si è messa a guardare davanti a sé, adesso potevo vederla per intero.
La donna era senza il braccio sinistro.
Subito ho pensato che potesse averlo magari dietro la schiena, che fosse un’illusione causata dagli abiti, poi mi sono accorto che indossava una canottiera. L’uomo è riapparso, è uscito anche lui, aveva in bocca due sigarette accese. L’uomo e la donna si sono affacciati sul balcone a guardare giú, per un attimo ho avuto l’impressione che guardassero me dentro la macchina. La donna stringeva l’uomo all’altezza della cintura, col suo unico braccio. L’uomo la cingeva col braccio sinistro, la sigaretta a penzoloni a un lato della bocca, con la mano destra faceva fumare la donna. Le appoggiava delicatamente la sigaretta sulle labbra, lei aspirava, lui staccava la sigaretta, lei sbuffava il fumo. Poi ricominciavano.
Il semaforo è diventato verde, un tizio dietro mi ha suonato.
Mentre ripartivo ho pensato che, se l’amore si potesse riassumere in una fotografia, per me sarebbe questa.
Sbrfts.
– Ciao.
– Ehi, entra, vieni.
– Io, ecco.
– Che c’è? Non restare lí sulla porta. Entra, ho detto.
– Ti ricordi quella volta che siamo andati a Fumane ed era Pasquetta di sette anni fa e tu eri preoccupata perché Freddy era sparito nel campo e lo abbiamo cercato e cercato ma niente e allora tu mi hai detto lo aspettiamo finché non torna a costo di dormire qui e poi lui è tornato ma tu ti sei addormentata sulle mie ginocchia?
– Eh?
– Ti ricordi?
– Non ne sono sicura.
– Comunque, volevo dirti che io quel giorno mi sono innamorato di te.
– Come innamorato di me?
– Hai presente quando poi vai a casa e cerchi di non pensare a una persona e invece per quanto ti sforzi riesci a pensare solo a lei, e allora poi ti immagini cosa accadrebbe se d’un tratto quella persona – puf! – sparisse per sempre dalla tua vita e allora senti quella specie di dolore, di vuoto, proprio qui sotto lo sterno e allora cerchi di pensare ad altro, mangiare un panino, telefonare a qualcuno, ma ormai è tardi e quel dolore non se ne va piú e tu riesci a scacciarlo solo pensando intensamente al fatto che invece quella persona nella tua vita c’è ancora e speri che ci sarà per sempre?
– Calmati, respira.
– Però hai presente, vero?
– Sí.
– Ecco. Mi sono innamorato di te.
– Da Pasquetta.
– Sí.
– Quella Pasquetta.
– Sí.
– Sono passati sette anni.
– Sí.
– Smettila di dire sí. Perché me lo dici ora, perché me lo dici cosí, che ti aspetti che faccia?
– Niente, non voglio che tu faccia niente, trovavo solo giusto che tu lo sapessi.
– Perché?
– Perché sí.
– No, seriamente, perché non me l’hai mai detto prima?
– Perché se io ti avessi detto, sette anni fa, che mi ero innamorato di te, probabilmente saresti scomparsa dalla mia vita. E il mio non dirtelo è stata la maniera per farti rimanere.
– Dio, come odio queste cose.
– Quali cose?
– Quando gli altri vogliono decidere anche per te. Per esempio, hai mai pensato che magari pure io…
– No.
– No cosa?
– No, tu no. Non sei mai stata innamorata di me.
– E come lo sai?
– Certe cose si sanno.
– Io non lo sapevo che tu eri innamorato di me.
– Non lo sapevi perché l’amore, a volte, si può anche non capire. Ma solo chi è innamorato di qualcuno può capire il suo non amore.
– Ah, ecco. Che bello che dev’essere avere sempre tutto cosí chiaro. Ma quindi: perché oggi?
– Perché oggi cosa?
– Cioè, se tu sette anni fa pensavi che dicendomelo avresti rischiato che io scomparissi, che poi è una grandissima stronzata, perché dirmelo adesso? In base al tuo ragionamento, non correresti lo stesso rischio?
– No.
– E perché no?
– Perché oggi io non sono piú innamorato di te. Per questo posso dirtelo.
– Aspetta, aspetta.
– Aspetto.
– E perché oggi non piú?
– Cosa importa?
– Ma niente. È solo.
– È solo?
– Eddài, cazzo, mi fai sentire come se avessi avuto una storia con te e fossi stata lasciata tutto nel giro di cinque minuti!
– Hai ragione, scusa.
– E quindi? Perché?
– Perché oggi sono innamorato di un’altra.
– Evviva! E almeno stavolta lei lo sa?
– Sí.
– La conosco?
– Sí.
– È Ketty, vero? Io tifo per Ketty.
– No.
– Allora chi è?
– Tu.
– Mi stai prendendo per il culo?
– No. Il fatto è che ho smesso di essere innamorato di quella ragazza di sette anni fa. Oggi mi sono innamorato della donna che sei diventata.
– Ma… ma…
– Quindi ecco: ti amo.
– Senti.
– Non dire niente.
– Ma ti rendi conto di come mi fai sentire?
– Amata?
– In colpa.
– E tu ti rendi conto di come mi fai sentire?
– Non corrisposto?
– Vivo.
– Senti… guarda. Io penso sia meglio che, a partire da adesso, per un po’ non ci vediamo piú.
– Eh?
– Dico davvero. Devo fare i conti con questa cosa.
– Cioè, stai dicendo che dopo sette anni sta per concretizzarsi la mia piú grande paura? Solo perché ho finalmente trovato il coraggio di dirti la verità?
– No. Ti sto dicendo che non puoi pretendere di gestire le reazioni e i sentimenti degli altri. E tu mi hai nascosto i tuoi. Per sette anni. E io in questo momento sono cosí incazzata con te che, fidati, non puoi capire.
– Io non ti ho nascosto niente, sei tu che non te ne sei mai accorta.
– Ah ecco, pure scema, adesso.
– Senti, la questione è semplice: io non pretendo che tu mi ami, ma tu non puoi pretendere che io smetta. Devo citarti tutti gli amori non corrisposti nella storia dell’umanità?
– Non me ne frega un cazzo della storia dell’umanità, m’interessa solo della nostra.
– La nostra?
– Sí.
– Non capisco, la nostra in che senso?
– Nel senso che non è possibile che due siano cosí rincoglioniti e introversi da amarsi in segreto per sette anni, senza che nessuno dei due si accorga mai di niente.
– Eh?
– Eh.
– Ma non è vero! Cioè… vuoi dire che…
– Voglio dire che.
– Sbrfts.
– Scusa?
– Niente, credo che per un secondo il sangue abbia smesso di affluirmi al cervello.
– Non penso farà danni piú di tanto.
– No… seriamente… ma io non ci credo. Vuoi dire che abbiamo perso sette anni solo perché siamo due imbecilli?
– No, sto dicendo che li abbiamo persi perché l’imbecille sei tu.
– Ecco.
– Ma non potevi baciarmi quella sera a Pasquetta, mentre io facevo apposta finta di dormire sulle tue ginocchia? O in una qualunque delle volte che mi hai accompagnata a casa in macchina e io facevo finta di non riuscire a trovare le chiavi nella borsa?
– Finta?
– E il bello è che credi pure di sapere tutto, tu e le tue puttanate filosofiche.
– Cioè, finta?!
– Comunque, a guardarla bene, un lato positivo c’è.
– Dimmelo, ne ho bisogno adesso.
– Le coppie di solito hanno tutte la crisi del settimo anno. Noi invece, pensa che culo, partiremo direttamente da quella.
– Aspetta. Stiamo per avere una crisi?
– Se non entri subito, sí.
Apnea.
Quando iniziarono i problemi veri, il sesso divenne il paradigma di tutto quanto.
Piú le cose tra me e Chiara non andavano – piú aumentavano i rancori e le piccole incomprensioni – e piú lo facevamo, in un perverso tentativo di non allontanarci troppo. Era come stare sull’orlo di un precipizio e sentire la mano dell’altro scivolare lentamente via dalla propria, la sensazione era tremenda. Allora cercavamo di stare avvinghiati il piú possibile, per evitare che anche i nostri corpi cominciassero a sentirsi estranei, non volevamo dar loro la possibilità di separarsi come avevano fatto le nostre teste.
Eravamo sospinti solo dalla volontà, non dal desiderio. Era una sessualità autoinflitta che subivamo e ci faceva sentire quasi violati, uno stratagemma per accorciare le distanze. Imparammo presto che meno lontano non vuol dire piú vicino. Ma, almeno in questo, eravamo di nuovo insieme.
Poi a Chiara accadde qualcosa. Iniziò a vivere il sesso in maniera schizofrenica. Si negava per settimane, mi proibiva il suo corpo per lunghissimi giorni estenuanti nei quali facevamo finta di niente. Poi senza alcun preavviso o movente mi svegliava di notte, mi afferrava per i capelli e mi attirava a sé premendo la bocca sulla mia e insinuando la lingua con violenza in baci roventi, senza respiro. Si immergeva sotto le lenzuola e me lo prendeva in bocca, se lo spingeva in gola fino quasi a strozzarsi. Ma non appena accennavo a rispondere lei si ritraeva improvvisa, quasi fosse la mia passività notturna a eccitarla e temesse invece la mia iniziativa.
Non saprei dire che cosa di preciso iniziò ad allontanarci. Non c’è mai un motivo identificabile con esattezza. A un certo punto sentimmo una specie di accelerazione, una forza centrifuga che ci faceva sbattere contro le mura del nostro rapporto. Nei primi tempi di una storia d’amore le orbite si incrociano e si precipita l’uno verso l’altro, velocissimi, senza rendersi conto che lo spazio attorno si restringe inesorabile, si chiude addosso come una conchiglia. Quando ci si risveglia e si tenta di recuperare un pezzettino del proprio sé ci si accorge che non c’è piú spazio, è finito l’ossigeno. Ci si divincola goffamente e d’un tratto si vede nella presenza dell’altro un impedimento, una restrizione al nostro muoverci. Una sorta di apnea.
Forse avremmo dovuto lasciarci già allora, ma eravamo entrambi convinti che andarsene fosse una scelta vigliacca, avrebbe significato arrendersi all’evidenza che non ci rendevamo felici. Stare insieme manteneva accesa la speranza. Eravamo entrambi convinti che separarsi fosse una scelta troppo facile, mentre scegliere di restare fosse molto piú difficile e per questo piú autentico. Ma restare presuppone una fiducia visionaria, la capacità di sentire che le cose domani non saranno solo diverse, ma migliori. Noi invece vivevamo sprofondati nella palude del nostro eterno presente senza prospettive, che ci trascinava giú nelle sue acque fangose. Avevamo un solo salvagente, che ci lanciavamo a vicenda quando uno dei due vedeva che l’altro stava andando a fondo troppo in fretta. Era un amarsi disperato con le unghie e con i denti, contro tutto e contro tutti, anche contro l’amore stesso. Un patto siglato con il sangue che Chiara a un certo punto decise di tradire e io, semplicemente, non glielo perdonai.
– Scendo qui, – disse il giorno in cui ci lasciammo.
– Quindi è stato solo un passaggio, – dissi.
Era cosí.
Quel che serve.
