La prima volta.
La prima volta che ho visto un uomo picchiare una donna, quell’uomo ero io.
Lei mi aveva appena confessato di avermi tradito, solo per una sera, solo con un bacio, solo per un gin tonic di troppo, solo perché erano settimane che ero chiuso nel mio mutismo malinconico esistenziale da venticinquenne stronzo e lei non riusciva a intravedere spiragli.
Li intravide nelle parole di un altro, poi nella sua bocca.
Ricordo la fluidità spaventosa del puro gesto, la vibrazione elettrica che, senza intoppi, dopo la sua confessione percorse in un millesimo di secondo il tragitto cuore-testa-braccio-mano fino a scaricarsi in un sonoro schiaffo sulla faccia di lei, che io vidi in diretta, riflesso come un fotogramma, nella porta a vetri dell’Excalibur.
Lei mi fissò senza abbassare lo sguardo, i suoi occhi dicevano: ecco, vediti per la miseria di uomo che sei, i miei dicevano: ecco, guarda cosa mi hai fatto fare. Non mi aveva fatto fare niente, perché la violenza, come il tradimento, sono alla fine sempre scelte, anche quando le nascondiamo dietro l’alibi della colpa altrui.
Non è mai piú successo, con nessun’altra, ma da quella sera so che questa cosa mi abita mio malgrado e vive dentro di me come un parassita. C’è un vecchio detto che dice che dentro ciascuno di noi vivono due lupi, e sta a noi decidere, ogni giorno, a quale dei due vogliamo dare da mangiare.
Quella sera presi la mia decisione.
La seconda volta che ho visto un uomo picchiare una donna è stato sette anni piú tardi, in un parcheggio fuori da un ristorante, era il giorno del mio compleanno. Ero uscito con un paio di amici per festeggiare, e dopo cena una ragazza a malapena ventenne con il trucco sfatto dalle lacrime piangeva disperatamente, urlando di non essere una troia e spergiurando a un tizio col doppio dei suoi anni che lui era l’unico uomo della sua vita. Il tizio l’ha raggiunta e le ha tirato una sberla che si è sentita fin dove eravamo noi, lei è caduta sulla schiena e una scarpa rossa col tacco è volata alta, concludendo la sua parabola poco lontano.
– Tu sei mia! – le ha urlato il tizio.
Io sono rimasto paralizzato, come stessi vedendo una mia immagine riflessa per la seconda volta, Fabio invece è partito un istante dopo e aveva un’espressione in faccia che diceva adesso lo ammazzo, ma la ragazza si è rialzata come se una mano invisibile l’avesse tirata su, ha guardato il tizio, poi gli ha tirato il calcio nei coglioni piú rapido che io abbia mai visto.
Il tizio si è accasciato a terra, lei ha cominciato ad allontanarsi zoppicando su un tacco solo, lui da terra le ha urlato: – Ti amo, Anna! – Lei si è girata e gli ha detto: – Mi fai schifo, vecchio di merda, torna da tua moglie! – e ricordo di avere pensato che quella frase doveva avergli fatto di sicuro piú male del calcio, perché gli aveva reso chiaro che, anche fosse, lui non aveva alcun titolo per parlare di tradimenti.
La ragazza si è avvicinata a Fabio, del sangue le usciva dalla bocca, lo ha guardato e gli ha detto: – Me lo date un passaggio a casa, per favore?
Eravamo venuti con tre macchine, Fabio per primo ha estratto dalla tasca del giubbotto le chiavi della sua, le ha risposto: – Però guidi tu, perché io ho un po’ bevuto, – e le ha passato le chiavi come le stesse consegnando a qualcuno che conosceva da una vita.
Anna mi ha confessato in seguito che è stata forse quella frase, quel primo giorno, quel primo minuto, le prime parole pronunciate da Fabio, quel darle fiducia e al contempo volerla proteggere perfino da sé stesso, a farla innamorare di lui.
Fabio mi ha confessato il giorno dopo che non riusciva a smettere di pensare alla bocca sanguinante di Anna, mentre me lo diceva le mani gli tremavano.
Anna e Fabio oggi hanno due figlie.
Alice, la primogenita, ha vinto i regionali di judo il mese scorso.
Tanto ormai.
Oggi ne ho accompagnate due fuori, di mattina presto, c’era ancora buio, faceva sei sotto zero. Le ho portate alla fermata del pulmino per la scuola mentre Ginevra mi spiegava che la mia Opel era tutta ghiacciata, che non dovevo lasciarla fuori da sola senza una coperta. Avrei voluto dirle: «La mia macchina ha ventun anni, tanto ormai», invece ho sorriso in silenzio davanti alla sua ramanzina. Il pulmino giallo è passato, sono risalito in casa, ho bevuto il caffè, Paola nel frattempo ha vestito e pettinato Melania e quand’era pronta sono uscito per accompagnarla alla scuola materna in auto. Oggi a scuola c’era una maestra nuova, o quantomeno una che io non avevo mai visto. Melania era diffidente, non voleva lasciarmi andare via, continuava ad aggrapparsi alle mie gambe, voleva essere presa in braccio. L’ho tirata su e l’ho coccolata per un po’, ma non è servito, teneva gli occhi chiusi contro il mio collo stringendo sempre piú forte. A un certo punto la maestra nuova le ha allungato le braccia, si è avvicinata piano, da dietro le mie spalle, Melania l’ha vista con un occhio solo, la maestra le ha detto: – Vuoi venire qui? – e lo ha detto in una maniera cosí bella che Melania è passata dal mio abbraccio al suo in una sorta di naturale continuità, come scendendo da uno scivolo invisibile. Le ho dato un bacino sulla fronte, le ho chiesto cosa volesse per cena ma non mi ha risposto, affondava nell’abbraccio della maestra, quasi fosse sempre stata lí, per un momento ho provato una sottile gelosia e il desiderio di riaverla indietro. Ho salutato, sono sceso ad appendere gli asciugamani puliti e a consegnare il materasso lavato del lettino, sono uscito nell’aria fredda delle nove, in fondo al viottolo una mamma bionda mi ha aperto il cancello della scuola. Aveva in braccio un bambino piú piccolo della mia, stava seduto sul suo avambraccio come fosse una poltrona. L’ho lasciata passare per prima, lei mi ha sorriso appena, i nostri «ciao» si sono condensati in due nuvolette di fumo.
Mentre tornavo alla macchina ho pensato che in fondo la cosa che piú ci manca quando diventiamo adulti è quella sensazione di accoglienza priva di scopo, sostituita dalla consapevolezza di essere gettati in un mondo in cui non c’è piú nessuno a prenderci. Forse per questo siamo talmente affamati d’amore, le persone si cascano addosso, va a finire che molte relazioni falliscono. Perché come bambini fondiamo l’amore sul bisogno, invece che fondare il bisogno sull’amore. Perché sogniamo di esser presi, anziché accettare il rischio di cadere. Perché il prezzo che paghiamo per volerci sentire al sicuro è quello di considerare l’amore un approdo, e quasi mai una partenza.
Perché, col passare degli anni, lasciamo l’amore a ghiacciarsi fuori, che tanto ormai.
Su Facebook non leggono mica Carver.
– E sai perché vivi male?
– No.
– Perché sei un coglione.
– Ah.
– Essí. Sprechi un sacco di energie per niente, ti perdi le cose.
– Addirittura.
– E certo. Prendi per esempio la settimana scorsa, in quel tuo buco di appartamento di merda, quando hai fatto le cotolette. E batti la carne, e prepara l’intruglio, e gratta ’sto cazzo di pane, e impana la prima volta, poi la seconda. E io lí sul divano in bellezza che fumavo. Fissavo la tua birra sul tavolo che diventava calda e senza schiuma e pensavo: «Ma che coglione».
– Ma scusa, perché? Erano buone le cotolette o no?
– Lo vedi che non capisci? E comprati una cotoletta Aia, cazzo. O dello Zio Carlo al discount. Ne compri quattro per sei euro e facciamo serata tranquilli e ti siedi sul divano pure tu. Tanto, dopo la seconda doppio malto, te la senti la differenza tra una cotoletta e l’altra?
– Be’, oddio, a livello di sapore…
– Oppure quella volta là, quella di Lia. Tu non hai ancora capito che per rimorchiare devi sparare nel-mu-cchio. I tempi di «quella che mi piace gné gné» sono finiti, essú.
– Ma, scusa, se a me piace una…
– Ma che una! Nel mucchio, ho detto! A quel punto diventa solo una questione statistica, trombi matematico.
– Sí, ma io non è che devo trombare per forza, eh.
– Che per forza! Non c’è per forza. Quando trombi, trombi. La serata acquisisce il senso definitivo. Il senso. Trombi, n’est-ce-pas? E poi prendi quando disegni.
– Quando disegno?
– Lo sai cosa diceva Wally Wood agli ingegneri?
– No.
– Diceva di non disegnare ciò che puoi ricopiare, non ricopiare ciò che puoi ricalcare, non ricalcare ciò che puoi ritagliare e incollare. E se lo diceva lui! Invece te lí a farti tutte le pippe sul segno, che ti deve rappresentare nel profondo, sulla personalità che dovrà emergere dalla composizione architettonica. Magari prima ti fai pure le matite dettagliatissime, vero? E quegli schizzetti stucchevoli ad acquerello, ci scommetto.
– Be’…
– L’architettura è un’industria, cazzo! Ricordalo. Cosa perdi tempo a inventarti una roba da capo se l’hanno già disegnata seimila volte. È come le scenografie di cartone a teatro. Se già esistono, usale! Devi pensare con la testa giusta, capisci? Oppure quando scrivi il tuo diario su Facebook.
– Ah, sbaglio pure quello?
– E certo. Ci scommetto, guarda, mi sembra di vederti mentre te ne stai lí e ti maceri, ti struggi. Mi pare di vederti, cazzo. Che ti tormenti con la sincerità.
– …
– Ma vaffanculo! Tu devi fare cosí: apri un libro di, che so, Carver, dato che ti piace tanto. Gli rubi l’incipit a un racconto, no? Poi la parte centrale la prendi piú o meno da David Leavitt, magari cambi un po’ le parole, solo quel che basta. Ci metti una spruzzata di Murakami che ci sta sempre bene, con le sue frasette laterali e taglienti che colpiscono a fondo, poi ci fai la chiusa romantica che quelle ti vengono gratis, et voilà. Tanto su Facebook chi cazzo vuoi che se ne accorga? Su Facebook non leggono mica Carver.
– Scusa, eh. Però. Facendo cosí, come dici tu, al di là di tutto, dove finirebbe il divertimento?
– Divertimento?
– Eh.
– Ma allora lo vedi che sei un coglione?
Scrivono solo gli sfigati.
Sono in treno per Bologna, dove prenderò un treno per Firenze, dove prenderò un treno per Perugia. Fuori c’è una magnifica giornata di sole, mandorli in fiore scorrono veloci nella campagna ai lati dei binari, ci sono venti gradi e io sono partito con la felpa a righe e il cappotto invernale. Tre liceali sono sedute nella fila di sedili accanto alla mia, una ha i capelli annodati in due vezzosi codini sopra la testa che sembrano i cornini di Lamú, una indossa un paio di occhiali con una montatura nera enorme, la terza è di spalle e non la vedo, ma ha una voce roca, suadente, di donna vissuta, che stride con l’intonazione adolescente, oppure di qualcuno che fuma troppe sigarette. Parlano di ragazzi. Lamú dice che Michael è uno stronzo, quella con gli occhiali le dice che sí, però è gentile, la voce roca e suadente chiede se c’è un fiume a Bologna e la ragazza con gli occhiali dice: – No, – allora la voce suadente dice: – Peccato, ti ci potevi buttare dentro –. Viene da ridere a me e al ragazzo indiano che ho seduto di fronte. Tre sedili piú avanti c’è una mamma che allatta un bambino in silenzio, l’ho vista mentre andavo in bagno, quando la voce nell’altoparlante dice: «Siamo in arrivo alla stazione di Poggio Rusco» si alza di scatto col bambino ancora attaccato al seno, si ricompone, adagia il bimbo in una specie di cesta coi manici. A Poggio Rusco sale un ragazzo cinese, si siede accanto al ragazzo indiano, risponde al telefono, comincia a parlare con un accento bolognese da paura. Dal fondo del vagone la voce roca e suadente dice: – Grazie per ieri cosa? Ma chi cazzo sei, – la ragazza con gli occhialoni le dice: – Dài che è stato carino a scriverti, – la voce roca e suadente risponde: – Scrivono solo gli sfigati, – e io mi ritrovo a pensare che forse, in fondo, ha pure ragione. La voce roca e suadente si alza, adesso la vedo, è una ragazza coi capelli cortissimi e un piercing sopra l’occhio sinistro, dice: – Vado in bagno, – mi passa di fianco, noto che ha il telefono in mano. Torna dopo cinque minuti, si siede, la sento dire: – Madonna che pisciata, ti ho risolto il problema del fiume a Bologna, – le altre due ridono, io me la sono immaginata per tutto il tempo chiusa in bagno a scrivere di nascosto al ragazzo sfigato una cosa come: «È stato bello anche per me».
Novembre.
La prima ragazza che mi ha lasciato era novembre, c’era la nebbia, la settimana dopo compivo quindici anni.
