Per molti secoli la trasmissione del patrimonio culturale germanico avvenne tramite un passaggio orale di conoscenze di generazione in generazione, senza il sussidio della scrittura. Solo in seguito alla conversione al cristianesimo l’alfabeto latino divenne per i Germani lo strumento cui affidare da un lato la codificazione delle leggi e dall’altro l’insieme di miti e di leggende eroiche nucleo di tutta la successiva produzione letteraria in prosa e versi. Si tende quindi ad affermare che i tempi in base ai quali queste popolazioni conobbero la scrittura furono dettati dalla cronologia della diffusione della nuova fede, eppure esse fin dagli albori della nostra era avevano ideato un proprio alfabeto, sicuramente ispirato a un modello mediterraneo. Ben lontano da un semplice plagio, il risultato della rielaborazione fu un sistema di scrittura per molti aspetti originale, che divenne una delle manifestazioni più distintive della cultura germanica: l’alfabeto runico, dal termine runa con il quale si designano i singoli caratteri che lo compongono, o fuþark, a partire dalle prime rune della sequenza.
Le prime iscrizioni runiche accertate risalgono al II secolo d.C. e provengono da depositi votivi danesi; tra esse il reperto più antico sembra essere il pettine di Vimose, un manufatto in osso risalente al 160 d.C. circa, piuttosto tipico tra i ritrovamenti che si collocano nel momento di passaggio dall’età del Ferro Romana antica a quella recente. Il nome deriva dalla omonima palude di Fyn, in cui fu rinvenuto insieme ad altri oggetti che facevano parte dello stesso bottino di guerra sacrificato al termine di una battaglia. Cinque rune compongono la parola harja, quasi sicuramente un antroponimo maschile in qualche modo collegato al termine norreno herr, esercito. Fino ad alcuni decenni fa sembrava piuttosto certo che le rune fossero state inventate non molto tempo prima della realizzazione di questa iscrizione, ma il ritrovamento nel 1979 nei magazzini del museo archeologico dello Schleswig di una fibula proveniente da una tomba a incinerazione femminile risalente al 50 d.C., se non addirittura al 25 d.C., e nota come fibula di Meldorf, ha messo in dubbio tale cronologia. Indipendentemente dalla breve iscrizione di quattro caratteri in merito ai quali la comunità scientifica si è espressa tanto in termini di rune quanto di protorune – forse il dativo di un antroponimo femminile a designare la destinataria di un dono – e considerando che mediamente dall’ideazione di un sistema di scrittura alla prima attestazione del suo utilizzo trascorre circa un secolo, è semplice intuire come il ritrovamento abbia vivacemente riaperto la questione della datazione delle rune. Tuttavia se da un lato non è ancora stato possibile, e forse mai lo sarà, sciogliere il nodo dell’interpretazione di questo testo né giungere a un’identificazione sicura dei caratteri con i quali è realizzato, dall’altro il pettine di Vimose mostra un fuþark già ben definito e gli altri reperti del II e III secolo d.C. confermano che a quell’epoca si era ormai giunti a un sistema di scrittura pienamente strutturato.
Come si è detto le iscrizioni più antiche sono danesi, ma geograficamente i confini dell’area nella quale si trovano vanno da nord a sud dalla Groenlandia alla Grecia del Pireo e da ovest a est dall’Irlanda alle pianure della Russia, mentre l’arco temporale durante il quale il fuþark fu utilizzato si estende dall’inizio della nostra era fino al termine del Medioevo nordico, con alcune sporadiche attestazioni fino al XVIII secolo nelle regioni svedesi più periferiche. Tanta varietà geografica e temporale dell’utilizzo delle rune lascia presupporre una continua evoluzione del fuþark, di cui potevano esistere anche contemporaneamente più varianti, garantendogli la sopravvivenza superando in alcuni casi perfino la concorrenza dell’ormai noto alfabeto latino. Una prima distinzione vede da un lato il fuþark continentale e dall’altro il fuþorc anglosassone, mentre nel solo mondo nordico si ebbe la successione, in parallelo alle fasi evolutive storiche di quell’area, di tre varianti con tratti epigrafici e funzioni differenti: il fuþark antico, quello recente vichingo e quello medievale.
