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L’Epoca Vichinga. Il Furore degli Uomini del Nord

L’Epoca Vichinga durò poco meno di tre secoli, durante i quali le popolazioni nordiche si affacciarono prepotentemente sullo scenario storico europeo seminando panico e terrore attraverso un’ondata di violenza che, stando alle cronache del tempo, ebbe inizio l’8 giugno 793 con il saccheggio del monastero di Lindisfarne, nella Gran Bretagna nord-occidentale. Agli occhi delle vittime, i predoni giunti con navi a forma di drago sembravano più belve che uomini, anche perché, prima di quel momento, di loro e delle loro terre si avevano solo i frammentari racconti dei pochi che avevano osato spingersi fino alla mitica Ultima Thule. Fortunatamente i progressi dell’archeologia e una più profonda conoscenza storica hanno contribuito a mutare l’immagine di questa epoca. Maggiore attenzione è stata posta su tutti gli altri numerosi, complessi e sorprendenti aspetti del mondo vichingo. La realtà è che se i Vichinghi erano violenti e brutali, non lo erano più dei loro contemporanei, sebbene si debba ammettere che il culto della morte in battaglia ricopriva un ruolo quasi centrale all’interno del loro insieme di miti e credenze religiose. Gli scavi condotti in località quali Ribe, Birka e Kaupang – solo per citare alcuni dei principali centri vichinghi scandinavi – dimostrano che le persone che lì abitavano erano ricchi mercanti con una fitta rete di contatti e scambi internazionali. L’immagine di una vita quotidiana pacifica, prospera e serena restituita dai numerosi musei viventi e festival che ogni anno animano l’estate nordica contribuisce a ridimensionare lo stereotipo, restituendo agli Scandinavi di quel periodo la dimensione di persone, uomini e donne, che nei brevi e lapidari testi delle iscrizioni runiche ancora oggi ci parlano con la loro voce e nella loro lingua.

Le classiche pietre monumentali vichinghe, erette come cenotafi in luoghi particolarmente visibili quali crocevia di strade, ponti e confini di proprietà terriere, sono un perfetto esempio di documento diretto cui attingere per la ricostruzione storica di un’epoca. I nomi riportati nelle epigrafi consentono di ricostruire la genealogia di alcune tra le più potenti famiglie del tempo e forniscono interessanti informazioni sulle norme che regolavano i passaggi ereditari, dimostrando, per esempio, che le donne godevano di un’autonomia maggiore rispetto alle loro contemporanee dell’Europa continentale. In maniera sintetica, ma penetrante, le epigrafi raccontano di vicende familiari private che non di rado si intrecciano a eventi storici di grande eco, come il regno di Canuto in Inghilterra o la spedizione di Ingvar in Oriente. Se i destinatari di queste iscrizioni sono nella maggior parte dei casi uomini, padri, mariti, figli e fratelli, di cui si volevano ricordare le virtù dimostrate in vita, spesso militari, ma anche semplicemente umane, non mancano monumenti dedicati a donne.

Dalle iscrizioni emerge come elemento prominente che il paradigma del viaggio fu di sicuro uno dei perni dell’Epoca Vichinga e le spedizioni, militari e commerciali, la manifestazione esterna di profondi mutamenti strutturali interni alla società. Nel corso dell’VIII secolo, infatti, la Scandinavia entrò in una fase di cambiamenti economici e politici che portarono alla fondazione di nuovi centri abitati e allo sviluppo di commerci su rotte di lungo raggio. Se verso ovest c’erano ricchezze da depredare, le Isole Britanniche e il regno dei Franchi, e nuove terre da colonizzare, Islanda, Groenlandia e perfino oltre, verso est c’erano foreste e ampi territori poco popolati, come pure nuove vie di commercio da aprire e delle quali conquistare il monopolio. Le merci dall’Oriente già arrivavano in Europa fin dai tempi dei Romani seguendo il corso del Danubio per poi entrare in territorio germanico e giungere al Reno, che sfociando nel Mare del Nord faceva da ponte verso le regioni scandinave. L’idea innovativa fu partire da Birka, emporio sul lago Mälaren, risalendo dal lago al mare per attraversarlo fino alle regioni costiere delle attuali Repubbliche Baltiche. Di lì i grandi fiumi portarono i Vichinghi, con tappe nei centri urbanizzati quali Ladoga e Novgorod, nel territorio dove era possibile unirsi alle carovane che dal Mar Nero si muovevano verso le regioni dell’Impero islamico. Commerciare significava anche confrontarsi e sapersi integrare con le altre popolazioni e fu così che Slavi, Finnici e Scandinavi di queste terre instaurarono relazioni sociali ed economiche che costituirono il nucleo della futura Russia.

Probabilmente, almeno in un primo tempo, l’operazione non fu del tutto pacifica, come confermano recenti ritrovamenti di sepolture scandinave presso la località estone di Salmen, sull’isola di Saaremaa. Durante i lavori di rifacimento di una strada nel 2008, vennero rinvenuti i resti di un’imbarcazione a remi di una decina di metri nella quale erano stati deposti i corpi di almeno 7 uomini. Il sito, oggi distante alcune centinaia di metri dalla costa, all’epoca in cui la sepoltura fu allestita si trovava sul litorale. Successive indagini archeologiche hanno portato alla scoperta di una seconda imbarcazione, molto più grande, contenente ben 36 corpi, oltre a resti di cani e falchi che probabilmente erano stati aggiunti come elementi del corredo funebre. Le imbarcazioni furono costruite nella seconda metà dell’VIII secolo e navigarono alcuni decenni prima di essere utilizzate come sepoltura. L’analisi osteologica e quella dei manufatti, armi e oggetti di uso privato, confermano un’origine scandinava di questi uomini, probabilmente svedese. L’ipotesi è che essi, predoni o commercianti che fossero, siano giunti sulle coste dell’isola e abbiamo incontrato la resistenza della popolazione locale, ottenendo però al termine dello scontro il diritto di dare degna sepoltura ai caduti, i cui resti recano segni di traumi compatibili con una battaglia. Al di là della conferma della direttrice dell’espansione svedese, questo ritrovamento riporta a un tema interessante, connesso a quello della classificazione delle iscrizioni di questo periodo, ovvero l’effettivo inizio dell’Epoca Vichinga. Il 793 è una data convenzionale – la stessa Gran Bretagna era certamente stata oggetto di incursioni già prima di questa data –, ma queste scoperte e altri indizi spingono con forza a pensare che il principio di questa epoca si possa retrodatare di quasi un secolo.

Le prime missioni evangelizzatrici verso il Nord risalgono al IX secolo (la più celebre di tutte quella condotta da Ansgario, che meritò la definizione di Apostolo del Nord), ma gli esiti furono locali e piuttosto temporanei. Di fatto da un punto di vista religioso l’Epoca Vichinga fu fortemente permeata di paganesimo e le fonti medievali continentali ricordano che ancora verso l’anno 1000 era attivo il tempio di Uppsala. Tuttavia a quel punto la conversione era avvenuta in maniera più o meno omogenea in tutta la Scandinavia e nonostante il perdurare di una certa confusione spirituale, che affiancava il Cristo Bianco alle antiche divinità e la croce al martello di Thor, le iscrizioni successive all’inizio del secolo XI sono considerate cristiane a meno che non rechino un esplicito riferimento all’antico culto. Va detto però che ciò avviene assai raramente, mentre molto più comune è l’inserimento nel testo di formule di preghiera in suffragio dei defunti unite alla croce, divenuta elemento fondamentale dell’apparato iconografico.

Per le iscrizioni venne utilizzata una nuova sequenza runica, derivata da quella antica e caratterizzata da un numero minore di lettere nota come fuþark recente a 16 segni, in due principali varianti epigrafiche. La più antica è quella delle rune danesi, talmente diffuse ben oltre i confini della regione da cui prendono il nome da essere definite anche rune comuni, mentre in un secondo momento si svilupparono le rune svedesi-norvegesi, più rare e altrimenti note come rune di Rök dal nome della più famosa iscrizione nella quale vennero impiegate. Le iscrizioni di natura privata continuarono a esistere accanto a quelle su pietra di natura pubblica, ma successivamente questa seconda tipologia si impose nella forma della stele commemorativa. La distribuzione del corpus vichingo non è omogenea e registra una netta predominanza del territorio svedese, nelle cui sole regioni centrali di Uppland e Södermanland si concentrano quasi 1700 iscrizioni, il che potrebbe confermare l’ipotesi secondo la quale la moda di erigere questi monumenti funebri sia nata proprio in Uppland, non si sa bene su quali basi e motivazioni, e che si sia diffusa da lì. La formula utilizzata per realizzare le epigrafi è piuttosto stereotipata, del genere N.N. fece erigere la pietra in memoria di X.Y., definita resarformel con una denominazione svedese universalmente riconosciuta. Essa costituiva il fulcro del testo e poteva essere ampliata in vari modi: con aggettivi a indicare le qualità del defunto o con informazioni relative alla morte, detti statusmarkör, con preghiere di suffragio per l’anima, förbön, e, per finire, con la firma dell’incisore, ristarsignatur. Questo genere di iscrizioni si colloca in un arco di tempo piuttosto limitato, a cavallo tra la seconda metà del X e la prima metà dell’XI secolo, e solitamente se ne dà una datazione indicativa su basi linguistiche, epigrafiche e ornamentali, tranne nei casi in cui la presenza di riferimenti nel testo a persone o eventi storicamente documentati e databili consenta una datazione precisa.

Il termine vichingo

I Vichinghi non venivano mai definiti tali dai propri contemporanei. Il termine norreno víkingr utilizzato nelle saghe, successive all’Epoca Vichinga, è un composto di due elementi, il primo indicante la baia, insenatura e il secondo un suffisso di appartenenza e derivazione; andrebbe a indicare colui il quale proviene dalla baia e poiché anticamente Viken era il nome dello Skagerrak, il canale naturale situato fra la Danimarca e la Norvegia, che insieme al Kattegat, sul lato orientale della penisola dello Jutland, si immette negli stretti del grande Belt e del piccolo Belt collegando il Mare del Nord con il Mar Baltico, si tratterebbe di un rimando esplicito all’abilità nella navigazione per la quale i Vichinghi sono sempre stati famosi. Nelle saghe, víkingr è tanto il marinaio quanto il guerriero che prende parte a una spedizione, spesso con un’accezione negativa che lo accosta al predone.

Secondo un’altra teoria l’etimo rimanderebbe invece al termine anglosassone wíc, che indica l’accampamento, o un insediamento racchiuso da palizzate, e quindi metterebbe l’accento sulla veste guerriera dei Vichinghi, che spesso si trovavano lontano da casa organizzati in campi militari.

Generalmente però in Inghilterra i Vichinghi erano noti per lo più come uomini del Nord senza chiare distinzioni geografiche, anche se probabilmente i primi invasori di quelle terre furono norvegesi, seguiti nel IX secolo da un’ondata composta a larga maggioranza da danesi. Uomini del nord, Normanni era un concetto che consentiva di identificare immediatamente questi guerrieri tramite una connotazione geografica, ma un altro aspetto della loro cultura con la quale furono spesso identificati era il paganesimo. Gli arabi conoscevano i Vichinghi come al-madjus, andando a sottolineare il loro essere adoratori di falsi dèi che vivevano a un livello di barbarie e stregoneria in tutto contrapposto a quello dei dotti e raffinati ambasciatori del Califfato che ebbero l’occasione di incontrarli e osservarne i costumi. Il più famoso fu Aḥmad ibn Faḍlān, che all’inizio del X secolo si recò dal re dei Bulgari in missione diplomatica e lungo il Volga visse per un breve tempo in un accampamento degli uomini del Nord, di cui riportò gli usi e i costumi in un manoscritto purtroppo perduto, ma giunto in maniera frammentaria attraverso citazioni in altre fonti.