Ci eravamo messi assieme a casa di Riccardo, durante una festa. Ci eravamo baciati appoggiati al muro della mansarda, sotto i faretti rossi e il poster di Gazebo, in sottofondo andava Through the Barricades. L’avevo aspettata apposta, perché volevo baciarla con quella canzone lí. Ci eravamo baciati e poi avevamo ballato stretti, io sentivo i suoi seni piccoli schiacciati contro il mio torace e avevo paura che lei sentisse il mio cuore battere troppo forte. Dopo la festa, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, ma io sono sempre stato uno pedante, glielo chiesi.
– Vuoi diventare la mia ragazza?
– Sí, – disse.
Andavo a trovarla tutti i pomeriggi.
Prendevo il 51 e arrivavo alla fine della salita, poi me la facevo a piedi. Lei mi aspettava alla finestra, quando mi vedeva scendeva subito senza farmi suonare il campanello. Facevamo queste passeggiate lunghissime, interminabili, in mezzo ai campi, ci fermavamo a caso e ci baciavamo e lei aveva sempre le labbra che sapevano di vaniglia. Quando mi abbracciava mi metteva le mani nelle tasche dietro dei jeans. È stata la prima persona a cui io abbia detto le parole.
Il giorno che mi lasciò mi ero tagliato i capelli corti, mi ero messo la felpa nuova, è l’unica felpa Best Company che io abbia mai avuto. Stavo per uscire quando arrivò la telefonata. Era Riccardo che mi diceva che l’aveva incontrata, lei gli aveva detto che non voleva piú stare con me. Di dirmelo. Non avevo nemmeno il suo numero di telefono, non mi era mai servito perché tanto io andavo là. Presi l’autobus e arrivai sotto casa sua, alla finestra stavolta non c’era. Suonai, non mi aprí nessuno. Andai a casa di Riccardo, che abitava poco distante, passammo il pomeriggio insieme ad ascoltare i Police. Alla sera avvisai mia mamma, che venne a prendermi con la Dyane.
– Perché non sei tornato con la corriera? – mi disse in macchina.
– L’ho persa, – dissi.
Mia mamma capí ma non disse niente, mi fece una carezza sui capelli corti, io le spostai la mano.
A casa buttai la felpa, mia madre la ritrovò e la lavò, ma a novembre piove sempre, i panni non si asciugano mai, è proprio un mese scomodo, anche se ci sei nato tu.
L’esprit d’escalier.
Paola da quando la conosco, a intervalli piú o meno regolari, mi ferma e mi fa: «Adesso mi dici qualcosa di carino» e io, preso alla sprovvista, non so mai che dire, mi si vede il panico negli occhi, e pensare che con le parole ci lavoro pure, allora mi blocco, farfuglio stupidate, tipo oggi quando me lo ha chiesto mentre era in accappatoio, appena uscita dalla doccia, e io le ho detto: – Stai molto bene lavata, – e lei mi ha guardato come fossi deficiente e si è messa a ridere, e mentre la guardavo ridere mi è venuta in mente la cosa carina che avrei voluto dirle, solo che ormai era troppo tardi e sarebbe sembrata una toppa per recuperare la vaccata che avevo appena detto, e allora quella cosa carina la porterò con me fino alla prossima volta che mi chiederà di dirle qualcosa di carino, cosí ce l’avrò già pronta, solo che poi me la dimentico di sicuro, mi conosco, mi succede sempre cosí, i francesi la chiamano «l’esprit d’escalier», è quella condizione che fa sí che le battute migliori ti vengano in mente solo quando sei già sulle scale, dopo aver chiuso la porta, mentre te ne stai andando, ma pensando a quest’immagine di me stesso sulle scale mi è venuta in mente un’altra cosa carina che potrei dirle, e però questa qui mi dispiacerebbe dimenticarla e allora mi son detto cazzo, adesso la scrivo, e ho pensato che magari esiste pure una roba che si chiama «esprit dell’épistolier» o che so io, i francesi in fondo hanno nomi per tutto, e comunque chi se ne frega, ognuno è quel che è, e la cosa carina che mi è venuta in mente è piú o meno: che io le cose carine da dire magari me le dimentico pure sulle scale, mentre me ne sto andando, o perfino prima, e allora mi viene il panico nello sguardo, ma il fatto è che oggi, ogni volta che me ne vado da qualche parte, a prendere un treno, a sparire in uno scritto o in un disegno, anche solo a fare la spesa, io so che tornerò, sempre, perché quelle scale portano nell’unico posto in cui voglio stare, che poi, a pensarci bene, credo sia la sola cosa carina che conti davvero.
L’amore vola.
Continuavo a grattarmi nelle mutande.
Scoprii che avevo le piattole.
Le piattole sono tipo dei pidocchi, ma ti vengono solo lí. Lo confessai alla mia ragazza, mi disse che aveva appena scoperto di averle anche lei. Cercai su Internet: stava scritto che l’unico metodo di trasmissione possibile è attraverso rapporti sessuali, o comunque attraverso contatti diretti delle zone colpite, dato che le piattole non saltano, si passano solo per sfregamento. Io non ero andato con nessun’altra, la mia ragazza era appena tornata da una vacanza in Sudamerica. Mi giurò che figurati, non dirlo neppure per scherzo, ti pare?! Te, piuttosto!
Io ero innamorato e le credetti. Le credo ancora oggi, lei non so.
In quel periodo facevo rilievi per la Provincia, andavo fuori in auto con una neolaureata in Architettura come me a scattare foto e a prendere misure, servivano per l’aggiornamento del piano regolatore. Le raccontai la cosa, le dissi che con la mia ragazza ci eravamo rimpallati piú o meno scherzosamente l’accusa a vicenda.
– Ma va’! Le piattole mica si prendono per forza facendo sesso! – mi disse.
– Sei sicura?
– Certo!
– E come fai a saperlo, scusa?
– Due anni fa le ha avute pure mio padre, perciò.
– Guarda, perdona, senza offesa, ma non mi sembra che il fatto che le abbia avute anche tuo padre possa essere una garanzia, eh.
– In che senso?
– Come in che senso?
– Non capisco cosa vuoi dire.
– Voglio dire, scusami, io non sto ipotizzando niente, sia chiaro, ma non credi che magari sia possibile che pure tuo padre le abbia contratte… insomma… attraverso, no?
– Aspetta. Stai insinuando che mio padre abbia tradito mia madre?
– No no, non mi permetterei mai! Anche perché non si potrebbe comunque stabilire con assoluta certezza… chi dei due…
– Cosa vuoi dire?
– No no, niente!
– Oddio, intendi che mia madre…
– Comunque leggevo che ci sono anche dei tipi di piattole che volano, eh!
– Ma vedi? Lo dicevo io!
La parte migliore.
Ero al ristorante cinese con un amico, discutevamo di come fossimo stati entrambi maniaci della pulizia e dell’ordine. Ti ricordi quando prima di far venire una a casa passavamo l’aspirapolvere tre volte, e poi le candele profumate e le camicie stirate, e quando andavamo a prendere le nostre ragazze il sabato lavavamo la macchina, ed eravamo di quelli che, per dire, bella la natura e viva gli animali ma un cane sul nostro letto, mai. Pensa se ci fossimo visti oggi, che viviamo amori casinari che ci hanno stravolti, sono arrivati i figli, entrambi abbiamo cani e giardini un tempo rigogliosi che sono adesso tutto un fiorire di buche. Ci dicevamo, con l’amico, chissà da cosa ci derivava questa necessità di essere sempre a posto, la sensazione di avere tutto sotto controllo, per chi lo facevamo? Per noi o per il timore di essere giudicati dagli altri? Per paura che lasciare semplicemente le cose come stanno significasse arrendersi al caos dell’universo? Lui mi diceva: guarda, capita che il mio cane la faccia in casa, roba che un tempo avrei gridato all’oltraggio e mi sarei infilato i guanti di ghisa per raccoglierla, io gli dicevo: ho tre figlie e tre cani, perciò figurati la quantità di merda che posso aver visto in vita mia. Abbiamo concluso che sono state le persone giuste, l’opportunità che ci hanno offerto di vederle e vederci, a farci capire che la vita è proprio quella roba che si infila tra le pieghe dei minuti come briciole fra le lenzuola, e l’unico ordine che richiede è di lasciar spazio a quel che arriva e all’amore che vedi. Jacques Prévert in una nota poesia diceva lascia entrare il cane ricoperto di fango, perché il fango del cane lo puoi lavare, anche le impronte sul pavimento, la parte di te che ti dice di tenerlo fuori dalla porta invece è molto piú difficile da togliere, e alla lunga non la togli piú. È come quando sei in vacanza al mare, i primi giorni sgridi i bambini che entrano coi piedi sporchi di sabbia ed è tutto uno spazzare e uno scrollare asciugamani, al quarto giorno invece ti dici ’fanculo, spazzo tutto alla fine, i loro sorrisi sono piú importanti di un po’ di sabbia nelle mutande o delle orme lasciate sul pavimento. Ti accorgi che l’unica sabbia che conta è quella che scorre nella clessidra dei giorni, le orme piú belle quelle che testimoniano la strada fino a qui, il cammino insieme a chi abbiamo scelto, perciò viva i giardini vissuti, la merda che contiene piú verità di molto altro, i cani che ti saltano in braccio sporchi di terra o che si sdraiano al sole, per tutto il resto ci sarà tempo di sicuro e quando non ci sarà: pace, avremo pavimenti meno impeccabili e maglioni pieni di peli e forse inciamperemo ogni tanto nelle buche, ma sapremo comunque di non aver rinunciato alla parte migliore di quello che c’è.
Una buona notte.
Una sera ero a Bari, avevo appena finito una presentazione, ero molto stanco, davvero tanto, il giorno prima cadendo mi ero rotto un dito del piede che a forza di camminarci sopra mi faceva parecchio male, sono arrivato dopo undici ore di treno fra ritardi e tutto, quando sono entrato in hotel la sera tardissimo volevo solo mangiare un boccone al volo e morire a letto. Stavo per uscire per andare al Mac lí davanti quando il portiere mi ha detto: – Se vuole abbiamo il nostro ristorante –. Ci ho pensato un attimo, nell’hotel non c’era nessuno, mi sono detto Sai cosa? Sono esausto, sto in piedi da stamattina alle cinque, per una sera faccio il signore e vaffanculo. Sono entrato in una saletta piccolissima, molto anni Ottanta, pochi tavoli con sedute stile diner americano in pelle rossa e logora, in alto una vecchia televisione sintonizzata male su Canale 5. Mi sono accomodato, ero solo io, la forchetta aveva un’incrostazione verdognola su una delle punte e il bicchiere evidenti tracce di rossetto in trasparenza. Ecco, ho pensato, adesso vedrai che ti pelano per mangiare in un posto di merda, soltanto perché è il ristorante dell’hotel quattro stelle. È arrivato un vecchio cuoco-cameriere dall’aria stanca, obeso e calvo, con un grembiule bordeaux macchiato, mi dava del lei. Mi ha chiesto Signore, che desidera mangiare, ho chiesto Cosa c’è. Mi ha detto Ci sono le orecchiette pomodoro e cacio e il capocollo. Poi?, ho chiesto. Quello, mi ha detto. Ho ordinato il capocollo di antipasto e le orecchiette di primo. È sparito dietro una porta con un oblò, prima mi ha portato una bottiglia di vino che non avevo ordinato, non ho detto niente. Mentre bevevo questo bianco pugliese tostissimo lo sentivo armeggiare dietro la porta con l’oblò, sclang e scataclang, pronto al peggio. È uscito quando avevo già bevuto due bicchieri, mi ha portato un piatto colmo di capocollo di Martina Franca tagliato al coltello e un piattino a parte con delle fette di pane pugliese caldo irrorato di olio e sale, poi è sparito. Io ho cominciato a mangiare questo capocollo e già alla prima fetta mi veniva da piangere da quanto era buono, e il pane caldo e il vino, dopo un altro quarto d’ora, quando mi mancavano due fettine per finire, è arrivato con le orecchiette. Di aspetto erano orribili, le ho assaggiate e mi sono commosso di nuovo, consistenza perfetta, sughetto tipo della nonna a cottura lenta, il formaggio sopra era caciocavallo. Mi ha chiesto Vuole del piccante? Ho detto Sí. Mi ha portato un vasetto tipo quelli dei cetriolini sottaceto che dentro aveva le ère geologiche e fuori era unto e pieno di ditate, me l’ha svitato lui, mi ha porto un cucchiaio e mi ha detto Stia attento. Ne ho messo una punta ed era magma. Ho mangiato tutto e ho fatto pure la scarpetta, alla fine mi ha portato il conto. Ho speso dodici euro, mi è venuto da ridere. Sono uscito a fumare una sigaretta nel vicolo dietro, me la sono accesa, ho respirato forte, ho visto un gruppo di ragazzotti enormi venire a grandi passi verso di me, sulle prime ho avuto quasi paura, ho pensato Sono pure zoppo, se hanno cattive intenzioni non posso manco scappare. Uno mi ha chiesto una sigaretta, gliel’ho data, ho chiesto se aveva da accendere, mi ha detto Oggi Senegal ha vinto due a zero con Zimbabwe!, l’ho guardato ed era davvero felice, mentre estraeva la sigaretta dal mio pacchetto nuovo aveva le mani cosí vissute per essere cosí giovane, ho pensato Ma poi te cosa cazzo fumi, non avevi smesso?, gli ho regalato tutto il pacchetto e ho urlato Viva Senegal! con gli occhi lucidi per il vino, o forse non era il vino, lui non se l’aspettava, mi si è buttato addosso come un orso ubriaco e mi ha abbracciato prima che potessi fare niente, molto forte, il suo torace sapeva un odore misto di asfalto bagnato e fieno, gli ho dato anche l’accendino che avevo comprato in stazione, ci siamo salutati, sono rientrato in albergo, c’era il vecchio cuoco-cameriere, gli ho detto Buonanotte, mi ha detto Buonanotte, ha detto Buonanotte anche il portiere, era una buona notte per tutti.