Certi giorni sembra che vada tutto bene, poi invece no.
Basta un attimo, lo scarto di un centimetro, uno sguardo troppo lungo, una parola detta troppo in fretta, la telefonata sbagliata, una risposta che non arriva. Capisci che la giornata è andata quando realizzi che della risposta che non arriva non t’importa piú niente, cosí come della telefonata sbagliata, cosí come della parola detta in fretta. È lo sguardo troppo lungo che. Gli sguardi hanno una misura specifica, non dovrebbero essere né troppo lunghi né troppo corti, proprio come i silenzi, gli sguardi sono come il Sol diesis che becca Veloso quando canta cómo sufría por ella | que hasta en su muerte la fue llamando1. Ecco, lí non c’è di piú o di meno o ci somiglia o quasi o troppo poco, è quella roba lí e basta. Per questo gli sguardi piú belli sono quelli che ci si scambia a occhi chiusi, magari dopo una giornata difficile, perché a occhi chiusi il tempo giusto lo becchi sempre. Per questo in certi giorni bisognerebbe solo spegnere la luce e fidarsi di non vedere piú niente, come un vecchio cieco seduto su un sasso mentre ascolta il rumore del fiume, prendere il ritmo dell’acqua, tenere il suo, regalargli il nostro, andare a tempo con quel che c’è, sentire che è tutto quel che serve.
No.
Ci sono questi due ragazzi che si baciano al binario 7. Il ragazzo moro pressa il ragazzo biondo con foga adolescenziale contro il distributore automatico di bevande, ha la mano sinistra appoggiata proprio sotto la scritta «caffè lungo». La destra la tiene davanti al viso del ragazzo biondo ma senza toccarlo, quasi a far da paravento. In quel settore del binario, oltre a loro due, ci siamo solo io e una ragazza alta con un cappotto verde troppo corto, che si soffia nelle mani per il freddo. Si avvicina una signora anziana trascinando un trolley che fa un rumore terribile, si ferma a un passo dai ragazzi che si baciano, li fissa, il ragazzo biondo se ne accorge e allontana piano il ragazzo moro spingendolo per le spalle, come a dirgli: «Aspetta».
I ragazzi e la signora si scambiano un’unica occhiata, lunghissima.
La signora che esplode in un: «Viva l’amore sempre!», i ragazzi che le sorridono, la ragazza alta col cappotto verde che smette di soffiarsi nelle mani, la signora che accenna un inchino d’altri tempi, si allontana col suo trolley e i ragazzi che ricominciano.
La signora dice invece: – Va’ che schifo! Invertiti! Ma non vi vergognate? – con una voce che non diresti possa uscire da un corpo cosí esile.
Il ragazzo biondo fa per rispondere, ma il ragazzo moro gli tappa la bocca con una mano, con l’altra lo prende per la manica del giaccone e gli fa un cenno col mento come a dirgli: «Andiamo via, non ne vale la pena». Io penso che ne varrebbe la pena eccome, però decido di rispettare la loro scelta e mi mordo la lingua, l’altoparlante annuncia l’arrivo del treno.
Vedo i due ragazzi in fila per salire parecchio piú avanti, la signora si avvicina all’ingresso del suo vagone, è lo stesso mio, penso: vedi? Era destino, non si sfugge alla propria pavidità. Davanti a noi c’è la ragazza alta col cappotto verde troppo corto, preme il pulsante di apertura della portiera del Frecciargento. Sento la signora chiederle: – Mi darebbe una mano con la valigia?
La ragazza alta col cappotto verde si gira, le si avvicina a pochi centimetri dalla faccia, le sorride, le dice: – No, – e si capisce che sta rispondendo a due domande insieme. Quella rivolta a lei adesso e quella rivolta ai due ragazzi prima, come se la riguardassero entrambe.
La ragazza alta col cappotto verde scompare sul treno, la signora urla qualcosa sui giovani, si gira verso di me, sembra sul punto di farmi una domanda, le sorrido anch’io.
I segni.
– Allora, com’è ’sta ragazza?
– Guarda, è pazzesca, non ho mai conosciuto una cosí.
– Addirittura.
– Ti giuro.
– Ma tipo? Che fa? Che fa?
– E che fa.
– E che fa?
– Ma niente. È solo che è brillante, intelligente, sottilmente ironica, poi regge l’alcol da Dio. E poi, cazzo.
– E poi?!
– Cioè, capisce le battute, ma al volo proprio, è una cosa fuori dal mondo.
– Oddio, non mi pare cosí incredibile, ce ne sono di ragazze che…
– No, aspetta, non ci siamo intesi: capisce le MIE.
– Non ci credo.
– Ti giuro. Ma non solo le capisce. Ci ride di gusto, ma a crepapelle proprio. Sai quelle che ridono in quel modo che ti fa sentire piú uomo? Poi le freddure le prende, le rielabora, me le restituisce perfino migliori.
– Va be’, però se ride alle tue allora è cotta proprio, eh.
– È un segno, vero?
– Senza dubbio. Cioè, i segni sono i segni.
– Cazzo, lo sapevo.
– E fammi un esempio, cristo.
– Ma che ne so, tipo, se io le dico: «Lo sai perché l’arancia non va mai a fare la spesa»?
– Perché mandaRino. Ma la sanno pure i sassi, dài, perfino quelli del secolo scorso.
– Eh, appunto. Invece lei poi te la ri-racconta a modo suo e la trasforma, non so come dire. In arte.
– In arte?
– In arte.
– Scusa, adesso mi spieghi come riesce a diventare arte un’arancia che va a fare la spesa.
– Allora, tu fai finta di non conoscere la risposta, ti dico la sua versione, okay?
– Okay.
– Sai perché l’arancia non va mai a fare la spesa?
– No.
– Perché manda mandarino.
– …
– Cioè, perché manda mandarino, capisci? Ha questa capacità di uscire dalla prevedibile banalità del gioco di parole, e restituire dignità al semplice agrume che si sottrae al ruolo imposto nel lineare umorismo di strada per diventare… ma aspetta, senti, senti quest’altra variante sua. Senti, eh, sei pronto?
– Non ne sono sicuro.
– Sai perché l’arancia non va mai a fare la spesa?
– N-no?
– Perché manda caco.
– …
– Cioè, manda CACO, capisci? Se ne frega pure della corrispondenza semantica del meccanismo comico, ribelle alla convenzione della stand-up comedy, per sfociare nel puro surrealismo lirico, dimmi te se questa non è una donna libera sul serio.
– Oh.
– Eh.
– Tu sei cotto fracico.
– Ah, dici?
– Sí sí, ma senza dubbio proprio.
– Ma dici per i segni?
– Direi che ci sono tutti. Cioè, i segni sono i segni.
– Cazzo, lo sapevo.
– Comunque senti.
– Dimmi.
– Tette?
– Ma che c’entra.
– Eddài, su.
– Ma non mi va!
– Ti tiro un coppino?
– Enormi.
– Cazzo, lo sapevo. I segni non mentono mai.
– Eh.
– E poi insomma, alla fine una cosa bisogna riconoscerla.
– Cosa?
– Quella del caco fa davvero un sacco ridere.
L’agricoltore africano.
C’è un agricoltore africano che scava la terra.
Ha braccia magre e stanche. Mani che sanguinano. Le mani scavano una buca profonda. Nella buca appare un vecchio baule. Dal baule esce uno gnomo. Lo gnomo dice all’agricoltore che può esprimere tre desideri, e lui li realizzerà. L’agricoltore ci pensa bene. Dice: Un buon raccolto. Braccia piú forti per seminare il suo campo. Indugia sul terzo desiderio. Vorrebbe chiedere di essere felice e invece chiede: Di avere altri mille desideri da esprimere. Lo gnomo acconsente.
Il campo dell’agricoltore diventa di colpo rigoglioso. Le sue braccia toniche e muscolose. La sua testa ricolma di mille nuovi desideri, pronti per essere esauditi. Comincia a esprimerli uno a uno. Le cose compaiono semplicemente nominandole. Le braccia muscolose non gli servono piú a niente. Il campo non piú coltivato va pian piano in rovina.
Arriva presto il tempo del desiderio numero mille. L’agricoltore, che non è piú agricoltore, vive in una bella casa, gode di perfetta salute, ha una meravigliosa donna che lo ama, ci pensa molto bene. Adesso voglio essere felice, dice l’agricoltore. Lo gnomo acconsente.
C’è un agricoltore africano che scava la terra.
Ha braccia magre e stanche. Mani che sanguinano. Le mani scavano una buca profonda. Nella buca appare un vecchio baule. Dal baule esce uno gnomo. Lo gnomo dice all’agricoltore che può esprimere tre desideri, e lui li realizzerà.
L’agricoltore dice Scansati, devo piantare un albero.
A soreta.
Avevo da qualche mese firmato il piú grosso contratto di tutta la mia carriera fumettistica, per un grande editore francese. Si parlava di una serie in cinque volumi, nella quale sarei diventato l’erede di un noto disegnatore realistico d’Oltralpe. Avevo cominciato in ritardo a disegnare il primo volume, e questo è colpa mia, ma ogni disegnatore professionista sa che quando ti dicono: «Hai un anno di tempo», i primi tre mesi se ne vanno di default. Recuperai velocemente il tempo perduto, arrivando a quota venticinque pagine finite su quarantasei previste, con consegne mensili regolarissime, grandi complimenti da parte dell’editor, prodigo di superbe!, in ogni mail che ricevevo dalla Francia. Il giorno prima che Paola partorisse inviai al mio editor francese un garbato messaggio che diceva, piú o meno: «Scusate, domani diventerò padre per la terza volta, mi prendo una decina di giorni per godermi la nuova nata e rendermi utile con la mia compagna, quindi questo mese vi manderò tre pagine invece delle solite cinque, il mese prossimo recupererò mandandovene sette, okay?» La risposta arrivò che ero in ospedale, Melania aveva all’incirca due ore di vita e dormiva in braccio a Paola. Il messaggio diceva, piú o meno: «Col cazzo. Tanti auguri per la tua nuova nata ma: o rispetti le consegne, o ti togliamo il lavoro, italién che non sei altro. Che ci rispondi adesso?» Io sorrisi, mi appartai in un angolo della stanza, Paola mi chiese: – Cos’hai? – io le dissi: – Niente, – poi digitai un messaggio che diceva, piú o meno: «A soreta» e persi il contratto e i cinque volumi in un amen.
Da quel giorno io so due cose con incontrovertibile certezza, su cui cerco di fondare tutte le mie scelte.
La prima è: ogni carriera o percorso lavorativo non li costruisci tanto con i tuoi «Sí», ma lo definisci soprattutto con i tuoi «No».
La seconda è: ci sono alcune questioni che per me verranno sempre, sempre, sempre prima di tutto. Le chiamo questioni perché sono in effetti vere domande, ciò che ti spinge a chiederti ogni giorno chi vuoi scegliere di essere.
Una delle mie domande sta tornando dall’asilo adesso, oggi è il suo compleanno, la mia risposta per questo giorno avrà da qui in poi il gusto di una torta gelato, il suono del karaoke che la mamma le ha regalato perché ci è capitata in sorte una figlia canterina, la luce di un pomeriggio al sole insieme anche se ’sta congiuntivite mi sta uccidendo, per tutto il resto a soreta.
