Le risposte che contano.

La mappa della mia vita sta in un enorme cassetto bianco.

Lo chiamo «il cassetto della morte».

Ci butto dentro da sempre le cose che non ho tempo di catalogare, le carte sopravvissute ai traslochi, i documenti importanti, i diari che tenevo al liceo, i vecchi abbonamenti degli autobus, le foto in attesa di destinazione costrette a una convivenza sedimentaria. Le butto lí perché m’illudo che, se stanno in un unico posto, quando mi serviranno le troverò di sicuro.

Ieri mattina dovevo cercare un vecchio libretto degli assegni per restituirlo in banca, ho rovistato nel cassetto, non sono riuscito a scovarlo.

Ho ritrovato invece la brutta copia di una lettera che mi ha aperto a metà. È lunga otto pagine.

È una lettera d’amore scritta a biro verde su fogli a quadretti, la calligrafia frettolosa e storta di chi ha premura, con la quale cercavo di riconquistare una ragazza che mi aveva lasciato.

Comincia con tono incazzoso, finisce che le dico che la amo.

La scrissi millenni fa, la bella copia andai a imbucarla personalmente nella sua cassetta delle lettere facendomi dodici chilometri in bici, alle cinque del mattino, solo per non essere visto. Ricordo ancora che la prima frase la rubai da un libro di Octavio Paz, e consideravo quanto stesse meglio nella lettera mia che nel libro suo.

Lei non mi rispose mai.

Avevo sempre sue notizie frammentarie, attraverso amici comuni, le solite cose. Chi mi diceva di averla avvistata al Valpolicella Rock Festival a limonare con uno, chi la dava per certa in Brasile o giú di lí. Chi mi diceva è da maggio che sta con Giorgio, non lo sapevi?

Io non riuscivo a farmene una ragione, ero ossessionato.

Una sera la intravidi per puro caso all’interno di un bar, mentre passavo davanti alla vetrina, e feci la mia mossa. Bloccai un indiano di quelli che vendono le rose, e cercando di spiegarmi meglio che potevo nel mio esperanto veronese-inglese gli diedi ventimila lire e gli intimai di filare dentro il bar e consegnare tutte le rose che aveva alla ragazza là in fondo, quella bellissima e splendente come la rugiada del mattino.

Ho sempre avuto un po’ di problemi con l’inglese. Infatti il tipo entrò e io dal vetro fui costretto ad assistere all’agghiacciante scena di ’sto venditore maledetto che andò a distribuire a TUTTE le donne presenti nel locale una rosa a testa, implacabile e fulmineo, dopo essersi intascato tutti i soldi che avevo.

Quando l’indiano m’indicò attraverso il vetro, come a dire «eccovi il genio», e l’intero bar si voltò a fissarmi tipo pesce palla in un acquario, compresi per la prima volta il vero significato della parola «umiliazione» (o figuremmé, recita il vocabolario dei sinonimi). Dopo quel giorno, niente riesce piú davvero a farmi del male.

Rividi la ragazza tempo dopo a una festa, in quelle scintillanti condizioni da sabato sera a trent’anni. Si era laureata da poco, io ero diventato architetto, lei aveva una borsetta blu coi brillantini che m’ipnotizzava, parlammo fitto per mezz’ora con i gin tonic che annullavano lo spazio-tempo.

Mi resi conto che il tono incazzoso era sparito del tutto, l’amore invece no.

Ci scambiammo i numeri di telefono – il mio era rimasto lo stesso – qualche giorno piú tardi le mandai un sms che terminava con una domanda, che com’è noto è la regola base per suscitare un messaggio di replica.

Non mi rispose nemmeno allora.

Finí in quel momento anche per me, non ci ho piú pensato fino a ieri.

Mi è venuto in mente che l’amore certe volte termina cosí, sospeso e privo di soluzione, come quei problemi che non abbiamo fatto in tempo a risolvere sui quadernoni delle vacanze estive.

Finisce non quando smettiamo di fare le domande, ma quando non arrivano piú le risposte.

Negli anni magari te ne arrivano altre, a domande che non sapevi nemmeno di avere fatto, contenute in lettere che non hai mai scritto: sono le risposte che contano.

Il mondo intero.

Il ragazzo gracile che fa il barista in stazione a Piacenza prepara cappuccini buonissimi, li serve con un sorriso e un cuoricino disegnato col cacao in polvere, alle ragazze li fa piú grandi. Ha un’età indefinibile, un marcato accento del Sud, negli occhi un velo d’indelebile malinconia di cui non t’accorgi subito – ma due caffè e un muffin ai mirtilli possono essere un tempo sufficiente – che i piccoli occhiali tondi non riescono a celare del tutto. L’agitata lentezza dei suoi gesti mi racconta biografie possibili. Magari vive lontano dalla sua famiglia, ha un capo che lo tratta con arroganza, di notte gli capita di sognare una ragazza gracile come lui ma con gli occhi che ridono. Forse è solo una giornata storta.

Il signore anziano che mentre sono fermo in auto attraversa le strisce con la mano tesa in avanti, come si faceva un tempo, anche se è verde, vive in un passato che lo riscalda piú del giaccone che indossa, e visto dall’osservatorio del qui suscita tenerezza. Mi ricorda mio nonno che per segnalare la svolta in bici buttava tutto il braccio in fuori, poi sterzava all’improvviso e imboccava la strada senza manco girarsi, con la fiducia autoritaria che contraddistingue gli uomini di quelle generazioni.

La ragazza che fa la cameriera nel bar gestito dai cinesi a Mantova, mentre serve ai tavoli ha quell’aria da bestia addomesticata, come se stesse subendo un’ingiustizia. Ha pantaloni a vita bassa, i capelli rasati ai lati, una maglia viola vistosamente scollata con le maniche tirate su. Le maniche arrotolate lasciano intravedere un tatuaggio sull’avambraccio sinistro, il tatuaggio è una delicata rosa rossa che fa a pugni con la sua espressione truce. Quando torna al bancone col vassoio vuoto, la titolare cinese tratta la ragazza con gentilezza, gli ordini che impartisce sembrano quasi delle scuse, lei invece la guarda con supponenza. Nessuna delle due era pronta a trovarsi lí. Ciascuna vive la cosa a modo suo.

Una voce di donna arriva dalla strada e chiama: – Marta! Marta! – giú per la discesa. Una voce di bambina dice: – Arrivo! – Marta mi passa davanti in sella a una bicicletta rossa, suona il campanello sul manubrio, in fondo alla strada la mamma ha le braccia aperte come se dovesse afferrare il mondo intero.

Gli arancini e la nebbia (A light in the fog).

Sul treno per Torino, di fronte a me, c’è un’anziana coppia.

Sono seduti dalla parte opposta del corridoio rispetto alla mia fila.

La signora è esile, minuta, tiene su il cappotto anche col riscaldamento a palla, ha una sciarpa di lana che le fa tre giri attorno al collo, indossa una vezzosa forcina celeste sui capelli che fa pendant coi suoi occhi grigioazzurri. Lui è corpulento, ha le gote rosse per il caldo, indossa una camicia a scacchi stile boscaiolo sbottonata per metà sul davanti. Hanno sollevato il bracciolo di mezzo dei due sedili in modo che lei possa stare appoggiata a lui, sembrano due piante cresciute troppo vicine, una quercia che offre sostegno a un salice piegato dal vento. Lui guarda fuori dal finestrino un panorama avvolto nella nebbia, ha un profilo che pare quello di un pugile. Si volta senza preavviso.

– Hai fame, amo’? – dice.

– Giusto ’nu sfizio, – dice lei.

Il salice si raddrizza, la quercia si tira in piedi, sfila dal vano portabagagli una borsa morbida di stoffa bianca. Ne estrae un contenitore di quelli da frigo, una bottiglia di vetro con un tappo giallo piena di vino rosso per metà, mezzo litro d’acqua in una bottiglietta di plastica. Apre entrambi i tavolini, quello suo e quello di lei, vi posa tutto sopra. Toglie il coperchio al contenitore con accortezza, quasi fosse uno scrigno, ne tira fuori qualcosa che somiglia a una polpetta, o a un arancino di riso, ha un profumo di limone e spezie che arriva fino a qui. Lo consegna alla signora, ne prende un altro per sé. A un certo punto fa una faccia come se si fosse dimenticato qualcosa d’importante, si batte la fronte con tre dita.

– I bicchieri, – dice.

– Li avevo messi ’ncoppa a’ madia, – dice lei.

– E fa niente, amo’, – dice lui.

Con il pollice toglie al vino il tappo giallo, è uno di quelli che restano attaccati alla bottiglia come una bandierina. Ne ingolla un lungo sorso, lo passa alla signora, la signora posa il suo arancino e afferra la bottiglia con due mani. Beve, il vino le va un po’ di traverso, tossisce due volte addosso a lui.

– Ah, t’agg’ sbrodolato ’a cammesella, amo’, – dice lei.

– Fa niente, amo’, tanto nun se vede, – dice lui. – Ce sta ’a nebbia.

La signora sorride mostrando dei denti piccoli che sembrano quelli di una bambina, lui le passa un braccio attorno alla spalla e la tira piano verso di sé.

Le dà un bacio sui capelli proprio sopra la forcina celeste.

In tutto il vagone si spande un profumo buonissimo.

Will Hunting.

– Ah, quindi tu saresti un geometra?

– Architetto.

– Architetto.

– Già.

– E cosa… architetti?

– Mah, prima facevo piccole ristrutturazioni per privati, adesso invece lavoro nell’Ufficio tecnico del Comune. Architetto principalmente piazze, biblioteche, rotonde. Un sacco di rotonde.

– Cioè, le rotonde le architettano prima?

– Eccerto.

– Io mi credevo che le facessero cosí.

– Cosí come?

– E che ne so, cosí. Pensavo che aveste, non so, un coso.

– Un coso?

– Un coso apposta. Un rotondometro.

– Ahahaha, magari. La realtà è che invece sono sempre grandi sbattimenti. Grandissimi.

– Ma le rotonde non sono tutte uguali, scusa?

– Be’, non proprio.

– Sono tutte rotonde, no?

– E che vuol dire. Anche i marciapiedi sono tutti dritti ma in realtà sono differenti l’uno dall’altro. Bisogna progettarli uno alla volta, ogni volta.

– Progettarli?

– Certo.

– Dài, mi stai prendendo in giro.

– Ma no, te lo giuro, perché dovrei?

– Di che segno sei?

– Eh?

– Di che segno sei? Dimmelo.

– Indovina.

– E come faccio a saperlo? Non ti conosco per niente.

– Ma prova, dài, leggi i segnali.

– Mmh, vediamo, allora…

– Spara.

– Secondo me sei capricorno.

– …

– Che c’è?

– Non ci credo.

– Ho indovinato?

– È pazzesco, come diavolo hai fatto?

– Ahahaha. Io non te l’ho detto, però…

– Però?

– È che in realtà sono un po’ strega.

– Ussignúr.

– Ti giuro, mi capita di continuo. Tipo che ho predetto alla mia migliore amica che era incinta, prima ancora che lei facesse il test. E la settimana scorsa, per esempio, ero in ufficio e il mio capo mi ha chiesto: «Marinella, secondo lei me lo porto l’ombrello?» e io gli ho risposto: «Secondo me, sí», e le previsioni davano sereno e invece alle quattro è venuto giú un acquazzone da fare spavento.

