27
La bella hostess sollevò la testa ed emise un mugolio di piacere, mentre Maceo Encarnación ammirava il lungo collo della donna. La giacca della divisa era stata gettata sul pavimento, la camicetta bianca aperta lasciava i seni scoperti, la gonna era arrotolata sui fianchi e il perizoma scivolato alle caviglie. Encarnación la penetrava da dietro. Il piacere gli evocava immagini degli antichi dei aztechi di Tenochtitlán, prima tra tutti Tlazolteotl, la dea del piacere e del peccato, tanto temuta quanto venerata. Temuta perché associata ai sacrifici umani e venerata perché, se invocata correttamente, divorava i peccati e permetteva ai peccatori di continuare la vita senza macchia.
Quando Maceo Encarnación pensava alla dea, non la immaginava con le fattezze della statua di pietra e giada custodita al Museo nazionale di Città del Messico, ma con quelle di Constanza Camargo, l’unica donna che aveva il potere di ripulirlo dai suoi innumerevoli peccati, restituendolo alla vita come nuovo. Eppure, c’era un peccato da cui nemmeno Constanza poteva salvarlo: quello commesso contro di lei, troppo grande persino per la dea Tlazolteotl.
Encarnación diede un ultimo colpo alla hostess, poi crollò sulla schiena della ragazza, sudato e tremante. Il cuore gli batteva forte nel petto, sentiva il dolore della dissoluzione, il vuoto enorme che avanzava verso di lui come un esercito oscuro, implacabile e terrificante. Il vuoto era l’unica cosa che lo spaventava. Non aveva paura delle asfissianti celebrazioni liturgiche, delle banalità insensate proclamate nelle omelie settimanali, che erano l’infido nutrimento del piano divino. Dio non aveva alcun piano, anzi, Dio non esisteva. C’era solo il terrore dell’uomo per tutto ciò che era sconosciuto e imperscrutabile.
Nel lungo momento di insopportabile vuoto che seguiva il coito, Maceo Encarnación desiderava Constanza Camargo come non aveva desiderato nessun’altra. Il suo esilio da lei gli causava un dolore impossibile da alleviare né tantomeno curare. Il fatto che fosse la giusta punizione per i suoi peccati non lo aiutava a sopportare quella situazione, anzi, lo faceva infuriare. E a nulla servivano le sue ricchezze, l’influenza oscura che riusciva a esercitare e il suo potere distruttivo. Quando si trattava di Constanza, lui non era diverso dal più umile dei mendicanti, e non aveva alcuno strumento per convincerla, per obbligarla, per farsi strada fino al suo cuore.
Si tirò indietro e richiuse la cerniera dei pantaloni. Era sudato e sporco, sulla sua pelle l’odore del sesso era intenso. La ragazza si era rivestita dandogli le spalle e non si voltò nemmeno allontanandosi per tornare alle sue occupazioni.
Encarnación fissava il tessuto che ricopriva la parete e vide una chiazza nel punto in cui la hostess aveva appoggiato la fronte, sotto la spinta dei suoi colpi. Sorrise e accarezzò la macchia con le dita: era il segno della resa, l’impronta del peccato.
Anche Constanza Camargo aveva la sua macchia: il suo peccato era l’adulterio. Una settimana dopo la morte del marito, era caduta dalle scale, dopo essere stata svegliata nel cuore della notte dal suono della sua voce, che forse aveva solo sognato. Aveva appoggiato male un piede ed era rotolata giù dalle scale.
Strisciando sul tappeto, era arrivata fino al telefono e aveva chiamato Maceo. La loro relazione era finita, non si sentivano da mesi, eppure lui era accorso all’istante. Aveva contattato il miglior chirurgo del Paese, che aveva subito rimesso a posto la lesione al disco causata dalla caduta. Purtroppo, come accade a volte dopo le operazioni chirurgiche alla spina dorsale, la donna sviluppò una neuropatia periferica, una malattia degenerativa piuttosto dolorosa, che resistette a qualsiasi cura. E Maceo si assicurò che Constanza fosse sottoposta a tutte le migliori terapie. Adesso la sedia a rotelle era lì a ricordarle in ogni momento la sua infedeltà. Come era successo ad Acevedo Camargo, il desiderio aveva incrociato il suo destino, alterandone il corso.
Sei mesi dopo averle annunciato che la sua malattia era incurabile, il chirurgo che aveva operato Constanza era andato con l’amante a Punta Mita in vacanza. Un ragazzo che si era alzato all’alba per andare a correre in spiaggia, aveva trovato due teste mozzate di netto dal corpo. I poliziotti locali non erano stati in grado di scoprire né il movente né gli esecutori dell’omicidio, e ben presto l’incidente era stato archiviato.