La sequenza originaria detta fuþark antico o fuþark a 24
segni, dal numero complessivo dei caratteri che lo compongono,
fu in uso in area continentale e nordica fino al passaggio dall’età
del Ferro a quella Vichinga, ma già nel VI secolo d.C. si ebbero le
prime attestazioni in ambiente anglosassone di un alfabeto runico
differente da quello continentale, per la valenza fonetica
attribuita ad alcuni caratteri e per il numero complessivo dei
segni, variabile tra i 28 e i 33. Sulla base delle nuove
attribuzioni fonetiche questa sequenza cambiò il proprio nome in
fuþorc per via del mutamento del valore
della quarta runa che da passò a
.
Nel mondo anglosassone, inoltre, sorse una
tradizione letteraria di giochi sapienziali e testi di carattere
gnomico didascalico che spesso avevano per oggetto le rune, mentre
sul continente esse vennero accostate ad altri sistemi alfabetici,
talvolta nell’ottica di una primitiva analisi linguistica. Eppure,
nonostante questo interesse culturale da parte di studiosi ed
eruditi, ovunque tranne che in area scandinava le rune cedettero il
passo all’alfabeto latino. Forse percepite come ancora troppo
legate al mondo pagano antico e temute quali strumenti di magia,
esse non svilupparono mai una forma corsiva che incoraggiasse la
redazione di testi manoscritti e solo alcuni caratteri vennero
tollerati all’interno degli scriptoria per
una questione molto pratica: la mancanza di segni latini adatti a
rendere suoni tipici delle lingue germaniche e assenti altrove.
Questo avvenne per esempio per la runa , di base corrispondente al
th dell’inglese moderno, non senza però che
il suo nome mutasse dall’originario *þurisaz, gigante, in un
meno pericoloso þorn, spina, comunque rispettando il principio acrofonico,
secondo il quale il nome della runa iniziava con il suono da essa
rappresentato.
Nel Nord la tradizione runica resistette quasi per altri mille anni, raggiungendo altissimi livelli di espressione. Proprio delle rune scandinave tratterà questo volume, rifacendosi a un concetto non strettamente geografico, bensì culturale di Scandinavia, che comprende i Paesi in cui si parlano lingue del gruppo germanico settentrionale riconducibile alla matrice indoeuropea. Norvegia, Svezia e Danimarca già di per sé oltrepassano i confini della penisola scandinava richiamando un sostrato comune: le rune sviluppatesi in queste regioni a partire dall’Epoca Vichinga e durante il Medioevo vennero poi utilizzate dai popoli nordici anche nei territori nei quali essi si trovarono a passare o a stanziarsi, in primo luogo nelle colonie norvegesi. Anche le Isole Britanniche possiedono un corpus di iscrizioni realizzate per mezzo delle rune scandinave, che si distingue da quello delle più antiche iscrizioni in fuþorc anglosassone e rispecchia i momenti di contatto con le popolazioni nordiche; troviamo rune e iscrizioni di matrice norvegese nelle isole Orcadi e Shetland, in Scozia, in Irlanda e sull’isola di Man, e rune e iscrizioni di matrice danese nei territori più meridionali inglesi, dove i Vichinghi provenienti dalla Danimarca avevano stabilito un proprio regno. In maniera meno sistematica, e quantitativamente in termini inferiori, sono attestate iscrizioni anche nei territori della Russia, nelle regioni affacciate sul Mediterraneo che i Vichinghi attraversarono durante le proprie spedizioni, come dimostrano le rune incise sul leone di pietra che decorava il porto del Pireo e che oggi si trova di fronte all’Arsenale di Venezia o i graffiti rinvenuti all’interno di Santa Sofia a Istanbul, questi ultimi quasi certamente opera dei mercenari scandinavi che erano entrati a far parte della guardia imperiale.
La struttura di questo volume segue i tre grandi momenti della storia nordica – età del Ferro, Epoca Vichinga, Medioevo – ognuno dei quali vide il fuþark evolversi in una nuova forma e veicolare un diverso tipo di comunicazione:
– FASE ANTICA: dalle origini all’VIII secolo circa. Il fuþark scandinavo di questa fase coincideva sostanzialmente con quello della sequenza germanica antica a 24 segni e veniva utilizzato per iscrizioni attinenti la sfera del privato e del rapporto dell’individuo con il sacro, con un corpus costituito da testi brevi e incisivi, pochi caratteri, formule concise, ma ben individuabili, che in molti casi trasformavano oggetti di uso quotidiano in amuleti. In questo periodo la conoscenza delle rune e degli incantesimi a esse connessi era prerogativa di una casta di iniziati collegabili al culto di Odino, il Wotan continentale.