Paninaro.
Nella primavera del 1986 mia sorella decise di farmi diventare paninaro.
Credo la irritasse il fatto di avere un fratello disadattato, completamente non alla moda, che girava ancora coi risvoltoni alti quindici centimetri sui jeans senza orlo di marca ignota. Diventare paninaro comportava: i calzini a quadri, i risvoltini piccoli, tonnellate di gel in testa e la felpa con le scritte. Questo, solo per cominciare. Poi dovevo dire «cioè», «non me ne sdruma un drígo», «le squinzie» e tutto il repertorio. Girare in due sulla Zündapp Gtx o sul Tuareg 50 insieme al Costa.
Dopo la cura, ero oggettivamente piú bellino e questo va detto. Però non ero io. Fu cosí che la fase panozza durò all’incirca tre settimane. I risvolti tornarono prima alti per poi sparire del tutto nell’unica «alzata» che ebbi in vita, quella tra i quindici e i sedici anni, durante la quale tutti i jeans comprati da mia madre di due taglie piú grandi «che non si sa mai» diventarono improvvisamente lunghi giusti. Ricominciai a girare sulla mia Vespa grigia col parafango ammaccato, i capelli liberi e lunghi – si andava, ai tempi, ancora senza casco – indossando i maglioni a rombi di mia nonna e cantando la sigla di Hurricane Polimar in giapponese (secondo me). Poi conobbi una ragazza darkettona ed ebbi un mesetto di lato oscuro. Ci fu il periodo delle camicie a quadri da boscaiolo fuori dai pantaloni e quello delle t-shirt enormi con le scarpe senza lacci. Infine, una volta uscito dalla zavorra del liceo, fui libero da tutto e cominciai a frequentare le amiche di mia sorella prendendomi tante piccole rivincite. Il fatto fu che d’un colpo, negli anni del primo grunge, essere «diverso» e vestirsi a cazzo era diventato alla moda senza preavviso, e io ci stavo dentro comodo come un pensionato sul divano la domenica pomeriggio durante il Gran premio.
Mia sorella ancora oggi, quando ci incrociamo a pranzo dai miei, mi osserva con lo stesso rimpianto con il quale il dottor Frankenstein guardava la sua Creatura. Quando ci baciamo sulla guancia per salutarci e mi accarezza la faccia, mi aspetto sempre che la sua mano devii improvvisa in testa piazzandomi una palata di gel sui tre capelli rimasti.
Tutte le volte mi sposto d’istinto e lei pensa che a quarantasei anni sono ancora lo stesso scontroso introverso senza speranza.
Vita.
Con Chiara le cose non erano mai facili.
Fin dall’inizio, era come se ci amassimo in due lingue differenti. La situazione sarebbe stata quasi divertente, se non fosse stata tanto faticosa.
Avevamo sempre voglia di fare robe diverse: io mi svegliavo all’alba, lei non rinveniva mai prima di mezzogiorno. Io volevo andare al cinema, lei voleva stare a casa. A me veniva voglia di scampi alla busara e a lei di pizza. Cose cosí.
All’inizio era bello perché ognuno dei due, a turno, si ritrovava a scoprire posti o a sperimentare situazioni che altrimenti, da solo, non avrebbe vissuto mai.
Con Chiara si faceva sesso dappertutto, era come una specie di bulimia. Era strano perché non ci veniva mai voglia insieme, era sempre come se uno dei due dovesse convincere l’altro. Conquistarlo, sedurlo, costringerlo a fidarsi. Non era nemmeno sesso, in realtà. Era come una specie di gioco, annusarsi, avvicinarsi, ritrarsi all’improvviso, prendersi con violenza e dolcezza insieme. Come ballare un tango.
Ecco, se devo pensare a una parola che riassuma tutto il contrario della nostra storia ce n’è una sola che mi viene in mente: sincronia.
Non eravamo sincronici, quasi mai. Eravamo due onde con frequenze e lunghezze differenti. Ogni tanto ci si incrociava per puro caso, o fortuna, ma durava solo un attimo. Sempre, comunque, troppo poco. Ogni volta, dopo che si era condiviso qualcosa, era un riscoprirsi di nuovo orfani, come se ognuno dei due venisse richiamato dentro la tana accogliente della propria solitarietà.
Chiara una volta mi disse: – Sono stata sola tutta la vita prima di incontrare te.
Me lo ricordo ancora benissimo. Eravamo stesi sul parquet, completamente nudi, le gocce di sudore avevano formato sotto di noi una piccola pozzanghera. Avevamo tenuto chiusa la finestra perché a Chiara piaceva farlo al caldo, anche ad agosto, farlo come fossimo in una sauna o dentro una miniera. Lei se ne uscí all’improvviso con quella frase. La disse guardando il soffitto, non guardando me. Sembrava osservasse una macchia di umidità, la disse col tono di una che dice «stasera per cena cavolo bollito» o qualcosa del genere.
Ricordo che io pensai, invece: Non mi sono mai sentito cosí solo come da quando sto con te, e la strinsi forte, quasi sentendomi in colpa.
Stare con Chiara, vivere con Chiara, respirare Chiara, era una specie di nostalgia.
Avevo nostalgia di lei, mi mancava da togliere il fiato, eppure era lí, anche in quel momento, sdraiata di fianco a me a condividere lo stesso identico sudore che ci bagnava la schiena.
Poi mi salí sopra, mi tolse i capelli dalla faccia con entrambe le mani, con un gesto quasi maschile. Mi guardò fisso e mi disse: – Mi ami?
– Sí, purtroppo per me.
– Non mentirmi mai, promettimelo.
– Te lo prometto, – mentii.
Calamaaali!
Sono in cucina a farmi un caffè e un toast, suona il telefono, il numero è sconosciuto.
– Pronto?
– Pronto, buongiorno, avrebbe pochi minuti per rispondere a un sondaggio?
– Pochi minuti quanti?
– Diciamo due o tre?
– Okay, vada.
– Grazie. La avviso che la telefonata sarà interamente registrata in modo da garantire la…
– Sí sí, lo so, vada.
– Ah, okay. Allora, dunque, lei viaggia in treno?
– Be’, sí. Diciamo che mi capita di prendere qualche treno ogni tanto.
– Quanti treni prende in un mese?
– Guardi, di preciso non saprei.
– Piú di uno, piú di dieci, nessuno?
– Dunque, mi faccia pensare. Direi… una settantina?
– Una set…?
– … tantina.
– È una battuta?
– No, perché?
– Cioè, lei prende SETTANTA treni in un mese?
– Sí, piú o meno. Ma è una stima, eh. A luglio saranno stati un centinaio.
– Scusi, lei lavora sui treni?
– In che senso?
– È tipo un macchinista, o un controllore, o che ne so?
– No no, ci viaggio e basta.
– Allora è un pendolare? C’è una tratta che predilige?
– No.
– No?
– No. Faccio tratte sempre diverse. Tipo la settimana scorsa ho fatto l’Adriatica e sono andato a Bari, stasera prenderò un regionale per Brescia, l’altro ieri ne ho preso uno per Arezzo. A proposito, è molto bella Arezzo, sa?
– Immagino. Quindi lei è un libero professionista?
– Sí, penso si possa dire cosí.
– Posso chiederle che lavoro fa?
– Sa che è una bella domanda? Direi che… racconto storie, credo.
– Mi scusi?
– Racconto storie. Certe volte coi disegni, certe volte con le parole. Qualche volta anche al telefono.
– Come, al telefono?
– Be’, un po’ come adesso, no? Questa non è forse una storia?
– Non saprei. Lo è?
– Ma certo. Vuole sapere come comincia?
– Non ne sono sicura.
– Allora, c’era un tizio che era in cucina a farsi un caffè e un toast, dopo una nottata passata con una bambina di tre anni distesa sullo sterno che gli ha tossito in faccia i-nin-ter-rot-ta-men-te per otto ore. Quando la bambina è rotolata addosso alla mamma, dopo aver fatto uscire le due figlie maggiori per prendere il pulmino per la scuola, il tizio si è detto: Aaah, adesso mi preparo un bel caffè e un toast e mi metto qui sul divano per qualche minuto a guardare la puntata di Ciao, sono Hiro quella su l’insalàda di fruto di passsione e calamaaali cludi e sul piú bello che il caffè sta salendo nella moka e Hiro ha cominciato ad affettare i calamaaali, ecco che il telefono squilla. Il numero è sconosciuto, ma il tizio risponde lo stesso. È una signorina che gli chiede se ha due minuti per rispondere a un sondaggio, facciamo tre, e lui dice di sí anche se sa già in partenza che saranno almeno dieci e gli toccherà bere il caffè freddo e mangiare il toast bruciato.
– Lei è molto buffo, sa?
– Dice?
– Sí, soprattutto quando dice: calamaaali. Lí fa proprio ridere. Me lo dice ancora?
– Calamaaali!
– Ahahaha.
– Lei ha una bellissima risata, sa?
– Grazie.
– Non sto facendo il lumacone per cercare di irretirla, eh? Non fraintenda.
– No, non si preoccupi. E poi, per telefono come farebbe a irretirmi?
– Non mi sottovaluti, volendo ho una tecnica infallibile.
– E quale sarebbe?
– Calamaaali!
– Ahahaha.
– Uh, madonna!
– Che succede?
– Niente, mi si è appena bruciato il toast.
– Ah, mi dispiace. Allora vuol dire che siamo arrivati alla fine della sua storia.
– Mannò, non può essere cosí banale, facciamo un finale a sorpresa, dài.
– Tipo?
– Tipo che le faccio il vento al telefono, mi viene benissimo.
– Veramente, non so se…
– WHOOOSSSShhhhSSShhhhh!
– Cioè, ma fa impressione!
– Visto? È la mia specialità.
– E la storia finisce cosí?
– No no, finisce con lei che riappende all’improvviso, però ridendo.
– All’improvviso, e perché mai?
– Perché si ricorda d’un tratto che la telefonata è registrata.
– Oddio!
– Calamaaali!
– Ahahaha.
Riappende.
Sorseggio il caffè freddo sul divano e addento il mio toast bruciato.
Hiro ha cominciato a spiegare il tonno impanato con pistaccchio e purè di avocaaado.
Tradire e tradirsi.
Una cosa che ho impiegato anni a capire è che la vita, se la ascolti bene bene e al netto delle tempeste, alla fine ti porta sempre sulla tua isola, precisamente nel luogo in cui devi trovarti. La scelta che hai a quel punto è se restarci e costruire una capanna con i tronchi, oppure usarli per fare una zattera su cui ti imbarcherai alla ricerca di un’altra costa. Che non è detto troverai, perché magari la tua isola è proprio il mare.
La decisione si riduce infine sempre a questo: piantare un orto o interpretare il vento, essere bravi contadini oppure buoni marinai.
Io ho scelto la terra pur avendo una bussola nel nome, perché questa è la mia idea di libertà. Non abituarti ad essere quel che gli altri si aspettano da te, ma tradire tutto, certe volte anche te stesso, per diventare quel che sei davvero. Capita che le persone che ti amano, quella roba lí, la vedano addirittura prima di te, e quelle sono le persone che ti amano sul serio. Altre volte invece l’amore di certe persone ti schiaccia, facendoti capire che ti ameranno solo se resterai perennemente il tuo principio, e chi lo ha provato sa bene quanto male faccia guardare negli occhi qualcuno che vede il tuo cambiamento come un’infedeltà, o non lo considera abbastanza, o gli piacevi di piú prima.
Ecco, in quei casi il problema non è che gli piacevi di piú prima, è che non ti hanno amato mai.
La domanda.
«Cos’hai?» è la domanda che mi sono sentito rivolgere piú spesso in vita mia.
Io sognavo una ragazza che mi chiedesse invece: «Cosa ti manca?» Cosí avrei potuto risponderle: «Tu».
La cera delle candele (In memoria di Severino Cesari).
Certi giorni sono come la cera fusa delle candele quando ti cola sulle mani.
Non fa male veramente, lascia solo quella sensazione di calore sulla pelle che comincia con una vampata piú forte, quasi dolorosa, ma passa subito. Poi resta la crosta secca della cera da grattar via dalle dita, che se trovi il punto giusto si stacca tutta assieme.
Anche se non fa male veramente, ti fa paura lo stesso, perché il primo contatto è comunque con una sostanza incandescente e per quanto la memoria empirica sappia che non è grave, che non succede niente, la memoria ancestrale di fronte a una fiamma ti mette comunque ogni volta in allarme.
Certi giorni son cosí. Sai che non sta accadendo nulla di irreparabile, che sono solo impicci, sai che te la caverai anche stavolta perché lo fai sempre e che riuscirai a trovare il punto giusto e staccherai la cera tutta assieme.
Ma qualcosa dentro, nonostante tutto, non ci sta.
«Leva il dito, – ti dice. – Toglilo».
Tu invece lo lasci lí. Un po’ perché pensi di meritartelo, un po’ per dimostrarti che non hai paura.
Un po’ perché sai che stare accanto a quella fiamma è l’unico modo in cui riesci a vivere.
Il migliore di tutti.
In stazione a Verona la sala d’attesa non c’è.