Nelle fonti greche e bizantine gli antichi Scandinavi sono spesso detti Varangoi, Variaghi, indicando la loro appartenenza a confraternite che in cambio di denaro potevano offrire i propri servigi militari. In particolare i Vichinghi di origine svedese attivi tra il Baltico e il Mar Nero spesso si univano in gruppi di mercenari che, seguendo il proprio capo, giuravano fedeltà ai sovrani locali, arrivando addirittura a essere impiegati come guardia personale dell’imperatore. Forse proprio alcuni di questi mercenari sono gli autori dei graffiti in rune ritrovati all’interno di Santa Sofia a Istanbul.

Il fuþark recente a 16 segni

L’identificazione di äldre e yngre fuþark, fuþark antico e recente, si deve al norvegese Sophus Bugge, il primo che sul finire del XIX secolo riuscì a distinguere le due fasi della produzione runica e a collocarle nel corretto ordine cronologico, mentre negli stessi anni il danese Ludvig Wimmer, che lo sosteneva nella formulazione di questa teoria, da un lato riuscì ad approfondire l’analisi linguistica dei testi e dall’altro si propose di individuare l’alfabeto modello dal quale le rune erano derivate.

Le prime attestazioni dell’utilizzo del fuþark recente arrivano dalla Danimarca, dove il frammento di Ribe, rinvenuto nell’omonima località danese in un contesto risalente al 725-750 circa, mostra un’iscrizione che certamente attinge dalla nuova sequenza, riprodotta per intero sulla successiva pietra di Gørlev, rinvenuta nel 1921 in occasione dei lavori di realizzazione di alcuni gradini nella soglia della chiesa di cui è divenuta proprietà e vicino alla quale ancora oggi è collocata. Anche originariamente essa non doveva trovarsi molto distante dall’edificio e in base all’analisi linguistica l’iscrizione è fatta risalire agli anni 800-850. Costituita in apertura da una classica resarfomel, è seguita da alcune linee di oscura interpretazione, probabilmente una sorta di incantesimo per allontanare quanti avessero cattive intenzioni nei confronti del monumento, in cui l’inserimento della sequenza completa del fuþark a 16 segni è quasi certamente riconducibile a una funzione sacrale di suggello del rito.

Molto si è detto sulle ragioni alla base di questa evoluzione del fuþark e sulle tappe attraverso le quali ebbe luogo. Elias Wessén vi vedeva una vera e propria riforma grafica, manifestazione di quella capacità intrinseca di adattamento al cambiamento propria delle rune, che consentì loro di resistere e sopravvivere alla concorrenza dell’alfabeto latino fino al XVI secolo, mentre altri, al contrario, interpretarono la semplificazione come una sorta di regressione culturale. Il paradosso è effettivamente forte: da un lato il numero complessivo delle rune diminuì, dall’altro nella lingua, che viveva un momento di profonda evoluzione, il numero dei suoni era aumentato. Le iscrizioni risalenti al tempo in cui questi passaggi avvennero sono relativamente poche, il che rende ulteriormente difficile cercare di seguirli nel dettaglio, probabilmente però alcuni segni si erano già persi semplicemente perché i suoni cui corrispondevano non venivano utilizzati. Potrebbe essere il caso della runa image *perþō, che del resto già nella Fase Antica era utilizzata molto raramente, e image *Ingwaz, percepita più come una successione di suoni che non un unico fonema. In altri casi i caratteri restarono immutati nella forma ma assunsero nuovi valori fonetici, mentre altri mantennero il valore fonetico mutando la veste grafica.

Sulla base della distribuzione geografica della forma delle rune sono identificabili due varianti principali della sequenza vichinga. La prima è quella delle rune danesi (in realtà tanto diffuse nel mondo nordico da essere definite anche rune comuni) e la seconda, sviluppatasi successivamente, quella detta delle rune svedesi-norvegesi o rune di Rök dalla omonima pietra dell’Östergotland in cui sono magistralmente utilizzate all’interno di una delle più complesse iscrizioni di tutta l’Epoca Vichinga.

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FIG. 4 – Fuþark a 16 segni in rune danesi dette anche rune comuni e långkvistrunor.

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FIG. 5 – Fuþark a 16 segni in rune svedesi-norvegesi dette anche rune di Rök e kortkvistrunor.

La semplificazione grafica delle rune raggiunse il culmine nelle rune di Hälsinge, dal nome della regione svedese in cui sembra abbiano avuto origine. In esse si perde il tratto verticale che solitamente funziona da perno per la costruzione dei caratteri, arrivando a quella che potrebbe essere definita una sorta di stenografia runica, sporadicamente inserita anche in testi di altre regioni, la cui decifrazione richiese molto più tempo di quello necessario per le altre sequenze.

Le iscrizioni di Epoca Vichinga

Il corpus vichingo venne realizzato tra il 700 e il 1050 e presenta al proprio interno delle differenze riconducibili sia alla distribuzione geografica dei monumenti, sia a quella temporale, la cui classificazione è resa particolarmente complessa dalla difficoltà derivante dall’eterogeneità stessa della materia, che rende molto arduo stabilire dei criteri sulla base dei quali definire una cronologia convincente. Generalmente si può adottare una suddivisione in due fasi: Fase I 700-950 e Fase II 950-1050.

L’elemento distintivo della fase più antica è il passaggio dalla sequenza runica di 24 segni a quella recente di 16 utilizzata inizialmente nella variante delle rune danesi cui rimanda il frammento di Ribe. La conversione delle popolazioni nordiche al cristianesimo, invece, sia pur avvenuta con tempi e modi differenti di regione in regione ma comunque ufficializzata per la prima volta in un testo runico nell’iscrizione danese di Jelling II risalente alla metà del X secolo, può essere considerata come il momento di passaggio alla produzione successiva. Questa ebbe come oggetto la realizzazione dei grandi monumenti tipici della Svezia centrale, in cui fece il proprio ingresso anche la nuova variante epigrafica del fuþark recente, le rune svedesi-norvegesi, il cui utilizzo è considerato già di per sé un elemento sufficiente per attribuire un’iscrizione alla Fase II.

Se i monumenti risalenti agli anni tra il 700 e il 950 sono relativamente pochi, superando appena il centinaio, e distribuiti in maniera abbastanza omogenea tra Danimarca, Svezia e Norvegia sia pure con un apporto minore da parte di quest’ultima rispetto alle prime due regioni, tra il 950 e il 1050 ne vennero realizzate alcune migliaia, tra le quali si impongono con forza i quasi 2600 testi svedesi, predominanti rispetto alle circa 200 iscrizioni danesi e 60 norvegesi, una produzione questa particolarmente esigua e quasi raggiunta in termini numerici dalle iscrizioni vichinghe extra-scandinave del periodo. Sorge spontaneo chiedersi la ragione di tanta disparità.

Una motivazione potrebbe essere data dall’eco del rapporto tra le rune e la sfera del privato che era tipico della produzione in fuþark antico che ancora si trova in molte iscrizioni della Fase I realizzate su oggetti, la cui conservazione nel tempo è molto più problematica rispetto a quella delle iscrizioni su pietra. Si potrebbe quindi ipotizzare che in origine il corpus fosse più ricco, ma che la maggior parte dei monumenti sia andata perduta. Ancor più complesso è comprendere le ragioni della differente diffusione delle iscrizioni nella Fase II. In Danimarca il fuþark a 16 segni è attestato prima che altrove e le iscrizioni su oggetti che utilizzano questa sequenza risultano più antiche rispetto alle prime iscrizioni in fuþark recente delle altre aree scandinave, tanto da portare a retrodatare di quasi cento anni l’inizio dell’Epoca Vichinga rispetto a quanto a lungo si è creduto. D’altro canto, anche il cristianesimo si affermò prima in Danimarca rispetto a quanto avvenne in Svezia e Norvegia e la moda delle steli commemorative non si diffuse con la stessa forza e intensità registrata nel cuore dell’antica Svezia. In Norvegia l’uso delle pietre commemorative non divenne mai un’abitudine comune a tutto il Paese, eppure dove questa si impose resistette a lungo, con esempi risalenti al pieno XI secolo, come si vedrà trattando delle iscrizioni medievali. Sono certamente le pietre svedesi che per diffusione e tipologia consentono di raccogliere il maggior numero di informazioni sulla società del periodo.

Una trattazione completa in questa sede delle iscrizioni della Fase I non è possibile: sarebbe quasi necessario analizzare nel dettaglio ognuno di quei monumenti singolarmente. Per questa ragione verranno proposte solo alcune osservazioni che si ritengono particolarmente esemplificative, mentre ci si concentrerà maggiormente sulla produzione della Fase II, in particolare quella svedese, cui è possibile attingere per una ricostruzione di più ampio respiro dell’Epoca Vichinga secondo molteplici sfaccettature.

Non si può non citare, però, l’iscrizione che simbolicamente viene considerata il punto di partenza dell’epigrafia runica vichinga, il frammento di cranio di Ribe, nel quale il fuþark a 16 segni non è rappresentato nella sua sequenza completa come sulla pietra di Gørlev, ma viene sistematicamente utilizzato, sia pur ancora con l’interferenza di qualche forma più arcaica, per la realizzazione di un testo piuttosto lungo e articolato. Ribe, nell’area meridionale della penisola dello Jylland, è uno dei più antichi centri urbani danesi, attivo già all’inizio dell’VIII secolo come porto fluviale, crocevia di commerci tanto fiorenti da far stimare che la popolazione dell’epoca fosse numericamente superiore a quella attuale. La datazione dendrocronologica del legno presente nel contesto archeologico in cui il reperto è stato trovato lo fa risalire al 725-760, mentre il frammento osseo potrebbe essere finito nel terreno tra il 725 e il 750. L’iscrizione corre su una porzione di osso parietale umano, il testo è complesso e sembra essere una triplice forma di invocazione alla divinità contro un non meglio identificato dolore, ma poiché l’osso presenta un foro adeguato a farvi passare un cordoncino, sebbene privo di segni di usura, ed essendo la scelta di un frammento di cranio umano piuttosto insolita come supporto di un’iscrizione, qualcuno ha ipotizzato che si trattasse di un amuleto da indossare contro il mal di testa. Un’iscrizione, dunque, che da un lato segna nella forma runica e linguistica il passaggio alla fase vichinga, ma che per supporto e tipologia è ancora molto legata alla tradizione del periodo precedente e certamente si colloca in un contesto pagano. Infatti proprio questo testo è uno dei rarissimi casi in cui Odino viene citato apertamente in una triplice invocazione non definitivamente individuata, ma nella quale uþin, Odino, è forse accostato al termine ulfuR, il lupo, o a due divinità più oscure.

In territorio svedese il principio di base cui si fa riferimento per collocare un’iscrizione nella Fase I è l’assenza dell’utilizzo della variante epigrafica svedese-norvegese, ma neanche questo principio semplifica particolarmente l’operazione di datazione perché alcune forme di queste rune sono comuni anche alle rune danesi e quindi, a meno che non ci si trovi di fronte alla sequenza completa, non sempre si ha la possibilità di esprimersi in merito in maniera definitiva. Gli oggetti recanti iscrizioni di questo periodo, inoltre, non sono molti e spesso talmente frammentari da non consentire un’interpretazione del testo. In maniera analoga a quanto avvenuto a Ribe, alcuni esempi provengono dagli scavi dei sostrati più antichi del terreno di Birka e sono costituiti da monili o frammenti di osso, che confermano ancora la diffusione di iscrizioni collegate al contesto privato e sacrale.

Anche la Norvegia conferma questo tipo di situazione nella Fase I, con una breve iscrizione tracciata sul frammento di un remo, che sicuramente nacque da una riflessione intima e privata, ma che si trovò a essere collegata al contesto di uno dei più grandi tesori archeologici dell’Epoca Vichinga.