– EPOCA VICHINGA: dall’VIII secolo alla prima metà dell’XI. Mentre l’Europa continentale vedeva la nascita delle grandi dinastie nazionali e nelle Isole Britanniche re Alfredo muoveva i propri sforzi per la difesa e l’unificazione dei regni, il mondo nordico, ancora profondamente pagano, manteneva una frammentazione in clan che sembrava rispecchiare la molteplicità delle figure divine del proprio pantheon. Forti pulsioni interne, tuttavia, portarono a una prima apertura verso l’esterno attraverso una violenta ondata di spedizioni, nelle quali il confine tra impresa commerciale e militare spesso era sottile. In tre secoli molto intesi, le direttrici dell’espansione verso occidente e oriente raggiunsero quasi i confini del mondo all’epoca conosciuto, aprendo al contempo nuove vie di comunicazioni e commerci. Sorse in questo periodo una moda che sembra aver avuto origine nella Svezia centrale, quella di erigere grandi pietre runiche in memoria di valorosi guerrieri e nobili proprietari terrieri, per le quali il fuþark si dotò di una nuova veste in una sequenza ridotta detta fuþark recente o fuþark a 16 segni. In questo contesto le rune divennero strumenti di comunicazione pubblica, mezzi non tanto di espressione di una pietas cristiana nei confronti dei defunti, quanto piuttosto di affermazione di potere e ricchezza da parte degli eredi di fronte alla società.
– MEDIOEVO: nel mondo nordico il suo inizio è convenzionalmente collocato nel 1066, anno in cui l’ultimo sovrano vichingo, Haraldr Harđráđi, Aroldo Duro Consiglio, trovò la morte per mano degli inglesi nella battaglia di Stamford Bridge. Pochi giorni dopo Guglielmo il Conquistatore si impose a Hastings e, nonostante fosse di stirpe normanna, questo significò comunque il tramonto dell’era vichinga, poiché fu da quel momento che gli uomini del Nord cessarono di essere invasori e si adattarono ai canoni feudali della società medievale. Il mondo scandinavo subì in questo periodo una trasformazione sociale e culturale profonda dovuta anche al definitivo imporsi della fede cristiana. Potere politico e religioso si mossero quasi in simbiosi, diventando il fulcro della vita dei nuovi centri urbani. Lo sviluppo delle città andò a discapito della classe sociale dei contadini liberi dell’Epoca Vichinga, ma favorì lo scambio culturale e, nel tempo, la nascita della classe dei mercanti. Il Medioevo nordico terminò nel XVI secolo, quando anche la Scandinavia aderì alla nuova fede protestante. In questo periodo il latino si impose come lingua delle gerarchie ecclesiastiche e della burocrazia reale, e l’alfabeto latino venne adottato tanto per la redazione di documenti ufficiali quanto per quella delle grandi opere storiografiche e di intrattenimento. Ciò nonostante le rune non cessarono di essere utilizzate. Dopo la drastica riduzione nel numero dei caratteri avvenuta in Epoca Vichinga, proprio la diffusione della conoscenza dell’alfabeto latino portò a sentire la necessità di ricorrere ad alcune innovazioni che consentissero alla sequenza runica di ristabilire la corrispondenza diretta tra segno e suono e che portarono il fuþork medievale a comprendere nella sua versione standard quasi una trentina di caratteri. In questo modo le rune poterono essere utilizzate quotidianamente accanto al latino come strumenti di una comunicazione immediata, efficace e meno formale, mostrando una eterogeneità di scopi e supporti, che al momento ancora sfugge a una classificazione definitiva.
Dopo il XVI secolo le rune cessarono poco alla volta di essere utilizzate e corsero effettivamente il rischio di essere dimenticate, fino a quando i regni scandinavi si imposero come potenze politiche e, sulla scia dell’orgoglio nazionale, sorse al loro interno un movimento culturale che rivolse il proprio interesse alle antichità del Paese. Fortemente incoraggiati dalla corona, studi antiquari si succedettero rapidamente con ritmo crescente, ponendo le basi di quella scienza che venne poi definita runologia dall’omonimo titolo dell’opera dell’islandese Jón Ólafsson pubblicata a Copenhagen nel 1732.