– Ma sai che me lo ricordo? Ero fuori in bici e me la sono presa tutta.

– Ecco, visto? Comunque va detto che nel tuo caso indovinare è stato abbastanza facile.

– Davvero? Sono cosí banale?

– Ma no. È che quella cosa lí del prendere in giro è tipica dei capricorni.

– Ma non ti ho presa in giro.

– E dài, su, e la storia delle rotonde?

– Ma non ti prendo in giro, ogni rotonda è diversa! Può essere piú stretta, piú larga, può innestarsi su un incrocio che prevede quattro uscite, tre, sette. Può posizionarsi dopo una curva, essere in asfalto, in porfido, avere al centro un lampione o un manto erboso o degli olivi, perfino del rosmarino. Tre mesi fa ne ho progettata una che, per farla, abbiamo dovuto prevedere la demolizione di un edificio. Tutto questo va pensato prima, controllato, calcolato in ogni passaggio. Non sono tutte uguali, te l’ho detto!

– Comunque anche questa cosa è tipica.

– Quale?

– Quella di infervorarsi quando qualcuno ti sgama, è tipica vostra.

– Vostra chi?

– Dei capricorni.

– Ma non è vero!

– Certo che è vero. Guarda come ti infervori.

– Ma non mi sto infervorando! È solo che mi dici delle cose che…

– Ma non te le dico mica io eh, sono le stelle.

– Allora le stelle si sbagliano, su tutta la linea.

– E come lo sai?

– Lo so e basta.

– Vedi? Pure questa è capricorno doc, la presunzione di sapere tutto.

– Sono scorpione.

– Eh?

– In realtà sono scorpione. Ascendente scorpione, pure.

– Aspetta, vuoi dire che mi hai mentito?

– Ma no, che mentito. È che mi dispiaceva… deluderti.

– Vedi, io l’avevo capito subito.

– Cosa?

– Che sei un ballista patentato.

– Ma no, non prenderla cosí, era solo per giocare, dài. Poi te l’avrei detto, giuro. Comunque scusa, da cosa l’avresti capito?

– Da quella storia delle rotonde.

– Ma sulle rotonde ti ho detto la verità!

– E poi il capricorno è il segno dei mentitori.

– Ma non sono capricorno, te l’ho appena detto!

– E pretendi pure che ti creda? A un capricorno?

– Guarda, facciamo cosí.

– Come?

– Ti mostro la carta d’identità. Tieni.

– …

– Lo so, nella foto sembro Marco Columbro.

– No, va be’, non è possibile.

– Ti ringrazio, in effetti qualche anima pia ravvisa somiglianze lontane con Andy García.

– Non dicevo quello.

– Allora di che stiamo parlando?

– Siamo nati lo stesso giorno!

– Eh?

– Stesso mese e stesso giorno!

– Giura!

– Davvero! Ora mi spiego un bel po’ di cose.

– Quali cose?

– Questa tua forma di raffinato umorismo, per esempio. Che sembra che tu stia prendendo in giro l’interlocutore, e invece stai costruendo a poco a poco una sottile complicità, quasi una sintonia.

– Ah.

– E anche questo fatto che sembra che ti arrabbi, invece è solo la scorza esterna che mostri, che butti avanti, per paura di scoprirti e per il timore che si veda quanto sei appassionato alle cose che fai.

– Scusa, fino a un minuto fa ero un mentitore seriale, e adesso d’un tratto sono diventato Will Hunting genio ribelle?

– Prima era un po’ per giocare, dài, lo hai detto anche tu, no? Non prenderla sul personale. Comunque una cosa la devo proprio ammettere.

– Dimmi.

– Che sei bravo, davvero.

– Grazie. Ma, bravo in che senso?

– Be’, prendi per esempio quella cosa lí delle rotonde, quando hai detto che le progetti una per una.

– Sí.

– Per un attimo stavo quasi per crederti.

Apri gli occhi.

Ricevetti il primo pugno in pieno viso a nove anni, per difendere la Martina che mi piaceva da uno di undici. Quando la Martina mi vide sanguinare ai suoi piedi e urlò: «Che schifo!» con l’aria di una che ha appena ingoiato una cimice e scappò via lasciandomi rantolante nel prato, appresi due delle lezioni piú importanti della mia vita. Se l’ostacolo è grosso, colpisci sempre per primo. In fatto di donne, hai dei gusti terribili. Sulla seconda ho recuperato in seguito. Sulla prima ancora m’incarto, perché tendo troppo spesso a concedere il beneficio del dubbio.

Quando una bambina che non avevo mai notato mi s’inginocchiò accanto e mi pulí il sangue dalla faccia, prima con la mano e poi coi suoi capelli, appresi la terza e piú importante lezione: abbi sempre fiducia in ciò che ti capita, anche in quelle che sulle prime possono apparirti situazioni di merda. Che non sei poco furbo se le prendi, o quando cadi, lo sei ogni volta che non trovi la forza di correre un rischio, solo per paura. Perché i pugni presi in maniera onesta non ti chiudono gli occhi.

Te li aprono.

Autobus.

La ragione per cui molte relazioni entrano in crisi è che le donne smettono quasi sempre di essere le ragazze che gli uomini avevano conosciuto. Questo è quel che pensano gli uomini. Non sei piú quella di prima. Non facciamo piú l’amore sei volte a settimana. Perché mi guardi con quegli occhi.

La ragione per cui molte relazioni entrano in crisi è che gli uomini non diventano quasi mai quel che le ragazze che li avevano conosciuti avevano sperato. Questo è quel che pensano le donne. Sei rimasto sempre uguale. Pensi solo a quella roba lí. Perché non mi guardi piú con quegli occhi.

In realtà non c’entrano uomini e donne, o donne e uomini, o uomini e uomini, o donne e donne. La verità è che in ogni relazione c’è uno che cambia e uno che resta piú fermo. Ognuno dei due percepisce il cambiamento dell’altro – perché anche restare fermi lo è, dal punto di vista di chi invece si sposta – come una specie di tradimento. Un’infedeltà. Non sei piú quello che.

È un altro modo per dire che l’amore, in genere, comincia quando due persone si riconoscono. Finisce quando non si riconoscono piú. Non finisce, in realtà. È che c’è sempre uno dei due che si stanca di aspettare l’arrivo, o il ritorno, dell’altro. Certe volte accade a entrambi.

Ogni relazione è come una strada che alcuni percorrono in autobus, altri a piedi. Per i primi, i secondi saranno sempre troppo lenti. Per i secondi, i primi saranno sempre troppo veloci.

Forse basterebbe solo smetterla di aspettarsi come fosse sempre l’altro a doverci raggiungere, nel punto preciso in cui abbiamo deciso di stare.

Cominciare a non lasciarci indietro, proprio come se stessimo camminando insieme, o fossimo abbracciati sugli ultimi sedili di un autobus, a ridere come scemi per il solo fatto di essere lí. Come fossimo ancora quel ragazzo, quella ragazza – ciò che siamo anche quando non lo ricordiamo –, quelli che vivono custoditi dentro lo sguardo di chi ci ama. Quelli che non devono aspettarsi, perché sono sempre stati lí.

Quelli che sanno che, se l’amore ci sceglie, amare invece si sceglie, ogni giorno, anche abbracciati sui sedili di un autobus.

Storia di Mario.

Mario lo incontro sempre al bar della Marisa.

Ha ottantaquattro anni ben portati, lo trovi seduto al tavolino in fondo col suo quaderno a quadretti e la matita gialla con la punta troppo corta. Dalla Marisa beve un bicchiere di vino rosso al giorno, uno solo, alle nove del mattino in punto e a stomaco vuoto, poi va a casa.

Un giorno gliel’ho chiesto, a Mario: ma cos’è che scrivi sempre sul quaderno? E Mario mi ha raccontato la storia di come ha fatto a conoscere la Jole.

La Jole era vedova di guerra e aveva quasi vent’anni piú di lui. Mario faceva il garzone del lattaio, le portava tutti i giorni un litro di latte che lasciava nella cassetta di legno al cancello. A Mario la Jole piaceva tantissimo perché era una di quelle donne pratiche e senza tanti grilli, e poi quando la vedeva ridere gli veniva la sindrome di Pascal, e te lo diceva talmente convinto che non ti sentivi di correggerlo perché pensavi che, chi lo sa, magari esiste pure quella sindrome lí.

Comunque Mario, dentro la cassetta del latte, alla Jole metteva sempre un bigliettino con una frase romantica, uno al giorno. Come nei cioccolatini di adesso quelli con la mandorla, mi ha detto.

La Jole non gli rispose mai, o comunque non mostrò segni di particolare apprezzamento. Però nemmeno di fastidio, perciò Mario continuò coi bigliettini, per quasi un anno.

Un lunedí la Jole lo invitò dentro a bere un bicchiere di vino rosso, fuori c’era la neve.

– Mario, – gli disse la Jole, – ma tu ce l’hai mica una morosa?

– No, – disse Mario.

L’indomani la Jole lo invitò dentro di nuovo, ma stavolta non parlarono, e poi nei giorni seguenti ancora, e ancora.

Un giorno Mario glielo chiese, alla Jole. Ma perché non mi hai mai risposto ai bigliettini?

Venne fuori che la Jole non sapeva leggere né scrivere, e si sarebbe vergognata da morire a farseli leggere da qualcun altro. Ma li aveva conservati tutti.

Allora Mario li lesse alla Jole a voce alta, di seguito e proprio come fossero un libro, e fu lí che Mario scoprí che la sindrome di Pascal gli veniva anche quando vedeva la Jole piangere.

Mario e la Jole hanno vissuto insieme quarantasette anni, poi la Jole è morta.

Mario continua a scriverle tutti i giorni.

Ogni cosa ha un prezzo.

Era autunno ed ero a cena a casa di Fabio.

Fabio aveva appena concluso una storia con una ragazza strana e fragile, che una parte di me aveva odiato a prima vista, e si trovava nella delicata fase del dopobomba psichico e della ricostruzione dell’autostima. Io avevo da poco dato l’esame di Progettazione architettonica 2, al termine di un anno estenuante, ed ero in quella fase in cui il mondo ti appare come un’ostrica pronta a dischiudersi solo per te.

Entrambi non sapevamo bene cosa fare della nostra nuova libertà.

Quella sera avevamo deciso di uscire, ma Fabio all’ultimo aveva preferito stare a casa, con uno di quei tipici sbalzi d’umore da uomo ferito e depresso.

– Stasera muoio sul divano, – disse lui. – Mi finisco il vino e poi mi faccio una sega guardando le pubblicità in tv, – sentenziò.

Mi ritrovai solo nella notte veneziana, carico di un’euforia che a casa di Fabio avevo dovuto contenere, per una fraterna e ipocrita forma di rispetto.

Camminare di notte a Venezia è un’esperienza che si dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Non parlo della Venezia turistica, cialtrona, ma di quella città oscura, nascosta, misteriosa e al contempo familiare che ti accoglie tra le sue calli come una vecchia nonna, facendoti sentire protetto anche da te stesso.

Per me è significativo che la città piú bella del mondo puzzi sostanzialmente di merda, suona quasi come un monito. Ogni cosa ha il suo prezzo, sembra dire.

Se cammini di notte a Venezia non hai paura, soprattutto se hai bevuto un po’. Fai chilometri senza accorgertene e vorresti non finisse mai. È come una specie di meditazione con il corpo in movimento. Quella sera la mia meditazione etilica venne interrotta di colpo.