Encarnación tornò a concentrarsi sul presente. Rimasto solo, aveva controllato l’orologio e si era diretto verso la cabina, superando la hostess che stava preparando la cena. Il pilota e il copilota ascoltavano musica dall’iPod in attesa di istruzioni. Quando il pilota lo vide arrivare si tolse gli auricolari.
«È ora di scaldare i motori» annunciò Maceo.
L’uomo lo guardò, nei suoi occhi c’era una domanda; sapeva che Nicodemo non era ancora rientrato.
Encarnación rispose con un cenno del capo. «È ora» ripeté, poi tornò al suo posto e si allacciò le cinture.
Il pilota chiamò la torre di controllo, disse qualcosa, rimase in ascolto, poi rullò preparandosi al decollo.
«A dire il vero, non so perché mi trovo qui.»
Il generale Hwang Liqun osservava l’appartamento di Yang Deming, che era il più importante esperto di feng shui di Pechino e i suoi servizi erano molto richiesti. Era sorpreso di trovarsi in quell’alloggio spazioso, in un condominio ultramoderno vicino alla stazione della metropolitana di Dongzhimen. La casa era piena di superfici riflettenti, legno lucido, marmo, pietra e giada. Le finestre, alte fino al soffitto, si affacciavano sulla città perennemente avvolta nello smog marroncino, che sembrava una tempesta di sabbia arrivata dal deserto del Gobi, e sull’imponente palazzo della China Central Television, progettato da Rem Koolhaas.
Il generale Hwang Liqun non l’avrebbe mai ammesso, ma era colpito dal fatto che Maricruz avesse ottenuto un appuntamento così in fretta. Anche se era la moglie del ministro Ouyang, era pur sempre una straniera, per quanto la sua padronanza del mandarino fosse certamente superiore a quella di molti collaboratori del generale.
«Io invece credo che lei lo sappia molto bene» rispose Maricruz mentre prendeva una tazza di tè dalle mani piccole e solcate da vene azzurrognole di Yang Deming.
Il vecchio le sorrise, annuì, e con grande sorpresa del generale la baciò su entrambe le guance, poi si alzò srotolandosi come un origami e uscì dalla stanza a piedi scalzi. Maricruz indicò la piccola teiera di ghisa. «Ne gradisce un po’?»
Il generale annuì, con un cenno del capo piuttosto rigido, dal quale traspariva tutto il suo disagio.
Dopo avere accettato il tè e averne sorbito un sorso, il generale ruppe il silenzio che era sceso tra di loro. «Ora, se non le spiace…»
Il generale era sulla sessantina, quindi un po’ più vecchio del ministro Ouyang. La loro amicizia era nata dalla necessità e poi si era rafforzata; i due uomini avevano in comune una ben radicata attitudine al pragmatismo, un tratto tipico della Cina moderna. Avevano anche la stessa idea di come il Paese dovesse prosperare a partire dal ventunesimo secolo. La pensavano allo stesso modo in particolare riguardo l’importanza di trovare innovative forme di energia, e concordavano sul fatto che dovessero essere reperite in Africa, continente che, grazie anche ai loro sforzi, si stava trasformando in una vera e propria roccaforte cinese. Ovviamente c’erano degli ostacoli che rallentavano le ambizioni dei due uomini e di tutto il Paese. La più temibile minaccia era proprio il motivo della riunione convocata da Maricruz, in modo così poco ortodosso e al di fuori del circuito degli incontri ufficiali di Pechino.
«Ci troviamo qui, pressoché isolati e completamente al sicuro, a causa di Cho Xilan» replicò Maricruz. Cho era il segretario del partito nella potente provincia di Chongqing. Dopo l’ultimo Comitato Centrale del partito, Cho aveva attaccato frontalmente lo status quo, sostenendo che l’ideologia era stata consumata nel tentativo frenetico di espandere la presenza cinese all’estero. Per “estero” intendeva ovviamente l’Africa, e questo lo aveva fatto entrare in rotta di collisione con il ministro Ouyang e con il generale. Cho aveva deciso di rimanere fedele alla linea di “costruire una società moderatamente prospera, ben radicata nell’ideologia socialista”, e in questo modo intendeva tenersi alla larga dalla frenesia culturale tipica delle nazioni esterne al Regno di Mezzo, caratterizzate da una netta divisione tra classi superiori e inferiori.
«Generale, la guerra si sta avvicinando» continuò Maricruz.
«Questa è la Cina, qui la guerra civile non esiste.»