Non c’è quasi piú da nessuna parte, ormai. Al mattino presto fa molto freddo e gli studenti che aspettano i treni riparano in Feltrinelli, al primo piano. Molti stanno seduti in terra a parlare, appoggiandosi agli zaini gonfi per la scuola che usano come schienali, alcuni sfogliano libri, altri fumetti, altri ancora sono attaccati agli smartphone o ascoltano canzoni negli auricolari. Io li guardo da dietro la mia copia di Infinite Jest, con la quale ci studiamo da mesi, ogni volta che capito in Feltrinelli la prelevo dallo scaffale, ogni volta giungo alla conclusione che sia troppo pesante da portarsi dietro per il viaggio, ma lei sa che prima o poi mi avrà. Li sbircio e penso che mi piace tanto l’idea della libreria come riparo, anche solo temporaneo, mi dico che se dovessi pensare a una funzione sociale per le librerie, oggi, sarebbe proprio questa: di rifugio. A un certo punto, una ragazza con delle lenti spesse che le fanno lo sguardo piú grande mi passa davanti, a un paio di metri circa, avrà diciassette o diciotto anni, ha in mano una copia del mio libro. La cosa mi fa un certo effetto. È accaduto centinaia di volte alle presentazioni, un paio sui treni, ma è la prima volta che mi capita in una libreria, in maniera inattesa. La vedo avvicinarsi a un’amica col poncho, ha il libro aperto, le indica una pagina, l’amica col poncho legge e dopo mezzo minuto scoppiano a ridere insieme. Sono due risate cosí belle. Penso che il diciassettenne introverso che sono stato avrebbe dato un dito della mano sinistra per riuscire a suscitare in una ragazza una risata come quella. La ragazza con le lenti spesse chiude il libro, fissa la copertina per pochi secondi, va a rimetterlo al suo posto. Penso Che peccato che non lo abbia comprato. Poi mi vedo riflesso nella vetrina, con in mano la copia di Infinite Jest con la quale ci studiamo da mesi, mi viene da ridere, d’un tratto penso che vada proprio bene cosí. Chiudo il libro, lo ripongo sullo scaffale, mi dico La prossima volta, scendo le scale della libreria ed esco fuori al freddo. Appena girato l’angolo ci sono un ragazzo e una ragazza in piedi, abbracciati davanti a una colonna, lui è molto piú alto di lei, sono cosí stretti che sembrano uno. Si dànno dei baci lunghissimi. La ragazza è sollevata sulle punte, lui ha le mani nelle tasche del cappottino di lei, lei in quelle del giubbino di lui. Gli passo di fianco, non riesco a smettere di guardarli, li supero, verso la fine del corridoio mi guardo indietro un’ultima volta, sono ancora là, mi sa che loro il freddo non lo sentono mica, sono lontanissimi da qui, irraggiungibili, il loro rifugio è il migliore di tutti.
Ricordo di una notte di mezza estate.
La serata inizia rigorosamente sul terrazzo, con un vinello bianco ghiacciato – che Giu si era scordato di comprare le birre e io non gliel’ho perdonata –, olive salatissime e un paio di sigarette rollate col Golden Virginia a stuzzicare l’appetito.
Sotto di me, si apre uno skyline quasi newyorkese – Giu e Gi abitano in una zona della città che ricorda certe scenografie di Starsky e Hutch. Di fronte a me, la Fra.
La Fra è una ragazza molto carina, sempre curatissima, elegante e truccata come le foto sui giornali. La Fra è figlia di uno dei piú noti commercianti in città, è la migliore amica della Gi.
La Fra, da che la conosco, ha fissa in fronte una sorta di scritta lampeggiante. La scritta recita, all’incirca: «Non vedi che te la sto tirando con la fionda?»
La Fra però è una persona autentica, va detto. È una ragazza che vive solo in superficie e di superfici, ma è cosí sul serio. Non finge, non si atteggia, è genuinamente ruspante. E ingenua.
La Fra, a trentanove anni, crede ancora nel principe azzurro. Non essendoci tanti azzurri in giro, nel frattempo si passa principi di tutti i colori e pure qualche scudiero. Senza prendere troppe precauzioni.
Era soltanto questione di tempo.
Ora la Fra attende un figlio dal Principe dei Nani, che di azzurro ha giusto la camicia di Ralph Lauren che indossa, forse. Il Principe dei Nani, appresa la ferale notizia, fa il vago. Prima non parla, poi non parla e infine non parla. La Fra gli chiede che cosa vogliono fare, il plurale non è casuale. La Fra infatti non si chiede cosa vuole fare lei, e non ti chiede cosa vuoi fare tu. La Fra da che mondo è mondo ti chiede cosa volete fare, perché il sottotesto è «sollevami da questo peso e decidi tu anche per me». Il Principe dei Nani però non è abituato a decidere. Che i nani sono un popolo anarchico e tendenzialmente si fanno i cazzi loro. Il Principe dei Nani si dilegua nel nulla, salvo farsi venire qualche crisi mistica telefonica notturna quando è sbronzo marcio e la chiama in lacrime per commuoversi da solo e farle vedere che in realtà è un ragazzo sensibile.
La Fra non sa cosa fare. Prima pensa che non lo vuole tenere. Però poi cambia idea. Però poi parla con le amiche e cambia idea ancora.
Il Principe dei Nani, chiuso nel suo silenzio da Peter Pan, in realtà spera.
Spera che la Fra faccia sé stessa anche stavolta. Che viva ancora in superficie e di superfici, che voglia continuare a fare notti brave ancora a lungo e che intenda tenere accesa la sua insegna per molti principi a venire. Spera che l’estate che si sta aprendo le ricordi che c’è tutta vita, là fuori, ad attenderla.
Il Principe dei Nani sogna che la Fra lo renda di nuovo libero, ma non ha il coraggio di dirlo a voce alta perché altrimenti gli va in culo l’immagine di ragazzo sensibile. E poi qualcuno per il resto dei giorni potrebbe rinfacciargli che è stata tutta colpa sua. Ci vorrebbero spalle larghe, per questo. Insomma, non son cose da nano.
La Fra, a un certo punto e inaspettatamente, prende la sua decisione. La scritta lampeggiante prima si affievolisce e poi si spegne, il Principe dei Nani esce di scena e cambia favola.
La Fra rimane sempre la Fra ma ha preso, forse, la prima decisione autentica della sua vita.
Oggi la sua decisione ha otto anni e capelli lunghi corvini. Va a scuola tutte le mattine con un panino al prosciutto avvolto in un foglio di alluminio e un succo alla pera, che la Fra gli infila amorevole nel tascone dello zaino. Ha occhi azzurri da elfo che ha preso dalla madre e adora disegnare. Non va tanto forte in Matematica.
La Fra lo sta educando a essere un Principe e non un Nano.
Secondo me ci riesce.
La resistenza del maschio.
– Papà, ma perché i maschi sono tutti cosí stupidi?
– Ma non sono stupidi, Virginia, è che fanno gli stupidi con le femmine.
– E perché?
– Be’. Forse per paura di sentirsi stupidi.
– Ma cosí SEMBRANO stupidi.
– Lo so.
– Ma non potreste essere solo come siete?
È tutta la vita che sogno una donna che mi dica una frase come questa.
E ora quella donna è mia figlia.
Karma maledetto.
Sbagliare numero.
C’è una signora che sbaglia numero di telefono da quindici anni.
Da quindici anni mi chiama a intervalli regolari, piú o meno ogni sei mesi, lo faceva anche quando eravamo nella casa vecchia. Anche quando abitavo per conto mio, che il numero è sempre lo stesso da allora. Di solito chiama verso le 7.30 del mattino. Io rispondo di fretta, che a quell’ora sto vestendo le bambine per la scuola coi minuti contati, oppure sto smazzando succhini alla pesca e biberon, quando vivevo da solo era l’ora in cui mi preparavo per andare in ufficio. Dall’altro capo del filo, una voce di donna anziana chiede: «Lucia?»
Io spiego con gentilezza, ogni volta, che Lucia non c’è e che la signora ha sbagliato numero. La signora, prima di scusarsi, ha sempre circa tre secondi di indecisione. In quegli attimi, percepisco distintamente che in qualche modo sta pensando che devo essere un imbroglione, che sono a casa della Lucia e le sto nascondendo qualcosa. Capita che richiami ancora. In quel caso, non appena sente la mia voce, riappende.
La signora ha chiamato pure stamattina, non la sentivo da questa primavera, ma ho riconosciuto subito la voce. Stavolta non ha chiesto di Lucia.
– Antonio? – ha detto, prendendomi in contropiede.
– Ssí? – ho detto, non so neanch’io perché.
– Auguri di buone feste! – ha detto la signora, – a te e alla Lucia!
– Grazie, anche a te, – ho detto di riflesso.
Stavo per dirle che Antonio non sono io, ma ha riappeso senza nemmeno salutare. Fa sempre cosí anche mio padre, ho pensato, quando ha finito lui di dire quel che deve chiude la telefonata senza alcun fronzolo.
Mi sono sentito subito in colpa per aver rubato gli auguri a qualcuno, forse addirittura a suo figlio o sua figlia, che magari abitano lontani, non so. Ho provato a chiamare il numero per tre volte, ma la signora non rispondeva e non sapevo come fare.
Ha richiamato lei cinque minuti fa.
– Lucia? – ha detto.
– No, signora, qui parla Bussola, – ho detto. – Ero io pure prima, solo che di mattina presto sono rintronato e ho risposto senza pensare, mi scusi.
C’è stato un silenzio di qualche secondo.
– Auguri di buone feste, – ha detto la signora.
– Ah, grazie, anche a lei, – ho detto.
Poi ha riappeso, senza nemmeno salutare.
Per un attimo ho provato una strana sensazione di familiarità, forse perché lo fa sempre anche mio padre, ho pensato. Poi ho capito che invece non era quello.
È che io sapevo che la signora fa cosí anche con Antonio e la Lucia. Oltre a loro, lo so soltanto io. E oggi, per un attimo, solo per sbaglio, sono stato prima l’uno e poi l’altra. Forse sono stato suo figlio o sua figlia, e la signora è stata mia mamma e ci stavamo facendo gli auguri.
D’un tratto, i quindici anni a sbagliare numero mi sono sembrati una specie di rincorsa solo per arrivare a questo.
Taac, ricco.
Paola, all’apice di una giornata difficile, mi ha guardato e mi ha detto: – Dobbiamo diventare ricchi, – e io le ho detto: – Va bene, – e lei mi ha detto: – Diventi ricco tu, per piacere? – e io le ho detto: – Non c’è problema, – e lei allora mi ha detto: – Sono dieci anni che me lo dici.
E, in effetti, è vero.
Ma su ’sta cosa del diventare ricchi sono sereno. Cioè, so bene che, il giorno che vorrò diventare ricco, lo diventerò. Il punto è che non so se voglio davvero, infatti sono dieci anni che m’interrogo su questo, perché lo so che se poi diventassi ricco non farei piú un cazzo. Che la motivazione economica, il dovermi guadagnare faticosamente la pagnotta, nella struttura delle mie giornate e dei miei obiettivi, è una roba fondamentale. Fa brutto dirlo? È cosí.
Anche per questo, quando penso a diventare ricco, penso che non mi piacerebbe essere ricco ricco, ma solo tipo: benestante. Che poi in realtà neanche. Mi piacerebbe solo averne abbastanza per arrivare alla fine di ogni mese senza il collo tirato e il fiatone e magari avanzandone quel che serve per sistemare la casa (arredarla come si deve, cambiare i serramenti e le porte che non si chiudono, rifare il tetto che non ci piova piú dentro, fare un cappottino esterno, rifare i balconi eccetera) e soprattutto poter fondare una casa editrice anche piccola per far lavorare i giovani disegnatori che mi piacciono e che inspiegabilmente – per me – l’editoria italiana lascia a spasso.
Comunque, dicevo, sulla cosa del diventar ricco io sono piuttosto tranquillo. Perché per diventare ricco ho diversi piani, e devo solo scegliere il momento. Sul serio, sono pieno di idee, e so che quando mi deciderò basterà solo andare a presentare le mie idee alle persone giuste e: taac, ricco.
Lo so, sembra che la faccio facile. Che poi, direte voi, si fa presto a dire idee.
Ora, il fatto è che io potrei fare un esempio, ma se lo facessi correrei il rischio che qualcuno mi rubasse appunto l’idea. Del resto, se non lo facessi, si potrebbe pensare che sono un fanfarone che parla a vanvera. E siccome per me la dignità e la reputazione prima di tutto, okay, faccio l’esempio. Che poi, tanto, se anche mi rubaste l’idea, io potrei dimostrare di averla scritta per primo qui. Perciò se l’azienda alla quale vi doveste rivolgere con la mia idea (rubata) la comprasse da voi, vi comprerebbe magari questa idea qui, ma poi da chi è che andrebbe per le prossime una volta scoperto che non è farina vostra? Esatto.
Perciò, ecco qui. Esempio di idea per una pubblicità milionaria.
Immaginatevi per comodità il tipico cartellone autostradale (ma potrebbe essere la quarta di copertina di un giornale, un banner su Internet, l’ultimo fotogramma di una pubblicità in tv).
Su sfondo bianco si stagliano a sinistra un’auto vecchissima, direi addirittura di fine Ottocento, di fianco un guidatore con tanto di cappello e monocolo e guanti da guida. Oppure, estremizzando al massimo, addirittura un’automobile dell’età della pietra tipo quella dei Flintstones, e appoggiato all’auto un uomo primitivo vestito con la sua pelle di leopardo e la clava. Sullo stesso sfondo bianco, a destra, immaginatevi un’auto modernissima. L’auto è l’ultimo modello della Volvo, quello che si intende pubblicizzare. Appoggiato all’auto moderna, con lo sguardo teso in avanti, un uomo vestito elegantissimo e all’ultima moda, oppure abbigliato in maniera percettibilmente futuribile. Le due auto e i due guidatori sono affiancati.