Superato campo San Polo, appena voltato il vicolo, fui investito in pieno da un missile piovuto dal cielo. Mi ritrovai a terra dolorante, senza capire bene cosa fosse successo.

Guardai verso l’alto, dal buio emerse una voce femminile.

– Oddio scusa, scusa scusa. Non ti avevo visto!

– Ma porca merda! Ma butti sempre la spazzatura cosí, tu? Dalla finestra?

– Scusa, – ripeté ancora la voce, – è che non si vede niente, e poi di solito di qui non passa mai nessuno!

– Va be’, dài, – dissi rialzandomi e cercando di ripulirmi.

– Ma non ti ho fatto male, vero?

– No, non mi pare. Per fortuna non sei una di quelle che butta il vetro insieme a tutto il resto, sennò potevo essere morto!

Udii il suono della sua risata verdeazzurra, qualcosa dentro di me disse «ecco».

– Dài, se sali ti offro un caffè per farmi perdonare, – disse la voce.

Non so perché, forse l’alcol o la botta in testa, ma una parte di me guardò in su e scorse una porzione del suo viso, l’occhio sinistro e il naso illuminati appena dalla lampada della cucina, e registrò il comando «sali» come a dire: Sali.

Senza quasi accorgermene, mi ritrovai ad arrampicarmi sulla facciata della casa. Detta cosí pare difficile, ma a Venezia le case sono di mattoni e pietra e sono percorse da cavi e condutture che manco i vicoli di Harlem.

– Ma che fai?!

Mi resi conto di quel che stava accadendo quando ero ormai aggrappato al davanzale della finestra del secondo piano. Ancora oggi penso che sia uno dei gesti piú autentici che io abbia mai fatto in vita mia.

– Tu sei tutto scemo, – mi disse la voce, tendendomi entrambe le mani. Non feci in tempo a prenderle, caddi all’indietro nel vuoto, mentre precipitavo pensavo ogni cosa ha un prezzo.

Atterrai sul tallone sinistro, si frantumò.

Chiara fu la prima ragazza per cui rischiai la vita in senso letterale, la prima storia che cominciai zoppicando sulle stampelle.

Nessuna delle due cose riuscí a fermarci.

La parte in mezzo fu una meraviglia, poi la merda prese il sopravvento, Venezia ha sempre ragione.

Nessuno saprà.

Una cosa di cui ti rendi conto quando viaggi molto, soprattutto se prima non eri abituato a farlo mentre ora ti tocca, spesso, passare da una città all’altra a un giorno di distanza, è che piú o meno dappertutto ci sono i messaggi d’amore scritti sui muri delle stazioni, quasi sempre buttati in vacca da scritte aggiuntive – che la tentazione di pisciare sulla bellezza resta uguale ovunque –, le mamme che al mattino portano a scuola i figli piccoli in braccio, i mendicanti fuori dai bar, le librerie indipendenti con le porte socchiuse, le attese apparentemente prive di scopo, i ragazzi che la mattina presto si soffiano nelle mani mentre aspettano il treno, quelli che si baciano alle fermate degli autobus, i numeri di telefono scritti con l’Uniposca sulle panchine scrostate, le file di auto con dentro una persona sola, la gente che fuma fuori dai locali fissando il telefono, le donne con gli occhi tristi, gli uomini con gli sguardi persi, i ristoranti col menu a dieci euro, la gentilezza inattesa, le incazzature impreviste, la bellezza dell’arrivo e la piccola malinconia in ogni partenza che ti fanno pensare: se ogni partenza ha un ritorno, anche ogni ritorno è una partenza da un luogo che, sia pur per poco tempo, è stato casa tua.

Una cosa di cui ti rendi conto quando viaggi molto, soprattutto se prima non eri abituato a farlo mentre ora ti tocca, spesso, passare da una città all’altra a un giorno di distanza, è che ogni posto, con un po’ di impegno, potrebbe diventare casa tua, e forse ogni posto in fondo lo è. Questo cambia la tua visione del mondo, l’approccio a luoghi e persone, ma ti fa anche capire che casa tua rimane quel posto dove non c’è solo la bellezza che ti capita ma principalmente quella che hai scelto, quella che è lí proprio perché tu la vuoi. E che la differenza fra le due è che mentre la prima presuppone occhi buoni per vederla, orecchie attente per ricordarla, attitudine ad accoglierla, la seconda ha bisogno soprattutto di mani per prendersene cura, tempo per farla crescere, aria per non soffocarla, voglia di tornare ogni volta a vedere che è successo mentre non c’eri, accorgerti ogni volta che mentre non c’eri qualcun altro ha provveduto e che i piccoli tempi hanno fatto il loro lavoro anche senza di te, che credevi di essere indispensabile.

Tu in cambio porti visioni di altri posti, ascolti di altri luoghi, libri comprati in librerie con le porte socchiuse, piccoli sensi di colpa impacchettati in carte colorate, il ricordo di una minuscola scritta d’amore in stazione, al binario 4, nessuno saprà mai ch’è la tua.

L’amore e i brandelli.

Stanotte non riuscivo a dormire, sono giorni di piccoli problemi, cose da aggiustare, quando l’assedio dei pensieri ha avuto la meglio mi sono alzato nel buio. Sono andato in cucina, ho messo su il caffè, sul tavolo nero c’era una pila composta da vecchi giornali, qualche scontrino, una pubblicità di Gardaland e in cima a tutto, in precario equilibrio, una vecchia foto di Paola.

È un’immagine che non avevo mai visto, un bianco e nero potente, nella foto Paola avrà circa vent’anni. Ha i gomiti poggiati su un ripiano, la testa fra le mani, la bocca imbronciata appena. Una montagna di capelli ricci fa da cornice a due occhi nerissimi e liquidi, che ti guardano dritti con una punta di malinconia che ti trafigge. È di una bellezza che non so. Sono rimasto a fissarla ipnotizzato per qualche minuto, quasi intimorito, al freddo delle tre di mattina, e c’è stato un attimo in cui non ero piú io che la guardavo, non i miei occhi, ma quelli di un ragazzo di vent’anni. D’un tratto ho avuto la precisa, cristallina consapevolezza che se ci fossimo conosciuti allora una cosí mi avrebbe fatto a brandelli. Mi è venuto da ridere quando ho pensato Perché? Vent’anni dopo è forse successo qualcosa di diverso?, e allora ho pensato che la differenza fra me e quel ragazzo, e forse anche fra Paola e la ragazza della foto, è solo che con gli anni, i brandelli, diventiamo tutti piú bravi a nasconderli, per pudore o paura chissà. Te lo ricordi in cucina, guardando una vecchia foto, mentre quella ragazza è nel letto di là che dorme coi suoi brandelli e tu sei in piedi coi tuoi, e capisci che l’amore che resiste non li esibisce come bandiere, ma coi brandelli di entrambi riesce a cucire una coperta che ti scalda e tiene lontano il freddo, quello vero, anche alle tre di mattina.

Le ragioni per cui.

Quando avevo cinque anni mi iscrissero al mio primo concorso di disegno.

Mio padre comprava una rivista, si chiamava «Presa Diretta». La rivista indisse un concorso per artisti, si trattava di fare un disegno a colori a tecnica libera. Non ricordo un tema specifico, forse era obbligatorio ci fosse un’auto, non so.

Comunque, io ero solo un bambino che amava disegnare e non un artista, perciò feci il bambino e disegnai la mia famiglia durante una delle tipiche e assolate scampagnate primaverili degli anni Settanta, quelle delle uova sode verdi e l’insalata di riso e le coperte a quadri stese sull’erba bagnata e il Super Tele di plasticona che se lo calciavi forte faceva le traiettorie alla Mark Lenders.

Nel disegno rappresentai: mio padre, mia madre, mia sorella, il nostro cane Minú, il tavolino da campeggio aperto davanti alla nostra fiammante Renault 4 rossa. Un sole cosí giallo che non bucai il foglio per un soffio.

Incredibilmente, vinsi.

Incredibilmente perché il concorso era senza limiti d’età, cioè non era un concorso per bimbi e basta, e la rivista era una rivista «seria» e a tiratura nazionale. Ma andò cosí.

Il premio fu la pubblicazione del disegno a tutta pagina sulla copertina del giornale, quindi penso a buon titolo di poter dire che la mia prima pubblicazione sia stata nel 1977.

Ma quello fu solo il riconoscimento. Il premio vero, ufficiale, tangibile, era un quadro di un pittore famoso.

Il quadro mi arrivò a casa circa un mese dopo. Era enorme, aveva una cornice marrone scuro di finto legno ricoperta da una lastra di vetro. Era un misto figurativo-astratto di cui oggi rammento con chiarezza solo una specie di colomba, o delle ali, boh.

– El fa cagàr, – furono le prime parole di mio padre quando scartò il quadro.

Mio padre era ed è un bravo pittore e, probabilmente, aveva pure ragione. Commise però l’errore di insultare il mio premio, e di farlo a voce alta. Ricordo che mi arrabbiai moltissimo, che a quei tempi mi arrabbiavo ancora con mio padre senza considerarlo tempo perso. Aveva insultato il mio premio, il premio che mi avevano dato. Per il mio primo concorso. Al quale mi aveva iscritto lui. Come poteva?

Credo sia stato per farsi perdonare che decise di appendere il quadro sopra la madia all’ingresso. Mio padre, che per una contorta forma di pudore non ha mai appeso in casa un quadro dipinto da lui prima dei sessant’anni. In compenso dopo ha recuperato con gli interessi tappezzando le pareti di qualsiasi cosa, per una contorta forma di egocentrismo che ti parte dai sessantuno, o forse perché non gliene fregava piú un cazzo di fare il finto umile. Quindi penso che per lui sia stato comunque uno sforzo notevole.

Fatto sta che quel quadro orribile, il mio premio, rimase appeso sopra la madia per sette anni.

Poi traslocammo, e «casualmente» il quadro andò perso, insieme al mio cane Minú che nella nuova casa non sarebbe potuto stare per via del regolamento condominiale da Gestapo.

Passarono quasi undici anni prima che partecipassi a un altro concorso. Era il primo concorso indetto dalla neonata associazione culturale Lo Spazio Bianco di Alassio. Era richiesto di realizzare una tavola a fumetti a tecnica libera.

Nella mia tavola disegnai l’ultimo giorno di vita di un eroinomane. Sbagliai con la china alle otto di sera del penultimo giorno utile per la spedizione. All’epoca non sapevo come correggere, non conoscevo tempera bianca né pecette, non esisteva Photoshop. L’unica soluzione era ricominciare tutto da capo. Inaugurai cosí la prima notte in piedi della mia vita per una tavola a fumetti. Consegnai in ritardo o fu colpa delle poste, fatto sta che la mia pagina arrivò fuori tempo massimo per tre ore. Mi squalificarono.

Andammo ugualmente ad Alassio a vedere la mostra dei partecipanti. Per la prima volta ammiravo delle tavole a fumetti «vere», dal vivo. Fu uno shock. Credo fosse rimasto colpito pure mio padre, perché alcuni lavori erano davvero belli. Illuminanti, per me.

Usciti dalla mostra andammo a mangiare la focaccia in riva al mare e io decisi che da grande avrei fatto i fumetti. Lo confessai a voce alta. Mio padre non disse niente.