«Lo sento nelle ossa.»
«Ma davvero?» replicò il generale con un sorrisetto di superiorità.
«Vengo da un Paese immerso nel sangue della lotta di classe.»
Questa frase ebbe come unico effetto quello di far allargare il sorriso del generale. «Allora è così che definirebbe il traffico di droga?» Rise sprezzante. «Lotta di classe?»
«Qui in Cina il traffico di droga è stato introdotto dagli stranieri e imposto alle popolazioni della costa, rendendole dipendenti dall’oppio. Noi messicani invece controlliamo il traffico, e l’abbiamo fatto sin dall’inizio. Noi vendiamo la droga agli stranieri e usiamo gli utili per rinforzarci contro l’infinita corruzione dei governi regionali e dei federales. Il nostro popolo è nato povero, ha mangiato fango e avanzi, ma ha sognato una vita diversa a ogni respiro. Adesso che abbiamo ottenuto la nostra libertà, sappiamo come difenderla. Potete dire lo stesso di voi, generale?»
Hwang Liqun rimase in silenzio, fissando quella creatura meravigliosa e al tempo stesso mostruosa, che aveva lo sguardo di una dea oscura dell’oltretomba. Da dove veniva? si chiese. Dove l’aveva trovata Ouyang? Lui e Ouyang Jidan erano amici, ma c’erano limiti all’amicizia, zone nelle quali non si doveva ficcare il naso. Per questo il generale non conosceva bene Maricruz, sebbene l’avesse incontrata molte volte a feste, cerimonie ufficiali e persino a qualche cena. Tuttavia, fino a quel momento, non aveva mai avuto motivo di pensare che quella donna potesse pronunciare le parole che aveva appena ascoltato. Quanti dettagli dei loro piani le aveva confidato Ouyang? E come faceva a essere sicuro di potersi fidare di lei? Ouyang si fidava solo del generale, e di nessun altro.
Adesso aveva capito che Maricruz, profondamente coinvolta negli affari di Ouyang e quindi anche nei suoi, parlava a nome del marito. Con una mossa astuta, Ouyang aveva inviato lei perché i rischi erano altissimi e non poteva permettersi di mettere a repentaglio la propria sicurezza. In quanto straniera, Maricruz era ignorata dai colleghi di Ouyang e, cosa ancor più importante, dai suoi nemici, che la disprezzavano. Dunque lei non era minacciata, e il generale gliene era grato.
«Maricruz, purtroppo non posso affermare con certezza una cosa simile. Per favore, continui.»
Lei versò ancora un po’ di tè. «Più di cinque anni fa, lei e Ouyang vi siete battuti per la costruzione di strade e infrastrutture in Kenya, perché avevate visto l’infinita ricchezza del suolo di quella terra ed eravate determinati ad appropriarvene per i crescenti bisogni di energia del Paese. Ouyang aveva previsto che i kenyoti non si sarebbero domandati quale prezzo avrebbero dovuto pagare per quelle opere di cui avevano disperatamente bisogno, e non si era sbagliato. Adesso, grazie a quell’intuizione, può esportare dal Kenya qualunque cosa desideri: petrolio, diamanti, uranio grezzo e persino terre rare.»
Il generale annuì. «La nostra scommessa è stata ampiamente vinta.»
«Eppure Cho Xilan, con il suo consueto eccesso di zelo, ha fatto di tutto per crearvi problemi. Per colpa sua, lo Zimbabwe sta ancora aspettando che la Cina mantenga le promesse di costruire infrastrutture e la Guinea ha ceduto i diritti allo sfruttamento del suo petrolio in cambio di nove miliardi di dollari di investimenti in case e infrastrutture che però devono ancora essere realizzati. E tutto questo a causa di Cho, che ha suonato la ritirata con l’obiettivo di “fare pulizia”, come ha detto lui stesso, e spazzare via con rinnovato vigore la gerarchia politica corrotta che ormai si era ben consolidata.» La donna scosse la testa. «Voi stessi avete dato a Cho le munizioni per spararvi: ha stanato più di un politico africano che intascava grosse tangenti.»
Il generale, punto sul vivo, replicò in tono duro e tagliente. «In Africa funziona così, non c’è nulla di nuovo.»
«Tranne il fatto che Cho ha portato le prove davanti al Comitato Centrale e ha ottenuto che venissero bloccati tutti i pagamenti, giusto? È stata una bella mossa, non le sembra?»