L’amore ai tempi della Lazio.
Roma, sabato mattina, alla fermata della metro c’è un tizio che parla al telefono gesticolando.
– E certo che te amo, amo’.
Pausa.
– T’ho detto che te amoo!
Pausa.
– Ennò, questo però è approfittasse. Nun ce vengo domenica dai tuoi.
Pausa.
– None!
Pausa.
– E perché nun me va, e poi tu padre è da’a Roma.
Pausa.
– Ma che c’entra, è ’na brava persona sí, ma poi me fa ’e battutine sue pe’ provocamme, ’o sai come fa, e daje su.
Pausa.
– No amo’, sei te a non capi’. L’amore vero è come ’a Lazzio, nun je devi caca’ ’r cazzio!
Vivere in difesa.
Sul treno per Lecce, di fronte a me, sta seduta una ragazza. Ha l’aria timida, introversa, gli occhi velati da una sottile malinconia, le cuffie dell’iPod affondate nelle orecchie e al polso sinistro un braccialetto argentato da cui spunta un piccolo cornino rosso. Ha una lunga cicatrice che le percorre il collo, proprio all’altezza della gola, che non riesco a smettere di fissare. Sta facendo tutto il viaggio perfettamente composta, con le braccia conserte, a tratti prende a leggere un libro dal titolo bellissimo, L’arte di vivere in difesa, che nella mia immaginazione ne rispecchia il carattere. Ogni tanto sbadiglia, quando lo fa guarda fuori dal finestrino. In tre ore di viaggio non abbiamo scambiato una parola. Io avrei voglia di parlarci, chiederle perché sembri triste, oppure è solo stanca, vorrei dirle che io ho vissuto in difesa per la maggior parte della mia vita, ma non mi è servito a un cazzo, non mi ha protetto da niente, che le cose hanno cominciato ad arrivare solo quando ho scelto di correre i miei rischi. A quel punto lei mi direbbe dei suoi, e magari mi racconterebbe della cicatrice. Ma non me la sento di violare la sua riservatezza, né di sembrare un vecchio che vuole attaccare bottone, e poi è bello anche solo guardarla e immaginare per lei vite possibili. D’un tratto fuori dal finestrino il mare sorprende entrambi, come un’apparizione. La ragazza prende il telefono e inizia a scattare foto a raffica, ne faccio un paio anch’io con l’iPad, i nostri sguardi si incrociano per una frazione di secondo. I suoi occhi tristi adesso sembrano meno tristi, mentre smanetta coi tastini del telefono le spunta addirittura un mezzo sorriso. Magari sta mandando la foto al suo innamorato, a qualcuno che ama, penso. Magari sta sentendo la tristezza che la abbandona poco per volta come un maglione troppo pesante, mentre sta finalmente tornando a casa, alla sua vita in maniche corte.
Magari le piace solo fotografare il mare.
E se poi.
– E se poi ci odieremo?
– Una mattina andrò al lavoro e non tornerò.
– Ma tu lavori in casa.
– Allora andrò a prendere le sigarette.
– Hai smesso!
– Allora vorrà dire che ti amerò e basta.
La quarta volta.
Per il ragazzo era la prima volta, per la ragazza invece no.
Era pomeriggio, era domenica, era estate, la luce filtrava dalle persiane socchiuse dipingendo strisce oblique sul muro, in sottofondo andava una canzone di Battisti.
Durò tutto tre secondi o poco piú, perché nelle questioni d’amore contano anche i millesimi.
Il ragazzo si giustificò dicendo scusa, era molto che non lo facevo. Era vero. Per la precisione erano diciannove anni, un mese, diciassette giorni e cinque ore. La ragazza disse non fa niente, e lo accarezzò sulla testa. Come un cane, pensò lui, ma non lo disse.
La seconda volta fu dopo neanche mezz’ora, e andò meglio, perché riuscirono ad ascoltare «Motocicletta tutta cromata» di Battisti quasi fino al punto in cui fa «è tua se dici sí»2. La ragazza poi gli accarezzò la pancia, facendo con l’indice ampie spirali attorno al suo ombelico. Gli faceva il solletico, ma lui non disse niente di nuovo.
La terza volta fu la sera. Mangiarono a letto, i piatti restarono sulle lenzuola, mentre lui si muoveva su di lei il rumore delle stoviglie che sbattevano li faceva un po’ ridere.
La quarta volta fu in macchina, poco dopo averla accompagnata a casa, o meglio poco prima. Si fermarono in auto quasi sotto il portone di lei, qualche metro piú avanti, lei lo baciò, lui ricambiò il bacio, lei senza dire niente gli sbottonò i jeans e salí sopra di lui scostandosi appena la gonna, lui era talmente preoccupato che qualcuno potesse vederli che fu record, sembrava non finire mai, la ragazza si bagnò d’un colpo sopra di lui, fu come se avessero bucato un palloncino pieno d’acqua. Lui subito pensò cazzo i pantaloni, poi cazzo il sedile della macchina di mia mamma, poi pensò cazzo e basta. Gli sembrava di sciogliersi dentro di lei, sentire col corpo di lei, vedere con gli occhi di lei, toccare con le mani di lei. Allora è questo l’amore, pensò, non capire piú dove si comincia e dove si finisce.
La macchia non venne mai via, lui raccontò che era stato un burrocacao lasciato in auto al caldo, coi finestrini chiusi, che si era sciolto sul sedile. Aveva sempre pensato che, se almeno metà di una bugia che racconti è verità, allora tutto sommato non stai mentendo, e i finestrini chiusi e il caldo c’erano stati.
La cosa del burrocacao gli successe davvero qualche estate dopo, sul sedile del passeggero della Fiesta nuova. Gli amici, quando salivano in auto per sedersi, gli lanciavano ogni volta lo sguardo da eh?, vecchio marpione, qualcuno gli diceva che schifo, e lui si vergognava perché sapeva che non era andata come pensavano, era stato sul serio il burrocacao abbandonato e scioltosi dopo sei ore in un parcheggio a quaranta gradi.
Di quella sera in macchina invece non si vergognò mai, né per la macchia sul sedile, né per il Gino che dalla finestra li aveva visti, né per avere pianto davanti a lei, con gli occhi di lei, le mani di lei, il corpo di lei, che per pochi attimi erano stati anche i suoi, per questo non c’erano state mezze verità, per questo sapevo che era stato tutto vero.
Qui, adesso.
Ho la febbre. Avevo pensato a un weekend di lavoro e invece sto male. Me ne frego e lavoro uguale. Lavoro quasi meglio, perché la febbre mi trasporta in una dimensione ovattata e sospesa. Gli occhi bruciano ma tanto ho il collirio e poi, penso, la miniera è di sicuro peggio. Fuori c’è un tempo cosí. Il cielo è grigio brillante e il giardino immerso in quest’aria londinese sembra piú verde. La pioggia sottile fa un rumore violetto. C’è un leggero vento da est che scuote appena le foglie. Dell’estate mi mancano solo le cicale. Amo come il loro frinire sia in grado di creare un vuoto perfetto. I giapponesi nei fumetti hanno un’onomatopea per definire il silenzio. Shiin è il rumore che fa il silenzio assoluto. Potsupotsu è il rumore della pioggia. Mīnmīnmīn è il verso della cicala. Gakkuri il rumore della malinconia. Nikoniko il suono del sorriso.
Se ci fosse una parola per tutte queste cose insieme la userei per definire qui, adesso.
In mezzo scorre il fiume3.
A mio padre avevano commissionato un quadro.
Gliel’aveva commissionato il Piero.
Il quadro doveva rappresentare una casa sul torrente, è la casa in cui dopo quasi cinquant’anni la Nerina e il Piero erano riusciti ad andare a vivere insieme.
In un luogo che non appartiene alla mia memoria, se non per i racconti dei miei genitori, la Nerina e il Piero s’incontrano in un piccolo borgo del Trentino, non sono neanche ventenni. Sono gli anni Quaranta del secolo scorso, l’Italia è entrata in una guerra che ha portato carestia e fame anche lassú, ma la Nerina e il Piero sono gente di montagna, abituata a inverni rigidi e a sopravvivere con quel che c’è.
Il Piero, il giorno in cui vede la Nerina per la prima volta, sulla mulattiera che scende dal bosco, se ne innamora subito. Comincia a farle un filo garbato, che la Nerina accoglie con la pudicizia tipica delle donne di quegli anni, e che non va oltre un gioco di sguardi fugaci quando s’incrociano mentre la Nerina va per legna – il Piero invece per funghi – o di brevi sorrisi in chiesa durante la messa.
La Nerina abita con i genitori giú al torrente, hanno una casa proprio sulla riva. Il Piero tutti i giorni scende e si mette sulla riva opposta, spera di vedere la Nerina alla finestra. Quando ci riesce, il Piero alza appena la mano, la Nerina invece gli sorride e basta, mentre con le dita scosta di poco la tenda a fiori.
Arriva presto il giorno in cui il Piero deve partire per la guerra.
Passa il tempo, troppo, la guerra finisce, del Piero non si hanno piú notizie. Viene dato dapprima per disperso, poi morto.
Quando il Piero torna al paese, piú di cinque anni dopo, ha un solo pensiero in testa: andare dalla Nerina, dirle che è vivo, raccontarle perché. Scende giú alla casa sul torrente, sale le scale cercando di trovare le parole, ma quando bussa alla porta, prima piano, poi forte, non si aspetta che ad aprirgli sia un uomo che non conosce. Scopre cosí che i genitori della Nerina non ci sono piú e che la Nerina, mentre il Piero era in guerra dato per morto, si è sposata con uno.
Al Piero, d’un tratto, sembra quasi di essere tornato per niente.
Dura poco, che il Piero è un montanaro temprato dal ghiaccio e dai boschi e non è abituato a perder tempo a commiserarsi. Non si arrende, prende la sua decisione.
Il Piero si costruisce una casa di legno e pietra a secco sul torrente, proprio di fronte a quella della Nerina, ma sulla riva opposta. Cosí potrà starle vicino e vederla tutti i giorni dalla finestra, senza che a qualcuno sembri che. Quando succede, il Piero alza la mano appena, come a dirle «son sempre qui», ma la Nerina adesso non gli sorride piú, che sorridere da maritata non sta bene.
Qualche anno dopo si sposa anche lui, perché il Piero è alla fine uno pratico, come tutta la gente di montagna e, soprattutto, vuole comunque dei figli.
Il Piero e sua moglie hanno tre bambine. La Nerina, invece, aggiunge ai due figli già avuti col marito altri tre bambini presi in affido, orfani di guerra, perché suo papà le ha sempre insegnato che dove si mangia in quattro si mangia anche in cinque, e la Nerina ha pensato che in fondo anche in sei, in sette o in otto facesse poca differenza.
Nel ’66 al paese arriva l’alluvione, la stessa che poi flagella Firenze e gran parte dell’Italia.
Il torrente sul quale si trovano le case speculari della Nerina e del Piero è un affluente dell’Avisio, a sua volta affluente dell’Adige, e viene in poche ore investito da una massa d’acqua infinitamente superiore alla sua portata. La casa del Piero viene spazzata via, quella della Nerina invece resiste. Mezzo paese non c’è piú, il Piero è riuscito per miracolo a salvare le figlie che dormivano in soffitta, dopo il disastro la moglie gli dice che non vuole restare a vivere lí, non è sicuro per le bambine.