Sinistra: uomo primitivo e auto antica. Destra: uomo del futuro e Volvo nuovissima. Ci siete? Slogan sotto alle immagini:
«Io eVolvo».
Taac, ricco.
Ecco, io di queste idee geniali ne ho a mazzi, ma davvero tipo che me ne vengono una trentina al giorno. E per questo sono tranquillo riguardo alla cosa del diventare ricchi. Tra l’altro, questa idea in particolare, c’è stata una volta nel ’97 che stavo per venderla sul serio. Davvero, avevo già in mente di telefonare alla Volvo perché avevo bisogno di diventare ricco per conquistare Isabella. Che Isabella era una difficile e insomma, mi sono detto, meglio se mi presento già ricco, che certe donne col discorso della fiducia ci hanno dei problemi, mica sono tutte come Paola.
Quella volta là, per sicurezza, ne parlai prima con una mia cara amica. Questa mia amica, di cui non farò il nome – ciao Marta! – per un lungo periodo fu la mia consulente per gli affari sentimentali. Dunque chiesi a lei. Le dissi di Isabella e le spiegai il mio piano, idea geniale compresa.
– Va be’, ma non mi sembra mica tanto geniale, – disse.
– E perché? – dissi io.
– Perché, scusa, la puoi fare con tutto, – disse lei.
– Eh? – dissi io. – In che senso?
– Nel senso che la cosa lí dell’uomo primitivo e la macchina, basta che ci metti a destra una Punto, oppure ci metti un’Alfa Romeo e dov’è la genialata? – disse.
– Marta. Io E Volvo. Evolvo. È un gioco di parole, capisci? L’uomo primitivo evolve nell’uomo del futuro, sempre accanto alla sua fedele auto Volvo, che lo accompagna nei secoli ed evolve pure lei. Crescono insieme. E cazzo, dài. EVolvo, – dissi.
– Eh, e non lo puoi fare anche con la Fiat? Non lo può accompagnare nei secoli, una Fiat? – mi disse lei.
– Io eFiat? – dissi io.
– Eh, – disse lei.
– … – dissi.
Da quella volta non proposi piú idee geniali alla Marta ed entrai in crisi.
Nel frattempo, Isabella si mise con Michele che era già ricchissimo di famiglia e io dovetti giocarmela solo sulla simpatia.
Comunque, una settimana dopo e per pura tigna, elaborai una pubblicità geniale anche per la Fiat.
Immaginatevi un ipotetico ultimo modello di Fiat, sullo sfondo fuochi d’artificio che scoppiettano festosi nella mia città, Verona, e illuminano l’auto a giorno. Slogan, che poi diventerà pure il nome del nuovo modello:
«Fiat Lux».
Dal finestrino dell’auto, sbuca la Marta in abiti shakespeariani, con in mano una torcia che le illumina il viso dal basso, urlando:
– Giulietta Lux!
La pubblicità la vendo pure all’Alfa Romeo.
Taac.
Ricco.
Hassan Sadki.
Non volevo uscire perché stavo finendo una tavola, ma sono dovuto andare al supermercato per comprare le crocchette dei cani.
Nel parcheggio davanti c’erano due auto che si erano tamponate. Di fronte all’Audi grigia c’era una signora sui cinquanta con una vistosa pettinatura, avvolta in un cappottino mezza gamba alla moda. Fuori dalla Opel rossa, una coppia di uomini sui quaranta vestiti da lavoro. La dinamica, risultava con chiarezza, era che le due auto si erano tamponate uscendo in retromarcia in contemporanea. Mentre la signora parlava ad alta voce al telefonino, quasi urlando, i due uomini sembravano intimoriti. Attorno a loro, un piccolo capannello di persone. Mi sono avvicinato – per entrare ci dovevo passare davanti – e ho sentito la signora al telefono dire: – Perché questi i vien qua solo a far danni! – È stato lí che mi sono accorto che i due uomini erano nordafricani, probabilmente marocchini o tunisini, non so. E ho avuto d’un tratto l’impressione che le persone non fossero lí per curiosità o per aiutare, ma avevano quasi l’atteggiamento di sentinelle, come stessero lí per impedire una fuga o qualcosa del genere. Stavo per chiedere lumi ma ero stanco, la notte prima avevo dormito male, e ho pensato Non è che puoi impicciarti sempre. Sono entrato nel supermercato con un sottile senso di vergogna, sentendomi una specie di disertore.
Quando sono uscito con la spesa, c’erano i vigili. Li ho sentiti rivolgere una domanda a uno degli uomini della macchina rossa.
– Nazionalità? – ha detto il vigile.
– Italiana, – ha detto l’uomo.
– Come no, – ha detto la signora.
L’uomo ha guardato la signora, si è tolto il cappello da lavoro che aveva in testa.
– Signora, – ha detto, – io abito qua da diciassette anni. Mia moglie è italiana e ho tre figlie che vanno a scuola. Lavoro anche la domenica. Sono italiano.
– M’immagino che lavori che fate, – ha detto la signora.
Io avevo i sacchetti in mano, li ho posati a terra e mi sono avvicinato all’uomo.
– Del resto, – ho detto apposta a voce alta e ridendo, – è risaputo che le donne non sanno guidare. E la domenica dovrebbero stare a casa a spadellare, non nei parcheggi a rompere i coglioni!
– Ma come si permette?! – ha urlato la signora, indignatissima.
– Niente, signora, – ho detto, – volevo solo buttare lí anch’io un pregiudizio a caso.
Gli uomini hanno riso, la signora no. Ho ripreso i miei sacchetti e me ne sono andato verso l’auto. Mentre stavo facendo retromarcia, ho visto l’uomo che mi correva incontro. Ho fermato la macchina e ho abbassato il finestrino.
– Tieni, – mi ha detto, allungandomi un bigliettino.
Sul bigliettino c’era scritto: «Hassan Sadki, tinteggiature edili».
– Se hai bisogno, ti faccio un buon prezzo, – ha detto.
L’ho ringraziato e me ne sono andato. In auto ho pensato che a primavera devo imbiancare le camere delle bambine.
Mi sa che lo chiamo, ha tre figlie e lavora anche lui di domenica.
Lo sgabello Bekväm.
Ieri è andato in stampa il mio primo libro.
Quest’esperienza mi ha insegnato un sacco di cose.
Che lavorare assieme agli altri resta la faccenda piú difficile, ma anche la piú istruttiva. Che avere ragione non c’entra niente col portare a casa il risultato. Che un libro è fatto soprattutto da quello che non ci metti dentro, proprio come una fotografia è fatta soprattutto dalle cose che scegli di lasciare fuori dall’inquadratura. Le cose che lasci fuori non è che siano meno belle, è solo che devi decidere ciò che vuoi mostrare nella tua foto, e quello dev’essere il tuo unico fuoco, che poi è un’altra maniera per dire che se una matita o una tastiera sono il mirino della tua intelligenza, allora è importante verso cosa le punti. Che non sarò mai uno di quelli che vuole pubblicare a tutti i costi. Che il mio libro è una conseguenza e non un obiettivo, ma che a volte gli obiettivi migliori sono proprio quelli che raggiungi in maniera inattesa, come quando vai a correre in campagna e d’un tratto ti trovi in cima a quella collinetta, sudato e coi crampi, e pensi: «Cazzo, che bel panorama». Che la continuità vale piú dell’impegno e del talento messi assieme. Che l’amore non ti completa, ma ti comincia. Che per portare a compimento un progetto, piú che la bontà del piano, conta la convinzione di una persona, e non è detto che quella persona sia tu. Che se ripetere gli stessi errori è frustrante, farne di nuovi è invece bellissimo. Che a volte vinci di piú quando perdi. Che, nonostante gli anni e i chilometri, sono sempre le stesse cose a buttarmi a terra, ma che a terra ci resto il tempo di un respiro. Che quando dico a qualcuno: «Fidati», e sento che quel qualcuno si fida davvero, è l’esperienza piú bella. Che quando qualcuno mi dice: «Fidati», e io sento che mi fido davvero, è ancora meglio. Che non so come far capire agli altri che: disegno perché mi piace, ma scrivo perché mi serve. Molti cercano di indurti a credere piú o meno sottilmente che devi scegliere, che devi fare una cosa, o l’altra. E io penso ogni volta che fare una cosa, o l’altra, non c’entri niente con l’essere una persona, o un’altra, che poi è la vera cosa di cui cercano di convincerti. Che alla fine la vita è come lo sgabello Bekväm dell’Ikea: non si capisce se sia una sedia, una scaletta, un tavolino o un boomerang.
Non c’è una maniera giusta, ognuno la usa come cazzo gli pare.
Countdown.
– Sei pronto?
– Sí.
– Okay, allora al tre si va. Uno, due…
– No, aspetta un attimo!
– Che c’è?
– Non so piú se voglio.
– Ma come non sai se? Ne avevamo parlato! E m’hai fatto pure giurare di non permetterti di tirarti indietro se fossimo arrivati a questo punto, ricordi? In nessun caso, mi hai detto!
– Sí, lo so. Ma ora, mioddio… è molto peggio di quanto immaginassi!
– Eddài, che ci vuole? Prendi un bel respiro e buttati!
– Sí ma… se poi qualcosa andasse storto?
– Storto? Ma cosa vuoi che vada storto. Abbiamo fatto milioni di prove!
– Sí… hai ragione ma… può sempre succedere che…
– Oooh, ascolta! Allora anche quando passi sotto un balcone può succedere che ti cada un vaso di fiori in testa, ma mica capita!
– Be’, ma che c’entra, mica stiamo sotto un balcone, qua.
– Appunto!
– Quindi dici che mi butto?
– E certo! Dài, insieme, su.
– Prendo un bel respiro?
– Dal naso però. E chiudi gli occhi, funziona sempre.
– Okay.
– Allora pronti? Uno… due…
– Aspetta, aspetta un attimo!
– Oohhh! Che c’è adesso?
– Non mi ricordo piú che devo dire! Mi sono scordato!
– Come, scordato?
– Sí, non mi ricordo piú, ti giuro! Vuoto totale!
– Ma porca troia, ma se l’abbiamo provata per giorni!
– Sí, lo so, ma adesso… cazzo… niente.
– Cazzo cazzo cazzo!
– E ora che succede?
– Se ne stanno andando, ecco cosa!
– Come, andando?
– Finché noi stavamo qua a delirare sulle tue paure loro hanno finito!
– Oh merda, e adesso?
– E adesso e adesso… lasciami venire un’idea…
– Eddài su, sono già quasi alla porta!
– Aspetta… okay, ecco, ci sono!
– Ci sei?
– Sí, sí, ora ci penso io, lascia fare a me!
– Cos’hai in mente?
– Oramai andiamo di classico, è l’unica.
– Di classico?
– Di classico, sí. Adesso vado.
– Vai? Come vai? E io non vengo?
– Ma se è un’ora che stai qua a farmi paranoie che non vuoi buttarti!
– Eh, sí… ma non voglio nemmeno stare qua da solo!
– Okay, allora vieni.
– No dài, sto qui.
– E deciditi!
– Non lo so, madonna!
– Guarda che se ne vanno!
– Allora va’ e parlaci tu, dài! Io sto qui e faccio il misterioso.
– Il misterioso.
– Eh.
– Con quella faccia.
– Eh.
– Va be’, allora vado e ci parlo io, aspetta qui!
– E cosa dirai?
– Vado di classico, te l’ho detto. Oppure improvviso.
– Improvvisi?
– Sí, improvviso, improvviso! Cosa credi che non sia capace di…
– No, no, certo. Va bene. Improvvisa. Mi fido.
– Bene, allora.
– Ah! Aspetta!
– COSA?!
– Io la bionda però, eh?
– Va bene, va bene! Allora pronto?
– Pronto.
– Tu fai l’ombroso.
– Il misterioso.
– Quello che vuoi, basta che non fai il coglione. Adesso vado, okay?
– Vai!
– Ragazze, scusate, non è che avreste da accendere?
– Non fumiamo.
– Ah, ecco, ciao.
– Allora? Che hanno detto?
– Ma guarda, viste da vicino non son niente di che.
Un soldo di cacio.
A. fu la mia prima fidanzata.
Aveva otto anni, la incontrai alla scuola elementare, diventammo compagni di classe in terza B. Aveva gli occhi uno verde e uno marrone, i capelli lunghi biondi, e per me era uguale alla principessa Aurora di Starzinger, anche se era alta un soldo di cacio.
A. fu la prima persona che mi fece scoprire cos’è la gentilezza e mi insegnò a non vergognarmi mai. Quando uscivamo dalle lezioni, al suono della campanella, o se si andava in gita, A. e io ci tenevamo sempre per mano. Gli amici maschi mi canzonavano ma a me, quando stringevo la mano di A., non importava niente.
Un giorno A. mi diede un bacino sulla bocca. Eravamo seduti in giardino, era la ricreazione e le stavo spiegando una roba di Scienze. A. mi posò una mano sulla guancia, poi si avvicinò. Non durò neanche mezzo secondo. Le sue labbra sapevano di mela e di schiacciatina insieme. Quando Eugenio lo disse alla maestra Teresa, la maestra ci sgridò. Ricordo che sgridò soprattutto A. e la fece piangere. Io allora mi arrabbiai molto e dissi alla maestra Teresa che era una stupida, cosí mi beccai la mia prima nota. Quando mostrai la nota a mio padre mi aspettavo di prenderle, invece lui mi disse che avevo fatto bene e io quel giorno lo amai molto.