La donna prese un altro sorso di tè, lasciò che l’atmosfera si raffreddasse un po’, poi posò la tazza sul tavolino. «Mi spiace dover essere così schietta, generale, ma non abbiamo molto tempo. Quello che Cho vuole davvero è ritornare ai tempi di Mao, quando c’era un unico capo, onesto, virtuoso e dogmatico. L’unica cosa che vuole davvero è governare la Cina con il pugno di ferro.»
Il generale bevve un po’ di tè, per cercare di calmare i pensieri che si inseguivano disordinatamente come banchi di pesci attraverso la barriera corallina. «Supponiamo, ma solo per ipotesi, che io sia d’accordo con la sua fosca valutazione.»
«Allora dia l’ordine di inviare in Libano un gruppo di uomini di Ouyang. Il nostro progetto è ormai alle battute finali, e porterà al Paese possibilità energetiche enormi, praticamente infinite. Cho non vuole che lei e Ouyang otteniate un potere così grande.» Lo guardava attentamente. «Farà qualunque cosa per impedire che il progetto sia completato.»
Il generale stava perdendo interesse nella conversazione. «Lo so bene, abbiamo già dispiegato molte forze per la sicurezza. Io e Ouyang lo abbiamo deciso mesi fa.»
«La situazione sul campo è cambiata.»
Il generale raddrizzò la testa: adesso appariva decisamente preoccupato. «Che intende dire?»
«Adesso anche Jason Bourne è della partita.»
Hwang Liqun espirò, sollevato. «Sì, era in viaggio con un’agente del Mossad, ma questo non vuol dire nulla. E comunque, la donna è morta.»
Maricruz non demordeva. «Bourne è stato a Dahr El Ahmar, e poi è fuggito.»
«Questa è storia vecchia. Il ministro Ouyang ha già predisposto che Bourne sia eliminato, nel caso dovesse comparire a Dahr El Ahmar durante la chiusura dell’accordo.»
«Credo che lei si riferisca al colonnello Ben David. Il problema è che Ouyang non si fida di lui.»
Questa era una novità per il generale. Finalmente capì perché Ouyang aveva pianificato quell’incontro così complicato e aveva affidato alla moglie il compito di comunicargli la notizia. Guardò Maricruz negli occhi. Aveva ragione, non restava molto tempo: l’accordo sarebbe stato siglato entro nove ore. «Firmerò l’ordine immediatamente. Dica a Ouyang Jidan che un jet privo di insegne sarà pronto entro un’ora.»
«Se la sente di fare una bella nuotata?»
Don Fernando guardò Bourne. «Jason, sono vecchio, ma non sono ancora morto.» Alzò lo sguardo verso le luci e la folla che si era radunata sul Pont Alexandre III. «La polizia ha messo in piedi un bello spettacolo!»
«Dobbiamo allontanarci da qui, prima che mandino i rinforzi e i sommozzatori.»
Don Fernando annuì.
«Seguiamo il corso del fiume, fino al Pont des Invalides, non è lontano.»
«Jason, non si preoccupi per me, una bella nuotata non mi spaventa. E poi queste fughe precipitose mi ricordano la mia gioventù.»
«Allora andiamo!»
Bourne scivolò via dalla banchina fangosa alla quale erano aggrappati. Dovevano fare attenzione ai crostacei taglienti che si trovavano appena sotto il pelo dell’acqua. Adesso i riflettori illuminavano il fiume, intorno al punto in cui l’auto era precipitata in acqua. Le barche a monte del luogo dell’incidente erano state fermate, e stavano arrivando due motolance della polizia, che di sicuro trasportavano i sommozzatori.
Bourne guardava Don Fernando scivolare sull’acqua senza fare rumore. I due uomini si allontanarono rapidamente, con vigorose bracciate.
A piedi, il Pont des Invalides era piuttosto vicino, ma in quell’acqua gelida i due procedevano molto più lentamente, appesantiti dagli indumenti fradici. Purtroppo non potevano fermarsi per togliersi qualcosa: non c’era tempo, e poi avrebbero avuto bisogno dei vestiti una volta fuori dall’acqua.
Bourne nuotava spedito e Don Fernando teneva il suo ritmo: era anziano, ma ancora molto forte.
Erano però rallentati dalla corrente del fiume, che li avvolgeva nei suoi mulinelli trascinandoli sott’acqua. Bourne aveva ormai perso la sensibilità alle mani e ai piedi.
Lentamente, una bracciata dopo l’altra, arrivarono al Pont des Invalides. Bourne si voltò appena in tempo per vedere Don Fernando che iniziava ad affondare; allungò una mano per aiutarlo a tenere la testa fuori dall’acqua e lo trascinò fino alla banchina, sulla riva destra.