Il Piero acconsente e compra un appartamento in città, vi si trasferisce con la famiglia.
La vita prende presto il sopravvento e della Nerina, poco a poco, il Piero non sa piú nulla. Alla finestra, ormai, la vede solo nei suoi sogni.
Passano gli anni, le figlie crescono, la moglie del Piero un giorno si ammala.
Il Piero rimane vedovo in una notte di dicembre. Le figlie abitano tutte fuori casa, due sono già sposate, lui si ritrova improvvisamente da solo in un appartamento in città che non ha mai percepito come suo. Il Piero ha quasi settant’anni, li sente per intero sulla schiena, pensa di vendere tutto e tornare a vivere al paese. Le figlie tentano di dissuaderlo, gli dicono che sarebbe poco pratico, ma il Piero pensa che della praticità, ormai, non gli interessa piú niente.
Quando sale di nuovo al paese sono passati oltre vent’anni. Il Piero è alla ricerca di un alloggio da comprare, gli basterebbe anche una casetta, due stanze soltanto per lui, decide di chiedere al bar della Giusta. È lí che riceve la notizia.
– La Nerina l’è restà vedova doi mes fa, no t’el savevi mia? Adèss la sta da sola, là giò nella casòta sulla riva, – gli dice la Giusta.
Il Piero non finisce nemmeno il vino, esce dal bar, scende al torrente, la casa della Nerina alle finestre ha ancora le stesse tende a fiori che ricorda lui.
Sale le scale cercando di trovare le parole, bussa prima piano, poi forte.
Stavolta, ad aprirgli è la Nerina. Il loro primo bacio ha per sottofondo il suono della stessa acqua che li teneva distanti e che ha rischiato di dividerli per sempre.
La Nerina e il Piero vanno a vivere insieme subito, nella casa sul torrente di lei, si sposano poco dopo. Qualcuno dice che forse avrebbero potuto fare con piú calma, ma la Nerina e il Piero pensano che una guerra, due matrimoni e otto figli siano stati un’attesa sufficiente. Alla vita hanno dato tutto quel che avevano, ora è tempo che la vita restituisca qualcosa che sia solo per loro.
I miei genitori, in quel periodo, hanno appena comprato una casetta lí vicino. Mio padre conosce il Piero al bar della Giusta, fanno amicizia, quando il Piero scopre che mio padre è un pittore gli vuole commissionare un quadro. Il quadro dovrà rappresentare la concretezza del sogno suo e della Nerina, finalmente realizzato.
Mentre mio padre lo dipinge, sulla riva del torrente, in una mattina d’autunno, si lamenta a voce alta della tettoia per la legna che gli rovina in parte il punto di vista. Il Piero decide di demolirla, vuole che il quadro sia perfetto. Mio padre lo ferma giusto in tempo e gli spiega che non è necessario, lui nel quadro può aggiungere o togliere quel che crede. Ci metterà solo le cose importanti, lo rassicura.
Il Piero, a questo proposito, ha un’unica richiesta.
La Nerina e il Piero sono morti qualche anno fa, il dipinto sta ora nella casa di uno dei figli adottivi della Nerina, ogni tanto mio padre lo incontra lungo la mulattiera che porta al bosco, quando capita si sorridono senza dire niente, quasi custodissero un piccolo segreto.
Nel dipinto è primavera, la tettoia non c’è, si vede invece una ragazza di neanche vent’anni che sorride affacciata alla finestra di una casa sul torrente, le dita che scostano appena la tenda a fiori.
Il punto di vista è quello degli occhi del Piero.
Mentre guardi la Nerina, per un attimo ti sembra di essere lui.
Va bene.
In questi giorni in cui sto lavorando come uno scemo, vivo murato giú in studio con un cane sui piedi, tre bambine che mi corrono sulla testa, una compagna paziente che mi sopporta. Quando salgo al piano di sopra, vivo con una bambina buttata addosso, altre due che mi chiedono continuamente cose, una compagna indulgente che mi supporta. Quando le bambine si addormentano e Paola deve partire, tipo stasera, vivo aspettando i suoi ritorni, se capita il contrario lei fa lo stesso con i miei.
Una volta qualcuno ha scritto che la vera felicità non consiste nell’avere ciò che si desidera, ma nel desiderare ciò che si ha. Amare quel che hai nel momento in cui c’è, perché dopo nella vita siamo sempre bravi coi rimpianti, mentre ci struggiamo nostalgici a rimirare il passato come se avessimo subito un’ingiustizia, e invece abbiamo fatto tutto da soli, quando quel passato era quel che c’era e lo davamo per scontato perché magari non ci pareva abbastanza.
Una cosa che ho capito è che la vita ci dice tutti i giorni solo: eccomi, sono questo. Sono un cane sui piedi, sono una bambina buttata addosso sul lettone mentre le altre due ti dormono di fianco, nel posto della mamma, quattro cuori che battono negli stessi quattro metri quadrati, un metro a cuore, sono una compagna stanca che torna nella notte e vuole sapere delle bambine, del cane sui piedi, siete voi due che le posate delicatamente nei loro letti e lei che ti chiede se vuoi un gelato alla fragola.
Tu rispondi: «Va bene», come se fosse la risposta a tutte le sue domande.
Lei ti dice: «Va bene», ed è la risposta a tutte le tue.
La sindrome premestruale.
Come si riconosce una sindrome premestruale:
– Che cos’hai?
– Niente.
– Sei arrabbiata con me?
– Sí.
– E perché?
– Niente.
Come si riconosce una sindrome post-mestruale:
– Oggi sei stato molto gentile con me.
– Sul serio? A me sembra di essermi comportato come al solito.
– No, no, sei pazzo? Magari fossi sempre cosí!
– Addirittura? Ma scusa, cos’ho fatto?
– Niente.
«Niente» può essere la chiave del paradiso o dell’inferno. Cosa li separi, nella testa di una donna, di preciso non l’ha mai compreso nessuno.
Gli uomini no di sicuro.
Loro non capiscono. Niente.
Il sogno.
Tutto questo era nel mio sogno di stamattina, forse non nell’ordine in cui lo sto raccontando.
C’è nel sogno una donna. La donna ha i capelli rossi. Ha guance pallide e labbra grandi e sbiadite. La donna coi capelli rossi mi tiene la mano destra e mi parla. Siamo seduti al tavolino di un bar. Fra noi, due bicchieri e una piccola ciotola celeste. Può essere Barcellona o Lisbona o Napoli. Una città di mare. La luce è bella. Il sole che entra dal vetro fa brillare i capelli rossi della donna. Non ricordo le sue parole, ma la sensazione è quella di un addio. La donna mi fa una carezza sulla guancia. Si alza ed esce. Io resto seduto. Mentre la osservo allontanarsi provo un’indicibile nostalgia. Mi fa male il viso. Me lo tocco con la mano. La mano percepisce sulla faccia una piccola cicatrice in rilievo. Mi osservo nel riflesso della vetrina. Il mio volto sembra un vaso incrinato, percorso da piccole crepe a serpentina. Anche la mano. Anche le braccia. Mi getto a rincorrere la donna, attraverso la strada senza guardare e un’auto mi manca per un pelo. Quella dopo mi centra. Volteggio nell’aria – percepisco forte la sensazione della giravolta – cado sull’asfalto e mi rompo in migliaia di piccoli frammenti di coccio, come un puzzle o un mosaico o le squame della pelle di un serpente. Non capisco perché, ma sono vivo. Sono a pezzi ma respiro. Steso al suolo, mi viene in mente la frase di Whitman: «Contengo moltitudini»4. Rido. Nel riflesso di un frammento vedo la donna avvicinarsi. Chinarsi su di me. Dire: – Il vaso con le crepe abbevera inconsapevole i fiori sul sentiero –. Andarsene. Si alza un vento leggero che si trasforma presto in bufera. Solleva tutti i miei frammenti e li disperde nell’aria, trascinandoli fin sopra al mare. Sono vivo dentro il vortice. Il vento si placa e i miei pezzi precipitano. Nell’istante in cui il primo frammento tocca l’acqua mi sveglio come se avessi subito una scossa elettrica. Sono le 3.33. La febbre è andata via e sono in un bagno di sudore. La tivú dimenticata accesa trasmette l’ultima parte di un film coreano coi sottotitoli. La prima frase che leggo dice: «Non sei mai stato quello che credevo, cosí puoi ancora essere tu».
L’amore e le verze.
L’ultimo dell’anno piú di merda della storia fu vent’anni fa, esatti.
La mia ragazza mi aveva lasciato in primavera, avevo guadato l’estate alla cieca e cercando solo di recuperare il fiato, dall’inizio di novembre mi vedevo con una che mi piaceva ma con cui ancora non si era ben capito se fossimo amici, spasimanti, stimatori reciproci o che. Dopo Natale provai a baciarla sotto i portici di piazza Dante, lei si scostò quel tanto e mi disse che non poteva perché si vedeva con un tipo, mi ricordo che pensai: «Se ti vedi con un tipo cosa cazzo stai qui con me a fare la gatta alle due di mattina di venerdí», pur apprezzando l’onestà. – Io non sono cosí, prima devo parlargli, – disse. Mentre lo diceva vedevo il suo desiderio, speculare al mio, che le si accendeva negli occhi come quei pesci luminescenti nei documentari sugli oceani. Comunque. Lei quell’ultimo dell’anno se ne andò a Parigi da amici e credo con lui, io restai a casa col mio bacio in sospeso, chiuso in camera fino al mattino a bere spumante dell’Esselunga e ascoltando in loop Prima di essere un uomo di Daniele Silvestri.
Quando mi svegliai c’era la neve. Telefonai in montagna ai miei per far loro gli auguri, mi preparai il caffè, poi fumai mezzo pacchetto di Marlboro Lights seduto sulle scalette esterne della cucina, pensando a quanto sarebbe stato bello un bacio seduti lí, sotto la neve, guardando le verze di mio padre nell’orto, tutta la casa e l’intera giornata per noi. Invece da qualche parte a Parigi c’era un povero cristo che probabilmente si era sentito raccontare una storia inattesa di pause di riflessione - ho bisogno di stare da sola - devo capire dove stiamo andando, mentre io ero lí, a guardare le verze seduto sulle scale da solo, spegnendo mozziconi che restavano conficcati nella neve come i sensi di colpa che provavo nei confronti di uno che manco sapevo chi fosse.
Lei mi telefonò il 7 gennaio, mi raccontò di Parigi, non disse niente del tizio, se gli avesse parlato o che. Quella sera stessa mi afferrò per i capelli e mi diede un bacio lunghissimo e profondo, con triplo avvitamento, davanti al cancello di casa sua, tutti i sensi di colpa svanirono in un istante. Le dissi: – Alloa mi ha he gli hai pallato? – perché non riuscivo piú a dire bene la r, e mi venne in mente che forse è per quello che lo chiamano «bacio alla francese». Lei per rispondermi mi baciò di nuovo, e io pensai che in fondo la r è una consonante molto sopravvalutata.
L’anno seguente fu forse il piú bello di tutta la mia vita, quantomeno fino a lí.