Fu la seconda volta in vita mia che lo decisi, in verità. La prima era stata nel 1978. Subito dopo aver terminato la lettura di «Devil Gigante» n. 15 dell’Editoriale Corno disegnato da Gene Colan, quello dove fece il suo ingresso Jester.

In seguito l’avrei deciso molte altre volte, nel corso degli anni. Anche mentre facevo la facoltà di Architettura. Anche quando mi licenziai dall’Ufficio tecnico. Lo decido anche adesso, quasi tutte le mattine.

Un mese fa, durante un pranzo domenicale coi miei, mi sono intrufolato con la figlia maggiore nello studio di mio padre lasciato aperto.

Ho scoperto il mio quadro orribile del premio, quello casualmente andato perso, girato al contrario e nascosto dietro un cavalletto. Sul retro del quadro c’è scritto in rosso maiuscolo «MATTEO, millenovecentosettantasette» sottolineato due volte.

– Papà, perché ridi da solo?

– Niente, Virginia. Hai un papà scemo.

– Hai una lacrima qui.

– Sí. Vieni, usciamo, che il nonno sta tornando.

La pizzetta (La vita e il resto).

Stamattina, dopo aver accompagnato le bambine a scuola, sono passato in panetteria.

Una commessa è uscita da una tenda a righe bianche e verdi. Ho chiesto una pizzetta coi würstel. La commessa l’ha presa con una pinza argentata, l’ha infilata in un sacchetto bianco di carta, è andata alla cassa.

– Un euro, – mi ha detto.

Ho aperto il portafogli e, con mia grande sorpresa, ho scoperto di essere senza soldi. Mi sono frugato anche nelle tasche, ma niente.

– Posso pagare col bancomat? – ho detto.

– No, il bancomat è rotto, – ha detto. – E poi per un euro.

– Allora senta. Verso le undici dovrò uscire di nuovo, posso passare e portarle l’euro piú tardi? Abito qui vicino, giuro, non scappo in Brasile con la pizzetta, – ho detto ridendo.

La commessa mi ha squadrato.

– No, – ha detto, guardandomi come fossi un pezzente.

Ha tolto la pizzetta coi würstel dal sacchetto di carta e l’ha rimessa in esposizione al banco, mi ha dato le spalle ed è sparita dietro la tenda.

Io sono rimasto lí, con la mia voglia di pizza in gola, e per un attimo mi sono sentito nudo, ho provato una sottile vergogna. Ho pensato a quelli che sono costretti a sentirsi cosí tutti i giorni, persone a cui la vita è andata male, che devono subire di continuo sguardi come quello. Stavo quasi per incazzarmi, poi ho pensato che la commessa, dal suo punto di vista, aveva ragione. Sono uscito, sono salito in auto, sono andato a fare bancomat, ho prelevato una banconota da cinquanta. Sono tornato in panetteria. La commessa è uscita dalla tenda a righe bianche e verdi.

– Vorrei una pizzetta coi würstel, – ho detto.

La commessa mi ha squadrato.

Ha preso la pizzetta con la pinza argentata, l’ha infilata nel sacchetto bianco, è andata alla cassa.

– Un euro, – ha detto.

Ho estratto il portafoglio e le ho allungato la banconota da cinquanta.

– Non ce l’ha un euro? – ha detto.

– No, – ho detto.

– Non so se ho da darle tutto il resto, – ha detto, – mio marito è uscito ora a cambiare.

– Fa niente, – ho detto, – il resto passo a prenderlo piú tardi.

La commessa mi ha guardato come fossi deficiente.

– Se sta bene a lei, – ha detto.

Ho preso il sacchetto bianco e sono uscito. Ho fatto due passi e sono andato al parco. Ho mangiato la pizzetta seduto su una panchina, il cielo minacciava pioggia.

La pizzetta era buonissima.

La ragazza del Costa Rica.

In quarta liceo arrivò a scuola una ragazza del Costa Rica.

Si chiamava Laura, il preside ce la presentò dicendo: – Da oggi avrete in classe una compagna che profuma di caffè, – che è un po’ come se io andassi in una scuola francese e mi additassero come quello che profuma di pizza margherita.

Laura aveva una cascata di treccine nerissime, gli occhi piú azzurri che io abbia visto mai, un delizioso e buffo accento sudamericano e sulla guancia una piccola voglia a forma di stella. In piú, aveva il senso dell’umorismo e capiva le mie battute.

Non potevo non innamorarmene perdutamente.

Le feci un filo garbato – anche se impacciato rende meglio l’idea – per qualche mese, a ogni sua risata prendevo un po’ piú di coraggio. E Laura rideva sempre.

Un giorno mi buttai e la invitai fuori. Laura, con mia grande sorpresa, accettò. Per non sbagliare, le diedi appuntamento al ponte piú famoso di Verona, per avere la certezza di un luogo che conoscessimo bene entrambi. L’appuntamento era per le quattro del pomeriggio.

Dopo la prima mezz’ora di ritardo entrai in agitazione. Dopo un’ora non sapevo che pensare. Dopo un’ora e mezza iniziò a piovere. La attesi per altri quaranta minuti sotto una pioggia battente e circa alle sette gettai la spugna e tornai a casa sconsolato. Era il 1989, non esistevano i cellulari, e pure il telefono di casa era una roba che una ragazza ti dava tipo a un passo dal matrimonio, che sennò pareva sconveniente.

Sulla strada del ritorno pensai le peggio cose: che avesse cambiato idea, che mi avesse mentito o preso in giro, che fosse morta investita da un’auto. Dovetti attendere la mattina seguente per scoprire la verità.

Laura mi aveva aspettato dall’altra parte del ponte.

Io ero sulla riva sinistra dell’Adige, lei dalla parte della riva destra, dietro le mura. Distanti ottanta metri in linea d’aria, separati da un fiume, avevamo atteso per lo stesso tempo prendendo la stessa pioggia come due deficienti, senza che a nessuno dei due venisse in mente di attraversarlo, entrambi testardi e convinti della propria posizione, escludendo ogni alternativa possibile.

Non ci fu una seconda occasione, perché qualche giorno dopo Laura venne invitata fuori da Sebastiano della quinta A, che per andare sul sicuro passò a prenderla a casa in Vespa e vinse tutto.

Da allora penso che l’amore certe volte è cosí, tu attendi sulla tua riva che ti venga a prendere, un po’ per orgoglio e un po’ per paura che non ti trovi, mentre funziona solo quando ciascuno fa il suo pezzetto di strada e ci si incontra proprio lí, esattamente al centro.

Poi mi succede pure che ogni volta che leggo «Costa Rica» su un giornale, tipo durante i mondiali di calcio o che ne so, sento un profumo di caffè nelle narici e una brevissima fitta al cuore.

E quando conosco qualche Sebastiano mi sta sulle palle a prescindere.

Acqua e farina.

– Quindi, secondo te, l’amore è solo una questione di chimica?

– Piú di tutto il resto.

– Non ne sono sicura.

– Ti faccio un esempio: fai conto che io sia idrogeno. Non voglio restare idrogeno tutta la vita. Una delle possibilità che ho di cambiare stato è trovare dell’ossigeno per diventare acqua. Nell’acqua, da un punto di vista dinamico, l’idrogeno e l’ossigeno sono indistinguibili, ma da un punto di vista chimico e molecolare sono entrambi presenti. Uno è indispensabile all’altro, capisci?

– Mh.

– Il punto non è rinunciare a essere sé stessi, annullandosi in una relazione, ma trovare l’elemento giusto che si combina con te e ti valorizza.

– Mi ricorda quella cosa che mi diceva sempre mia nonna quand’ero piccola, a proposito di lei e il nonno, cosí diversi: «L’acqua e la farina fanno il pane. Invece farina e farina non fanno niente».

– Esatto!

– Noi però siamo piú tipo farina e sottaceti, mi sa.

– Embe’? Io adoro i sottaceti.

– Io sono celiaca.

Il poeta famoso.

Una volta ho conosciuto un poeta famoso.

Tenne una lezione alla facoltà di Architettura di Venezia, disse che in poesia non si deve parlare d’amore. Io lo ascoltai e basta, in prima fila. La sera, lo incontrai nel baretto rosso di campo Santa Margherita. Lui mi riconobbe, io mi avvicinai. Bevemmo un paio di ombre di bianco insieme e fu lí che glielo chiesi. Gli chiesi perché non bisogna parlare d’amore in poesia. Lui mi rispose che l’amore non si dice. Io gli dissi che invece l’amore era l’unica cosa di cui si dovrebbe dire. Lui mi disse che l’amore si dice proprio non dicendolo, ma – mi disse – quel che intendeva lui era il sentimentalismo. Da evitare come la morte. Io gli dissi allora di spiegarsi meglio, perché se lui dice amore io capisco amore, non sentimentalismo. Lui mi disse che in poesia le parole hanno tanti significati. Risuonano. E che amore può voler dire amore ma anche sasso. Io, che ero fresco di Octavio Paz e avevo quella linearità di ragionamento tipica degli studenti, gli dissi che secondo me era esattamente il contrario: che in poesia le parole sono cosí dense che sono spade affilate e hanno significati chirurgici. Che in effetti la prosa descrive, mentre la poesia dice. E che il bello della poesia è proprio che è la cosa che dice meglio di tutte al mondo. La poesia non ha margini di interpretazione, gli dissi. La poesia è. Lui mi disse che sí, ma che l’essere della poesia è per sua natura multiplo. E che il problema era proprio il dialogo. Che era impossibile capirsi se io lo incalzavo con domande di cui pensavo di conoscere già le risposte. Che in una conversazione le parole dette sono ingannevoli.

Allora io gli chiesi di dirmelo con una poesia.

Lui mi guardò dritto negli occhi e mi disse: – Non rompermi i coglioni, – poi buttò giú il vino e mi strinse le spalle fra le mani.

In quella stretta compresi che io ero un ventenne pedante convinto di sapere tutto. E che lui mi aveva appena spiegato l’amore e la poesia, insieme.

(Poi mi lasciò da pagare, cosí mi spiegò anche l’economia).

Storia di Esse.

La meditazione entrò nella mia vita all’inizio degli anni Duemila.

La storia con Esse era giunta al suo capolinea, o per meglio dire avevo rovinato tutto di nuovo. Esse mi aveva rapito in autunno con i suoi occhi tristi, che io ero riuscito a illuminare per un po’ ma non abbastanza. Mi lasciò.

Passò del tempo ma non finiva mai. Dopo qualche mese le scrissi. Esse però era una tosta e conosceva tutti i trucchi. Capí che le mie parole erano sincere ma non sarebbero state sufficienti. Adesso devi venire a prendermi tu, era la morale. Cosí feci.

Furono mesi estenuanti di assedio gentile. Di caffè lunghissimi, Marlboro Lights fumate per metà, pomeriggi nelle librerie, nasi freddi sotto i portici. Ogni volta che mi sembrava di essere vicino, lei mi ributtava indietro crudele azzerando il vantaggio.

Un giorno, a sorpresa, Esse mi offrí l’occasione definitiva. Vieni a meditazione con me, mi disse. Io al tempo avevo letto Thoreau, Kabat-Zinn, ma soprattutto La via dello zen di Alan Watts e pensavo di essere avantissimo.