Fu un anno bellissimo fatto di prendersi per mano, sorridersi dietro i quaderni, schiacciatine divise a metà, spiegazioni di Scienze in cui A. non mi ascoltava mai. E quel profumo di mela che era sempre con me.
In quarta elementare i genitori di A. decisero di andare a vivere in un altro paese. A. naturalmente li seguí e fu costretta a cambiare scuola. In realtà erano solo trenta chilometri, ma per due bambini di nemmeno nove anni era come la distanza Terra-Luna.
Quando mi salutò, A. mi disse queste parole: – Ciao, – mi disse, e poi se ne andò correndo. Io non ricordo cosa risposi, o se risposi, so solo che rimasi lí mentre l’auto di sua mamma me la stava portando via. L’amore rimpiccioliva mentre l’auto si allontanava, era un bambino atterrito dalle scelte degli adulti. Mi sembravano tutti stupidi.
Non la rividi piú.
Qualche giorno fa A. mi ha scritto su Facebook. Ha visto che ho pubblicato un libro, lo ha trovato sulla bacheca di un’amica che lo consigliava. Allora è venuta a vedere la mia.
A. oggi non è piú bionda e ha quattro figli maschi, poco piú grandi delle mie figlie. Quando le ho risposto, le ho scritto ridendo che saranno la ragione per la quale continueremo di sicuro a non incontrarci mai.
«Sei ugualeuguale», mi ha scritto A., fra le altre cose. Guardando le sue foto, ho visto che per me è ugualeuguale pure lei, soprattutto gli occhi e il sorriso.
Mi sono detto pensa che beffa, che magari tu sei convinto di passare la vita a crescere, a cambiare, per poi tornare uguale a quello che eri. O forse è che, in fondo, crescere significa solo diventare quello che sei.
Forse i bambini di otto anni quella roba lí la vedono e se la ricordano per sempre. Poi te la scrivono trentasei anni dopo su Facebook e a te viene un’improvvisa voglia di mela e di schiacciatina, di compiti di Scienze, di essere punito per un bacio dato a un amore alto un soldo di cacio.
Ogni volta.
Ogni volta che devo prendere un treno mi succede questa cosa che parto per prendere il treno, nella mia Opel Corsa blu, che la stazione quando c’è traffico è a un’ora di auto, e mentre sono in macchina che penso Madonna devo prendere il treno mancano solo cinquantasette minuti non ce la farò mai devo pure trovare parcheggio e in via Cipolla ci sono i lavori, mi si buttano agli angoli degli occhi tutte cose bellissime, o che sembrano bellissime a me, tipo la signora dai capelli rossi come il fuoco che va a fare la spesa all’Esselunga, su una bicicletta rosa, intabarrata in un impermeabile arancione, oppure il tizio che fuma sotto la pensilina dell’autobus in canottiera, sbuffando nuvolette di fumo con gusto e pure una punta di esibizionismo, come fosse in Puglia in agosto, e quando passo a gettare il saccone del misto nei cassonetti lungo la strada incontro sempre la vecchina alla finestra, che mi scruta tipo umarèll che fissa i lavori in corso, con lo sguardo torvo e l’orecchio teso a sentire se per caso quando lancerò il sacco si sentirà un rumore sospetto, il clang di una bottiglia di vetro abusiva, e m’immagino le giornate di questa vecchina che giudica il mondo dalla sua finestra, dall’osservatorio privilegiato del cassonetto sotto casa sua, e una parte di me pensa che tutto sommato dell’umanità ne potrebbe raccontare piú lei che un raffinato sociologo, e quando passo vicino all’edicola grande, alla porta vedo sempre quel senegalese enorme che elargisce sorrisi bianchissimi a chi entra e a chi esce, e invece le persone gli passano accanto con la spalla destra, o sinistra, un po’ alzata, come a proteggersi, e nonostante questo il suo sorriso resta lí, inscalfibile e promettente, e io mi chiedo come faccia a farsi scivolare addosso tonnellate di indifferenza ogni giorno, ogni ora, ma soprattutto vedo il camioncino dell’ambulante vicino alla rotonda che ancora, a novembre, si ostina fiducioso a vendere ombrelloni e sdraio a righe, e secondo me ha ragione lui, perché vuoi mettere il mare a novembre, e mi piace immaginarmelo la sera, quando chiude, mentre se ne va alla spiaggia, magari su una bicicletta rosa, a baciarsi su una sdraio a righe con una signora dai capelli rossi come il fuoco intabarrata in un impermeabile arancione, la spesa appena fatta all’Esselunga che affonda nella sabbia, due lattine di birra messe in fresco nell’acqua che vengono portate via dalle onde, e vedo tutte queste cose, oppure me le immagino, e devo ogni volta resistere alla tentazione di fermarmi e scriverne subito, oppure disegnarle su un foglietto, oppure telefonare a Paola, o a mia mamma, perché in quei momenti mi sembra che la realtà mi parli, e quando la realtà mi parla mi viene voglia di raccontarla come fosse una musica, come fossi la puntina di un grammofono che si infila nei solchi di un vecchio disco da cui esce una melodia sempre uguale, ma sempre diversa, a seconda di chi la ascolta.
Poi generalmente perdo il treno.
Erkin.
Stanotte tirava un vento obliquo e tagliente che non mi faceva dormire.
Anche i cani erano inquieti, continuavano a fare dentro e fuori con urgenza, come percepissero qualcosa nell’aria.
Paola e le bimbe sono dai nonni e allora mi sono alzato accendendo le luci, ho pensato tanto vale, e sono sceso in studio a inchiostrare un po’.
Stavo per far partire la radio, ma il vicino stanotte ha messo di nuovo la musica per la mucca, sostiene che cosí fa il latte piú buono, e il bosco ondeggiante risuonava delle note dell’Avvelenata di Guccini, poi Via Paolo Fabbri 43 e infine dei valzer di Strauss. Ho schiuso appena la portafinestra e succedeva questa cosa che l’odore asciutto del vento e le note invadevano la stanza come l’aroma del minestrone quando riempie la cucina. Sono entrato quasi subito in un’atmosfera irreale, fluida, con la mano che scivolava sul foglio priva di dubbi e per qualche minuto ho sperimentato un intervallo di perfetta armonia artistica e mentale.
Poi c’è stato il rumore.
I cani sono scattati fuori abbaiando, d’istinto stavo per seguirli ma avevo il pennello in mano, gocciolante, e il giubbino e la torcia erano di sopra e ho pensato Sta’ calmo, è solo vento, sali, ti vesti in fretta e vai a vedere. Piú che altro per richiamare i cani abbaianti in notturna, che sennò i vicini domani sono capaci di lasciarmi un altro biglietto di garbata indignazione nella cassetta del pane.
Mi faccio due giri di sciarpa attorno al collo ed esco correndo verso il cancello, in direzione del trambusto. Garrett sta abbaiando a qualcosa, Cordelia pure l’ha presa molto sul personale. Il vento un po’ mi confonde, ma mi sembra di percepire un lamento. È cosí. – Ahiahiahiaaa! – sale dalla strada. Illumino con la torcia, cauto e – confesso – un po’ spaventato. Davanti al muretto di casa mia c’è un ragazzo, riverso a terra con il suo scooter sulla gamba. Esco subito, apro il cancello ed escono pure i cani che scappano su per la salita e penso vaffanculo, li riprendo poi. Il ragazzo è a terra ma si muove. Si muove bene, intendo. Muove la testa, muove il tronco, agita le braccia. Sembra solo intontito.
– Ehi, – gli dico. – Tutto a posto?
Gli tolgo lo scooter di dosso, cercando di sollevarlo, ma è pesante e devo far ricorso a tutta la forza che ho. Non faccio nemmeno in tempo a finire di tirarlo su che il ragazzo salta in piedi come una molla.
– Sta’ buono! – gli dico. – Potresti avere qualcosa di rotto, siediti.
– Nonono, devo andare a casa subito o mé papà el me còpa! – dice.
– Ecco, – gli dico io. – Secondo me tuo padre è piú contento se non ti uccidi prima tu da solo, fidati.
– ***! [Intercalare veneto], – dice il ragazzo. – Vàrda lo scooter!
– Tranquillo, – gli dico. – Hai solo sbrindellato il parafango, ma cosí a occhio mi sembra che tu non abbia fatto danni gravi.
Ci risale sopra che lo tengo ancora per il manubrio e prova a farlo ripartire.
– Allora! – gli urlo. – Siediti qui un attimo! Vediamo prima se stai bene, cazzo!
Lui mi guarda come se non si aspettasse la reazione. Ci fissiamo per due secondi cosí, con Strauss in sottofondo che arriva dal bosco, portato dal vento. Dalla casa di fronte mi sembra di scorgere una sagoma di donna dietro una finestra.
– Sto bèn! – mi dice. – Non son andà contro il muro, son solo cascà.
– Hai bevuto?
– Secondo tí?
– Okay. Altro?
Il suo sguardo dice tutto. Il suo sguardo dice Vecchio di merda come diavolo fai a saperlo. Il mio invece dice: lo capirebbe anche mia figlia di quattro anni.
– Ora, – gli dico, – prima di tutto. Dove cazzo abiti?
– Qua su a Romagnàn, – mi dice.
Romagnano è appena qui sopra, a circa tre chilometri. Ma sono tre chilometri di tornanti al buio e io penso subito che, se lo lascio andare da solo, questo a casa non ci arriva.
– Okay, allora senti, – gli dico, – facciamo cosí. Tu ora lasci lo scooter qui da me. Lo portiamo dentro in giardino e vieni a riprenderlo domattina o quando vuoi. Poi ti accompagno a casa in macchina. Prima però controlliamo BENE che tu non ti sia fatto niente.
Lui cerca di nuovo di far ripartire lo scooter. Non riparte.
– ***! [Intercalare veneto], – dice.
– Okay, allora è deciso, lo portiamo dentro, – dico. – Vieni.
Riprendo i cani mentre lui cerca di mettere lo scooter sul cavalletto, in giardino, poi entriamo in casa. Si siede sul divano e gli do mezzo litro di minerale da bere che lui non vuole ma io gli dico Bevi, tutta, e lui la beve, tutta. Da vicino e senza casco mi rendo conto di quanto sia giovane. Avrà diciassette anni, forse.
– Come ti chiami?
– Erkin.
– Erkin?
– Lo so, che cazzo di nome è, – mi dice lui.
Scoppiamo a ridere, all’unisono.
– Allora, Erkin, – gli dico. – Sono le tre e mezza del mattino. Lo scooter è in salvo. Tu non hai un cazzo a parte che sei pirla. Andiamo a casa?
Erkin ride. – Okay, – mi fa.
Scendiamo in giardino e saliamo sulla mia Opel Corsa blu fredda come la morte e Erkin si siede sui miei occhiali da sole che stavano sul sedile e mi dice Scusa e io gli dico solo di mettersi la cintura e usciamo in strada.
Casa sua è davvero poco piú su, e all’improvviso penso che il mio forse è stato sul serio un eccesso di zelo. Ma dopotutto, no. Mi chiede di fermarmi non proprio sotto casa. – Cosí mio padre non mi vede, – dice.
– Allora a domani, – gli dico. – Io sono a casa che lavoro, tu per lo scooter passa quando vuoi.
– Okay, – mi dice. – E grazie.
– Va’ in mona, – gli dico.
Erkin sorride, scendendo dall’auto.
Passo il resto della notte in piedi, un po’ a lavorare e un po’ a guardare la tivú. Mi alzo definitivamente verso le otto e tre quarti e mi faccio il caffè. Comincio a lavorare. Poi Erkin suona il campanello. Lo faccio entrare. In giardino, armeggiamo per un po’ con lo scooter ma non riparte nemmeno stamattina, e allora Erkin decide di spingerlo in salita verso casa, a piedi e sbuffando. Indossa gli stessi vestiti di stanotte.
– Dài che ti fa bene! – gli urlo.
– Va’ in mona! – mi dice ridendo prima di scomparire alla fine della strada, senza nemmeno voltarsi ma alzando una mano in aria, in cenno in saluto.
L’amore che ci metti.
Adoro le pagine di merda.
Le vignette uscite male e mezze storte, quelle che mentre le stai disegnando lo vedi che non sono il massimo, ma pensi «vado avanti lo stesso e le sistemo poi». Quando settimane dopo ci torni sopra, è pure peggio. Il disegno ti sembra fatto da un altro, lo guardi e ti chiedi: «Perché?» Ci rimetti mano all’inizio senza convinzione, pensando che faresti prima a buttare tutto e rifare, invece un po’ alla volta ti accorgi che ci prendi gusto: aggiusti quel braccio, le pieghe del vestito, sistemi lo sfondo, rendi il primo piano piú intenso. Ci metti tutto ciò che hai, perché abbandonare quella pagina al proprio destino significherebbe arrendersi all’evidenza, mentre tu hai già imparato da un pezzo che l’evidenza è solo un alibi per la pigrizia mentale.
Nove su dieci, va a finire che la pagina inizialmente di merda diventa una delle migliori del mazzo.
È un mistero.