La morale di questa storia è che certe volte gli esordi migliori partono da rincorse di merda, ma che se non trovi il coraggio di saltare non lo scoprirai mai, che l’amore è l’unica cosa al mondo in grado di farti parlare come un cinese che vive a Prato, che il fatto che Parigi sia una città romantica dipende soprattutto da quale lato la guardi e che nel dubbio, nel dubbio, una verza ci sta sempre bene.
Tump tump.
Aspettando la pioggia, giú in studio, con la finestra aperta, ascolto le voci delle bambine che provengono dal piano di sopra. Le voci sono intervallate dai ritmici tump tump di Melania, che salta sul tappetino elastico parcheggiato nel nostro ingresso ormai da due anni. Fuori la luce va e viene. Il grigio denso dei nuvoloni si alterna a improvvisi squarci di sole, il vento agita appena i rami degli abeti, i cani sono irrequieti come se percepissero che sta per succedere qualcosa. È prevista grandine, speriamo non faccia danni.
Qualche anno fa, era un pomeriggio uguale a questo, le bambine e io fummo colti da una brutta tempesta durante il tragitto in auto per andare dai nonni. Da allora, Ginevra teme «le palline di ghiaccio» piú di tutto il resto. Non dimenticherò mai la sua paura e il suo pianto sotto la grandine battente, la nostra auto ne porta ancora i segni. Non mi sono quasi mai sentito cosí inerme. Eravamo fermi, con la macchina infilata in fretta e furia sotto un albero, cercando un riparo di fortuna. Ricordo che stringevo forte Ginevra contro il mio torace, e sentivo il suo cuore battere fortissimo attraverso la maglietta, oltre il muro delle lacrime e dei singhiozzi, pur in mezzo al martellante frastuono.
Oggi, subito dopo il pranzo, mentre stavo sparecchiando, Ginevra ha chiesto a Paola: – Mamma, ma anche il cuore ha un cuore? – La domanda ci ha colti di sorpresa. Paola ha ovviamente risposto di no, ma lei non sembrava convinta. Ho continuato a pensarci mentre lavavo i piatti, non tanto a una possibile risposta, quanto alla bellezza della domanda. Anche il cuore ha un cuore? Chissà, in certi momenti forse sí. Può succedere quando stringiamo forte qualcuno, per fargli coraggio o per farne a noi, mentre il cuore dell’altro diventa una specie di secondo battito, mentre ci ripariamo dalla grandine o danziamo nel cuore della tempesta, aspettando la pioggia con la finestra aperta, ecco il primo lampo, le prime gocce sul porfido, l’erba che diventa piú lucida, un cane abbaia in lontananza, dal piano di sopra arriva un ritmico tump tump.
Le ali dell’ornitorinco.
Ho questa coppia di amici.
Lui si chiama Ettore, lei Giuliana, si sono innamorati, sono andati a vivere insieme quasi subito, hanno fatto una bambina. Una storia come tante.
Dopo quasi un anno Giuliana, grazie anche all’amore di Ettore, è riuscita a dare finalmente un nome a quella cosa che sentiva agitarsi dentro da sempre senza darle tregua. Le era stata diagnosticata a lungo come depressione, poi come personalità borderline, perfino come eccentricità. Perché è una cosa di cui in passato non si parlava tanto, e chi la provava era sottilmente indotto a tenerla nascosta come una vergogna che non ha diritto nemmeno a un nome. Il problema di Giuliana era che non riconosceva del tutto il corpo che abitava, era come vivere a metà. Il mondo le diceva: guarda che sei un’anatra, mentre lei si sentiva un castoro.
La chiamava «la sindrome dell’ornitorinco».
Ha scoperto invece che si chiama «disforia di genere».
Giuliana ne ha parlato con Ettore, poi con un medico che per la prima volta non l’ha trattata come fosse pazza. Ha cominciato ad assumere ormoni e a intraprendere le pratiche cliniche e giuridiche per il cambio di sesso: adesso il suo nome è Julian.
– Come Julian Ross, quello di Holly e Benji, – ti dice.
Una sera di qualche tempo fa, davanti a una birra, a Ettore l’ho chiesto.
– Ma com’è?
– Com’è cosa?
– Eddài, su. Non dev’essere facile, credo. Ti eri messo con una lei e ora starai con un lui, in pratica.
– L’amore non è mai facile per nessuno, sennò sarebbe una cosa che non vale niente.
– Ma va’ a cagare. Dammi una risposta vera.
– E che ti devo dire, – mi ha fulminato. – So che a te può sembrare strano, ma io tocco le stesse mani, abbraccio la stessa schiena, bacio la stessa bocca, mi perdo negli stessi occhi, amo la stessa testa, accarezzo le stesse gambe. Non m’importa del resto.
Mi è scappato un mezzo sorriso di cui mi sono vergognato quasi subito.
– E niente battute sul cazzo, per piacere, – ha detto, – poi per adesso non ce l’ha ancora e non è detto che ce l’avrà mai.
– E se ce l’avrà?
– Non cambierà niente. Io amo quello che è, non quello che ha.
Ogni volta che ci ripenso, penso a quanto amore ci voglia per un amore come il loro, e mi vengono in mente quelle coppie che magari si lasciano perché «sei cambiato» o perché «non sei piú quella di prima», come se scegliere di restare fedeli a sé stessi e al proprio percorso fosse un’infedeltà nei confronti del partner.
Oggi Ettore e Julian, a dispetto dei pronostici di tutti, stanno ancora insieme e continuano ad amarsi e a essere una famiglia. Si sono sposati da poco, la loro bambina fa la seconda elementare, cresce felice volando sopra i pregiudizi della gente.
Si chiama Aria, è figlia di un amore che ha due ali grandi cosí.
Viaggiare nel tempo.
Stanotte ho viaggiato nel tempo.
Mi sono alzato convinto che fossero le 5.05 e invece erano le 4.00. Cosí, anziché dormire un’ora in piú, ho guadagnato un’ora di lavoro. La cosa buffa è che invece l’iPad si è tirato indietro da solo, perciò avevo la sveglia sul comodino che segnava un’ora e l’iPad un’altra. Il computer dello studio un’altra ancora, dato che una volta alla settimana, quando lo accendo e chissà perché, è convinto di trovarsi alle 23.47 del 31 dicembre. Del 2001. L’unica che ha mantenuto gli orari soliti è stata Cordelia, che ha fatto la pipí in taverna puntuale, proprio davanti al camino, poco dopo le 4.00. Che poi sarebbero state le 3.00, ma lei mica lo sapeva.
Quando sono sceso ho poggiato la tazza di caffè fumante sul termosifone freddo, il piattino coi biscotti, ho riempito il secchio del mocio e ho pulito tutto, poi siamo usciti in giardino. C’era un cielo bellissimo e le stelle parevano cascarti addosso. Ho pensato ai miliardi di anni che impiega quella luce per arrivare fino a noi e ho pensato che, se la vedi cosí, un’ora avanti o una indietro non ti fa alcuna differenza, come non ne farebbe un grano di sale in piú o in meno su un’acciuga. E mi è venuto in mente che dopo le decine di anni che erano servite a me per essere lí, precisamente in quel momento, stretto nel mio maglione, col respiro che faceva le nuvolette e a naso in su, non era l’ora a contare, ma solo la consapevolezza di essere vivo e sveglio. Sono rientrato, ho ripreso il caffè freddo dal termosifone appena tiepido e il piattino coi biscotti. Ho fatto colazione leggendo una mail che diceva cose gentili e mi sono seduto al tavolo da disegno. Quando mi siedo al tavolo da disegno, capisco sempre che l’unica ora che m’interessa davvero è il momento in cui si fanno le cose.
Ho letto, da qualche parte, che ogni sacrificio che facciamo è un risparmio, nel senso che sottraiamo qualcosa all’adesso in nome del nostro futuro, e ci si chiedeva quanto questo fosse giusto. In realtà, secondo me, non si tratta di sottrarre, ma di moltiplicare. Funziona come tendere l’elastico di una fionda. Nel tempo della tensione si percepisce solo la fatica muscolare, sognando il rilassamento del rilascio. Ma è proprio lí, nell’accumulo potenziale dell’energia, durante la concentrazione del lavoro, che siamo davvero padroni del nostro tempo e del nostro destino e possiamo ancora orientare il lancio. Dopo, potremo solo stare a guardare e pregare che la mira fosse giusta. Per questo il presente è l’unico modo di operare nel mondo, la sola maniera di viaggiare nel tempo possibile, perché è il timone che imposta la rotta per ogni domani. Non voltarsi indietro a rimirare i passi e a rimpiangerli nostalgici, ma provare ad avere, come diceva Bradbury, «nostalgia del futuro».
Perché, nel futuro che sogniamo per noi, ci siamo già stati.
Il lavoro che facciamo oggi, qui, proprio adesso, tutto l’amore che investiamo, sono solo una maniera per ritrovare la strada.
Semmai.
In auto, andando a fare la spesa.
– Papà, guarda che devi stare attento.
– A cosa, Ginevra?
– Perché se richiedi alla mamma di sposarti lei ti dice di no.
– Eh? E come mai?
– Perché se la sposi devi regalarle dei fiori.
– E allora?
– Alla mamma non piacciono i fiori morti, lei vuole che i fiori restino nel prato.
– Caspita, è vero, e allora come faccio?
– Non devi regalarle cose morte, la mamma non le vuole.
– Uhm. E se le regalassi un merlo?
– Ma no! La mamma non vuole che gli uccellini vengano tirati via dal cielo.
– La questione comincia a farsi difficile, Ginevra. Avresti mica qualche consiglio da darmi?
– Regalale un gattino.
– Un gattino, dici?
– Sí.
– E secondo te piacerebbe alla mamma?
– Sí, sí, me lo ha detto lei!
– Ma sai che io conosco una bambina che continua a dire che vorrebbe un gattino? E che se le inventa tutte pur di ottenerlo?
– E chi è?
– Chissà, secondo me la conosci anche tu.
– Non è vero!
Rido. Ginevra mette su il broncio e comincia a guardare fuori dal finestrino. Dopo un minuto ricomincia.
– Papà.
– Eh.
– Semmai va bene anche un pony.
Lo specchietto rotto.