Entrato nel dojo pieno di quaranta-cinquantenni, circondato da sorrisi che mi apparivano forzatamente sereni, un po’ d’angoscia mi colse. Il Maestro era un sessantenne gentile ma dall’aspetto roccioso, con un marcato accento vicentino. Si meditava seduti in cerchio all’interno di una stanza umida, in silenzio. Ciascuno dei presenti aveva il suo zafu, un cuscinetto che si poggia sotto le ginocchia durante la pratica. Siccome era la mia prima volta, io mi ero portato un asciugamano da spiaggia. Forse per quello, quando il Maestro mi disse di chiudere gli occhi e visualizzare il mare, non ebbi alcun problema a farlo. Quando mi tirò la prima bastonata sulla cervicale per «svuotarmi la mente» invece rischiò un gancio sinistro. Ma andando contro i miei pregiudizi e nonostante l’involontaria comicità di alcuni momenti, portai a termine l’esperienza intenzionato a ripeterla.

All’uscita, Esse mi guardava con occhi diversi e io avevo già un po’ capito. Cascammo dentro all’osteria di fronte al dojo come due apneisti che ritornano in superficie. Io mi persi di nuovo nel suo sguardo triste che mi sembrava un miracolo riuscire ad accendere ancora. Proseguí per un altro anno circa, in una sorta di amore disperato che subivamo nella speranza che stavolta accadesse qualcosa di diverso, ma somigliavamo a due bambini che non hanno abbastanza fiato per gonfiare un palloncino.

Quando Esse mi lasciò di nuovo, fu in ospedale. Era ricoverata a causa di una superinfezione per la quale stava rischiando di finire in dialisi. Fu l’unico caso in cui feci valere una mia conoscenza, rompendo le palle a un vecchio amico che convinse il padre famoso chirurgo a tornare prima dalle ferie, per salvarle il rene. Esse pallida e sotto bombardamento antibiotico mi disse Senti, non è piú cosa. Io non dissi niente perché sapevo che aveva ragione e ammiravo il tempismo del suo coraggio. Ci fu un abbraccio che piú che un addio sembrava una specie di promessa e qualche minuto dopo ero in mezzo al parcheggio nell’aria tiepida di fine settembre. Quando entrai in auto c’era un forte profumo di fiori. Sul sedile dietro vidi le rose che le avevo comprato e dimenticato lí. Le buttai ma ne tenni una, che poi seccai tra le pagine di Saturno e la melanconia.

Il giovedí seguente andai a meditazione ma Esse non c’era. Proseguii per poco piú di due mesi. Lei non venne mai. Un giorno degli ultimi litigai violentemente con uno del dojo per una battuta storta e sentii tutto il mio zen fluire via in un istante. All’uscita il Maestro mi avvicinò e io pensavo volesse darmi una bastonata, invece mi disse: – Mi è sempre stato sul cazzo, quello lí.

Mancavano tre giorni a Natale. Sentii improvvisa una gran fame e passai dai banchetti in piazza a farmi un panino caldo con la salsiccia. Mentre mi nevicava in testa e addentavo il pane realizzai che in quel momento c’era tutto lo zen che mi serviva.

La settimana dopo non tornai, Esse invece sí.

Due cose.

Nella via sopra la stazione c’era una signora che non riusciva a parcheggiare. Continuava a uscire dal posteggio a bordo strada e a riprovare, sbagliava manovra perché non sterzava a sufficienza. Dietro di lei, una coda di una decina di auto bloccate dai suoi tentativi, fra le quali la mia. Le persone hanno cominciato a suonare il clacson dopo nemmeno cinque secondi, spazientite, qualcuno agitava la mano fuori dal finestrino aumentando la tensione. Siccome anch’io avevo fretta e rischiavo di perdere il treno, ho messo le quattro frecce, sono sceso dalla mia auto, sono andato verso quella della signora. Ho bussato al finestrino, la signora mi ha guardato dapprima spaventata, poi lo ha abbassato per metà. Le ho chiesto se potevo aiutarla a parcheggiare. Era tutta rossa in viso, stretta nel suo cappotto nero e visibilmente agitata, ha annuito due volte con la testa. Mi ha fatto sedere al posto di guida, io ho innestato la retromarcia e ho parcheggiato in un’unica manovra. La signora mi ha detto un grazie a mezza voce, quasi imbarazzata, le ho detto di non preoccuparsi e sono sceso velocissimo. Mentre risalivo nella mia macchina, pronto a ripartire, le persone nelle auto hanno cominciato a suonare a me. Un tizio in una Mercedes bianca mi ha affiancato e invadendo l’altra corsia mi ha espresso tutto il suo garbo veneto, scomodando Dio, qualche santo e perfino mia mamma. È sgommato via ma è stato costretto a inchiodare al semaforo rosso, cinquanta metri piú avanti. Mi si è chiusa la vena e qualcuno dentro di me ha pensato: Adesso vado là, lo tiro fuori dalla Mercedes per un orecchio e gli offro l’opportunità di porgermi le sue scuse spontanee. È stato in quel momento che ho visto la signora del parcheggio allontanarsi a passi spediti verso le scalette della stazione, trascinando un trolley rosa. Si è girata per un attimo, si è accorta che la guardavo, mi ha salutato, l’ho salutata anch’io, lei mi ha sorriso e una Panda azzurra mi ha suonato, allora ho chiuso la portiera, ho acceso l’auto e tolto le quattro frecce.

Quando sono ripartito avevo un vaffanculo nelle orecchie e un sorriso negli occhi e ho pensato che, alla fine, la qualità di ogni tua giornata dipende solo da quale delle due cose ha piú valore per te.

Le tende.

In studio ho quattro tende.

Sono appese a un lungo bastone reggitenda da cui scendono quattro pezzi: uno bianco panna, uno blu notte, uno che è un lenzuolo celeste con fantasie arancioni anni Settanta. L’ultimo pezzo è un rettangolo di cartone di due metri per uno, ricavato dallo scatolone di una libreria Billy.

Le tende cadono tutte sulla stessa finestra. I quattro pezzi infatti sono degli scampoli che erano stati appesi per vedere quale effetto mi piaceva di piú: se la luce soffice della tenda bianca, la possibilità di oscuramento quasi totale di quella blu notte, l’effetto caleidoscopico del lenzuolo, oppure l’andatevene affanculo e lasciatemi a morire qui del cartone.

Alla fine ho deciso che mi piacevano tutti e quattro, e ho lasciato cosí.

C’entra anche la pigrizia, va detto. Ma c’è il fatto che amo l’idea di non discriminare niente e dare a ogni scampolo la sua possibilità di vita. Trovo inoltre poetica – anche se un filo bizzarra, d’accordo – l’opportunità di avere quattro luci diverse, quattro atmosfere contrastanti allo stesso momento e nello stesso luogo. Mutano di poco a seconda dell’ora del giorno – ognuno dei quattro scampoli prende il sopravvento sugli altri per breve tempo, a causa della differente inclinazione dei raggi solari – ma nella sostanza è come lavorare nel clima psichedelico di una puntata di Mork & Mindy.

Mia madre mi chiede se ho scelto ogni volta che la vedo, non si rassegna.

La cosa difficile è resistere alla tentazione di rispondere come da ragazzino: «Il liceo artistico».

Dico solo: «No».

Lei mi guarda con l’aria del muto rimprovero, mio padre mi versa l’ennesimo bicchiere di vino che non voglio e si ricomincia a parlare della Carla che ha comprato la casa di Pipion.

La carbonara.

Un’amica che non sentivo da molto tempo mi ha telefonato e mi ha parlato dei suoi problemi di cuore. Frequenta un tipo che non si capisce mai bene cosa voglia. Prima sembra che voglia la storia, poi no, poi di nuovo sí, poi le chiede piú spazio, infine la chiama nel cuore della notte per dirle che con lei sta molto bene, che sente di amarla, se non fosse che. Mi ha confessato che ha la spiacevole sensazione, a quasi quarant’anni, che lui stia cercando lentamente di cambiarla, come se lei non fosse abbastanza, e che questo la sta mandando in confusione sui suoi sentimenti e che gli uomini, vedi, alla fine son tutti uguali. Io le ho detto che non è questione di uomini, perché una volta, anni fa, sono stato con una tipa con la quale avevo lo stesso problema a parti invertite, e solo dopo molta sofferenza ho capito. – E cos’hai capito? – mi ha chiesto la mia amica, – spiegami che m’interessa.

Allora le ho spiegato la mia teoria definitiva sull’amore.

– Capire l’amore che si prova per una persona, – le ho detto, – o che una persona prova per noi è cosa semplice.

È come un piatto di pasta alla carbonara.

Troverai sempre chi ti dirà: «A me la carbonara piace, però senza pepe», oppure: «Io nella carbonara ci metto la panna», o ancora: «Io la mangio solo con la cipolla», o robe cosí. Il fatto è che senza pepe, o con la panna, o con la cipolla, non è piú carbonara.

A quel punto la questione diventa elementare: forse la carbonara non ti piace davvero, sennò te la mangeresti com’è senza tanto rompere i coglioni.

Con l’amore funziona uguale.

Dei ritorni.

Dei ritorni di notte adoro l’attimo in cui scendo dall’auto per aprire il cancellone con la chiave, mentre guardo in su, verso le finestre, e cerco di capire dalla poca luce che filtra dai buchi delle tapparelle se ci sia ancora qualcuno sveglio ad aspettarmi, i diciotto passi contati dal prato, due magnolie, un pallone sgonfio, che separano il garage dal vialetto, il momento in cui passo sotto la pianta dai fiori bianchi che mi accarezza i capelli con le foglie, quello in cui entro dalla taverna, Garrett viene a salutarmi e Cordelia invece alza appena la testa, fare la scala a chiocciola con la valigia in mano scapuzzando ogni volta sul penultimo gradino, andare in cucina e rubare un ovetto di cioccolata illuminando la confezione con la pila del cellulare, togliermi le scarpe e metterle in fila accanto a quelle delle bambine, verificare che l’ingresso sia ben chiuso, gli attimi in cui percorro il corridoio al buio, le luci tenui delle lampade da notte di Virginia e Ginevra che filtrano appena dalle loro porte accostate, il momento in cui apro la porta di camera nostra e le trovo lí, Paola che mi sorride piano, Melania che le dorme addosso tipo piumone, io che mi siedo sul letto, do un bacio sui capelli a Melania, l’attimo prima che Paola mi chieda: «Allora, com’è andata?», quello dopo averle detto: «Tutto bene», lei che mi guarda senza dire niente, mi prende la mano, io stringo la sua, Melania che mi frana addosso come attirata da una calamita, l’odore del suo respiro, Paola che spegne la luce sul comodino e dice, solo allora: «Sono contenta che sei tornato», io che sorrido al buio pensando che lei non mi veda, il suo piede che tocca il mio sotto le coperte apparentemente per sbaglio, invece no.

Xièxie.

Ieri sera Virginia e io eravamo a casa da soli, allora le ho proposto di andare al ristorante cinese. Mi ha chiesto se poteva vestirsi bene e si è cambiata, si è pettinata e ha indossato un grazioso cerchietto azzurro sui capelli. Si è portata una vecchia borsetta blu della mamma, dentro ci ha messo la macchinetta fotografica e il libro Voglio i miei mostri!, dal quale non si separa mai. Durante il tragitto in auto mi ha chiesto come si dice «grazie» in cinese e abbiamo fatto le prove.