La runologia moderna è ovviamente molto differente da quella dei primi pionieri. Oggi essa è un settore specifico della filologia germanica e della filologia nordica, con le quali collabora strettamente, e il suo tratto distintivo è il carattere interdisciplinare. Il presupposto è che non può esistere uno studio del testo a prescindere dal contesto e ciò significa che, sebbene le iscrizioni costituiscano la prima e più antica attestazione scritta delle lingue germaniche, in particolare per quelle del gruppo settentrionale, il runologo non deve né può porsi solo interrogativi di natura linguistica o attingere alla sola linguistica e linguistica storica per trovare le risposte ai propri quesiti. Trattandosi di una scrittura pensata per essere incisa, l’analisi epigrafica è un essenziale punto di partenza. Il contesto dell’iscrizione è invece determinato in primo luogo dal supporto dell’iscrizione stessa, sia questo un piccolo monile in osso o in un metallo più o meno prezioso, una grande stele vichinga o un piccolo bastoncino in legno medievale. La comprensione di questo contesto è indispensabile per giungere a una corretta o almeno verosimile interpretazione del testo, così come una piena conoscenza del periodo storico e un esame archeologico sono fondamentali per una valida datazione del monumento e per comprendere le ragioni che mossero ad agire la committenza o il runristare, colui che materialmente realizzò l’iscrizione. Tra le altre discipline, la storia dell’arte fornisce le basi per lo studio e l’interpretazione degli apparati iconografici delle iscrizioni di Epoca Vichinga, mentre antropologia e storia delle religioni quelle necessarie per comprendere il meccanismo di laicizzazione cui le rune andarono soggette nel tempo, come attestato anche dall’evoluzione semantica del termine runa, in origine il mistero, ma che nei secoli arrivò a designare il semplice segno grafico.
Etimologia di runa
Il termine è attestato in tutte le lingue germaniche antiche con il valore di mistero, da estendersi al concetto di una comunicazione orale riservata, che rimaneva mistero per quanti da essa esclusa:
got. / ata. |
rūna |
ags. |
rūn |
norr. |
rún |
Alla stessa radice sono connessi anche dei verbi, tutti con la valenza di fare un discorso segreto:
norr. |
rýna |
|
|
ags. |
rūnian |
> ingl. to round |
bisbigliare, mormorare |
ata. |
rūnen |
> ted. raunen |
bisbigliare, mormorare |
In una fase antica, dunque, la parola non era immediatamente collegata all’idea di scrittura o di segno alfabetico e la dimensione dell’oralità è ulteriormente confermata da alcune locuzioni nelle fonti norrene, per esempio:
Sg. 14 |
nam hann sér Hǫgna |
heita at rúnom |
|
Chiamò a sé Hogni |
per farsi consigliare |
Gđr III. 4 |
er viđ hǫrmug tvau |
hnigom at rúnom |
|
quando in tristezza |
ci siamo intrattenuti |
In maniera riservata si trasmetteva di sicuro anche l’insieme delle conoscenze magiche necessarie a comunicare con il divino a cui rimandano tutte le meginrúnar, rune di potenza, elencate dalla valchiria Sigrdrífa e che l’eroe Sigurđr dovrà apprendere (Sd. 5-13):
gamanrúnar |
sigrúnar |
ǫlrúnar |
biargrúnar |
rune di gioia |
di vittoria |
della birra |
della nascita |
brimrúnar |
limrúnar |
màlrúnar |
hugrúnar |
rune contro i marosi |
del ramo |
di facondia |
della mente |
Tuttavia è chiaro che non sempre il termine può essere ricondotto esclusivamente alla dimensione dell’oralità, in quanto perfino nelle stesse iscrizioni più antiche la parola appare spesso connessa a verbi che indicano l’azione dell’incidere e del colorare, sostanzialmente le due fasi dello scrivere, come attestato dall’antichissima pietra norvegese di Einang, risalente a 350 d.C., in cui si legge:
[ek goda]gastiR runo faihido |
[io Goda]gastiz dipinsi le rune |