Ieri sono tornato da Trento sul tardi, nel vagone del treno c’eravamo solo io e un signore sui sessanta con la faccia tutta rovinata, come se l’avessero grattugiata per terra, poi una ragazza coi capelli fucsia e un piercing gigante che parlava al telefono a voce troppo alta, col risultato che ora anch’io e il signore con la faccia grattugiata sappiamo che la Margy si sta vivendo la gravidanza malissimo, «Ma minchia non ho mai conosciuto una depressa come lei», «Ma se doveva prenderla cosí poteva comprarsi un cane», che già a «comprarsi» ho pensato, non so perché, che quei capelli fucsia e quel piercing nascondessero una buona dose di conformismo. A Verona sono uscito dalla stazione nell’aria incerta della notte, non faceva né caldo né freddo ma tirava un venticello tagliente, indossavo una t-shirt e la sciarpa, che non avevo voglia di prendere la felpa dallo zaino, tanto in giro non c’era nessuno. Sono salito nella stradina buia dove posteggio sempre la Opel, sotto gli alberi, mentre mi avvicinavo all’auto ho notato tre ragazze che venivano verso di me parlottando, tutte e tre molto alte, gambe lunghe e scure, bellissime, quando ci siamo incrociati una mi ha detto Ciao, io ho risposto Ciao, quella piú alta delle tre mi ha detto Andiamo amore, io l’ho guardata perché non capivo con chi stesse parlando, poi ho capito, le ho sorriso, lei ha sorriso, i suoi denti bianchissimi scintillavano nel buio come una promessa, le ho detto Devo andare a casa, le tre ragazze mi hanno superato come niente fosse e hanno continuato a parlottare. Quando sono arrivato alla macchina mi sono accorto che qualcuno mi aveva rotto lo specchietto, è la terza volta in un mese, l’ho raccolto che penzolava dalla portiera, l’ho spinto dentro la sede di plastica con tutta la forza che avevo, lo specchietto ha fatto crack ma almeno adesso stava su. Ho sistemato lo zaino sul sedile dietro, sono partito, un ciclista è sbucato all’improvviso sulle strisce, ho inchiodato, c’è mancato davvero un niente, il ciclista mi ha mandato a cagare, ho pensato a quanto poco, certe volte, ci separa da una vita tutta diversa, in un attimo puoi diventare un ciclista investito sulle strisce, un pirata della strada, un signore con la faccia grattugiata, una ragazza che si fa i capelli fucsia e un piercing gigante per nascondersi a sé stessa, un’altra che è costretta a vendere promesse nel buio perché la vita non ha mantenuto le sue, un vecchio con la sciarpa che compra l’amore sotto gli alberi, uno specchietto rotto che fa crack.
Solo te.
Ogni volta che mi faccio la doccia e poi scendo in studio, Heidi arriva sparata come una pallottola e si mette a leccarmi i piedi e le gambe. Lo fa perché per lei non ho piú il mio odore e cerca dunque di «pulirmi» a suon di leccate, per restituirmelo. Come se ci fosse una patina da togliere per riportare in superficie il «vero me». Questo mi fa riflettere sempre, perché penso sia la cosa piú vicina all’amore come dovrebbe essere. Accade lo stesso con i bambini, ai quali non interessa né come siamo vestiti, né se siamo profumati, né che lavoro facciamo, conta solo che siamo lí. L’amore vero in fondo ci dice: non mascherarti, guardami negli occhi, non me ne faccio niente delle corazze dietro cui credi di nasconderti, dammi ciò che sta sotto e dentro, io voglio solo te.
Tu invece no.
In quell’ottobre, aveva ventiquattro anni, un inestricabile groviglio di capelli rossi in testa e gli occhi che parevano due buchi disegnati con pennello e china da un pittore zen. Non era bella, almeno non secondo l’accezione comune di bellezza, ma aveva un viso molto espressivo, la bocca che non stava ferma quasi mai e un piccolo naso che si arricciava in maniera buffa quando parlava. Non era alta e aveva un fisico contraddittorio: le spalle larghe da guerriero e la vita magra, ma i fianchi generosi e le gambe ben tornite da donna del Sud. Ci incontrammo per caso, fu un amore potente.
L’agosto successivo decidemmo di partire per il mare. Mio padre mi aveva lasciato il suo vecchio Kavir 242 della Fiat, che lei ribattezzò «Mimmo». Feci appena in tempo ad assemblare un veloce bagaglio e poi via, in direzione della Puglia. Sembravamo la bella copia di Fantozzi e la Pina a vent’anni. Scendendo, tutto ciò che era possibile di Mimmo si guastò. Il radiatore, i freni, la cinghia del motore. Maledissi piú volte mio padre, intimamente convinto che fosse a casa a farsela sotto dalle risate. Riuscimmo ad arrivare al nostro campeggio dopo un’odissea durata quattro giorni, con metà del budget volatilizzato per le riparazioni meccaniche.
Quando la vidi tuffarsi nel mare di Puglia, mi sembrò di assistere alla liberazione di un animale dopo mesi di cattività. Era come se mi stesse svelando la sua vera natura. Ho ancora stampata vivida nella mente quest’immagine, alla quale spesso mi sono aggrappato nel corso degli anni, quando volevo ricordarmi perché vale la pena, sempre. Aveva i capelli raccolti e un costumino azzurro. Fu la prima volta che mi accorsi che il sole le raddoppiava le efelidi e che i suoi occhi cambiavano colore a seconda del tempo. La guardavo nel mare e mi buttai anch’io e lei mi invitò subito ad avvicinarmi e le arrivai accanto e la sollevai nell’acqua senza peso, come fosse una bambina. Lei mi attorcigliò le gambe attorno alla vita e le braccia intorno al collo. Fu in quel preciso momento che pensai: niente sarà mai piú cosí, niente può essere piú di questo momento, da qua in poi la parabola sarà tutta discendente. Fu un pensiero che mi ricolmò di tristezza, ma anche della voglia di trattenere forte quell’attimo e imprimerlo nella memoria, indelebile.
Qualche mese dopo mi lasciò. Passai quasi un anno con la sensazione di non riuscire a respirare, e pensai che niente avrebbe mai potuto essere simile a quella straziante sensazione di inermità e vuoto.
La rividi piú di dieci anni dopo, nel reparto di neurologia infantile. Avevo portato lí Virginia, che al tempo aveva due anni, a causa delle sue convulsioni febbrili, tornate ancora. Quando mi si parò davanti, vestita da dottoressa, avevo talmente paura per Virginia che mi resi subito conto che quel tipo di terrore lí aveva spazzato via tutto. Accanto a me c’era Paola, che non sapeva nulla. In quel momento, nella stanza, c’erano insieme quel che avevo perso e tutto ciò che avevo paura di perdere. Fu lí che compresi con chiarezza che in quell’estate avevo torto e che l’amore non funziona come una parabola, ma come un solido. E che fino a quando non capisci questo, dell’amore non sai un cazzo.
La guardai come si fissa una vecchia fotografia, con Virginia in braccio aggrappata al collo, e non sapendo bene cosa dire dissi: – Sei rimasta uguale.
Lei mi guardò negli occhi accennando un sorriso, e sapendo bene cosa dire disse:
– Tu invece no.
Le macerie.
Fra sei ore sarà il mio quarantaseiesimo compleanno.
Sto per uscire con degli amici – pochi, ma buoni – che a noi piace prendere i compleanni in anticipo, ma soprattutto perché domani, che sarà il giorno, voglio stare con la mia compagna e dedicarlo solo alle nostre bambine.
Paola scherzando mi ha detto: – Adesso tu vai fuori e ti disfi, e quando tornerai a casa a me resteranno soltanto le macerie.
Non posso nemmeno darle torto, visto che l’anno scorso, in questo stesso giorno, sono arrivato a casa alle quattro del mattino, dopo undici chilometri a piedi nel freddo notturno di novembre, perché un amico pirla si era imboscato per scherzo le chiavi della mia auto e poi se ne era dimenticato. Il fatto che siamo ancora amici – direi: molto di piú – depone a favore della mia idea di amicizia.
La mia idea di amore, invece, si fonda proprio sull’amare le macerie. Amarci quando siamo in forma e brillanti e senza problemi, siamo capaci tutti. Amare il tuo uomo quando rincasa alle quattro del mattino senza chiavi, senza auto, accoglierlo nel letto anche se sa di sigarette e ristorante cinese e undici chilometri a piedi nella nebbia e biascica cose di cui il giorno dopo si vergognerà ma mentre le dice no, e per fortuna, abbracciarlo al buio come per dire «adesso ci sei», ecco, quello invece. Amare la tua donna quando è intrattabile e le viene quella ruga sulla fronte, quando ti scrive con assoluto candore che certe volte ha un po’ paura di te, e tu vorresti dirle che certe volte hai un po’ paura di lei, e che ne abbiamo perché sono proprio le persone che scegliamo di tenerci piú vicine quelle che hanno il potere di farci piú male. Per questo è importante prestare attenzione a non farne.
«Amare significa non zuccherate», diceva il mio amico Claudio, millenni fa. Penso avesse ragione, perché le macerie non sono dolci, le macerie svelano la struttura che sta sotto, dunque anche le nostre fragilità e debolezze, e le debolezze sono sempre amare. Lo sono in entrambi i sensi.
Fra sei ore sarà il mio quarantaseiesimo compleanno.
Esco con in tasca due chiavi dell’auto.
Non sto benissimo, ho un po’ di febbre, ho deciso di uscire lo stesso perché cosí posso avere voglia di tornare a casa, e immaginarmi per tutto il tempo quell’abbraccio là.
Quello che di anni ne ha dodici, e che da dodici anni mi accoglie tenendomi insieme. Temendoci insieme.
Tenendoci, insieme.
Ricordati che.
Sono in stazione a Brescia, è quasi mezzanotte, sono di ritorno da una presentazione, l’ultimo regionale per Verona è in ritardo. Ad attenderlo siamo un eterogeneo gruppetto di persone. C’è la signora bionda con la permanente e un cappottino scuro corto e l’aria da «mai piú a quest’ora», un paio di ragazzi coi cappucci delle felpe tirati su, gli zaini e le mani in tasca, un tizio tarchiato che indossa una divisa blu e grigia con scritto sulla schiena «Volontario Croce Rossa», un signore calvo con occhialini e ventiquattrore che ha addosso solo una giacchetta nera e una camicia azzurra, a guardarlo muoio di freddo.
Quando il treno arriva saliamo tutti sullo stesso vagone, sale anche il controllore. La signora bionda chiede il perché del ritardo, il controllore spiega che due maghrebini sono saliti in stazione a Treviglio e hanno cercato di strappare la borsa a un passeggero. La signora chiede se episodi di questo tipo accadano spesso, il controllore spiega che le statistiche ufficiali dicono di no, ma lui ne vede sempre di piú. Parte inevitabile la giostra di racconti. Il tizio della Croce Rossa dice che a lui una volta questi hanno rubato lo zaino – e con «questi» non dice bene chi intenda, ma in realtà si capisce benissimo – la signora bionda dice che una sera tardi a Bergamo un marocchino ha provato a buttarla a terra per portarle via la valigia, il signore calvo racconta di quella volta che, a un suo amico, un nigeriano ha rubato sul treno un violino da cinquemila euro, che poi è stato rivenduto per soli centocinquanta euro. Mi verrebbe da chiedergli come faccia a saperlo, dato che non credo gliel’abbiano venduto sotto gli occhi. Vorrei dire che io ho preso un sacco di regionali di notte e non mi è mai successo niente, ma sono molto stanco e me ne sto zitto. Il controllore ci invita a prestare attenzione e se ne va.
Alla stazione seguente i miei compagni di vagone scendono tutti. Resto solo nella quiete notturna.
Dopo circa un minuto sento degli schiamazzi, mi arriva la voce del controllore che dice a voce alta: – Non qui! – vedo attraverso il vetro della porta del vagone alcuni ragazzotti, saranno quattro o cinque, uno è altissimo e largo di spalle e ha una sigaretta in bocca, la getta sul pavimento e la spegne o almeno cosí mi pare. I ragazzi entrano, sono visibilmente su di giri, sembrano tutti di origine nordafricana, quello altissimo e largo di spalle è l’unico a buttarmi un’occhiata, camminano come avessero fretta. Passano oltre, escono. Dopo poco ritornano, ripetono la scena in senso contrario. La ripetono una terza volta. Cerco di stare calmo, ma mi rendo conto di essere stato indirettamete suggestionato dai racconti di prima, entro un pochino in allarme. Perché continuano a passare? Cosa cercano? Passano per la quarta volta. Uno di loro si siede nel sedile di fronte al mio, gli altri proseguono. Si sporge verso di me.