Al ristorante si è seduta composta da vera signorina, ha estratto il suo libro dalla borsetta e se lo è messo a fianco sul tavolo. Si guardava attorno continuando a parlare, come una ragazza al primo appuntamento. Mi ha chiesto se i pesci che vivevano nell’acquario fossero felici e io le ho detto di no. Lei mi ha detto che almeno nell’acquario non ci sono gli squali che li mangiano, e a me è venuto da pensare che senza saperlo aveva appena compreso la differenza tra sicurezza e libertà. Abbiamo ordinato i ravioli al vapore, una zuppa per me, le tagliatelle ai quattro gusti e il pollo al limone per lei. Nell’attesa, mi ha chiesto di insegnarle a usare le bacchette e ha imparato subito. Quando ci hanno portato i piatti Virginia ha detto: – Xièxie, – alla cameriera, che le ha sorriso e le ha detto: – Plego –. Dopo aver consumato insieme i ravioli, mi ha chiesto se poteva assaggiare la mia zuppa. Le ho detto di stare attenta che era un po’ piccante e gliene ho dato un cucchiaio. Virginia dopo averla provata aveva una faccia che non si capiva. – Ti piace? – le ho chiesto. Lei mi ha guardato e si intuiva che aveva un po’ paura di dispiacermi e stava cercando le parole. – Sai, papà, – ha detto, – la tua zuppa adesso che ci ho bevuto sopra la Coca sa un po’ di cerotto –. Mi è venuto da ridere e ha riso anche lei, poi è arrivato il pollo al limone e Virginia si è illuminata. – Xièxie! – ha detto.

Quando siamo tornati a casa mi ha chiesto se, visto che eravamo da soli, poteva stare alzata fino a mezzanotte a finire di vedere l’episodio 1 di Star Wars. Io le ho detto che per me andava bene.

Alle dieci e un quarto ho spento le luci, l’ho sollevata piano dal divano per non svegliarla, me la sono tirata addosso e l’ho portata nel suo letto. L’ho coperta e le ho dato un bacio sulla guancia. La guancia sapeva di limone. Le ho accarezzato la testa al buio e ho pensato: «Xièxie».

I ponti.

Ci sono persone che ci parli e ti sembra di conoscerle da sempre.

Vi capite al volo, stesse modalità, tempi che durante una conversazione coincidono talmente che vi sembra quasi di leggere un copione. È capitato a tutti. La sensazione subito è meravigliosa, ci si sente accolti, compresi, sembra di essere finalmente a casa.

Ho imparato negli anni, a malincuore, che io con quella gente lí non vado quasi mai da nessuna parte. Tutte le persone che nella mia vita hanno avuto o hanno un peso, me le sono dovute conquistare un pezzetto alla volta, vincendo le mie, e le loro, reticenze. Partendo spesso da punti, se non diametralmente opposti, comunque molto distanti. Per esempio il mio migliore amico è ultracattolico e io – tanto per capirci – di secondo nome faccio Fidel. Bere un bicchiere di vino in coppia, su un balcone al tramonto, nella mia scala di gioie della vita credo stia al terzo o quarto posto, eppure mi sono messo con Paola che è astemia e dell’alcol manco può sentirne l’odore. Paola, del resto, sogna di andare una sera a teatro e io piuttosto mi darei fuoco. Ho un collega che stimo ma col quale non mi trovo quasi mai d’accordo, eppure le riflessioni migliori mi arrivano spesso da cose che scrive. Una delle mie storie piú lunghe è stata con una ragazza che era convinta di avere i poteri, e dopo un po’ che stavo con lei, quando la guardavo negli occhi, per quanto razionalmente sapessi che era una cosa stupida o comunque molto distante dalle mie convinzioni, sentivo che i poteri ce li aveva davvero. Su di me, di sicuro.

Il punto è che ogni incontro con l’Altro è un percorso, e a me piace camminare un po’ prima di raggiungere l’altra parte e sentirmi infine a casa. Perché nessuna casa è tale senza un sentiero davanti che ti ci porta, proprio come nei disegni che si fanno da bambini. È tracciare quel sentiero che costa fatica. Piú me ne costa, piú so che ne varrà la pena.

Ho rafforzato questa convinzione nei miei anni a Venezia. Un tempo, quella porzione di laguna non era che un agglomerato di isolotti sparpagliati senza speranza. Hanno costruito i ponti ed è diventata Venezia. È una lezione che cerco di non dimenticare mai: la bellezza si può edificare solo insieme, e piú due isole sono lontane piú il ponte che le congiungerà dovrà essere robusto ed elastico al contempo.

Per questo gli amori migliori, quelli davvero inaffondabili, uniscono spesso geografie umane distanti, sono quelli che nessuno riesce a spiegarsi il perché e sulla carta non gli avresti dato due soldi. Eppure.

I tuoi occhi.

Sono in stazione a Pescara, sto aspettando il treno per Bologna, un signore dall’aria malconcia mi avvicina. Mi si piazza davanti e mi fissa per un paio di secondi, immobile.

– Salve, – dice, – io sono un barbone, sto chiedendo l’elemosina, accetto anche monete da un centesimo.

Articola le parole con lentezza e dignità, come mi avesse appena detto: «Buongiorno, sono l’avvocato Abbatelli».

Avrà circa la mia età, indossa un maglione color autunno tutto sfilacciato sopra il quale porta una vecchia giacchetta a rombi senza maniche. Ha due occhi azzurrissimi che sembrano riflettere la luce, è come guardare uno specchio. La sua mano tesa contiene pochi spicci color rame e una moneta dorata da venti centesimi. Estraggo il portafoglio, scopro di avere solo una banconota da cinque euro. Gliela do. Mi guarda come fossi scemo, poi sorride, gli sorrido anch’io, mi ringrazia con compostezza e si allontana.

Il fatto è che apprezzo la sincerità. Mi piace che abbia detto semplicemente quel che è, senza vendermi quella storia che sento ormai uguale in quasi tutte le stazioni, raccontata con la stessa finta aria trafelata: «Scusa, ma devo fare il biglietto del treno per tornare a casa! Mi mancano pochi euro, non è che potresti aiutarmi?» oppure quell’altra del: «Avresti qualche soldo per un panino?» e poi quando ti offri di comprarglielo tu al bar ottieni un rifiuto, o ancora quei cartelli scritti col pennarello nero che raccontano vicende di tragedie lavorative e familiari troppo simili, magari tutte vere, magari no. E mi viene da pensare che se avessimo piú coraggio nel dire agli altri chi siamo, dichiarare la nostra condizione senza tanti infingimenti, evitando di raccontarci storie, forse vivremmo con meno paure.

Il che non significa smetterla con le storie, ma raccontarne che dicano davvero di noi, delle nostre fragilità, dei nostri problemi e dei nostri limiti. Che possano aiutare magari a riconoscerci, anche in un paio d’occhi azzurrissimi incrociati una mattina in stazione. A capire che tu hai avuto culo, ma potevano essere i tuoi.

A sentire che in fondo lo sono.

Prestare i libri.

Certi amori sono come quando cerchi un libro che ti serve.

Controlli nella tua libreria, sicuro di trovarlo al suo posto e invece non c’è. Allora ci pensi e ti viene in mente che l’avevi prestato a Coso. Che a Coso gliel’avevi detto già tre anni fa. Gli avevi detto Coso – ti ricordi bene – riportami il mio libro, cazzo. E lui ti aveva detto Certo, non appena torno dal mare ci vediamo. Invece poi niente, e tu ti sei scordato e Coso pure. E in quel preciso momento Coso lo odii di un odio primordiale e definitivo. Allora gli telefoni, a Coso, lo chiami e gli dici Ciao Coso, ti ricordi il libro quello, me lo potresti restituire mi serve grazie, vengo a prendermelo anche adesso. E Coso ti dice Eh? Quale libro? Guarda che ti sbagli, lo avrai prestato a qualcun altro. E tu, che invece sei sicuro al punto che se si potessero scaricare degli mpeg dei ricordi verrebbe giú tutto il filmino in Hd con la scena di te che gli dài il libro in mano mentre una lacrima ti riga la guancia sinistra e in sottofondo parte Scrivimi di Nino Buonocore – pure con la data in sovrimpressione – ecco, tu avresti voglia di andare da Coso, adesso, subito, mettergli a soqquadro tutta la cazzo di libreria, recuperare il tuo libro, infilargli una forchetta in un occhio, dar fuoco alla casa, e uscire camminando come Bruce Willis in un Die Hard qualsiasi con l’edificio che ti esplode alle spalle, colombe bianche che si levano in volo dietro di te, in strada tutti i prestatori di libri del mondo che ti applaudono cantando Take Me Home di John Denver.

Invece te la tieni, vai su Google, digiti «titolo libro + pdf», e incredibilmente lo trovi, e pensi Vaffanculo ho fregato il destino e pure quello stronzo di Coso, vedi alle volte. Salvi il file, lo apri, e ti compare la scritta «inserire la password». E tu non la sai, la dannata password, e il pirla che ha messo il file in condivisione non ha pensato di scriverla da nessuna parte, allora tu, preso dalla disperazione, come password scrivi «Cosomerda» neanche potesse succedere qualcosa, invece niente.

Morale, quando dovete prestare un libro esistono solo tre scenari possibili:

1. non prestarlo, per nessuna ragione al mondo, mai;

2. siete Bruce Willis;

3. mettiamoci d’accordo e come password scegliamo tutti «Cosomerda», sempre.

Il tempo di tornare a casa.

Sono in ospedale, devo fare un prelievo del sangue.

Dentro la saletta d’attesa siamo una cinquantina di persone. Anziani perlopiú, ma anche giovani e qualche adolescente. Due bambini. C’è un caldo soffocante e un vago sentore di toast bruciati. Prendo il mio numero e mi metto in attesa. Sono il 122. Vorrei togliermi il giubbino e la sciarpa, ma non ci sono attaccapanni né sedie libere e non ho voglia di tenere tutto sulle ginocchia. Ho già in mano le impegnative, i fogli della segreteria, il numero e la tessera sanitaria. Il berretto poi non lo tolgo a prescindere, che sotto ho i capelli cosí schiacciati e unti che se lo levassi sembrerei pettinato come il Padrino. Seduto di fianco a me c’è un anziano signore con il flacone delle sue urine. Lo tiene con entrambe le mani, con attenzione e orgoglio insieme. Sembra stringa il Santo Graal. Indossa un cappello che ricorda quelli dei film di gangster e un elegante completo gessato stirato male. Mi fa un po’ tenerezza il pensiero che si sia vestito bene apposta per venire a fare le analisi. Di fronte a me uno dei due bambini mi fissa con insistenza. Gli sorrido. La madre se ne accorge e gli dà un buffetto sul gomito come a dire non dar fastidio agli estranei, che potrebbero essere assassini terroristi dell’Isis con l’ebola e la barba grigia, non vedi che faccia?

Quando chiamano il mio numero sono seduto da un’ora e venti e avrò perso un litro di liquidi. In piú, com’è ovvio, non ho fatto colazione. Mentre mi siedo sul lettino, l’infermiera mi scruta.

– Si sente bene?

– Sí, non si preoccupi. Ho solo dormito poco. Piuttosto, senta, potrei chiederle un favore?

– Mi dica.

– Il prelievo potrebbe farmelo dal braccio sinistro? Perché l’altra volta me l’avete fatto dal destro e mi è venuto un enorme livido violaceo. Il braccio mi ha fatto male per giorni. E io per lavorare uso solo quello.

– Non c’è problema.

Mentre mi lega col laccio emostatico, resto in attesa della domanda.