È un po’ come quando da adolescente t’innamori di una ragazza bruttina. Riconosci che non è bella, i tuoi occhi lo vedono, eppure qualcosa dentro di te la vede anche con un altro sguardo, una specie di seconda vista che si attiva solo quando conta, quando percepisci che una ragazza ti piace ma non sapresti dire il perché. Quando in teoria dovrebbe essere lontana anni luce dai tuoi gusti o dal tipo di bellezza alla quale sei stato, tuo malgrado, socializzato. Eppure.
Ed è lí che ci credi e ti sistemi la relazione addosso, decidi di indossarla, la senti crescere. E quella ragazza bruttina diventerà un po’ alla volta confronto inconsapevole per tutte le bellone passate e future, magari ottenute pure senza merito. Mentre quella ragazza bruttina lí, quella col culone e le gambe un po’ grosse ma che quando la vedi ridere ciao proprio, hai dovuto faticare prima per averla e dopo per scoprirla. Hai lottato per non fermarti davanti ai tuoi stessi pregiudizi, e adesso insieme siete diventati il paradigma per tutte le relazioni che hai avuto e per quelle che non senti piú il desiderio di avere.
Adoro le pagine di merda e le ragazze bruttine, perché nelle prime si annida sempre une lezione da scoprire e nelle seconde una passione da saper vedere.
In entrambi i casi, il risultato dipende solo dall’amore che ci metti.
Abbastanza.
C’era questo locale dove andavo quando studiavo a Venezia.
Avevo cominciato a frequentarlo per la musica dal vivo e perché si poteva bere fino a tardi. Al tempo lo gestiva un tizio di nome Vincenzo assieme a una mandria di studenti part-time, studenti fuori corso, studenti fuori e basta. La gente ci veniva soprattutto quando gli altri locali smettevano di servire da bere. Chiedevano tramezzini per tamponare l’alcol o gin lisci per uccidersi definitivi. Alcuni si portavano il vino da casa nelle bottiglie di plastica e si sedevano fuori ai tavolini in riva, a consumare. Le ragazze ballavano, nascevano discussioni, girava qualche canna, ma in genere si stava seduti a bere e parlare e basta. Dopo un po’, i volti dei commensali non erano piú nemmeno facce. Li osservavi dal tuo faro obliquo, stravaccato sulla sedia o sprofondato in una barca, cercando di indagarne i visi alla ricerca di qualcosa che non trovavi, quasi mai.
Mi ricordo una notte di fine estate. Siamo fuori in gruppo e io sto fumando. Una ragazza seduta con noi esprime a voce alta il desiderio, meglio, l’intenzione di fare un figlio. Guardo il suo compagno, gustandomi l’espressione di assoluto terrore che gli si piazza addosso come una merda caduta da un aereo, splat. Per confondere le acque la tira a sé e la bacia, e io penso a quanti modi ci siano di ingannare una donna. Alberto rivanga per l’ennesima volta i bei tempi andati. A ventitre anni. Il copione è sempre quello, ne dice una e poi si gira verso di me a cercar sostegno: – Ti ricordi, eh? Ti ricordi? – Io non mi ricordo, o forse è che non era andata esattamente cosí, ma la storia è bella e non gliela rovino.
Gianluca invece si è avventurato in una discussione sull’architettura. Alla quarta birra, sta cercando in ogni modo di dimostrare che è come dice lui, che per misurare il mondo non può esistere che il metro, che non c’è nessun’altra maniera possibile di misurare le cose se non la razionalità.
Fabio tenta di resistere argomentando che no, non è mica vero, si possono misurare le cose anche in maniera poetica.
– Bene, poeta, – lo sfida Gianluca, – allora adesso vediamo se riesci a spiegarci, senza usare alcuna unità di misura, quanto è largo questo tavolo! – dice battendo il palmo sul tavolino di legno attorno al quale siamo tutti seduti. Lo dice apposta urlando, in modo che i presenti possano udirlo distintamente, sogghignando come uno che pensa di avere appena fatto scacco matto.
Ricorderò per tutta la vita la sua espressione quando Fabio gli risponde:
– Abbastanza.
Attraversare la strada.
Sto cercando di insegnare a Melania come si attraversa la strada.
Tutte le mattine scendiamo dall’auto insieme, nel parcheggio di fronte all’asilo, mano nella mano. Poi ci fermiamo sul bordo della carreggiata.
– Melania, – le dico, – stanno passando macchine?
Lei si guarda attorno con aria circospetta, gli occhi a fessura, prima si gira a sinistra dove c’è la piazza pedonale e niente. Poi si gira a destra, verso la collina, e ogni volta succede.
– Sí! – dice.
– Dove? – dico.
– Là! – dice Melania.
Mi indica un puntolino giallo che sta risalendo la collina, distante diciassette chilometri. Allora dobbiamo attendere che il puntolino percorra la sua strada, faccia il tornante, scompaia all’orizzonte. Certi giorni le macchine sono piú vicine, altri svoltano in direzione opposta alla nostra, per lei valgono lo stesso.
Sono attraversamenti lunghissimi.
Capita che qualcuno ci guardi strano, o sorrida, vedendoci fermi come due vedette davanti a una strada sgombra, solo in attesa del momento. Ma a noi piace cosí e io trovo utile addestrarla alla prudenza.
Sarebbe piú semplice farla attraversare in sicurezza tenendola per mano, o portandola in braccio. Farei dieci volte prima. Ma risolverei un problema mio, non il suo. Soprattutto, mi perderei gli istanti passati insieme a guardare la collina la mattina presto, il sole che cresce, la manina impaziente nella mia che la contiene, come una custodia, le mamme sedute al bar strette nei piumini, mentre prendono il caffè, dopo avere accompagnato i figli a scuola e prima del lavoro, che per quei pochi minuti hanno di nuovo quell’aria da liceali in gita, l’anziana signora col paltò beige che tutte le mattine alle otto e mezza in punto esce di casa camminando piano con la borsetta nera sotto il braccio, scende sul marciapiede, si ferma, si gira prima a destra e poi a sinistra, penso Chissà se gliel’ha insegnato suo padre.
Nel frattempo i puntolini gialli scompaiono all’orizzonte, le mamme ridono risate di ragazza, il sole sorge, attraversiamo insieme, Melania corre, io dietro di lei guardo ancora la collina, oltre la collina, lontano trentaquattro chilometri, non si sa mai.
Le brutte notti.
Le brutte notti sono quelle in cui non riesci a dormire, ti tiene sveglia la sensazione che stia per succedere qualcosa, cambiare tutto, che sia già cambiato, e i cattivi pensieri risuonano nella stanza buia come note nella cassa armonica di quella chitarra che non tocchi da troppi anni, mentre le code dell’immaginazione si attorcigliano alle code di altri pensieri, agli echi di conversazioni pesanti avute nel corso della giornata, di intenzioni mal comprese, aspettative disattese, e la televisione senz’audio trasmette immagini che viste da sotto in su fai fatica a decifrare. E ti viene in mente che la vita è questo, immagini alle quali dare un senso, fornire un verso, giustapporre nella corretta sequenza per costruire la nostra storia, giorno dopo giorno, proprio come un racconto, proprio come un fumetto. Di quella storia siamo protagonisti e lettori insieme, e ciò che vi leggiamo noi sarà sempre diverso da ciò che ci vedranno gli altri, che sulla nostra storia magari esprimeranno giudizi, si permetteranno sentenze, oppure la abbracceranno e vi riconosceranno un po’ anche sé stessi, come in uno specchio.
Ogni vita è una specie di iceberg narrativo di cui gli altri scorgono solo la parte visibile, mentre tre quarti se ne stanno nascosti sotto il pelo dell’acqua e non se ne accorge mai nessuno, a volte non te ne accorgi nemmeno tu. Ma è proprio la parte che sta sotto a sostenere e orientare tutto il resto, come la chiglia di una nave.
Sapere chi siamo significa conoscere la parte che ci sostiene, quella che contiene la sala macchine, custodisce il motore, tutto ciò che riesce a spingere in avanti la nave delle nostre vite, a evitare gli scogli, senza accontentarsi di farla, semplicemente, galleggiare.
Le brutte notti sono quelle in cui sei a casa da solo, non riesci a dormire, ti tiene sveglio la sensazione che stia per succedere qualcosa, cambiare tutto. La cosa che sta per cambiare è che ogni giorno è diverso, ma ogni giorno sei diverso anche tu, mentre la parte nascosta là sotto, per fortuna, resta sempre uguale, la parte là sotto non la tocca niente. L’importante è non credere nemmeno per un istante che quel che vedono gli altri, nel bene o nel male, sia tutto quel che sei, e non credere che quel che invece gli altri non vedono valga meno, soltanto perché non lo vedono.
Non è importante se nessuno lo vede, o se lo vedono in pochi, tu quella parte rispettala, difendila, sentila, proprio come l’aria che ti entra nei polmoni ogni giorno, ogni secondo, che nessuno vede nemmeno quella, cosí come non vedranno mai il tuo stomaco, o il tuo fegato, o i battiti del tuo cuore, mentre sono proprio questi a tenerti in vita.
Il maglione.
Sono andato con mia mamma a comprare un maglione.
Ci teneva a regalarmelo per il mio compleanno.
– Nelle foto hai sempre la stessa felpa con la cerniera, – mi ha detto.
– Me l’hai regalata tu dieci anni fa, – le ho detto.
– Ma non hai maglioni?
– Solo quelli a rombi che metto quando lavoro.
Siamo andati al mercato di corsa.
Io volevo solo un maglione normale, di quelli di lana tinta unita con le trecce, ma pare che maglioni cosí non ne facciano piú. Abbiamo girato quattro bancarelle, adesso ci sono solo maglioncini fighetti di tinte improbabili tipo écru epatite, oppure verde acquitrino selvatico, oppure bluette puffo brontolone. Soprattutto: sottilissimi. Cosí fini che se me ne metto uno ed esco mi viene la colite da qui all’equinozio di primavera. Oppure ci sono le felpe con la cerniera che fanno tanto ggiovane, ma io ne ho già una regalatami dieci anni fa. Quando ero giovane.
Allora mia mamma s’è impuntata e mi ha portato nel negozio quello bello che dice lei. Nel negozio quello bello, oltre al danno la beffa: non solo non avevano i maglioni con le trecce, ma non li avevano manco di lana, perché pare che ora l’ultima moda preveda per gli uomini solo maglioni di cotone. Aderentissimi. Dopo che ne ho provati diciassette, il commesso mi ha convinto a comprarne uno color vomito di cane – «È la nuova nuance dell’anno!» – cosí fasciante che secondo lui mi evidenzia il fisico, secondo me sembro Big Jim con le emorroidi.
Siccome mia mamma era contenta, l’abbiamo chiusa lí.
Un’ora dopo, a pranzo, è venuta fuori la cosa del maglione con mio padre.
– Dàghe uno dei miei, – ha detto a mia mamma.
Mia mamma, che conosce i suoi polli, lo aveva già individuato.
Mi ha portato di sopra, ha aperto l’armadio, ha tirato fuori dal cellophane un bellissimo maglione marrone di lana grossa, a trecce, che era uguale preciso a come lo volevo io, solo degli anni Settanta.
Cosí adesso, ogni volta che vorrò mettere un maglione, avrò due strade davanti a me, facciamo tre.
Essere Big Jim dopo che gli ha vomitato addosso un cane.
Essere mio padre.
Essere un calzino Burlington a rombi giganti.
Per fortuna che ho sempre la mia felpa con la cerniera, regalatami al mercato dieci anni fa.
Quel giorno che volevo comprarmi una camicia con le maniche corte.
Catarina.
Una mattina di luglio, prima dell’alba, ero sul sedile posteriore della Ypsilon 10 rossa del Gire, e mi pulivo le tracce di crema che il cornetto aveva lasciato cadere sui jeans nuovi. Federico e il Vince cantavano in coro su una cassetta di Ligabue, indicando fuori dal finestrino qualsiasi cosa evocasse il sentore di vacanza, dalla sabbiolina a bordo strada, ai nugoli di zanzare, alle ragazze con i calzoncini appena uscite dai locali. Era il mio primo viaggio lungo con gli amici, la prima estate all’estero, in una località balneare spagnola, la prima vacanza vera con la mamma a casa a preoccuparsi senza sapere di preciso dove fossi e quando sarei tornato. Non erano anni di cellulari e mail, le partenze erano sempre potenziali addii e i ritorni sorprese autentiche.
Eravamo in nove, quasi una squadra di calcio. Io avevo fatto delle magliette per tutti con disegnata sopra una donnina discinta tipo quelle di Manara e la scritta SPAIN INVASION. Non avevo ancora vent’anni ed ero il nuovo del gruppo. Avevo imparato da poco che per farmi accettare bastava sparare cazzate a profusione. Il timing comico non mi è mai mancato, e avevo scoperto che «falla ride» era una massima che non valeva solo con le ragazze. Nonostante fossi l’ultimo arrivato non ero l’ultimo nella scala sociale del gruppo di amici, stavo piú o meno in mezzo. Tutto grazie a Davide, il Garrone della squadra e uno dei due leader incontrastati – l’unico che davvero ne sapesse di robe di menare – che mi aveva preso in simpatia e mi considerava il suo confidente personale.
In quella vacanza facemmo tutte le cose che ti aspetteresti da un gruppo di diciannovenni. Tornai a casa bianco com’ero partito, nonostante i quaranta gradi e un sole accecante e ininterrotto, perché ogni giorno andavamo a letto alle otto del mattino e ci svegliavamo alle sette di sera, pronti per una nuova nottata.