– Ciao zio, – dice.
– Ciao, – dico.
– Hai visto come sto messo male, zio?
Lo guardo. Avrà venticinque anni, all’incirca. Sul viso alcune cicatrici fresche, una è rattoppata con dei punti, le mani sono piene di escoriazioni e ha una benda su una tempia.
– Ho fatto un incidente, zio, – dice, – una roba che son tutto rotto, non puoi capire, mi fanno male gli occhi, mi fa male la testa, mi fa male la gamba, mi son spaccato i denti, sono preoccupato per il lavoro.
– Mi dispiace, – dico.
– Mi hanno investito, zio, son tutto rovinato, non so cosa fare, toccami la mano qui, guarda, tocca.
Mi prende la mano e la mette sulla sua, la stringe, mi mette l’altra mano sulla spalla. È mezzanotte e mezza passata, sono solo sul treno, non capisco cosa voglia. Mi ricordo dei racconti di prima, di quello che ha detto il controllore.
– Cosa vuoi?
Lui continua con la storia dell’incidente.
– Cosa vuoi? – ripeto.
Ma lui niente, continua a raccontare come non avesse sentito, è un fiume in piena, inarrestabile, d’un tratto penso che stia cercando di confondermi.
– Vuoi soldi? – dico.
– Eh?
– Vuoi soldi?
Mi fissa, ho l’impressione che i suoi occhi contengano una punta di pena per me.
– No, zio. Non voglio niente, tranquillo. Volevo solo parlare.
Mi sorride piano mentre lo dice. All’improvviso mi sento una merda.
– Come ti chiami?
– Fahim.
– Cosa fai sul treno a quest’ora, Fahim?
– Vado da mio padre, – dice. – È incazzato da morire con me per ’sta cosa dell’incidente, figa, e ho un po’ di paura. Ma domani dobbiamo lavorare, si comincia presto.
– Che lavoro fai?
– Facciamo i saldatori a filo, zio. È un lavoro difficile, non puoi capire. Con ’ste mani, poi.
– Immagino, – dico. – Ma, scusa, non puoi startene in malattia o roba del genere?
Mi guarda, per pochi secondi è lui il vecchio e io il ragazzo.
– Zio, se non vado perdo il lavoro.
Il ragazzo alto e con le spalle larghe entra all’improvviso nel vagone. Si ferma davanti a noi, mi scruta serio, quasi minaccioso. Dice una cosa nell’orecchio a Fahim, poi se ne va. L’altoparlante del treno annuncia che stiamo per arrivare in stazione, Fahim si alza.
– Ciao zio, – dice, – grazie di avermi ascoltato.
– Di niente, – dico. – E in bocca al lupo per tutto.
– Di chi è questa borsa? – urla il ragazzo alto con le spalle larghe. – Di chi è questa borsa?
Solleva una specie di trolley grigio, quasi sopra la testa. Non capisco perché urli, nel vagone ci sono solo io.
– Non ne ho idea, – dico.
– L’avrà dimenticata qualcuno, – dice lui.
Mi viene in mente d’un tratto che potrebbe essere della signora bionda. Non faccio in tempo a esplicitare il pensiero a voce che il ragazzo alto e con le spalle larghe esce dalla porta del vagone correndo, col trolley grigio in mano. Ecco, t’ho visto subito che eri quello furbo – penso tra me e me. Vorrei andargli dietro, dirgli qualcosa, ma devo raccogliere in fretta le mie cose, metto via l’iPad, mi infilo il cappotto di corsa, indosso lo zaino mentre il treno si ferma, mi precipito giú.
Mi guardo attorno per vedere se ci siano ancora i ragazzi. Scorgo quello alto con le spalle larghe, quasi in fondo al binario.
Sta consegnando il trolley al controllore del treno.
Dietro di lui sbuca anche Fahim.
Mi vede, alza la mano in segno di saluto, lo saluto anch’io.
Mentre scendo le scale della stazione penso chissà se il controllore, nella sua statistica, inserirà anche questo episodio qui. Spero tanto di sí.
Nella mia invece metterò una cosa sola: ricordati di quella sera in cui sei stato un razzista di merda.
Ricordati che è un attimo.
La tartaruga.
Ho capito tardi che tutte quelle storie sull’anima gemella sono solo balle.
Essere anime cugine, anche di secondo o terzo grado, per me è molto meglio. Perfino anime sconosciute. Perché l’amore non è essere fatti l’uno per l’altra, non se con questo si intende essere uguali, oppure avere tante cose in comune. A volte «fatti l’uno per l’altra» può significare essere cosí diversi che neanche in mille vite. L’amore si nutre sempre di differenze, anche piccole, anche in coloro che sono convinti di somigliarsi tantissimo.
Non credo nemmeno nel non farsi mai del male. Quando ascoltai la prima volta La cura di Battiato, tutti a dire bellissima, meravigliosa, la piú bella canzone d’amore. Io pensavo: invece no. Non è una canzone d’amore, non d’amore di coppia, almeno. Mi sembra, ancora oggi, una canzone che potrebbe avere scritto un padre per una figlia, non un amante. Prendersi cura, all’interno di una relazione, non significa proteggersi. Perché in fondo fra due persone che si amano ferirsi è inevitabile, ma è anche un privilegio. Ogni ferita è una finestra che ci mostra la verità, l’irriducibile differenza fra due vite, e quella differenza è un peso difficilissimo da sostenere. Però quel peso è anche ciò che ti salva, che contiene tutto quel che ti serve per affrontare la salita, proprio come uno zaino per un alpinista.
L’amore è piuttosto diventare un’occasione l’uno per l’altra. Quella di comprendere il diverso da noi, quel diverso che però ci portiamo anche dentro. E di riconoscerlo. E di accettarlo. E di impararne il significato, ogni giorno.
Poi è difficile, si sa. Perché a volte è come se lei fosse un’austriaca e tu un giapponese pure un po’ rincoglionito. Lei ti piace, tu le piaci, ma rimanete un’austriaca e un giapponese che non parlano le rispettive lingue, e corsi non ce n’è. Si può imparare solo con un’applicazione quotidiana. Tu le insegni le tue parole e lei ti insegna le sue. Certi giorni, non si capisce il perché, anche dopo anni, ti sembra di dover ricominciare tutto da capo.
Il fatto è che ci hanno convinti che il senso dell’amore dovrebbe stare in quell’essere compresi subito, in un attimo, scarpe e tutto. Non è cosí.
L’amore non è un’illuminazione, o lo è solo per un istante, per il resto è piú una specie di viaggio a bordo di una tartaruga. Ognuno è libero di decidere quando scendere o se restare, per vedere insieme all’altro cosa c’è sulla sponda opposta del fiume. Richiede pazienza, come fare un puzzle senza sapere il disegno che verrà fuori, e la capacità di alimentare il fuoco di una concentrazione costante.
Il problema è che le tartarughe vivono tantissimo e vanno pianissimo, mentre in giro è pieno di gente che ha fretta e sembra non avere piú tempo per godersi il panorama.
Che dal guscio di una tartaruga, è risaputo, soprattutto mentre incastri i pezzi di un puzzle, è davvero tutta un’altra cosa.
C’è qualcuno?
Molti anni fa stavo insieme a una ragazza bellissima.
Che era bellissima non lo dicevo mica io, lo dicevano tutti, al punto che i miei amici, quando arrivavo con lei, mi cantavano «Sono un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno»5 per percularmi. Io camminavo a mezzo metro da terra e avevo dipinta perennemente sul volto l’espressione di uno che ha appena vinto alla lotteria. La sensazione era sempre che lei per me fosse «troppo», e contribuiva a farmi vivere nel terrore dell’abbandono.
Un giorno, incredibilmente, la lasciai io, perché mi ero innamorato di una ragazza bassa e con le cosce grosse che però era in grado di farmi vibrare col solo suono della sua voce. Ci scambiammo il primo bacio in ascensore e ricordo che dovevamo andare al secondo piano e scendemmo invece all’ultimo. Amai quella ragazza come solo a quell’età, e quando in aprile mi lasciò per un tizio bellissimo e palestrato compresi per la prima volta che la vita ha un senso dell’umorismo tutto suo. Questo non mi impedí di stare cosí male che ancora oggi, a pensarci, sento mancarmi il respiro. Dopo qualche mese le scrissi la lettera lunga otto pagine, a biro verde, di cui conservo ancora la brutta copia e in cui misi tutto quel che avevo, al punto che certi giorni ho come l’impressione di stare ancora scrivendo quella lettera là. Non mi rispose mai. L’anno dopo fu l’unico periodo in cui ero palestrato e coi muscoli anch’io, nel patetico tentativo di diventare quel che lei pareva apprezzare, ma non serví a niente, se non a far sí che ogni volta che mi guardavo allo specchio mi chiedessi chi cazzo fosse quello lí.
Stamattina ho messo su il caffè e sono entrato in camera per recuperare la felpa e i pantaloni della tuta che indosso quando lavoro. Paola era a letto che dormiva ancora. Mentre mi svestivo e rivestivo al buio mi sono ricordato che anche a lei, quando ci siamo conosciuti, avevo scritto una lunga lettera, che però oggi non ho piú perché si è volatilizzata tra i bit di un account Tiscali disattivato.
Il fatto è che Paola a quella lettera mi ha risposto, anche se all’inizio mi considerava un pirla, e io me la ricordo ancora a memoria. La lettera conteneva un suo ritratto in cui le avevo fatto i capelli blu.
Ho pensato che la questione è forse che l’amore, almeno a me, viene meglio quando lo disegno.
Ma ho pensato anche che alla fine, ciò che fa la differenza, che tu scelga di affidarti alle parole oppure a un ritratto, a una canzone o a una cena fuori, è solo che dall’altra parte ci sia qualcuno che è capace di vederti davvero, soprattutto quando sembri un pirla.
Un buon posto in cui fermarsi.
Andavo da uno psicologo, avevo problemi con una ragazza.
Non riuscivo a fare breccia, lei soffriva di una forte depressione e non riuscivo a tirarla fuori da lí. Non capivo il perché. La cosa, dopo un po’, aveva iniziato quasi a offendermi. Come fai a non vedere il mio amore? Come fai a non considerarlo abbastanza per essere felice? Che cosa ti manca? Avevo cominciato a pensare di essere io il problema. Lo psicologo era un tentativo di aiutarla, di aiutarci. Non volevo mollare.
Scherzando mi dicevo: «Faccio terapia di coppia da solo».
Era cosí.
Lo psicologo mi faceva fumare. Fumava anche lui. Lo amavo per questo. Un giorno lo psicologo mi chiese di scrivere una storia.
– Scriva una storia che parli di un abbandono, – disse. – Poi me la porti.
La storia era questa qui.
«E se domani | io non potessi | rivedere tee»6.
La canzone alla radio pareva una presa in giro.