– Che lavoro fa?

– Faccio i fumetti.

– I fumetti? Come, i fumetti?

– Facevo l’architetto. Adesso, da qualche mese, faccio il disegnatore di fumetti.

– Ma dài! Ma pensa. Ma li disegna in che senso? Cioè, li fa a mano?

La guardo per cercare di capire se sia seria. Purtroppo, sí.

– No no, non li facciamo a mano. Cioè, usiamo le mani. Però abbiamo dei timbri.

– Dei timbri?

– Sí, dei timbri di ogni personaggio. Anche degli sfondi o delle auto o degli alberi o dei cavalli. Li pucciamo nell’inchiostro e tac, si timbrano sulla carta.

– Ma davvero?

– Le giuro. Poi ci sono anche quelli piú evoluti, come me, che invece usano direttamente il computer.

– Oddio, il computer?

– Sí, ci sono dei programmi speciali, fatti apposta. E poi ho un tasto. Enorme. Con su scritto: «Disegna fumetto». Lo schiaccio e il computer fa tutto.

– Ma… ma. E perché il tasto non può schiacciarlo con la mano sinistra, scusi?

– Perché la mia consolle è impostata da destrorso. Se lo schiacciassi con la sinistra, il computer se ne accorgerebbe. Dovrei riprogrammarla da mancino, ma servirebbero giorni e giorni. E poi mi verrebbero fuori tutti fumetti giapponesi che si devono leggere all’incontrario.

– Ma sta scherzando, vero?

– Solo un pochino.

Le sorrido. Mi sorride. Mi toglie il laccio, mi mette il cotone col cerotto, io mi alzo e mi rivesto.

– Lei è davvero bravissimo a inventarsi le storie, sa?

– Grazie.

– Dovrebbe scrivere.

– Be’, qualche volta lo faccio. Però quando scrivo non m’invento niente.

– E allora come fa?

– Le faccio un esempio. Posso scrivere di questo nostro incontro sulla mia bacheca Facebook?

– Come?

– Mi dà il permesso di scrivere un breve racconto su questa nostra conversazione?

– Un racconto? Un racconto come?

– Be’, diciamo che il racconto comincia in una affollata sala d’attesa d’ospedale. Io devo fare le analisi del sangue e incontro una bellissima infermiera che mi chiede del mio lavoro. L’infermiera si chiama. Come si chiama?

– Antonella.

– Ecco, Antonella. Che ne dice?

– Non saprei. Nessuno ha mai scritto un racconto su di me. Mi sembra una cosa carina.

– E come vorrebbe che lo intitolassi, il racconto?

– Oddio, ahahaha, non so proprio. Mi faccia pensare. La splendida Antonella? Anzi no, aspetti: Incontro al sangue. Le piace?

Incontro al sangue è un bellissimo titolo.

– Ma lo farà davvero?

– Il tempo di tornare a casa.

– Anche quello.

– Cosa?

– Anche quello è un bel titolo, non le sembra?

Il tempo di tornare a casa?

– Sí.

Un giorno.

Una volta dissi: – Voglio suonare l’arpa, – e mio padre mi comprò una chitarra.

La chitarra che mi comprò non era nemmeno di legno, ma di una specie di plasticona resinosa, gialla.

Fu sufficiente.

Mi ci impegnai su per anni, fino a quando il mio maestro non decise di regalarmi la sua.

La sua vecchia chitarra era una Alhambra, ed era una chitarra flamenca.

Cosa fosse una chitarra flamenca, non me l’aveva mai spiegato nessuno. Me lo spiegò lui, e io lo imparai bene.

La amai cosí tanto che a quattordici anni già suonavo sui palchi, terzo di un trio che eseguiva soleares, granadinas e bulerías in giro per i piú noti locali di Verona (quando ancora c’erano). Fu un periodo bellissimo. Facevo quel che volevo fare.

A sedici anni, il mio maestro mi disse: non ho piú nulla da insegnarti. Se vuoi andare avanti, devi trovarti un maestro di quelli veri. Io, che non avevo mai pensato lui fosse un maestro finto, subito non capii. I miei genitori invece sí.

Il mio nuovo maestro aveva un nome austriaco. Era molto ambito e per ammettermi pretese un provino. Dopo avermi sentito suonare, decise che: avevo l’orecchio assoluto, mi serviva una chitarra tedesca, mi avrebbe preparato per gli esami del conservatorio.

Mi accorsi subito che a suonare per lui non mi divertivo piú. Faceva partire il metronomo, io eseguivo, lui mi fissava le mani ossessivo sgranocchiando salatini. Affrontai comunque gli esami e tutto quanto, ma alla fine decisi di mollare e glielo dissi. Mi odiò un po’ per questo.

Per tutta risposta, mi comprai una Fender e misi su una band. Ci chiamavamo «i Vacuum». Cantavamo canzoni in italiano di cui io scrivevo i testi, oltre a essere la chitarra solista. La nostra hit piú famosa si intitolava: Basta che respiri, e penso non ci sia bisogno di aggiungere altro.

Mi iscrissi all’università, scoprii la poesia del suonare in piazza San Marco per le turiste che ogni sera mi chiedevano Stairway to Heaven e Wish You Were Here, e mi persi in una lunga via di notti alcoliche veneziane.

In seguito mi ripresi il flamenco. Suonavo alle lezioni di danza. Scrissi molte ballate acustiche, tristissime, la piú bella per una ragazza che poi.

Un giorno smisi del tutto.

Ho un pulsante senso di colpa per questa cosa. Al punto che, sebbene non suoni da quindici anni, tengo comunque le unghie della mano destra lunghe e perfettamente curate. Perché penso sempre: «Si sa mai».

La mia chitarra è qui davanti a me, anche ora. Mi guarda ogni mattina durante il lavoro come a dire «apri ’sta cazzo di custodia e fammi prendere aria».

Ma io non lo faccio, resisto, rimando. Per paura e fiducia insieme.

Perché sono ancora convinto che, se aspetterò abbastanza tempo, forse un giorno aprirò quella custodia.

E ne tirerò fuori un’arpa.

Invece.

Ti ho vista la prima volta alla biblioteca dell’università dove andavamo a studiare, era un martedí di pioggia, ho capito subito che non avrei mai, mai avuto nessuna chance.

Entravo quasi sempre dopo di te, nel senso che quando arrivavo tu eri già lí.

La verità è che venivo a studiare in biblioteca solo per vederti. Le giornate migliori erano quelle in cui riuscivo a sedermi al tuo stesso tavolo, tu nascosta dietro la tua pila di libri di Storia e i tuoi occhiali da segretaria con la montatura blu e i tuoi capelli color mogano riccissimi e raccolti sulla nuca con grazia antica e la tua cortina di lentiggini che, non te l’ho mai detto, ma io sognavo di unirle con una penna come i puntini della «Settimana enigmistica», perché nella mia fantasia ne sarebbe uscita di sicuro la mappa che mi avrebbe portato fino a te.

Un giorno ti ho vista baciare un ragazzo altissimo mentre scendevi le scale, lui ti ha presa al volo dai gradini e ti ha sollevata zaino e tutto senza sforzo, come non pesassi niente, e credo di non avere mai odiato tanto qualcuno, perché pensavo che se ti avessi sollevata io cosí, su quelle scale, avremmo rischiato la vita entrambi, ma soprattutto, soprattutto, ho pensato che non ti meritasse.

Poi la vita è pazzesca ed è andata a finire che ci siamo messi insieme, e quanti cappuccini roventi la mattina presto e birre ghiacciate dal Gianca e mani fredde dietro al collo e baci sulle scale d’emergenza e ascolti di Shooting Rubberbands at the Stars e messaggi porno scritti sui frontespizi dei libri e sciocchezze sussurrate da questa stupida bocca bugiarda e lacrime trattenute dentro le sciarpe e risate che riempivano l’abitacolo della Fiesta come vapore dopo una doccia sono serviti per scoprire che invece, invece, alla fine quello che non ti meritava ero io.

Le perline che se le guardi bene bene scintillano.

Paola e le bambine sono dai nonni, ho avuto una notte tormentata da brutti sogni e devo andare in farmacia a cercare di farmi dare la mia medicina, senza ricetta. La mia dottoressa oggi non c’è e ieri mi sono dimenticato di farmela fare. In piú ho perso il collirio, che sto consumando a litri perché gli occhi, in questi giorni di dodici ore al tavolo da disegno, gridano vendetta. Siccome è sabato e la mia farmacia è chiusa, devo cercarne una aperta per turno. Ne trovo una a tre chilometri.

Dentro c’è la coda. Sono l’ultimo di una fila di otto. Al bancone, un farmacista anziano sta discutendo con una ragazzina. La ragazzina ha i capelli viola raccolti con una specie di elastico di spugna morbida, che fa talmente tanti giri che glieli tiene su come fossero una treccia verticale, pantaloni verdi larghi con le tasche laterali, scarpe da ginnastica alte tutte sporche, piercing all’orecchio. Una catena lunga le pende da una tasca. Non vedo un cane bruttissimo sennò direi punkabbestia, sicuramente. Il farmacista le sta spiegando che senza ricetta non le può dare il farmaco che sta chiedendo. Ottimo, penso. La ragazzina si spazientisce e lo manda a cagare, si volta e fa per uscire. Quando è quasi alla porta si ferma, si avvicina, mi guarda con una dolcezza che contraddice il suo aspetto torvo.

– Posso chiederti un piacere? – bisbiglia.

– Dimmi, – bisbiglio.

– Provi tu a fartelo dare? – bisbiglia. – Ti do i soldi.

Mi passa una banconota da dieci euro stropicciata.

– Ah, senti, – bisbiglio, – qualsiasi cosa sia se non l’ha data a te non vedo perché.

– Perché è un vecchio stronzo, – bisbiglia.

– Ah, – bisbiglio.

– Mi serve una boccetta di *** [nome di ansiolitico molto noto], – bisbiglia.

– Scusa, – bisbiglio, – non dubito che tu ne abbia bisogno, non fraintendere, ma questa è una roba potente, anch’io non te la darei mai senza una ricetta del tuo medico.

Penso che in realtà sono lí per cercare di fare la stessa cosa. Mi viene da ridere.

– Perché ridi? – bisbiglia.

La signora col cappotto beige davanti a noi si gira e ci fissa.

– Niente, – bisbiglio. – Senti, usciamo, vuoi? Cosí mi spieghi meglio.

Scopro che si chiama Margarita – «Come il cocktail», dice –, sua madre viene dalla Romania ma adesso è in carcere. Lei vive piú o meno a casa di una sua amica e spesso dorme anche al centro sociale oppure dove capita, perché suo padre tanto non c’è mai e non gliene frega niente. Mi mostra i braccialetti al polso fatti con fili di rame, pezzi di ottone piegati e perline grigie che se le guardi bene bene scintillano, cose fatte da lei che poi vende. Sono davvero belli. Le dico che secondo me non è mica vero che a suo padre non gliene frega niente.

– Non mi chiede mai un cazzo, – dice.

– Non ti chiede mai un cazzo perché ha paura di te.

– Paura?

– Ha paura perché sei una tosta, e vorrebbe dirti che ti vuole bene ma non sa come avvicinarti, – dico. – Per cosa ti serve l’ansiolitico?

– Di notte ho gli incubi.

– Capita anche a me.

– Tu perché?