Tra la primavera e l’autunno dell’anno 834 due donne furono sepolte in un tumulo nell’Oslofjord, in una vallata pianeggiante, umida e paludosa, all’epoca poco distante dalla costa. Dal mare fino alla sepoltura fu fatta scivolare per mezzo di tronchi utilizzati come rulli un’elegante imbarcazione in quercia, con 15 coppie di remi, riccamente decorata da prua a poppa, sulle fiancate e sulla chiglia. Sul ponte, dietro all’albero maestro, venne costruita la camera funeraria in legno a forma di tenda, dove furono collocati cibo, utensili e oggetti di ogni sorta, tutto ciò che sarebbe servito nella vita oltre la morte. Successivamente i corpi delle defunte furono adagiati su letti tra coperte e guanciali. Non è noto il legame tra le due donne, ma gli esami condotti sui loro resti hanno dimostrato che seguivano la stessa ricca dieta e che una, quasi ottuagenaria, morì per l’età avanzata forse unita alla fase terminale di un tumore, stesso male che aveva afflitto la seconda, molto più giovane.

A prua trovarono posto gli animali sacrificati in gran numero (cavalli, cani, mucche) e il tutto fu completato da slitte e da un carro, talmente decorato da far pensare che fosse stato realizzato solo per essere utilizzato durante cerimonie sacre. Concluse queste operazioni, furono messe delle pietre sul ponte, quindi il tumulo venne sigillato con la terra. Tranne che per l’incursione di alcuni tombaroli verso la metà del X secolo, le donne, la nave e il ricco corredo rimasero nascoste per oltre mille anni, fino al 1904, quando un fattore locale, Knut Rom, trovò nel proprio campo alcuni manufatti vichinghi e avvertì le autorità. Pochi mesi dopo gli archeologi Gabriel Gustafson, Sivert Johnsen e Haakon Shetelig portavano alla luce uno dei più grandi tesori del mondo nordico: la nave di Oseberg. Di fronte a tanta ricchezza gli studiosi stupefatti iniziarono presto a interrogarsi su chi potessero essere le defunte, ipotizzando una regina e la sua ancella o due sacerdotesse di qualche culto antico. Il mistero è irrisolto e la nave, nella sua maestà, circondata dal corredo che custodiva, è esposta a Oslo al Museo delle navi vichinghe, dove in una piccola vetrina si trova un oggetto che di glorioso non ha nulla eppure ha il potere di incantare il visitatore. Si tratta del frammento di un remo, che reca una breve iscrizione in caratteri runici, molto discussa, ma che vogliamo qui accettare nella sua interpretazione più suggestiva: litil uis m, l’uomo sa poco. Poche parole di profonda saggezza, forse incise da qualcuno che prese parte alle complesse operazioni di realizzazione della sepoltura e alle cerimonie sacre che sicuramente accompagnarono il momento in cui venne sigillato il tumulo, qualcuno che si interrogava di fronte alla gloria del mondo, giungendo alla sempre valida conclusione di quanto poco l’essere umano sappia quando si confronta con il mistero della morte.

I monumenti commemorativi: formula obbligatoria e formule facoltative

Nessuna osservazione inerente la tipologia di formule riscontrabili nelle epigrafi della seconda fase della produzione vichinga può prescindere dalla funzione per la quale questi monumenti venivano commissionati, ovvero l’intento funerario e commemorativo che sfociava poi quasi sempre in quello celebrativo. La paradossale conseguenza è che spesso le iscrizioni runiche veicolano quasi più informazioni in merito ai vivi che non ai morti. La scelta del tipo di monumento (stele, sarcofago, jordfast stenblock), di un particolare testo (solo formula obbligatoria o combinazione di questa con una o più formule facoltative) e il rapporto tra la disposizione grafica del testo e l’apparato iconografico dell’iscrizione riflettono il gusto, gli interessi e gli intenti della committenza.

Si è fatto cenno alle iscrizioni di Epoca Vichinga che si trovano in territorio extra-scandinavo e va precisato che, al di là di singoli oggetti o graffiti che sporadicamente possono essere rinvenuti, esiste anche un corpus di monumenti commemorativi al di fuori del territorio nordico, in particolare nelle Isole Britanniche e soprattutto sulla piccola Isola di Man, che da sola ha preservato circa una trentina di esempi risalenti per lo più al passaggio tra X e XI secolo. Sebbene di base rimandino a una matrice norvegese, essi si differenziano dai monumenti scandinavi per alcune peculiarità linguistiche dovute al sostrato locale, per alcuni tratti decorativi del layout e perché spesso si tratta di croci in pietra, e quindi la formula passa da un N.N. fece erigere la pietra a N.N. fece erigere la croce, rispettando tuttavia la struttura fondamentale della resarformel.

Graficamente le tipologie di formule riscontrabili nei testi scandinavi sono così riassumibili:

ISCRIZIONE RUNICA DI EPOCA VICHINGA (FASE II 950-1050)

FORMULA OBBGLIATORIA

FORMULE FACOLTATIVE

Resarformel (committenza / destinatario)

Statusmarkör (intento celebrativo)
Förbön (manifestazione pietas)
Ristarsignatur (firma)

L’unico elemento realmente obbligatorio era la resarformel, in cui chiaramente venivano indicati il nome del committente, o dei committenti se più di uno, la tipologia di monumento scelta e il nome del defunto la cui memoria si voleva onorare. A chiusura della formula era abitudine indicare il rapporto, parentela o fratellanza di armi, che legava committenti e destinatari, informazione particolarmente importante per varie ragioni, la prima delle quali si ricollega all’intento celebrativo del monumento stesso. L’onore che il defunto meritava per le qualità che lo avevano contraddistinto in vita si rifletteva anche sui suoi familiari e sui compagni di avventura, così come pure l’onta, come si legge, per esempio, nell’iscrizione danese di Hällestad nei pressi di Lund, la quale racconta di una vicenda che rimanda alle lotte per la supremazia in Epoca Vichinga:

Æskel satti sten þænsi æftiR Toka Gorms sun, seR hullan drottin.

SaR flo ægi at Upsalum sattu drængiaR æftiR sin broþur sten a biargi støþan runum.

ÞeR Gorms Toka gingu næstiR.

Áskell pose questa pietra in memoria di Tóki, figlio di Gormr, fedele signore.

Non fuggì a Uppsala. Uomini valorosi in memoria del fratello misero la pietra sulla collina, sostenuta dalle rune.

Essi furono i più vicini a Tóki di Gormr.

La stele in arenaria era murata nell’angolo sudoccidentale della chiesa di Hällestad, dove era nota fin dal XVII secolo, e Tóki, il guerriero per il quale venne realizzata, molto probabilmente era uno dei figli di Gormr il Vecchio, il quale regnò in Danimarca dal 936 fino alla sua morte e fu anche padre di Aroldo Denteazzurro, unificatore dei regni vichinghi e primo promotore della conversione dei danesi al cristianesimo, committente della famosa iscrizione di Jelling II. Un altro elemento che contribuisce a ricostruire la cronologia dell’iscrizione è il riferimento alla battaglia di Uppsala, meglio nota come battaglia di Fýrisvellir, località nei pressi della città svedese, combattuta verso la fine del X secolo in cui lo schieramento di Eric il Vittorioso, tra i primi re di Svezia storicamente accertati (970-995), affrontò quello del nipote Styrbjörn il Forte. Alcuni degli alleati di Styrbjörn, essendosi resi conto ben presto della supremazia strategica dell’avversario, si rifiutarono di seguirlo lungo la marcia oltre il Mälaren per timore di perdite eccessive. La battaglia durò quasi tre giorni ed effettivamente si rivelò un tentativo disperato, che nei secoli assunse i toni della leggenda. Tóki tuttavia fu tra quelli che rimasero e, come racconta l’iscrizione, non indietreggiò né fuggì neanche di fronte alla disfatta certa. Lo schieramento del pretendente al trono fu annientato e Tóki stesso andò incontro alla morte. I suoi compagni più fedeli, quelli che secondo l’usanza probabilmente gli si erano stretti attorno nei momenti più concitati del combattimento, ne onorarono la memoria commissionando una pietra runica successivamente posta sopra a una collina, che si può forse ipotizzare essere stato il tumulo funerario dello sfortunato comandante. Le espressioni utilizzate nell’iscrizione rispecchiano minuziosamente quanto accaduto e se di uno solo dei committenti, Áskell, si conosce il nome, gli altri si definiscono trikaR cioè drængiaR nella lingua del tempo, con un’espressione che indicava giovani guerrieri, uomini valorosi, fratelli del defunto non in senso di legame familiare, ma perché a lui uniti dal giuramento di fedeltà che li rendeva fratelli in armi.

Tuttavia nella maggior parte dei casi il legame tra i committenti e i destinatari delle iscrizioni era effettivamente di natura familiare e spesso veniva indicato con una dovizia di dettagli e passaggi genealogici, motivati dal fatto che questo genere di iscrizioni in Epoca Vichinga esercitava anche una funzione pubblica di legittimazione dell’asse ereditario.

La formula obbligatoria può presentare alcune varianti, ma quella classica ha una struttura del tipo:

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In base al punto in cui si collocano gli indicatori di committenza e destinatario, la formula può differenziarsi in due sottotipi, definiti minnesformel e gravformel. Nel primo caso sostanzialmente il tratto distintivo è dato dall’apertura con indicazione del destinatario per mezzo di una preposizione seguita dal nome. Viene infatti anche definita efter N.N. typen, formula in memoria di NN, in cui la differenza è data dalla maggiore o minore rilevanza che si vuole dare al nome del committente rispetto a quello del defunto. La terza tipologia, la gravformel, si basa sul modello delle epigrafi latine hic iacet reso con l’espressione hér liggr e si diffuse solo verso la fine dell’Epoca Vichinga, nel momento di passaggio al Medioevo, che coincise con l’affermazione della fede cristiana e del suo modello di sepoltura.

Alla formula base se ne potevano aggiungere altre facoltative, complessivamente riconducibili a tre grandi tipologie classiche definite statusmarkör, förbön e ristarsignatur, cioè formule contenenti informazioni relative al defunto, formule di preghiera per l’anima e la firma dell’incisore. La combinazione di una di queste formule con quella base, o la presenza di più formule, eventualmente tutte, dipendeva ancora una volta dalla scelta dei committenti. Per esempio nel caso in cui si fosse desiderato aggiungere il maggior numero di informazioni in merito al destinatario, alla formula base poteva essere aggiunto solamente lo statusmarkör, la cui funzione era appunto quella di fornire una sorta di biografia e la cui forma non era fissa e poteva variare in base all’elemento che si voleva evidenziare. Un conto per esempio era il voler richiamare alla memoria le qualità morali del defunto o il coraggio dimostrato in battaglia, un altro certamente il voler dare le coordinate del luogo in cui viveva e di cui era proprietario, per questioni ereditarie. La conseguenza è che classificare lo statusmarkör o fornirne una struttura di base di riferimento risulta assai complicato, poiché veramente poteva variare moltissimo di iscrizione in iscrizione, mentre al contrario è più semplice ricostruire un modello per le altre due tipologie di formule facoltative.

Le qualità del vichingo, statusmarkör

Statusmarkör è il termine con il quale si designa convenzionalmente la prima e in assoluto più diffusa delle possibili formule di ampliamento della struttura base delle epigrafi di Epoca Vichinga, riportante notizie di carattere biografico sul defunto. Oltre a ricavare informazioni in merito alla vita quotidiana e ai valori della società vichinga, da essa si possono ottenere anche dati di natura linguistica, dal momento che la sua struttura sfugge a un modello predefinito e presenta spesso scelte lessicali e sintattiche originali. Tuttavia lo statusmarkör va approcciato con un atteggiamento critico, perché a causa dell’intento celebrativo la realtà storica talvolta sfocia nell’enfasi di una rielaborazione mitica. Per esempio, molto di frequente si hanno riferimenti a viaggi compiuti verso l’Occidente e l’Oriente, ma solo in rari casi i testi forniscono elementi sufficienti per comprendere la natura commerciale o militare delle spedizioni o si dice esplicitamente che il defunto trovò la morte durante queste missioni, quindi molti degli uomini celebrati nelle iscrizioni, che potremmo immaginare come audaci guerrieri sprezzanti del pericolo, potrebbero più pacificamente aver terminato i propri giorni nella casa natale dopo aver goduto i beni accumulati con il commercio.