L’ultimo giorno conobbi una ragazza in un locale. Si chiamava Catarina, da me soprannominata «il meccanico» perché, invece della gonnellina corta o i top da spiaggia, era l’unica a indossare la salopette. A luglio. Catarina non era alta, aveva una cascata di capelli castani che teneva nascosti sotto un berretto da baseball, l’incarnato chiaro e gli occhi verdi. Un naso da pugile che avevo adorato subito, e la pronuncia strascicata di Penélope Cruz. Io in spagnolo sapevo hola e il dialetto veronese, ma riuscivamo a intenderci benissimo.
Catarina e io ci scambiammo un solo estenuante bacio, sul sedile posteriore di una macchina alle cinque del mattino. La sua lingua sapeva di sigarette e birra e Vigorsol alla fragola tutto insieme. Ci salutammo davanti a un’alba sul mare perfetta e, occhi negli occhi, mi diede il suo indirizzo di casa facendomi promettere che le avrei scritto prestissimo. Si fidò della mia promessa e non volle il mio.
Le scrissi durante il viaggio di ritorno e poi tre volte ma lei, la Catarina, non mi ha mai risposto.
Qualche anno dopo scoprii che Coimbra non si trova in Spagna, ma in Portogallo, e che quindi avevo da sempre spedito le mie lettere nella nazione sbagliata.
Scoprii anche che você é especial non è mica spagnolo e non significa «hai una bella voce».
Sasso!
Suona il telefono di casa. Il numero è preceduto da sette zeri. Rispondo per curiosità.
– Pronto?
– Buongiorno, sono Enzo dall’istituto di ricerche di Milano. Vorrei farle cinque domande sul dormire.
– Sul dormire in che senso?
– Sul dormire. Sul sonno.
– Ah. Ma non so se sono tanto preparato sull’argomento, sa?
– Ma non è mica questione di essere preparati, basta solo che dica la verità.
– Allora va bene, la avviso però che non ho molto tempo.
– Perfetto, comincio.
– Vada.
– Lei quante ore dorme a notte?
– Dipende. Direi un numero variabile tra due e sei.
– Ventisei?
– Le pare possibile che io dorma ventisei ore a notte? Ci pensi.
– Ha detto lei duesei, scusi.
– Ho detto TRA due e sei. A volte due, a volte quattro, mai piú di sei di fila.
– Okay, scrivo: «È indeciso, non sa».
– Scriva quel che vuole. Senta, potremmo fare un po’ in fretta, per favore? Ho una bambina tutta insaponata nella vasca da bagno, una che mi sta spiegando i Fenici mentre pattina in corridoio, e la terza che sta cantando La canzone della cacca nuda sul balcone.
– Mi prende in giro?
– No.
– Okay, allora in via eccezionale passo direttamente all’ultima domanda.
– Ottimo.
– Sarebbe interessato all’acquisto di un materasso ortopedico in fibra di scfhringen, pagabile in cinquantotto comode rate e consegnato a casa sua con in omaggio un corredo a scelta in cotone ricamato a mano?
– Ma lei non era dell’istituto ricerche di Milano, scusi?
– Ah, sí, sí. Era una curiosità.
– Immagino. Comunque no, non sono interessato.
– È sicuro? Il riposo è una parte fondamentale della vita, sa? La fibra di scfhringen poi è anatomica, antiacaro, lavabile sfoderabile malleabile.
– Ne sono sicuro ma, guardi, ora devo proprio andare.
– Se vuole la richiamo piú tardi cosí le spiego megl…
– NO!
– Gliel’ho già detto che se uno dorme male è piú facilmente irritabile?
– Gliel’ho già detto che mi ha rotto il cazzo?
– PAPÀ, NON SI DICE CAZZO!
– NO VIRGINIA, HO DETTO SASSO!
– Le ho rotto un sasso? Perché anche a me pareva l’altra parola, eh.
– Scriva: «È indeciso, non sa».
Che ne sanno.
Ma che ne sanno dei tempi in cui uscivi e se qualcuno ti chiamava al telefono di casa, cinque minuti dopo, anche se era il Papa tua mamma poteva solo dire: «Mi dispiace, è fuori».
Che ne sanno di cosa significhi vivere senza filmini ogni dieci minuti, senza selfie o YouTube o iCloud, e poter fare affidamento solo sulla propria memoria, che poi ognuno rammenta dettagli differenti e si passano intere serate a ricostruire immagini a suon di «ti ricordi» che cambiano nel tempo insieme a noi, si arricchiscono e si modificano attraverso il setaccio di quel che conta.
Che ne sanno del costo di un’interurbana col papà che ti conta i minuti, dei tempi d’attesa di una lettera, sia scriverla che riceverla, delle cartoline spedite dal mare che arrivavano sempre a ottobre. Della punta d’amaro che lasciavano sulla lingua i francobolli.
Che ne sanno dei telefonini che contenevano in archivio cosí pochi messaggi che dovevi decidere ogni volta quali tenere e quali buttare, e rileggendo oggi quelli che hai conservato ci puoi vedere una radiografia dell’amore che ti ha portato fino a qui.
Che ne sanno della fine di quelle storie in cui lei scompariva dalla tua vita e non potevi saperne piú niente, senza Facebook che t’informasse che era in vacanza in Thailandia o che ti mostrasse quanto poteva essere viva e bella anche senza di te. Che ne sanno della capacità di illudersi o immaginare, che ti aiutava a sopravvivere al vuoto alimentando comunque una speranza.
Che ne sanno dei pomeriggi in discoteca in giacca e cravatta, delle sere in cui «con un deca non si può andar via»1 eppure ci andavi lo stesso, dei rientri spingendo la Vespa rimasta senza miscela, a piedi sotto la pioggia, delle notti in cui siccome non c’erano gli sms o WhatsApp allora passavi sotto casa sua solo per vedere quella luce accesa e accertarti che lei fosse tornata, o per urlarle in maniera sobria quanto l’amavi da sotto la finestra.
Che ne sanno di lei che il giorno dopo a scuola ti diceva quanto fossi scemo, ma te lo diceva guardandoti negli occhi e tu in quegli occhi vedevi tutto quel che serve.
Che ne sanno di cosa significhi vivere come dei ponti tesi tra l’è stato e il sarà, ma cercando di non perdersi l’affaccio su quel che c’è, però patendo sempre un po’ di vertigine.
Non ne sanno niente, proprio come noi al tempo non capivamo niente dei nostri genitori, il che dimostra che la vita è sempre uguale anche quando sembra tutto diverso.
Che è l’unica cosa che tutti dovremmo sapere.
Storia di Giuseppe.
Sono in stazione, sto aspettando il treno per andare a Torino, sono vittima di un raffreddore stagionale e ho due occhi cosí rossi che sembro Coso di Twilight. Mi avvicina un signore sui cinquantacinque-sessanta, ha l’aria malconcia, la barba lunga e gli occhi piú rossi dei miei. Mi si piazza davanti e mi fissa per un paio di secondi, immobile.
– Scusi, – dice.
– Sí? – dico.
– Mi darebbe qualche soldo per un panino?
Io sono stanco, mi sono svegliato con due linee di febbre, rispondo quasi di riflesso pur sapendo di avere in tasca dieci euro, anche perché ho il forte sospetto che i soldi in realtà non gli servano per il panino.
– Non ho soldi, – dico. – Ho solo il bancomat, mi spiace.
– Ah, ma qui al bar il bancomat lo prendono, – dice.
Lo guardo, mi guarda. Penso: vediamo fin dove ti spingi.
– Okay, andiamo, – dico, – ti compro un panino.
Entriamo nel bar, gli dico Scegli pure, lui dice Un rustico, gli chiedo se vuole anche da bere.
– Una Coca, – dice.
Vado a fare lo scontrino alla cassa, penso Cazzo voleva davvero un panino.
– Un rustico e una Coca, – dico. – Pago col bancomat.
– Con un euro in piú, se vuole, ha anche la macedonia, – dice il barista.
– Ah, non so, – dico. Mi volto a cercare il signore, ma non lo vedo.
– Giuseppe! – urla il barista, – vuoi anche la macedonia?
– No no, – dice il signore riemergendo da dietro uno scaffale, – solo il panino.
Il barista mi sorride con condiscendenza, è evidente che i due si conoscono bene e il signore chiede spesso panini agli sconosciuti, io mi sento una merda ad aver pensato quel che ho pensato all’inizio.
Ritiro il panino rustico in un sacchettino di carta, la Coca, consegno entrambi in mano al signore.
– Grazie, grazie, – mi dice, mentre lo dice fa un piccolo inchino, poi fa per andarsene. Gli afferro un braccio.
– Senta, – dico, – mi scusi, ho scoperto adesso che avevo dieci euro nel portafoglio.
Estraggo il portafoglio dalla tasca, prendo la banconota.
Lui mi guarda, quasi offeso.
– No no, – dice, – il panino va bene, solo il panino.
Mi ringrazia di nuovo, infila la porta e se ne va.
Io resto lí, coi miei soldi in mano, e capisco d’un tratto che carità ed elemosina possono essere separate da una linea molto sottile, e questo signore me l’ha appena mostrata.
Calpestarla è un attimo, si chiama dignità.
Ovunque proteggi2.
Non volevo figli. Non avevo mai pensato di averne.
Quando i primi amici cominciarono a diventare genitori, ogni volta che cercavano di passarmi un bambino in braccio, mi rifiutavo. Avevo paura che mi cadesse, avevo paura di cadere io.
«Ma perché? Basta che gli metti l’incavo del braccio dietro la testa, non succede niente!» mi canzonavano.
«È che voglio che il primo bambino che prenderò in braccio sia il mio, va bene?» mi giustificavo mentendo.
Un po’ ero cosí io, un po’ è che noi maschi, per quanto possa apparire terribile dirlo, veniamo educati anche a questo: ci insegnano fin da piccoli a fuggire, a stare attenti, quasi a difenderci dall’idea di una possibile paternità. In età giovanile le ragioni sono ovvie, a volte perdurano anche oltre. «Non potrai piú fare le cose che facevi prima» è solo una delle innumerevoli ombre che si allungano su ogni essere umano di sesso maschile, soprattutto se in pieno trip di vita da scapolo: cene alcoliche con gli amici, serate al cinema, viaggi improvvisati all’ultimo, un lavoro sicuro in Comune e un orario comodo che mi consentivano perfino di continuare a coltivare le mie passioni, mi parevano questioni irrinunciabili. Quasi che diventare genitore rappresentasse una fine incombente, e non un principio. Quasi che un figlio arrivasse a toglierti risorse, invece che a fartene scoprire altre che nemmeno sapevi di avere.
Poi un giorno, a trentacinque anni, ti capita di diventare padre senza averlo previsto né pianificato, con una ragazza alla quale era sempre stato detto che, di figli, non ne avrebbe potuti avere mai. Succede e basta. Superati il panico e lo spaesamento iniziali, senti tutte le tue paure dissolversi come un Dalek in agosto, ed essere sostituite da altre tutte nuove.
D’un tratto, la tua paura non è piú quella dei limiti alla tua libertà, ma la tua libertà diventa una paura che senti non avere limite.
«Ovunque proteggi» dice una canzone di Capossela che parla di un amore finito, mentre quella nella tua testa parla di uno infinito e appena cominciato, l’unico «per sempre» che potrai mai pronunciare sentendo ch’è vero. Il fatto è che tu già sai che non potrai essere ovunque, non potrai esserci ogni volta, la vita ti ha messo di fronte all’ingiustizia definitiva e lo ha fatto con il tuo consenso.
Ho letto una volta, da qualche parte, che avere un figlio è come permettere al tuo cuore di andarsene per sempre in giro nel mondo, senza di te. Chi l’ha scritto però non ha detto che questo cuore potrebbe fermarsi mentre tu non ci sei, ed è quello che.
Avere figli confina con la paura piú grande di tutte: vedere la morte dentro la vita, fin da quel primo giorno. Il poeta Rilke diceva, nei Quaderni: «E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?»3
Se le donne lo sentono da subito, gli uomini lo scoprono in genere piú tardi.
Quando aveva solo quattro mesi, durante un pranzo a casa dei miei, Virginia ebbe un violento attacco convulsivo. Il viaggio in macchina verso l’ospedale fu un incubo, con la Opel lanciata a tutta nel traffico e Paola che stringeva a sé sul sedile posteriore una bambina che riusciva a malapena a respirare. Ancora oggi, non riesco a rammentare terrore piú grande.
Per un paio di giorni non si capí di preciso cosa avesse, se fosse grave e quanto. Smisi di parlare.
Le prime parole dette a Paola dopo due giorni di mutismo, furono: – Non passerà mai.
Il mattino in cui Virginia cominciò a stare meglio, provai un senso di gratitudine cosí profondo che era come fosse nata una seconda volta. In realtà, ero nato per la seconda volta io.
Quando tornammo a casa le scrissi una canzone, è tutta in Mi minore. Si intitola Tu non vai piú via, non l’ha mai sentita nessuno.
Parla di un cuore che se ne va in giro per il mondo mentre il suo battito lo insegue.
È scritta da un uomo che non voleva figli per una bambina che non poteva nascere, e invece la vita, per fortuna loro, se n’è battuta il cazzo.
1. Il verso è tratto dalla canzone Con un deca, interpretata da Max Pezzali (M. Pezzali / M. Repetto).
2. Il titolo del racconto Ovunque proteggi è ispirato alla canzone omonima interpretata da Vinicio Capossela (V. Capossela).
3. La citazione è tratta da Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, trad. di F. Jesi, Garzanti, Milano 2013.