– Perché penso a quando le mie figlie avranno la tua età e magari andranno a vivere piú o meno a casa di un’amica o a dormire al centro sociale, o dove capita, credendo che non m’importi niente.

Ride.

– E come fai quando ce li hai?

– Di solito mi alzo e vado a baciarle, mentre dormono.

Mi guarda.

– Potresti provare anche tu, – dico.

– Cosa?

– La prossima volta che hai un incubo, ti alzi e vai a dare un bacio a tuo papà mentre dorme. Magari funziona. Certo, per provare devi tornare a casa.

Mi scruta, seria.

– Allora la boccetta non me la prendi, vero?

– Non ci penso neanche. Però vorrei un braccialetto, – dico indicandole il polso.

– Questi sono i miei! – dice ritraendo il braccio. – Ma se vuoi te ne faccio uno.

– Voglio, – dico.

Le lascio il numero di telefono, cosí quando è pronto Margarita mi manda un messaggio. Ci salutiamo e attraversa la strada e va a slegare un cane marrone bruttissimo dal palo del divieto di sosta, poi passa un minuto ad accarezzarlo, infine lo abbraccia. Lo sapevo, io per ’ste cose ci ho sempre avuto occhio.

Anche per i braccialetti.

Anche per le perline grigie che, se le guardi bene bene, scintillano.

I giorni di festa.

I miei cani aspettano il panettiere anche nei giorni di festa.

Loro non lo sanno mica che è Santo Stefano, ieri Natale, fra sei giorni domenica, non capiscono che il panettiere oggi non passerà a depositare il sacchetto del pane nella piccola cassetta metallica fuori dal cancello. Non lancerà loro il bocconcino che li rende felici, la ragione piú importante delle loro giornate. Lo attendono lo stesso fuori al freddo, gli occhi rivolti all’inizio della salita, ricolmi di aspettative, fermi come sentinelle. A dire il vero, non sono nemmeno sicuro che non lo sappiano del tutto, è che forse ci sperano e basta, anche di fronte all’evidenza. Il fatto è che se piegare la speranza è difficile, quello che da piegare è quasi impossibile è la fiducia. È la fiducia che ha a che fare col prendersi il freddo, naso in su, fregandosene delle apparenze o delle circostanze avverse. Ciò che in definitiva significa: prendersi un rischio. Li guardo dalla finestra e mi fanno un misto di rabbia e rimpianto. Rabbia perché non riesco a spiegar loro che il panettiere oggi non passerà. Rimpianto perché, nel vederli, mi viene da pensare che in fondo io non sono e non sono mai stato molto diverso. Ho passato lunghi anni al cancello, in attesa di non ho mai saputo bene cosa, mi sono preso paccate di freddo. Poi un giorno il panettiere è arrivato proprio quando meno me lo aspettavo, ma per fortuna avevo gli occhi aperti e stavo guardando nella direzione giusta. Capita a un sacco di persone, tutti i giorni, perché alla fine non sappiamo mai quando una promessa potrebbe essere mantenuta, o una sorpresa manifestarsi, o la vita portarci ciò di cui non sapevamo nemmeno di avere bisogno, finché non arriva a dirci: sono qui. Infatti, penso ora, io non potrei mica giurarci che il panettiere oggi non passerà. È un lunedí, l’Esselunga è aperto, ci sono anche persone che lavorano, in fondo chi può dirlo veramente? Forse hanno ragione loro, ci sono cose che si meritano il fatto di prenderci tutto il freddo che siamo in grado di sopportare. Forse quando la vita passa l’unica cosa che conta è farsi trovare pronti, anche fuori al freddo, il giorno dopo Natale, mentre quelli che non ci credono se ne stanno alla finestra al caldo delle proprie certezze. A guardarci con un misto di rabbia e rimpianto, nel preciso momento in cui ci prendiamo i rischi che abbiamo scelto per noi.

La Principessa Mezzanotte.

Il messaggio diceva: «Perché non mi ami?» ma il messaggio non sembrava per me.

Il numero era sconosciuto. Decisi di rispondere lo stesso.

«E tu perché mi ami?» scrissi.

Dopo due minuti il Nokia bippò.

Il messaggio diceva: «Perché sei tu».

Questa volta il messaggio era per me. Il tuo punto di vista cambia quando i messaggi sono per te.

Pensai di interrompere subito il gioco, perché mi pareva di essere inopportuno e crudele.

Scrissi: «Guarda, mi sa che hai sbagliato numero, ho risposto solo per scherzare. Scusa».

Non ci fu replica.

Era passata da poco la mezzanotte, vivevo ancora a casa dei miei – sarei andato a vivere da solo in estate –, mi ero appena addormentato e avevo il cellulare acceso appoggiato sul comodino. Arrivò un nuovo sms, il cuore fece un sobbalzo, non ero abituato a ricevere messaggi notturni.

«Bastava dirmi: perché no», diceva il messaggio.

Mi sentii terribilmente in colpa, cominciai a digitare una risposta che chiarisse del tutto la questione. Poi mi fermai, indugiai un momento. Decisi di chiamare.

– Pronto? – disse una voce di donna.

– Pronto, – dissi sussurrando. – Innanzitutto scusa l’ora, volevo solo dirti che non so chi tu sia, però hai sbagliato numero. Ritenevo corretto dirtelo di persona, perché ho l’impressione che tu mi stia ancora prendendo per qualcun altro.

Ci fu una lunga pausa.

– Grazie di avermi chiamata, – disse la voce.

– Figurati, – sussurrai.

Seguí un nuovo silenzio.

– Ma stai bene? – sussurrai.

– Non tanto, – disse la voce.

– Mi spiace, – sussurrai.

– Perché non mi ami? – disse la voce.

La domanda mi colse di sorpresa, anche se era la stessa di prima, ma l’amore scritto e l’amore detto sortiscono sempre effetti diversi. Forse per questo risposi come se la frase fosse davvero rivolta a me.

– Perché non ti conosco, – sussurrai.

– Io sí, – disse la voce.

– Non capisco, – sussurrai.

– Ti ho visto alla laurea di Scolari, – disse la voce, – ti ho incontrato anche alla festa del Giangi, mi hai chiesto una sigaretta.

– Aspetta, chi sei? – dissi.

– Non mi conosci, – disse la voce, – lo hai appena detto.

– Ma chi ti ha dato il mio numero? – dissi.

– Ti ho sentito mentre lo dicevi a una ragazza bionda, – disse la voce.

Ripensai alla festa, era stata tre settimane prima, non rammentavo nessuna ragazza in particolare e men che meno di avere dato il mio numero a qualcuno. Avrò bevuto troppo come al solito, pensai.

– Scusami, – dissi, – ma davvero non mi ricordo di te. Mi dici come ti chiami?

– No. Se non ti ricordi non fa niente. Ma dopo oggi ti ricorderai, vero? – disse la voce.

– Sí, – dissi.

– Posso chiamarti ogni tanto? Solo cosí, per parlare? – disse la voce.

– Ah… certo. Va bene. Magari non sempre a quest’ora, ecco, – dissi.

Risi mentre lo dicevo, lei no.

– Allora ciao, – disse la voce.

– Ciao, – dissi.

Salvai il numero nella memoria del cellulare. Non sapendo il nome scrissi in rubrica: «Principessa Mezzanotte».

La Principessa Mezzanotte prese a telefonarmi, tra gennaio e aprile, soprattutto la sera tardi. Certe volte mi scriveva e basta. Dopo una fase di imbarazzo iniziale in cui ci annusammo con prudenza, cominciammo a parlare di lei, di me, delle nostre aspettative e aspirazioni. Dei nostri sogni. Era strano e liberatorio confessarsi con una sconosciuta. Io al telefono sussurravo sempre, un po’ per non svegliare i miei, un po’ perché i segreti richiedono di essere detti a bassa voce. La Principessa Mezzanotte invece parlava a voce alta, come le persone quando sembrano contente di raccontarti qualcosa. O magari non rischiava di disturbare nessuno.

In quasi tre mesi non mi ha mai detto il suo nome, non sono mai riuscito a capire chi fosse, non ci siamo mai incontrati. Forse era la paura di rovinare tutto, forse quel che avevamo ci pareva un piccolo incantesimo frangibile da proteggere dal mondo.

Un giorno la Principessa Mezzanotte smise di telefonare.

Attesi per piú di una settimana chiamate sue che non arrivavano, cominciai a preoccuparmi.

Richiamai io una sera, poi la mattina seguente, poi di nuovo la sera stessa. Mandai diversi messaggi. Non ci fu alcuna risposta.

Una notte, intorno all’una, ricevetti un messaggio. Sobbalzai. Era suo.

«Qual è la differenza fra l’amore dato e l’amore percepito?» diceva.

«Come stai? Dov’eri finita?» risposi subito.

Il telefono tacque mentre lo fissavo, poi d’un tratto bippò.

«L’amore dato è quel che conta, perciò grazie».

Chiamai un secondo piú tardi, non serví. Poi ancora, e ancora. Non rispose mai piú.

Oggi che sono passati molti anni, il cellulare di notte lo tengo spento. È rimasto lo stesso da allora. Al mattino capita che mi arrivino tre o quattro messaggi assieme. Nei pochi secondi prima di leggere i mittenti, una parte di me ha ancora un piccolo sobbalzo.

Quando mi chiedono perché continuo a girare con un vecchissimo Nokia aggiustato con lo scotch, rispondo sempre: «Perché prende dappertutto», ma questa è solo una parte di verità.

L’altra parte è che credo nei piccoli amori invisibili, nella fiducia apparentemente priva di scopo, nei segreti sussurrati e accolti, nella bellezza del portare sempre addosso vecchi messaggi d’amore che sono per te, anche quando non sono per te, inviati dalle principesse a mezzanotte che non chiamano piú.

La vita fino a qui.

Il 14 febbraio, la notte in cui I. mi disse che non era piú sicura di amarmi, lessi ubriaco un paio di pagine di Carver ascoltando Out Here on My Own di Irene Cara alla luce di una candela. Era quasi mezzanotte ed era saltata la corrente. I miei erano in montagna e mia sorella era fuori. Io avevo bisogno di qualcosa per anestetizzare la fitta interiore e la sensazione di scivolare che si provano quando si intuisce il termine di una relazione. Quella sera, e per tutta la primavera e il resto dell’anno, un paio di frasi mi salvarono. Ne ricordo solo una. La frase era: «Myers sedette con la schiena alla locomotiva. La campagna fuori dal finestrino cominciò a scorrere sempre piú velocemente. Per un istante ebbe l’impressione che il panorama gli scappasse davanti agli occhi. Stava andando da qualche parte, questo lo sapeva. E se per caso si trattava della direzione sbagliata, prima o poi l’avrebbe scoperto»1.

Io lo scoprii l’anno dopo e molte volte in seguito. Unendo tutte le direzioni sbagliate e i ripensamenti viene fuori la mia vita fino a qui. Oggi è il 14 febbraio, sono in studio, è sabato pomeriggio e fuori piove. Il treno sta andando da qualche parte anche adesso. Non mi chiedo piú se la direzione sia giusta, cerco solo di non farmi scappare il panorama davanti agli occhi.

Non sono solo nello scompartimento e amo le voci che mi accompagnano.

Il sedile non è sempre comodo, ma stavolta sono sicuro che è il mio.

1. Il brano è tratto da Raymond Carver, Lo scompartimento, in Cattedrale, trad. di F. Franconeri, Mondadori, Milano 1989.