Il corpus svedese fornisce gli esempi più interessanti e rivela che al tempo i possidenti terrieri erano definiti bóndi, possidenti o landburnir, nati proprietari terrieri; le loro proprietà vengono collocate in un contesto geografico ben preciso, tuttavia quando le iscrizioni parlano di questi uomini, quasi mai riportano come avvenne la morte. Si può ipotizzare che nella maggior parte dei casi essa sopraggiunse per cause naturali e in età piuttosto avanzata, quindi il punto su cui concentrarsi non era la celebrazione di una dipartita gloriosa, ma l’asse ereditario da delineare con precisione.

Molto differenti diventano le scelte lessicali quando un’iscrizione fa riferimento alla vita e alla morte all’estero, anche qualora non sia possibile distinguere la natura e la meta della spedizione. Nel complesso i testi confermano quanto noto dalle cronache straniere, ovvero che le due direttrici fondamentali erano quella occidentale e quella orientale e costituendo le epigrafi svedesi la maggior parte del corpus di questo periodo, le spedizioni verso l’oriente sono molto ben documentante. Dalla Svezia però partirono anche compagini che presero parte a spedizioni verso ovest e qualcuno viaggiò in entrambe le direzioni, come per esempio Holmstæinn, di cui si parla nell’iscrizione di Tystberga kyrka, nel Södermanland. Due committenti fecero erigere la pietra in memoria di un fratello, Hróđgeirr, e del padre, Holmstæinn appunto, morti insieme in oriente durante la famosa spedizione di Ingvarr. Per lo statusmarkör sono sufficienti le parole meþ inkuari, con Ingvarr, senza aggiungere altro tanta era la fama di questo condottiero, partito nella prima metà del secolo XI dalle coste del Mälaren per non fare mai più ritorno. Holmstæinn, però, doveva avere una maggiore esperienza rispetto al figlio, poiché prima di prendere parte a questo viaggio era stato a lungo anche in occidente:

Myskia ok Manni / Mani letu ræisa kumbl þausi at brođur sinn

HrođgæiR ok fađur sin Holmstæin

Hann hafđi vestarla um vaRit længi, dou austarla međ Ingvari.

Myskia e Manni / Máni fecero erigere questo monumento in ricordo del loro fratello Hróđgeirr e del loro padre Holmstæinn Egli era in occidente stato per lungo tempo. Morirono in oriente con Ingvarr.

Oriente e occidente nei testi delle epigrafi possono essere indicati semplicemente per mezzo degli avverbi austr, austarla e vestr, vestarla, nelle forme di stato e di movimento in antico svedese, oppure attraverso un toponimo specifico. Per quanto riguarda l’Est si parla di Garđar, le città per i territori russi dell’Europa occidentale, Særkland, terra della seta per il califfato arabo e í Grikkiar, cioè la Grecia indicata per mezzo dell’etnico. L’Italia meridionale, raggiungibile facilmente dalla Grecia, viene detta Langbarđland, la terra dei Longobardi, che a volte sta a indicare in senso più amplio i domini bizantini. Per quanto riguarda l’Ovest, invece, la meta principale fu senza dubbio l’Inghilterra, Ængland, ma anche la Germania e le coste del Baltico vengono menzionate in alcune iscrizioni, quando per esempio si parla di Hæiđabýr, Haithabu, all’epoca territorio danese e oggi parte dello Schleswig tedesco, uno scalo intermedio nelle rotte occidentali.

In alcuni casi è anche possibile stabilire la natura commerciale o militare delle spedizioni. Un esempio interessante lo offre ancora una volta un’iscrizione della Svezia centrale, in cui si parla di un guerriero che forse è identificabile anche in un’altra iscrizione come capo del seguito di cui il defunto aveva fatto parte. L’uomo si chiamava Guđvér e aveva dedicato la propria vita alle spedizioni. I figli commissionarono una pietra con un testo inequivocabile e ben dettagliato, la stele di Grinda:

Griutgarđr, Æinriđi, syniR giærđu at fađur sniallan. GuđveR vaR vestr a Ænglandi gialdi skifti, borgiR a Saxlandi sotti karla.

Grjótgarđr (e) Einriđi, i figli fecero in ricordo del valoroso padre. Guđvér fu in occidente in Inghilterra; spartì il tributo, città nella terra dei Sassoni attaccò virilmente.

È estremamente raro nel corpus l’uso del verbo sækja, letteralmente visitare, il quale unito al sostantivo borg, rocca, cioè una città con delle fortificazioni difensive, e all’avverbio kaula, karla, virilmente, contribuisce a rendere l’immagine dei rapidi attacchi alle coste della Sassonia cui Guđvér prese parte, forse a capo di una schiera, ipotesi che viene formulata sulla base di un’altra iscrizione, quella di Berga, non troppo distante dalla precedente e in cui si dice che il defunto cadde i liþi : kuþuis, nel seguito di Guđvér. Il sostantivo liđ nelle epigrafi del periodo ha proprio il valore di spedizione di una schiera di guerrieri e il Guđvér che ne era a capo potrebbe essere lo stesso di Grinda, un uomo di grande esperienza militare e fama.

Una scelta lessicale importante trattandosi di iscrizioni in memoria di defunti era certamente quella dedicata al verbo indicante il morire. L’antico svedese falla, cadere indicava la morte sul campo di battaglia, così come a una morte violenta riconduce anche l’espressione vara drepinn, essere ucciso, mentre faras indica il morire in mare e drunkna in maniera più precisa annegare. Tutte morti violente, le prime due collegate allo scontro armato, le altre riconducibili a eventi assai comuni quali i naufragi. Al contrario scelte lessicali quali ændas, døyia, entrambi morire, non hanno alcuna connotazione e possono far riferimento a una morte pacifica per cause naturali.

Come la morte, anche il termine scelto per indicare le navi può dare informazioni sulla natura commerciale o militare delle spedizioni: knǫrr è sempre una nave mercantile, anche se in alcuni casi poteva trasportare truppe, skæiđ una nave da guerra e skip il termine più generico.

Così come i destinatari delle iscrizioni potevano essere guerrieri o pacifici possidenti e le spedizioni militari o commerciali, anche le virtù celebrate nei testi potevano attingere dagli stessi ambiti, per cui il guerriero era valoroso, valente o ardito e il possidente detto buon possidente, forse a indicarne la generosità e la liberalità legate al sacro valore dell’ospitalità. Dato per scontato lo sprezzo del pericolo, la tenacia e la perseveranza che animavano quanti, mossi dalla brama di nuove ricchezze, arditamente affrontavano viaggi irti di insidie, proprio la matrice economica dell’espansione vichinga diventava l’occasione per aggiungere nello statusmarkör espressioni che evocavano la conquista di lontani tesori e avventure favolose. In esse, la cronaca degli scontri armati si trasformava nella possibilità di vantare le virtù guerriere del defunto, sfociando in espressioni molto raffinate, come si vedrà più avanti, primi esempi di poesia. Non era però sufficiente mostrare coraggio in battaglia, era necessario possedere anche un profondo senso etico in base al quale regolare i rapporti con i suoi compagni di avventura, fossero questi del suo stesso rango, superiori o inferiori. Il vichingo ideale doveva essere un uomo coraggioso e onesto, come fu Þórstæinn, ricordato dai figli, dalla moglie, dal fratello e dagli uomini del suo seguito nella pietra eretta in sua memoria a Turinge come iafn, il giusto; doveva anche essere prodigo dispensatore di cibo nei confronti degli ospiti come Dómari, forse morto nelle pianure della Russia, definito dai figli nella pietra di Hagstugan miltan : urþa uk : mataR kuþan, gentile nel discorso e liberale nel cibo, espressione che trova eco negli insegnamenti dell’Eccelso:

Fanca ec mildan mann                  eđa svá matargóđan

non ho trovato un uomo così generoso         o anfitrione

[Háv. 39]

Accanto alla munificenza dimostrata come ospite, viene lodata l’eloquenza che in vita contraddistinse il defunto, interpretata come segno di saggezza, in una società in cui non solo la forza fisica e lo sprezzo del pericolo, ma anche il rispetto di un’etica assai rigida e la dimostrazione di intelligenza e ponderatezza nelle decisioni venivano tenute in alta considerazione e contribuivano a delineare la figura dell’eroe. A questi valori, e alla preoccupazione della sopravvivenza della fama del defunto dopo la sua morte, se ne aggiunsero altri dettati da una nuova sensibilità e spiritualità dopo la conversione al cristianesimo.

L’espressione di una nuova fede, förbön

Nell’antica società vichinga precristiana non esisteva il concetto della ricompensa o della punizione dopo la morte per l’anima che in vita aveva compiuto il bene o il male. I defunti erano destinati a differenti regni dell’oltretomba piuttosto in base alla tipologia della morte, per cui se ai caduti in battaglia spettava l’onore di essere accolti da Odino nella Valhalla, quanti erano morti di vecchiaia o di malattia erano destinati al nebbioso regno di Hel, mentre coloro che erano morti annegati venivano accolti dalla gigantessa Rán, moglie del gigante e dio del mare Ægir.

Di fatto tutte le iscrizioni runiche successive alla metà del 1000 vengono ritenute cristiane anche in assenza di espliciti richiami alla nuova fede, ma talvolta il riflesso della diffusione del concetto di beatitudine e castigo prende forma nella förbön, la preghiera per l’anima del defunto. Se nello statusmarkör ciò che più premeva alla committenza era che la fama del congiunto gli sopravvivesse e potesse riflettersi su tutta la sua famiglia, in questo tipo di preghiera si manifesta un nuovo tipo di preoccupazione collegato alla sorte dell’anima dopo la morte, in cui l’attenzione si sposta dalla committenza al destinatario del monumento. Come le altre sezioni delle iscrizioni, anche queste formule si caratterizzano per una struttura piuttosto stereotipata, sia concettualmente sia lessicalmente. Da queste possiamo tuttavia dedurre informazioni in merito ai tempi e alle modalità di diffusione del cristianesimo in base alla loro diffusione e alla terminologia impiegata. Non pare esagerato affermare che da certi punti di vista la lingua di queste iscrizioni fosse anche la lingua della Chiesa nordica nel secolo XI.

La struttura della förbön è molto semplice ed è composta da tre elementi: APPELLATIVO DIVINO + VERBO + OGGETTO. L’appellativo divino è in genere Guđ, in altri casi Kristr, o raramente hæilagr dróttin. Il termine antico nordico dróttin indicava in origine il capo di una schiera armata e il passaggio da questo ambito laico a quello religioso si ebbe in seguito a un parallelismo che il mondo vichingo operò tra la figura di Cristo, a volte definito Drengr góđr, reputato fedele a coloro che lo amano quanto fedele era il principe guerriero agli uomini del suo seguito armato. In alcuni casi l’invocazione può essere estesa alla Vergine Maria, con la definizione madre di Dio, solitamente in chiusura di formula. L’unico santo citato nelle iscrizioni, sia danesi sia svedesi, è San Michele arcangelo, un santo particolarmente accettato prima e venerato poi dalle popolazioni nordiche, forse anche in virtù dell’analogia che essi in un primo momento vi poterono vedere con Odino. Il dio pagano guidava i caduti in battaglia verso la Valhalla, così come San Michele nella predicazione guidava le anime verso la luce del paradiso, espressione resa nelle iscrizioni runiche con i lius ok paradis.

