Pare che i nostri occhi mantengano sempre la stessa grandezza, dalla nascita fino alla morte.

S’ingrossa il cuore, i capelli crescono, i muscoli si gonfiano, le gambe si allungano. Gli occhi invece no. Quel che si modifica, nel corso della vita, è il nostro sguardo. Cresce con ciò che scegliamo di metterci dentro, si allarga quando prestiamo attenzione, si restringe con l’indifferenza. La pupilla, per esempio, si dilata del cinquanta per cento di fronte a chi amiamo, come per far passare piú luce. Si riduce quando siamo spaventati, o proviamo disgusto. Uno sguardo può contenere, escludere, accogliere, respingere. Proprio come un paio di mani, la vignetta di un fumetto, l’inquadratura di una foto. Per questo è importante verso cosa lo punti, il fuoco che scegli, l’attimo decisivo che illumina la vita e la trasforma in racconto.

In queste pagine ho scelto di illuminare le cose che per me hanno un senso: l’amore dove lo scorgo – compreso quello dal quale, per paura o vigliaccheria, sono fuggito –, la cura quando mi colpisce, il dolore da cui ho imparato, la bellezza in quel che c’è, anche quando arriva o è arrivata inattesa e quasi a far male. Soprattutto, quella che si annida negli angoli piú bui, attirandomi come un’esca. Accogliendomi come un’occasione. Quella rossa della passione, quella blu della nostalgia e della consapevolezza, quella verde della memoria e della scoperta. Che se le sommi insieme, proprio come nelle antiche teorie cromatiche, dànno il bianco della rinascita.

Ogni sguardo può essere rivolto all’interno, all’esterno, ai nostri piedi o alle nostre spalle. Al passato oppure al futuro. Quando guardiamo qualcosa del nostro passato lo chiamiamo ricordo, quando il nostro sguardo è rivolto al futuro lo chiamiamo progetto. L’unica direzione a cui non riusciamo mai a dare un nome diverso – è un vero mistero – è il presente. Non ci riusciamo perché ogni sguardo presuppone una distanza, mentre il presente è il tempo della prossimità, dell’immersione, in cui ci muoviamo troppo spesso come palombari in uno scafandro che ci tiene sí in vita, ma rende il corpo piú pesante e i riflessi piú lenti.

C’è però un tempo che contiene tutti gli altri, anche negli abissi piú profondi: è il tempo in cui siamo presenti a noi stessi. È lo sguardo dello stare, il momento che dobbiamo affrontare, comprende indifferentemente ciò che è accaduto o ciò che deve ancora venire. Rende tutto: qui. È il perimetro del disegno, il vestito della scrittura, il luogo delle storie che accadono, soprattutto quelle d’amore. Vissute, immaginate, sperate, fallite, non fa differenza. Purché alla fine, nel setaccio dello sguardo, rimanga un granello di verità.

Ho scoperto che quel granello, per me, brilla di piú se lo scovo dietro il travestimento dell’ordinario: impigliato negli angoli d’un paio d’occhi, fra le pieghe di un cappotto fuori moda, nel ricordo di un bacio alla stazione, nel campanello di una bicicletta. Quando ci riconosciamo nelle vite degli altri, o ritroviamo noi stessi nella nostra.

Nell’istante in cui intravedi la bellezza lí nel setaccio, che affiora.

Mentre la vita che ti chiama è tutto l’amore da scrivere, ancora.