La stava aspettando seduto al tavolino del bar già da mezz’ora e cominciava a essere nervoso. Aveva chiesto lui quell’incontro e sapeva che, piú il tempo passava, piú la tensione sarebbe salita e piú avrebbe rischiato. Invece doveva rimanere calmo. Il suo sguardo, il suo timbro di voce avrebbero dovuto risultare sereni e tranquilli. Sapeva bene che questa era la sua ultima occasione per cercare di recuperare le cose, e si era ripetuto mentalmente tutto il discorso decine di volte. Un centinaio, forse. Avrebbe dovuto essere perfetto.
Sandra lo aveva lasciato due mesi prima e lui aveva deciso che era giunto il momento di muoversi. Aveva deciso che erano ormai passati il tempo del dolore e quello dell’attesa e prima che arrivassero l’odio
e l’ossessione le aveva chiesto un ultimo incontro per parlare.
Lei glielo aveva concesso, magnanima.
Solo che adesso era in ritardo e nonostante gli sforzi il nervosismo di lui cresceva. Soprattutto, doveva stare attento a non sudare.
NON sudare era l’imperativo categorico. Non poteva permettersi di essere tradito dal suo sistema linfatico dopo il lavoro e la fatica e il training per dominare sé stesso. Il sudore avrebbe reso evidente che lui era nervoso e il fatto che lui fosse nervoso avrebbe voluto dire che gli importava ancora troppo di lei e, se lei avesse capito questo, la sua unica chance sarebbe stata bruciata in partenza. Poi doveva stare attento a non gesticolare. E non avrebbe dovuto ordinare degli alcolici, ma un semplice caffè. Oppure un tè, magari.
Lei arrivò a sorpresa, mentre lui stava fissando una crepa sul muro.
– Scusa, scusa, è che non riuscivo a trovare parcheggio. È da tanto che sei qui?
– Da mercoledí, – disse lui.
Lei sorrise, sedendosi. «Bene, – pensò lui, – falle vedere che sei rilassato».
– Cosa prendi?
– Mmh… un prosecco.
«Un prosecco? – pensò lui. – Come, un prosecco?»
– È l’ora dell’aperitivo, no? – disse lei leggendogli nel pensiero.
L’appuntamento era per le cinque e mezza. È arrivata con quasi un’ora di ritardo. Ora dell’aperitivo.
– E tu che cosa prendi?
– Un… una… birra. Media, grazie, – fece alla cameriera.
– Allora? – disse lei. – Come stai?
– Bene. Molto bene, grazie. E tu?
Iniziò cosí, con una semplice domanda.
Sandra cominciò a parlare. E parlare. E parlare. Andò avanti per un tempo che gli sembrò interminabile raccontandogli delle sue difficoltà sul lavoro, di sua mamma che stava male, di Cinzia col nuovo ragazzo. Lui ascoltava o meglio faceva finta di. Cercava di mostrarsi interessato, di sostenere il suo sguardo, di sorseggiare la birra – che nel frattempo erano diventate due – leeentamente.
Nella testa continuava a ripetersi il discorso, in attesa del momento.
Ma Sandra non smetteva, non gli lasciava spazi, sembrava quasi lo facesse apposta. E lui avrebbe voluto interromperla, avrebbe voluto dirglielo. Adesso basta, parliamo di me, di ME, perdio! Sono io quello ferito, sono io quello che deve ricostruirsi un’immagine ai tuoi occhi, quello che deve parlare, che deve vomitare il discorso preparato appositamente per incuriosirti e per farmi rifulgere ai tuoi occhi di nuova luce. Fammi rifulgere, cazzo.
Niente, non c’era verso. Non l’aveva mai vista cosí, era come se gli si stesse accanendo contro. E lui stava cominciando a dimenticarsi pezzi del suo discorso, o meglio, non si ricordava come doveva iniziare, si era scordato le pause, le pause, fondamentali! Come avrebbe dovuto farle, quante e dove. Stava andando in confusione, cercò piú volte di ricostruire mentalmente la sequenza, ma era difficile senza farsene accorgere e con lei che parlava.
– Hai caldo?
La domanda arrivò improvvisa.
– Eh?
– Sei tutto rosso.
– No, è che. È la birra. Scusa, vado un attimo in bagno.
Entrò in bagno e si guardò allo specchio. Aveva il viso ormai livido. Cazzo cazzo cazzo. Non era la birra, lo sapeva bene. Era la voglia che aveva di dire quello che doveva dire, erano le parole che se ne stavano giú compresse nello stomaco da settimane, era il desiderio bruciante di rivincita, di riaverla indietro. Era la voglia di avere di nuovo una possibilità. Solo che tutto, tutto stava andando per il verso sbagliato, non c’era nulla che stesse anche solo minimamente somigliando a come se l’era immaginato. Ma niente era perduto. In fondo doveva ancora parlare. Ripassò in fretta il discorso davanti allo specchio. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, tirò un bel respirò e uscí.
Al tavolo non c’era piú nessuno.
Ispezionò rapido il locale e con la coda dell’occhio scorse Sandra appena fuori dal bar che chiacchierava al cellulare. Rideva. Ma non quelle risatine a cascatella a cui era abituato. E nemmeno quelle risate di circostanza che a volte si fanno al telefono, tanto l’interlocutore non può vederci. No, Sandra ri-de-va. Rideva forte, divertita e con gli occhi luccicanti. Quando stavano insieme non l’aveva mai vista ridere cosí, a parte i primi tempi. Ed era andata fuori per telefonare.
Fu lí che lui capí, finalmente. Per la prima volta vide le cose nella loro cristallina evidenza. E comprese di non aver mai avuto alcuna possibilità.
Prese la giacca, si alzò e si diresse verso il bancone. Pagò due birre e due prosecchi. Sandra, che dall’esterno non s’era accorta di niente, se lo vide arrivare incontro sorridente.
Lui si avvicinò a circa tre centimetri dalla faccia di lei scartando appena a sinistra. Lei pensò volesse baciarla sulla guancia e d’istinto ruotò un po’ la testa e invece lui non fece nulla di tutto questo ma, dentro al microfono del cellulare, disse: – Trattala bene. O ti trovo, – con una voce che Sandra non gli aveva sentito mai.
Poi le prese la testa, la tirò leggermente verso di sé e le diede un bacio sui capelli.
– Stai bene, – disse, – io sto bene, solo questo volevo dirti, – e si avviò lasciandola interdetta sulla porta con gli occhi sgranati e il telefono in mano.
Estrasse una sigaretta cinque passi dopo (si era ripromesso anche di non fumare). Accendendola aspirò una boccata e voltò l’angolo del vicolo.
– Pronto? Pronto? Che è successo?! Chi era?! – urlava Cinzia dall’altro capo del telefono.
– Era Marco, – disse Sandra. – Credo mi abbia appena lasciata.
– Lasciata? Lui? Ma non l’avevi già lasciato tu, scusa?
– Sí, – disse Sandra.
Chiuse il telefono e iniziò a correre verso il vicolo come se improvvisamente ne andasse della sua vita.
Lo psicologo, dopo avermela fatta leggere a voce alta, mi disse: – Che cosa c’è in questa storia?
– In che senso?
– Chi è il protagonista?
– Ah. Un uomo e una donna.
– No. Chi è il protagonista vero?
– Lui, forse. Credo.
– E che cosa vuole fare, lui?
– Riconquistare il suo amore perduto.
– Perché lo ha perso?
– Ah, be’, questo nella storia non…
– Perché lo ha perso?
– Perché lei si è innamorata di un altro, o almeno cosí lui credeva.
– Ed era vero?
– No.
– Alla fine lui la riconquista?
– In un certo senso.
– E come fa?
– Come fa cosa?
– Come la riconquista? La riconquista col copione che aveva preparato?
– Be’. No.
– Le è capitato spesso di voler riconquistare o di rimpiangere amori perduti?
– Aspetti. Di che stiamo parlando?
– Risponda alla domanda.
– Sí. Quasi sempre.
– E perché li ha perduti?
– Non lo so, credo perché certe cose vanno come devono andare.
– Solo per questo?
– Cosa vuole farmi dire?
– Non voglio farle dire niente, lei è libero di dirmi quel che crede. Perché li ha perduti?
– Non saprei. Forse perché non sono mai stato un buon posto in cui fermarsi.
– Lei prepara spesso copioni, nella vita?
– Che intende?
– Ha sempre questa necessità di controllare le cose, affinché vadano come vuole?
– Ma io, veramente non…
– Ci pensi: perché è qui da me?
– Perché stavolta voglio capire come far funzionare le cose.
– Ci pensi meglio: perché lei è qui da me?
– Perché voglio che la mia donna mi ami. Perché voglio che lei capisca quello che…
– Dove sta scritto?
– Cosa?
– Dove sta scritto che la sua donna deve capirla?
– Be’, se due persone si amano, io credo che…
– Quando la riconquista, nel racconto? Ci pensi.
– Forse…
– Forse?
– Non lo so… credo quando… forse…
– Forse?
– Forse quando accetta di non poter cambiare le cose, compreso il fatto di averla persa.
– E quindi?
– E quindi cosa?
– Quando la riconquista?
– Ma che ne so! È solo un racconto del cazzo!
– Ogni vita è un racconto. Anche la mia. Anche la sua. Dobbiamo essere consapevoli di quel che scriviamo.
– Questa me la segno.
– Quando la riconquista?
– …
– Quando?
– Quando rinuncia a volersi sentire al sicuro.
Lo psicologo non disse niente, poi mi offrí una Philip Morris. Fumammo in silenzio, fuori dalla finestra socchiusa due adolescenti aspettavano l’autobus tenendosi per mano.
Al termine della seduta tornai a casa di corsa, come se d’un tratto ne andasse davvero della mia vita.
Era cosí.
Paola era in piedi, al centro del soggiorno della casa in cui eravamo appena andati a vivere insieme.
– Devo parlarti, – dissi.
– Sono qui.
Scoppiai in un lungo pianto davanti a lei.
– Scusa, scusa, scusa. Basta copioni, promesso. Adesso sono io.
Lei mi guardò, mi abbracciò, mi baciò come se fossi un reduce appena tornato dal fronte. Nel bacio sentivo il sapore salato delle mie lacrime.
– Non m’importa se mi farai male, – dissi.
– Accadrà, – disse.
Lo psicologo mi chiamò tre giorni piú tardi, mi comunicò che avevamo finito.
Cinque mesi dopo nacque Virginia.
Noi siamo ancora qui.
1. I versi sono tratti dalla canzone Cucurrucucú Paloma, interpretata da Caetano Veloso (T. Méndez).
2. I versi sono tratti dalla canzone Il tempo di morire, interpretata da Lucio Battisti (L. Battisti / Mogol).
3. Il titolo del racconto è ispirato dal titolo film In mezzo scorre il fiume (regia di Robert Redford, 1992).
4. La frase è tratta da Walt Whitman, Il canto di me stesso, in Foglie d’erba, trad. di E. Giachino, Einaudi, Torino 2016.
5. Il verso è tratto dalla canzone Ragazzo fortunato, interpretata da Jovanotti (M. Centonze / L. Cherubini).
6. Il verso è tratto dalla canzone E se domani, interpretata da Mina (C. A. Rossi / G. Calabrese).