La seconda parte è rappresentata dal verbo, che è quasi sempre hialpa, aiutare e va a costituire un tutt’uno con l’oggetto dell’aiuto divino, cioè l’anima. In alcuni casi la formula nella versione più sintetica si ferma al verbo omettendo l’oggetto che resta sottinteso. Altri verbi attestati sono láta, lasciare – intendendo accedere al Paradiso –, biarga, accogliere e biđia, pregare. Interessante è la scelta del vocabolo utilizzato per indicare l’anima, in alternativa and, spirito oppure sál, anima. La differenza semantica tra le due è sottile e optare per un’espressione o per l’altra riflette una mediazione, cioè una predicazione differente: la prima arrivata tramite la Chiesa continentale di area tedesca e la seconda tramite le missioni di origine anglosassone.

A volte i committenti sentivano la necessità di accompagnare la realizzazione del monumento runico con opere di bene, o quanto meno di utilità pubblica, come la costruzione di ponti, il che in ottica cristiana può essere interpretata come un’azione a suffragio del defunto. Si può definire toccante il testo dell’iscrizione voluta da un padre per il figlio nella località di Aspö Kyrka:

OlafR (?) let gæra kumbl, likhus ok bro at sun sinn Biorn, vaR dræpinn a Gutlandi. Þy let fior sitt, flyđu gængiR, þæiR … vildu ækki halda. Guđ hialpi anda hans.

Ólafr (?) fece costruire questo monumento, il rifugio e il ponte in ricordo di suo figlio Björn, fu ucciso a Gotland. Perciò lasciò la vita, perché i seguaci fuggirono; essi … non vollero resistere. Dio aiuti lo spirito suo.

Il committente è il padre di Björn, per la cui memoria non ha fatto fare solo il monumento, bensì anche il ponte e qualcosa definito *líkhús , termine assai raro, per il quale non si è ancora giunti ad una traduzione definitiva. Il valore semantico dei due elementi di cui si compone potrebbe ammettere una resa sarcofago, quale casa del corpo, oppure rifugio, inteso come un riparo per i viandanti, che potrebbe essere una buona interpretazione poiché il padre di Björn fece realizzare anche un ponte, forse come guado temporaneo, per facilitare il passaggio. La costruzione di ospizi e ricoveri si collocava perfettamente tra le opere di carità incoraggiate dalla Chiesa e intese a favorire la salvazione dell’anima. L’iscrizione sembra essere completamente permeata da un sentimento di carità e di umiltà, che convive tuttavia con l’antico spirito vichingo, il quale emerge nel momento in cui viene spiegata la ragione per cui il giovane guerriero trovò la morte: i suoi compagni fuggirono di fronte al nemico. Non esisteva onta maggiore di questa, in contrapposizione alla quale la figura di Björn trae onore dal poter vantare di essere stato il solo che affrontò eroicamente la propria sorte.

La firma dell’incisore, ristarsignatur

La struttura base della ristarsignatur, la firma dell’incisore, è la seguente:

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Anche in questo caso non esiste una regola rigida e quindi l’ordine degli elementi può variare; generalmente però quando sono tutti presenti la posizione di apertura è occupata dal nome dell’incisore, a volte due che collaboravano. Il nome del runristare costituisce l’elemento minimo perché si possa parlare di ristarsignatur, mentre tutti gli altri elementi sono accessori e vanno ad aggiungere informazioni. La conseguente scelta lessicale, sia pur operata all’interno di un ventaglio essenziale di varianti, fornisce dati utili per la ricostruzione delle fasi di realizzazione del monumento. Di prassi, i verbi più comuni che indicano le azioni compiute dal runristare sono:

sved. run.

 

g(i)ær(v)a

fare, costruire

hagg(v)a

tagliare

rīsta

incidere

ræisa

elevare, innalzare

stæina

dipingere, colorare

I sostantivi che costituiscono l’oggetto dell’azione esercitata rientrano invece generalmente tra queste alternative:

sved. run.

 

rūn

runa

kum(b)l

monumento

mærki

monumento

stæinn

pietra

Le combinazioni di determinati verbi e oggetti vanno a indicare azioni differenti, per cui per esempio g(i)ær(v)a kumbl / stæinn comprende tutti gli aspetti, dal preparare la superficie della pietra fino a realizzare l’incisione, mentre hagg(v)a rūn, dal momento che il verbo significa letteralmente tagliare, fa pensare più che altro alla sola azione di incidere i caratteri runici e ricondurrà alla lavorazione della pietra, cui andava data una forma, se seguito da stæinn. In assoluto la formula più diffusa è la classica ræisa stæinn, che equivale all’erigere la pietra, mentre interessante è la struttura stæina rūn che rimanda alla fase della colorazione delle rune.

Solo una minima percentuale delle iscrizioni reca la firma del runristare e, per quanto paradossale, non sembra esserci un particolare nesso tra la fama di cui un incisore poteva godere e la presenza della sua firma sul monumento. Una possibile spiegazione è che a chi scolpì le rune possa in alcuni casi essere stato chiesto di apporre la propria firma a testimonianza che ciò che era stato inciso corrispondeva a verità. Se si accetta l’ipotesi che le pietre runiche potessero valere come documenti legali per attestare la posizione che i committenti ricoprivano nell’asse ereditario, forse il runristare poteva essere nominato quale testimone di ciò che veniva affermato. Una tale idea è suggerita dalla presenza in alcune iscrizioni di una formula per segnalare la veridicità delle informazioni veicolate dall’epigrafe, come per esempio sant iaR þet sum sagat vaR ok sum hugat vaR þæt, è vero ciò che fu detto e ciò che fu inteso che si legge nell’iscrizione di Lagnö. Essa è realizzata su un blocco di granito sporgente dal terreno, tecnicamente una jordfast steninskrift, una superficie di oltre 2 m per 1,5 m, ricoperta di rune che corrono all’interno del corpo a nastro di due serpenti, mentre al centro campeggia la figura di un uomo con un copricapo appuntito e dei lunghi baffi. L’iscrizione non è firmata, ma è attribuita a Balle, uno dei runristare più famosi della vicina regione di Uppland, che però ha operato, probabilmente insieme ad alcuni discepoli, anche nel Södermanland. Il testo spiega che due persone, una donna e un uomo, avevano commissionato la pietra per tale Þórđr e che ciò corrispondeva a verità, come a dire che anche se il rapporto che univa committenti e destinatari non era esplicitato, comunque questi erano i suoi eredi.

Datare le iscrizioni

Come si è già visto, la datazione delle iscrizioni è da sempre uno dei principali problemi che affliggono quanti si occupano di runologia. Passando dal corpus antico a quello di Epoca Vichinga la situazione non muta particolarmente. I pionieri di questa disciplina ritenevano che le iscrizioni avessero un’antichità biblica, fantasie, ovviamente, di cui nel XVIII secolo Nils R. Brocman intuì l’infondatezza quando, dedito all’edizione della Saga di Ingvar il viaggiatore in terre lontane, riconobbe nel personaggio storico celebrato dalla letteratura islandese lo stesso condottiero di un preciso gruppo di iscrizioni provenienti dal Södermanland e dall’Uppland, comprendendo che le iscrizioni runiche potevano essere datate alla luce di accadimenti storici provati e viceversa essere utilizzate quali fonti per la ricostruzione della storia delle regioni cui appartenevano. Fu necessario però attendere ancora molto tempo prima che queste intuizioni venissero codificate in regole, poiché solo sul finire del XIX secolo si arrivò a dimostrare la maggiore antichità del fuþark a 24 segni rispetto a quello a 16 segni.

Trattando del corpus antico si è detto che una corretta analisi storica del contesto archeologico e del supporto dell’iscrizione è imprescindibile per una precisa interpretazione del testo. Questo rimane un principio di base sempre valido, tuttavia i monumenti runici in Epoca Vichinga sono costituiti per lo più da iscrizioni su pietra, mentre più rare sono le iscrizioni su oggetti mobili e di conseguenza i criteri secondo i quali si ricostruisce una cronologia relativa rimandano principalmente al monumento stesso, tanto per quanto concerne il contenuto del testo, quanto per il layout della stele nel suo complesso. Ancora oggi è possibile stabilire un termine post quem e uno ante quem solo per una minima percentuale delle iscrizioni, mentre nella maggior parte dei casi non resta che ricorrere alla cronologia relativa, cui si giunge, accettando vari gradi di precisione, tramite l’analisi di diversi fattori:

– il contenuto;

– l’iconografia;

– la lingua;

– le rune utilizzate;

– il contesto archeologico.

Il confronto tra questi aspetti consente di individuare la maggiore o minore antichità di un’iscrizione rispetto a un’altra. Per esempio la prima grande distinzione basata sul contenuto è quella tra iscrizioni cristiane e non, ma ci si può spingere fino a delineare la genealogia di alcune famiglie osservando la ricorrenza degli stessi antroponimi in più testi una volta esclusi i casi di omonimia. L’iconografia ha molto da comunicare quando elementi ornamentali vengono accostati alle linee guida, spesso serpentiformi, che costituiscono il layout del monumento, mentre le forme linguistiche e le varianti epigrafiche contribuiscono a collocare i testi in un più preciso momento storico che, dove possibile, va confrontato con il contesto archeologico. Schematicamente si può riassumere il procedimento di datazione relativa come segue:

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Le fonti per la ricostruzione della storia della Scandinavia del 1000 sono relativamente poche dal punto di vista letterario, ma le evidenze archeologiche sono numerosissime e a questo materiale appartengono anche le iscrizioni runiche. Se da un lato tutte le iscrizioni di Epoca Vichinga possono definirsi storiche in virtù della loro funzione pubblica di monumenti legati alle vicende di alcune famiglie particolarmente potenti di quel periodo, ciò non significa comunque che esse siano anche storicamente databili con precisione, a meno che un rimando nei testi a uno dei tre momenti salienti della storia dell’espansione vichinga, confermati anche da fonti extra-scandinave, consenta di definire una cronologia assoluta. Il primo e più antico di questi eventi è l’affermazione del regno danese in Inghilterra nella prima metà dell’XI secolo, il secondo gli è connesso e riguarda l’eventuale appartenenza del defunto al selezionatissimo corpo militare di stanza in Inghilterra istituito da Canuto, il þingaliđ, mentre il terzo riporta in area svedese con la spedizione del sörmlandese Ingvar verso l’Oriente poco prima della metà dell’XI secolo.

Nell’ultimo decennio del X secolo gli attacchi all’Inghilterra si erano intensificati e la Cronaca Anglosassone, gli annali in cui sono tramandati i principali accadimenti del mondo anglosassone, riporta nel dettaglio le incursioni che ebbero luogo nel corso dell’XI secolo, dando maggiore enfasi a quelle guidate dal danese Canuto e al regno che fondò nei territori conquistati. Al contempo le iscrizioni runiche scandinave confermano l’alto numero di viaggi verso l’Occidente e a volte forniscono dettagliate indicazioni geografiche oppure fanno esplicito riferimento al sovrano, al suo seguito e perfino agli scontri che si verificarono in madrepatria e che portarono Canuto a recarsi più volte in Danimarca per fronteggiare gli attacchi delle altre popolazioni vichinghe che minacciavano il suo potere. Una delle iniziative del re fu l’istituzione del þingaliđ, una compagine militare da lui reclutata personalmente scegliendo tra gli esponenti dell’aristocrazia, i cui membri godevano di una quasi leggendaria fama di coraggio. Poter vantare tra i propri meriti quello di aver fatto parte di questa schiera era un pregio inestimabile, prestigio di cui godeva Gæiri, celebrato dai figli nell’elegante iscrizione upplandese di Kålsta, incisa nei corpi di due serpenti con code e teste alternatamente allacciate quasi a dipingere spirali filigranate. Del padre i due dicono che in Occidente fu membro del þingaliđ, informazione che, insieme alla croce di Malta dominante al centro della pietra e all’attribuzione al runristare Visäte, contribuisce a collocare il monumento tra il 1025 e il 1050 circa.

Sicuramente al regno di Canuto fa riferimento anche la stele sörmlandese di Gåsinge, estratta nel 1830 dalla facciata della chiesa di cui prende il nome. In essa Ragna, insieme ai figli, eresse la pietra in ricordo dello sposo Svæinn, affidandone l’anima a Dio. L’iscrizione si chiude con una sezione espressa in prima persona: io so che Svæinn fu in Occidente con Canuto, introdotta dalla formula veit ek, io so estremamente rara nei testi delle iscrizioni, ma ben nota nella tradizione eddica. Si tratta nel complesso di un verso lungo, di cui si parlerà a proposito della poesia runica di Epoca Vichinga, che conferisce un’elegante veste formale alla sezione del testo veicolante un’informazione cruciale in merito al passato di questo uomo. Svæinn partecipò a una o più spedizioni che ebbero luogo durante il regno di Canuto, quindi il terminus post quem di questa iscrizione è il 1018 e quello ante quem il 1035, con un’oscillazione cronologica per questa seconda data legata al momento in cui sopraggiunse la morte di Svæinn, che potrebbe anche essere avvenuta più avanti negli anni nella pace della sua casa.

Rimane da considerare il terzo avvenimento storico di cui si ha eco nelle iscrizioni di Epoca Vichinga, una spedizione tanto ardita e sfortunata da diventare fin da subito leggendaria, quella guidata da Ingvar, noto nella tradizione letteraria come Ingvarr inn víđfǫrli, il viaggiatore in terre lontane. Le pietre di Ingvar rappresentano un caso unico non solo nell’epigrafia runica di Epoca Vichinga in Svezia, ma nell’intero mondo nordico, in quanto si tratta del gruppo più numeroso di iscrizioni nelle quali, attraverso la consueta formula del contesto funerario-commemorativo, si rimanda a uno stesso evento storicamente identificabile. L’attribuzione di un testo runico al gruppo delle Ingvar stenar non è sempre certa, specie quando il monumento è troppo danneggiato e le informazioni frammentarie, tuttavia il numero complessivo oscilla intorno alla trentina e tutte provengono dalla regione nota nell’antichità con il nome di Svealand, il cuore dell’antica Svezia, lungo le coste del Mälaren. L’origine sörmlandese del condottiero e della sua famiglia sembra essere certa, sebbene non si possa escludere che possedessero dei terreni anche nel limitrofo Uppland. Sono dati che si ricavano dal confronto tra le iscrizioni, dal riproporsi di nomi di committenti e parenti e dalla maggiore o minore antichità attribuibile ai testi in base a criteri epigrafici e iconografici.

Non è noto esattamente da quale località Ingvar partì, ma la saga a lui dedicata precisa che egli morì nel suo venticinquesimo anno di età nove inverni dopo la morte di Olaf il Santo, il che corrisponderebbe al 1041. L’informazione è confermata dai manoscritti degli annali islandesi, ma ciò non è di grande aiuto dal momento che la fonte degli annali è costituita dalla saga. Tuttavia, a partire da questo dato, numerosi studiosi si sono cimentati nel tentativo di restituire a queste iscrizioni una cronologia il più precisa possibile, confrontandolo con i tratti compositivi e la configurazione artistica delle steli runiche. Oggi la datazione accettata è il 1040 circa, con un’oscillazione legata al tempo necessario perché l’informazione della morte di Ingvar e dei suoi compagni potesse arrivare in madrepatria. Alcuni studiosi, tra i quali Elias Wessén, erano propensi ad anticipare di una ventina di anni la collocazione temporale di queste pietre in virtù della semplicità dei loro apparati iconografici, tuttavia le steli sörmlandesi sono costantemente caratterizzate da uno stile sobrio ed elegante, e quelle upplandesi concentrate intorno alla costa del Mälaren presentano una maggiore arretratezza formale rispetto a quelle dell’Uppland sudorientale, il che avalla la data di poco antecedente la metà dell’XI secolo.

Tra saga e realtà

Il rapporto tra il condottiero nominato nelle iscrizioni runiche dello Svealand e il capo vichingo protagonista della saga norrena Yngvars saga víđfǫrla (Saga di Ingvar) fu intuito ai tempi dell’editio princeps pubblicata a Stoccolma nel 1762 da Nils R. Brocman. Tuttavia tra l’epoca in cui vennero realizzate le epigrafi, di poco posteriore agli anni della spedizione, e il momento in cui venne scritta la saga passarono circa due secoli di tradizione orale, in cui le vicende storiche furono ampiamente rielaborate. La trasposizione mitico-leggendaria fu completata quando venne redatto il testo norreno. La saga, che appartiene al genere delle fornaldarsǫgur, quello che la critica moderna definisce delle saghe mitico-eroiche o leggendarie, trasforma il racconto del viaggio verso l’Oriente in una spedizione geografica verso l’ignoto, in cui Ingvar entra in scena nel terzo capitolo, dopo una sezione introduttiva dedicata a questioni di carattere genealogico.

Il protagonista dell’opera letteraria comincia giovanissimo a frequentare la corte del re di Svezia, al quale era legato da vincoli di parentela, distinguendosi in seguito in una missione nelle province del Baltico per essere riuscito a costringere i ribelli a pagare il dovuto tributo al sovrano svedese. Compiuti i 20 anni reclama il proprio diritto al trono, diritto che gli viene negato, scegliendo a questo punto di organizzare una flotta di trenta vascelli e partire per l’Oriente. I primi tre anni della spedizione vengono trascorsi presso la corte di un principe locale poi, affascinato da un racconto udito a proposito dei tre grandi fiumi che attraversano la pianura russa, Ingvar decide di partire per risalirne il corso fino alle sorgenti ed è così che ha inizio il racconto delle vicissitudini che egli e i suoi uomini devono affrontare durante il viaggio. Nella narrazione la realtà storica viene completamente manipolata con l’inserimento di elementi fantastici, in parte ripresi da materiale nordico, in parte attinti da fonti extra-scandinave derivanti dall’acculturazione latina e cristiana.

La vicenda umana di Ingvar si interrompe bruscamente quando, una volta raggiunta la meta del suo viaggio, si accinge a tornare in patria ma contrae un misterioso morbo, che lo porta alla morte insieme a molti dei suoi compagni. Unico sopravvissuto è il fedele compagno Garđa-Ketil, cui viene affidato il compito di riportare in patria la notizia della morte del grande condottiero. La saga si conclude, al capitolo XV, nel segno del rispetto della veridicità dei fatti appena narrati, elencando una triplice tradizione orale attraverso la quale essi sarebbero stati tramandati dai tempi di Garđa-Ketil fino a quello della redazione stessa del testo.

Poesia runica dell’Epoca Vichinga

Nonostante l’alto livello di formularità lessicale e sintattica delle iscrizioni runiche di Epoca Vichinga, talvolta l’uso di allitterazione, il ricorso a determinati vocaboli e un ordine delle parole alterato rispetto a quello usuale contribuiscono a creare un ritmo particolarmente marcato e un andamento tali da distinguere alcuni testi dalla restante parte del corpus, maggioritaria. In molti casi si tratta semplicemente di un’alterazione ritmica della prosa o dell’inserimento di brevi sezioni poetiche all’interno di un contesto altrimenti in prosa, ma in altri ci si trova innegabilmente di fronte a realizzazioni poetiche, sia pur irregolari e semplici, che attestano l’esistenza di una poesia runica di Epoca Vichinga.

I testi runici restano comunque sempre molto lontani dalla forza narrativa della letteratura norrena, tanto che sembra quasi impossibile pensare che alcune iscrizioni e i primi esempi di poesia scaldica del IX secolo siano contemporanei. Tuttavia, sebbene i livelli di raffinatezza raggiunti siano tanto diversi, le affinità non sono poche, dato che entrambe sono poesie di occasione, firmata quella scaldica e anonima quella runica, ed entrambe si rivolgono a un pubblico, quello che dallo scaldo si attendeva quasi una sfida intellettuale e quello più casuale delle iscrizioni. Se da un lato l’esistenza della poesia runica di Epoca Vichinga è formalmente accettata, molto più complesso risulta darne una definizione, dal momento che l’attuazione degli schemi metrici, quando questi siano effettivamente individuabili, è piuttosto libera e frammentaria a causa della brevità delle iscrizioni stesse e della loro fissità compositivo-concettuale. Più che altro sono numerosi gli esempi di versi lunghi isolati nella prosa, oppure di coppie di versi lunghi, e sono stati necessari quasi due secoli, dall’inizio del XIX alla fine del XX, per stabilire in maniera sistematica una serie di criteri secondo i quali un testo runico possa o meno essere definito poetico. Nel corso di questi studi si è anche giunti a un’osservazione decisamente interessante, ovvero che la poesia runica sembra essere un’espressione tipicamente svedese e danese, di fatto sostanzialmente assente nelle epigrafi della Norvegia, terra in cui stava fiorendo la produzione scaldica.

Ciò che distingue la metrica germanica antica dalle altre è il fatto che essa si basa esclusivamente su un’unica tipologia di metro, il verso lungo caratterizzato dalla combinazione di allitterazione e ritmo. A questa stessa combinazione si rifanno anche i metri della tradizione scaldica, resi più complessi dall’inserimento di giochi di rime e assonanze e da un rigido computo sillabico con ripartizione in strofe. Nel verso lungo l’allitterazione non può essere utilizzata accessoriamente o in base a regole arbitrarie, proprio perché a questa spetta il compito di garantire la coesione e l’identificazione stessa del verso, del quale, dunque, si rivela essere elemento costitutivo. I criteri in base ai quali riconoscere la poesia runica individuano nell’inserimento di versi lunghi isolati o di helmingar la principale forma di realizzazione poetica delle iscrizioni e riconoscono in primo luogo nell’allitterazione e successivamente nell’ordine delle parole i principi fondamentali cui rifarsi. L’allitterazione, in particolare, non deve essere casuale bensì dipendere esplicitamente dalla volontà di chi operò scelte consapevoli e precise, collegate all’ambito lessicale e all’ordine delle parole. Tecnicamente si tratta della ripetizione regolata dell’elemento marginale iniziale di una sillaba tonica, e tonica primariamente, ovvero di consonanti, con i soli gruppi sk-, st- e sp- nella loro interezza, e vocali, che allitterano tutte tra loro senza distinzione di timbro. Il verso lungo è costituito da due emistichi, divisi da cesura, ciascuno dei quali presenta due arsi che solitamente coincidono con le sillabe primariamente toniche, le stesse che portano l’allitterazione. Non solo l’allitterazione coincide con gli accenti forti, bensì generalmente si trova in parole che hanno un particolare valore per il senso del testo o per la sua costruzione sintattica.

Gli esempi che seguono, tratti dal gruppo delle iscrizioni svedesi del Södermanland nei quali la traduzione è affiancata alla resa nella lingua del periodo, mostrano i vari gradi di realizzazione poetica cui le iscrizioni possono giungere.

In alcuni casi è il lessico standard della formula a rendere inevitabile l’allitterazione:

Sigbiorn ok Svæinn þæiR bró giærđu æftiR…, bróđur sinn

Sigbjörn e Svæinn, essi fecero il ponte in memoria di…, loro fratello

La pietra di Kalkbron fu commissionata da due fratelli per un terzo fratello insieme al ponte che fecero costruire nelle vicinanze e non esisteva altro modo per esprimere questi concetti, dunque l’allitterazione bró - bróđur è casuale, eppure nel tempo alcuni studiosi hanno proposto di catalogare l’iscrizione come poetica, mentre perfino la presenza di un’allitterazione voluta non sarebbe di per sé sufficiente per parlare di poesia. In alcune iscrizioni le scelte lessicali denotano la volontà da parte di chi ha ideato il testo di generare questo fenomeno, anche alterando leggermente la sintassi, raggiungendo un livello stilisticamente più elevato di quello abituale ma mai agendo in maniera tanto profonda da consentire di parlare di piena realizzazione poetica. Una combinazione classica utilizzata per questo fine è quella tra il sostantivo stæinn, pietra e il verbo standa, erigere, di cui un esempio perfetto è dato dalla pietra di Ösby:

Þorstæinn let þenna retta stæin, hæfila stændr æftiR Þorbiorn, Salvi ok Smiđr at senn brođur

Þórstæinn fece erigere questa pietra, si erge in maniera adeguata, in memoria di Þórbiorn, (e) Salvi e Smiđr in ricordo del loro fratello

L’allitterazione tra i due antroponimi in chiusura, per quanto il ritmo sia forte, pare essere casuale e nel complesso il testo non si discosta eccessivamente dalla formula obbligatoria minima, quindi vi sono troppi pochi elementi perché si possa parlare di poesia.

Il passo successivo verso la piena realizzazione poetica è l’inserimento di un verso lungo in un contesto di prosa, il che quasi sempre avviene nello statusmarkör, l’unica formula che consentiva di sfuggire alla fissità lessicale. È interessante il fatto che spesso per mezzo di questo verso lungo la committenza scelga di veicolare due informazioni ben precise e cioè dove il defunto trovò la morte, solitamente lontano da casa, e perché vi si trovava. Due esempi, le pietre di Rycksta e di Grinda, non solo riflettono la stessa scelta dal punto di vista del contenuto, ma addirittura mostrano l’utilizzo della stessa espressione, due versi lunghi strutturalmente identici:

ÞryđrikR stæin at syni sina, snialla drængia, for OlæifR i Grikkium gulli skifti

Þryđrikr la pietra in ricordo dei suoi figli, valorosi guerrieri. Partì Ólæifr, tra i greci oro spartì

[Rycksta]

Guđrun ræisti stæin at Heđin, vaR nefi Svæins. VaR han i Grikkium gulli skifti. Kristr hialp and kristinna

Guđrún eresse la pietra in ricordo di Heđinn; era il nipote di Svæinn. Fu egli tra i greci, oro spartì. Aiuta, Cristo, lo spirito dei cristiani.

[Grinda]

Le regioni bizantine sono indicate per mezzo dell’espressione ì Grikkium. La notizia della morte in entrambi i casi è ritenuta scontata e al suo posto si trova un’altra espressione formulare dalla quale ha origine il verso lungo, che illustra in quali attività erano impegnati i giovani guerrieri per cui le pietre erano state fatte erigere: la conquista dell’oro e la spartizione dello stesso con i compagni.

L’unità metrico-compositiva superiore al verso lungo è detta helmingr ed è molto raro, se non impossibile, che all’origine di uno helmingr vi sia ancora quella casualità che spesso contribuiva alla realizzazione del verso lungo. Sebbene si possano individuare vari gradi di realizzazione di helmingar – da quelli più imperfetti fino alla soglia di quella che potrebbe sembrare vera e propria poesia epica – le scelte lessicali e la sintassi sono elementi sempre attentamente valutati nella fase di ideazione del testo. L’eccedenza di sillabe di uno dei due versi che lo compongono e un’allitterazione sicuramente certa, ma non necessariamente ricollegabile ad una scelta lessicale insolita o particolarmente elegante, costituiscono il primo tratto che denota una realizzazione imperfetta dello helmingr, come per esempio nel caso di Bjudby, la cui formula base è insolita perché il committente è anche destinatario del monumento insieme al proprio figlio, cui è però dedicata la parte poetica:

Þorstæinn le[t ræi]sa stæin þenna [æftiR] sik sialfan ok sun sinn Hæfni.

VaR til Ænglands ungR drængR farinn, varđ þa hæima at harmi dauđr.

Guđ hialpi salu þæiRa. Bruni ok Slođi þæiR [rist]u stæin þenna.

Þórstæinn fece erigere questa pietra in memoria di se stesso e di suo figlio Hefnir.

Fino in Inghilterra aveva il giovane guerriero viaggiato, venne poi in patria a dolorosa morte.

Dio aiuti le loro anime. Brúni e Slóđi, essi incisero questa pietra.

Quando allo helmingr si accompagna un verso lungo per un totale di tre versi lunghi complessivi all’interno dell’iscrizione, secondo gli schemi 2 + 1 oppure 1 + 2, il livello stilistico si innalza ulteriormente. Destinatari di iscrizioni tanto raffinate dovevano essere stati in vita persone molto potenti e conosciute oppure aver preso parte a eventi particolarmente significativi e degni di memoria, come la ben nota spedizione di Ingvar. Nell’iscrizione, purtroppo molto danneggiata, di Aspa Bro una donna di nome Astriđ celebra i figli e, dopo la formula obbligatoria, il testo si chiude con tre versi, ognuno dei quali è caratterizzato da un toponimo:

urđu da[uđi]R

[i] Dan[mar]ku

va[R]u rikiR

a Rauningi

ok sniallastiR

i Sveþiuđu

Essi morirono

in Danimarca

erano potenti

a Rauningi

e i più coraggiosi

in Svezia

Danimarca, dove morirono, Rauningi, probabilmente l’attuale provincia di Rönö, nella quale erano potenti, e la Svezia di cui si fregiavano di essere gli uomini più coraggiosi.

Ancora più raffinata è l’iscrizione di Gripsholm, commissionata da una donna di nome Tóla in memoria del figlio Haraldr, che fu fratello d’armi di Ingvar:

Tola let ræisa stæin þennsa at sun sinn Harald, brođur Ingvars.

Þæir foru drængila

fiarri at gulli

ok austarla

ærni gafu

dou sunnarla

a Særklandi

Tóla fece erigere questa pietra in ricordo di suo figlio Haraldr, fratello di Ingvarr.

Essi viaggiarono virilmente

lontano alla ricerca dell’oro

e in oriente

l’aquila cibarono

morirono a sud

nel Serkland

Il testo attinge direttamente ad alcune espressioni lessicali della poesia scaldica: erni gǫfu, l’aquila cibarono, si rifà ovviamente ai corpi dei nemici che i due lasciarono insieme sul campo di battaglia ed è un topos assai diffuso anche nella produzione eddica, mentre il sintagma fara at gulli, viaggiare alla ricerca dell’oro, è ulteriormente ampliato dall’aggiunta di due avverbi, drængila e fiarri, che rimandano al senso di ignoto e pericoloso evocato dalla partecipazione a quelle spedizioni. Su tutto domina l’immagine delle aquile che, maestose nel silenzio della morte, sorvolano il campo di battaglia, mentre Haraldr e Ingvar procedono, inoltrandosi sempre più a sud alla ricerca di ricchezze, verso nuove terre, nuove battaglie e, infine, verso il destino ultimo che li attende.

Anche la poesia runica può raggiungere notevoli livelli di complessità, sia pur raramente, come per esempio avviene nell’iscrizione di Turinge kyrka che con i suoi circa 200 caratteri runici è una delle più lunghe del corpus del Södermanland, e la cui sezione in prosa, corrispondente alla successione di quattro resarformel in cui altrettante committenze dichiarano di aver contribuito alla realizzazione del monumento, introduce una strofa irregolare di cinque versi. I primi committenti a essere citati sono i due figli del defunto Þorstæinn, seguono il fratello

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FIG. 7 – Pietra di Gripsholm – foto per gentile concessione di Antonello Motta.

Anundr e gli uomini della schiera armata e chiude la sposa; tutti desiderano ricordare la virtù guerriera di quest’uomo, sommata alla sua abilità di comandante e alla rettitudine nel comportamento, elementi evidenziati nella sezione poetica del testo:

Brøđr vaRu þæiR

bæstra manna

a landi ok i liđi uti,

 

heldu sina

huskarla ve[l].

Hann fioll i orrustu

austr i Garđum

liđs forungi

landmanna bæstr

I fratelli erano

tra i migliori degli uomini

nel paese e nella schiera armata all’estero

mantenevano i loro

seguaci bene

Egli cadde in battaglia

in Oriente in Garđir

Il capo della schiera

degli uomini del suo paese il migliore

Sono riscontrabili due momenti concettuali: i primi tre versi, dedicati alla figura dei fratelli, di cui si sottolinea che insieme furono ottimi capi per la schiera dei loro uomini, sia in patria sia durante le spedizioni, e gli ultimi due nei quali si ritorna al vero destinatario del monumento, che cadde in battaglia in Russia, il migliore degli uomini, con un’espressione landmanna bæstr che volutamente si ricollega alla chiusura del primo verso in cui i fratelli erano detti bæstra manna, e che era il capo della schiera, ruolo che forse il fratello avrebbe potuto ereditare.

In casi eccezionali i testi delle iscrizioni possono attingere direttamente dal repertorio della tradizione scaldica o eddica, non solo da un punto di vista contenutistico, bensì anche in termini di formulazione. Il corpus sörmlandese presenta uno di questi particolari esempi in un verso dal contenuto apocalittico, che rende assolutamente unica l’iscrizione di Skarpårker. La pietra ha seriamente rischiato di non giungere fino a noi quando, nel 1883, gli operai che la ritrovarono nel campo dal quale prende il nome, nella pieve di Runtuna, provincia meridionale di Rönö, non esitarono a farla saltare in aria con una carica di dinamite per sgomberare l’area in cui dovevano effettuare dei lavori. Se i frammenti si conservarono fu solo merito del fittavolo, che, accortosi della presenza di incisioni runiche, decise di raccoglierli e metterli al riparo nascondendoli sotto un ponte in costruzione nelle vicinanze. La sorte volle che non molto tempo dopo un antiquario incaricato di effettuare ricerche al fine di preparare la prima edizione delle Södermanlands runinskrifter incontrasse quello stesso fittavolo e con scrupolosa pazienza decidesse di dedicarsi al restauro del monumento, che riuscì a ricomporre. La parte inferiore era purtroppo irrimediabilmente danneggiata, ciò nonostante l’iscrizione era perfettamente leggibile. La prima sezione del testo è costituita da una classica formula base in rune comuni, cui segue un verso lungo inciso per mezzo di una variante epigrafica piuttosto rara e che si differenzia notevolmente da tutti gli altri versi lunghi riscontrati nelle epigrafi di questo periodo perché pare essere l’eco diretta di un componimento poetico di argomento escatologico. Se la resarformel è facilmente leggibile ed interpretabile:

Gunnar ræisþi stæin þannsi at Lyđbiorn sun sinn

Gunnar eresse questa pietra in ricordo di Lyđbjörn suo figlio

per il verso lungo, al contrario, non si è ancora giunti ad una interpretazione definitiva e sono solitamente proposte due soluzioni alternative:

1a ipotesi:

Iarđsalr hifna ok upphiminn

 

La dimora terrestre dei cieli e il cielo in alto

2a ipotesi:

Iarđ skal rifna ok upphiminn

 

Si fenderà la terra e il cielo in alto

Nella seconda ipotesi si avverte l’eco di un verso della Vǫlospá, La profezia della Veggente, con la quale si apre la rassegna dell’Edda Poetica:

Jǫrđ fannz æva

né upphiminn

Terra non si distingueva

né cielo, in alto

[Vsp. 3]

La combinazione allitterante iǫrđ-upphiminn, sia in riferimento alla fase della creazione del mondo, sia per il destino ultimo di questo, si trova in varie fonti antiche, ma solo in questo caso in ambito runico. Inoltre era utilizzata anche in contesto pagano prima della conversione al cristianesimo. Essendo l’iscrizione in memoria di un defunto, ed essendo presente la croce nell’apparato iconografico, viene da propendere per un’eco dell’Apocalisse, ma in Epoca Vichinga era anche diffuso un topos letterario nei componimenti scaldici funerari, nei quali si celebrava il ricordo del defunto dicendo che la fine del mondo sarebbe giunta prima della nascita di una persona altrettanto nobile; un genere di topos cui poteva ricorrere chiunque, pagano o già convertito alla nuova fede. Anticipando di poco il tema dell’iconografia delle iscrizioni che verrà trattato nel prossimo paragrafo, è interessante osservare che la stele di Skarpårker, il cui testo corre in due linee guida dall’aspetto serpentiforme appena accennato, è dominata da una nave il cui albero maestro si fonde con il braccio verticale di una croce che la sovrasta. Tuttavia è difficile, se non impossibile, determinare se questa nave sia da intendersi come un riferimento simbolico del viaggio di ogni anima verso la dimensione ultra-terrena o piuttosto un richiamo al mito pagano del Ragnarǫk. Anche per questa ragione Skarpårker resta una delle più misteriose e affascinanti iscrizioni runiche di Epoca Vichinga.

Immagini e colori nelle iscrizioni runiche

Così come per mezzo dell’inserimento di sezioni poetiche nel testo, anche con l’aggiunta nell’apparato iconografico di elementi simbolici che non rispecchiavano i luoghi comuni della tradizione la committenza aveva la possibilità di esprimere la propria individualità e differenziarsi dagli altri. Osservando più da vicino le iscrizioni di Epoca Vichinga, sembra perfino possibile ipotizzare che esistessero proprio due alternative possibili: una che mirava al contenuto e l’altra all’aspetto, come ad attestare l’esistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra la raffinatezza dal punto di vista linguistico e il layout dell’iscrizione. Non di rado i testi più complessi e ricercati corrono semplicemente all’interno di linee guida serpentiformi, mentre le pietre nelle quali l’aspetto artistico si presenta come maggiormente elaborato, con inserti più originali, tendono ad avere testi piuttosto lineari, talvolta limitati alla formula obbligatoria base. Ovviamente un testo complesso sarebbe stato decifrabile solo da una minima parte degli osservatori mentre una decorazione più appariscente avrebbe attirato l’attenzione anche di persone con uno scarso livello di alfabetizzazione, il che supporta la teoria di scelte diverse della committenza, forse corrispondenti a offerte differenti da parte dei runristare, che potevano essere specializzati nella fase di realizzazione dei testi o in quella di decorazione dei monumenti. Eloquente in questo senso è la ristarsignatur della pietra di Gerstaberg in cui i due momenti e i due compiti sono ben distinti:

Æsbiorn risti ok UlfR stæindi

Ásbjörn incise e Ulfr dipinse

Nella tradizione runica di norma testo e immagini sono sempre indipendenti in termini di contenuto, mentre esiste tra i due una connessione nel momento in cui le linee guida assumono un aspetto serpentiforme. Effettivamente per certi versi i serpenti runici, che dominano nella tradizione svedese, rispondono in primo luogo a una necessità pratica, ovvero una più ordinata disposizione dell’iscrizione sulla superficie da incidere. Il fatto che possano arrivare a livelli elevatissimi di raffinatezza ed eleganza è un elemento che si aggiunge in un secondo momento e questa maggiore o minore eleganza può riflettere, al di là della semplice moda locale, anche un maggiore o minore benessere economico di una committenza più o meno esigente.

L’elemento distintivo dell’arte nordica è una figura zoomorfa, altamente stilizzata e vista di profilo, cui si possono aggiungere motivi vegetali, che nel tempo subisce un’evoluzione passando attraverso stili codificati nella seconda metà del secolo scorso:

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L’ultima fase, quella denominata Urnes che sfocia nel Medioevo ed è magnificamente rappresentata nelle decorazioni lignee dei pannelli della omonima chiesa norvegese, nacque proprio in un’area dell’Uppland, dalla quale l’abitudine di realizzare un raffinato serpente a nastro si diffuse nelle regioni limitrofe. Proprio la resa stilistica delle linee guida serpentiformi è uno strumento prezioso per giungere a una datazione relativa delle iscrizioni attraverso il confronto di alcuni elementi quali la forma della testa e della coda dell’animale e i cartigli, nodi, in cui possono andare a incrociarsi.

Non è rara la presenza di animali a quattro zampe che interagiscono con l’andamento delle linee guida, mentre solo sporadicamente si hanno raffigurazioni antropomorfe, ma quello che si può considerare come il primo vero elemento artistico dell’apparato iconografico è l’aggiunta della croce. Solitamente basate su modelli insulari, esse sono indizi fondamentali per la cronologia relativa delle pietre, ma anche per la ricostruzione delle fasi e direttrici di penetrazione della nuova fede nel territorio nordico. La loro forma, quella dei bracci, la disposizione rispetto al serpente runico sono tutti elementi che contribuiscono a classificarle.

Un altro simbolo in cui non è affatto insolito imbattersi nelle iscrizioni runiche è la nave, che riflette perfettamente il tema del viaggio, tanto importante in Epoca Vichinga, e al contempo si adatta a una trasposizione simbolica diventando l’emblema del viaggio ultraterreno. Particolarmente dettagliate e suggestive sono le rappresentazioni di navi sulle pietre dell’isola di Gotland, che rimandano a una ricca e viva rappresentazione di miti, leggende e probabilmente componimenti poetici che sfortunatamente non sono giunti fino a noi e quindi sono di oscura interpretazione.

Sebbene l’arte nordica fosse più figurativa che narrativa, ciò non impedisce che nell’apparato iconografico delle iscrizioni talvolta si possano trovare elementi isolati, animali o figure umane, dall’alto valore simbolico. Può succedere, come nella pietra di Böksta in Uppland, che vengano raffigurate scene di vita quotidiana, in questo caso un momento di una battuta di caccia, con un uomo a cavallo e due cani che lo affiancano, mentre un altro sugli sci tende l’arco pronto a scoccare una freccia, ma di solito si tratta di raffigurazioni di scene tratte dall’immaginario mitico o eroico del tempo. Si è già fatto cenno alle pietre di Gotland, spesso prive di testo ma ricche di immagini nelle quali la vicenda del fabbro Vǫlundr è una di quelle più rappresentate, ma gli esempi non sono rari neanche nella Svezia centrale, dove la stele di Ledberg riprende inequivocabilmente il mito del Ragnarǫk con un dettaglio della lotta tra Odino e Fenrir, mentre quella di Altuna Kyrka mostra una fase del combattimento tra Thor e il Miđgarđsorm. Più a sud quella di Hunnestad, nella regione di Skåne, raffigura una donna che cavalca un gigantesco lupo con dei serpenti al posto delle redini, Hyrrokin, che risponde al richiamo per raggiungere la nave funebre di Baldr. Della tradizione eroica, sicuramente uno dei cicli più raffigurati è quello di Sigurđr Fáfnisbani, che raggiunge un livello elevatissimo di raffinatezza nell’iscrizione sörmlandese di Ramsundsberget, una imponente jordfast inskrift, cioè un’iscrizione che corre su di un masso inserito nel terreno, dell’ampiezza di quasi 5 metri. La banda serpentiforme, costituita dai corpi di due animali, corre lungo il perimetro dell’iscrizione racchiudendo il testo, ma la particolarità è che uno dei due serpenti si trasforma figurativamente nel drago Fáfnir, poiché Sigurđr è raffigurato in un angolo in basso a destra, accucciato mentre lo trafigge con la sua spada. Tutte le altre immagini si trovano all’interno dell’area delimitata dall’iscrizione. Si vedono in maniera distinta il cadavere decapitato del fabbro Regin e Sigurđr, che si scotta arrostendo il cuore di Fáfnir e per questa ragione mette in bocca il dito con l’effetto conseguente che il contatto con il sangue del drago lo rende in grado di comprendere il linguaggio degli uccelli, appollaiati sui rami dell’albero cui è legato il suo destriero. I committenti di questo monumento dovevano appartenere a una famiglia molto ricca e potente della zona, come si intuisce non solo dalle impressionanti proporzioni della pietra, ma anche dal fatto che non lontano dal luogo in cui sorge sono stati trovati i resti del ponte commissionato insieme all’epigrafe, non un guado temporaneo, bensì una struttura fissa di alcune decine di metri. Forse il richiamo al mito era un voler esaltare le origini nobili della famiglia, quasi a ipotizzare che discendesse direttamente da quel grande eroe, ma si resta nel campo delle ipotesi, mentre è molto interessante notare che non lontano da questa iscrizione ne sorge un’altra, la pietra di Göksten, priva di significato linguistico e da sempre considerata come una brutta copia di Ramsundsberget. In essa infatti, in un disordine che nel complesso amplifica la drammaticità delle scene e con una mano sicuramente più incerta, sono raffigurati gli stessi momenti del ciclo eroico, tanto che forse si potrebbe ipotizzare che l’allievo di uno dei runristare impegnati alla realizzazione di Ramsundsberget si sia cimentato nel realizzarne una copia per esercitare la propria abilità e migliorare la propria tecnica.

Nell’iscrizione di Ramsundsberget non ci sono evidenze di una cromia originale, tuttavia da altri monumenti è noto che le pietre di Epoca Vichinga erano spesso dipinte in maniera vivace. Che le popolazioni di quell’epoca amassero i colori lo confermano anche i pochi frammenti di stoffa che si sono conservati e che mostrano alternanze di verdi, blu, violetti, porpora e ocra confermate dai resoconti dei viaggiatori. L’abitudine di colorare le rune doveva essere certamente già diffusa nella Fase Antica, come fa supporre la specializzazione linguistica di formule quali coloro / colorai le rune. Nella la stele di Överselö kyrka la definizione inserita nel testo è runum ruđniR, rossa con le rune, dunque probabilmente il colore utilizzato era il rosso, che ben si ricollega a quanto viene detto nell’Edda:

Vóro í horni

hvers kyns stafir

ristnir oc rođnir

ráđa ec né máttac

C’erano in quel corno

caratteri di ogni sorta

incisi, tinti di rosso

– e io non potevo capirli –

[Gdhr. II, 22]

Le iscrizioni più protette dalle intemperie, quelle per esempio che erano state murate come materiale di reimpiego nelle costruzioni medievali, conservano talvolta traccia dei pigmenti originali, il che rivela che oltre al rosso venivano utilizzati il nero, il bianco e il marrone. Un esempio particolarmente elegante e raffinato di questa decorazione policroma doveva essere quello fornito dal sarcofago di Eskilstuna al tempo della sua realizzazione. Si tratta di un monumento che si colloca verso la fine dell’Epoca Vichinga e che per tipologia anticipa la successiva produzione medievale, quando si diffuse l’usanza di porre una lapide o un sarcofago vuoto sopra al luogo della sepoltura. Oggi, dopo un’usura di secoli, i fragili pannelli in arenaria di cui era composto sono molto rovinati, l’iscrizione quasi illeggibile, eppure incredibilmente si sono parzialmente conservati i colori vivaci con i quali era stato dipinto. Da questa e da altre testimonianze si può comprendere che non solo i caratteri e le linee guida venivano colorati, ma anche gli spazi all’interno dell’apparato iconografico, in un’alternanza di colori che poteva avere la duplice funzione di abbellire il monumento e di aiutare l’osservatore nel distinguere il testo seguendo il movimento delle spirali. Le parole potevano addirittura essere colorate in maniera alternata, in modo da facilitare lettura e comprensione.

Il certificato di battesimo della Danimarca

La non predisposizione dell’arte nordica a inserire motivi narrativi potrebbe spiegare l’assenza di raffigurazioni di momenti salienti della vita di Cristo nelle pietre realizzate dopo la conversione alla nuova fede. Tuttavia l’imponente figura di un crocefisso domina un intero lato della grande pietra danese di Jelling II, commissionata da Aroldo in memoria dei genitori e attraverso la quale il sovrano al contempo ufficializzava la sottomissione della Norvegia annunciando anche la conversione del suo regno al cristianesimo.

Secondo l’iconografia nordica Gesù non è inchiodato alla croce, bensì tenuto legato da stretti nodi, un elemento che per alcuni rimanda all’immagine di Odino impiccato all’albero cosmico. Come da usanza del periodo, la pietra era colorata in toni vivacissimi, di cui si sono conservate alcune tracce, sufficienti per ricostruire quello che doveva essere il suo aspetto originale.

Negli anni ’30 del secolo scorso lo storico dell’arte Rudolf Broby-Johansen ne realizzò una copia a colori, definendo il monumento il certificato di battesimo della Danimarca e ancora oggi questo Cristo nordico campeggia nelle pagine dei passaporti danesi come emblema nazionale.