Don Fernando era stremato, come se avesse attraversato la Manica a nuoto. Bourne lo strinse forte per le spalle per sostenerlo.
«Si riposi un po’, prima di affrontare l’ultimo tratto.»
«L’ultimo tratto? Non siamo ancora arrivati?»
«Guardi laggiù, ci sono dei gradini che salgono dal fiume. Da lì sarà più facile arrampicarsi.»
Don Fernando scuoteva il capo. I lunghi capelli erano appiccicati alla testa, aveva la faccia stravolta dalla fatica. «Non ce la faccio più.» Gli tremavano le mani. «Non penso di poter continuare.»
«Allora si riposi e ammiri lo spettacolo di luci sul Pont Alexandre III mentre io faccio una telefonata.»
Don Fernando si stupì. «Una telefonata? Com’è possibile? Siamo bagnati fradici!»
«Ho un telefono satellitare impermeabile.» Bourne tirò fuori da una tasca interna un piccolo oggetto dalla forma allungata rivestito di gomma.
Quando lo vide, Don Fernando non riuscì a trattenere una risatina, poi si voltò e rimase in silenzio per qualche istante. L’acqua lambiva la banchina, il vento della sera portava fino a loro le voci dei poliziotti impegnati nella ricerca dell’automobile caduta nel fiume.
«Jason, sembra che gli esseri umani abbiano un’infinita capacità di razionalizzare.» Scosse di nuovo la testa. «Per molto tempo ho sperato che mio figlio diventasse come lei, ma mi ha deluso. Ha sbagliato tutto, i suoi princìpi erano contrari a quello che avrebbero dovuto essere. Non so come sia accaduto.»
«Adesso non è il momento di…»
«Invece è proprio il momento giusto. Non credo che avrò di nuovo il coraggio di dirlo.» Si voltò verso Bourne. «Non sono sempre stato corretto con lei. A volte le ho mentito, altre non le ho detto tutto quello che sapevo.»
«Ascolti…»
Sollevò una mano. «No, mi lasci finire.» Sembrava recuperare le forze. «Vorrei non averla trattata così male, vorrei che potessimo tornare indietro, vorrei…»
Furono interrotti da un intenso bagliore che illuminò il cielo, accompagnato dall’inconfondibile rumore di un elicottero.
«Don Fernando, adesso è ora di andare. Se sarà necessario, la aiuterò a stare a galla.»
«Lo so, non ho dubbi.» Mentre Bourne stava entrando di nuovo nel fiume, Don Fernando lo afferrò. «Aspetti, aspetti un attimo.»
I suoi occhi brillavano nell’oscurità, illuminati dal riflesso delle luci nell’acqua.
«Jason, adesso ho capito una cosa: lei non mi deluderà mai.»
Sam Anderson non era tipo da farsi intimidire tanto facilmente, nemmeno da un socio del più prestigioso studio legale di Washington. Si era preparato bene per l’incontro: tirò fuori un documento dalla tasca della giacca e lo porse a Bill Pelham. Mentre l’avvocato lo leggeva, si rivolse a Tom Brick. «Signor Brick, adesso lei viene con noi. È coinvolto in una questione che riguarda la sicurezza del Paese, nemmeno un esercito di avvocati potrebbe impedirle di seguirci.»
Brick guardò Pelham, che annuì. «Ti tireremo fuori prima di sera.»
Brick si allontanò dalla scrivania e uscì dall’ufficio, seguito da Anderson e James; si incamminarono lungo il corridoio, fino agli ascensori.
Mentre scendevano, Anderson riprese: «La Scientifica ha trovato del materiale molto interessante sul cadavere di Richards».
Brick non rispose, guardava fisso davanti a sé.
«Non sarà fuori prima di sera» continuò Anderson con un sorriso. «Anzi, non tornerà a casa per molto tempo.»
Si aprirono le porte, ma Brick non si mosse, nemmeno quando James fece un passo avanti per impedire che gli sportelli si richiudessero.
«Siete due bugiardi» replicò Brick.
«Può andare a raccontarlo al segretario Hendricks.» Anderson si parò davanti a Brick per osservare la sua reazione. «È da lui che la sto portando.»
Una volta raggiunta l’auto, James si mise al volante, mentre Anderson si sistemò sul sedile posteriore, vicino a Brick.
«Su una cosa ha ragione» riprese Anderson non appena James ebbe avviato la macchina. «È troppo presto perché la Scientifica possa darmi risultati definitivi.»
Brick sorrise. «Questa è la prima cosa vera che dice da quando è entrato nel mio ufficio.»
«D’altra parte, il trasmettitore che ho collegato al keylogger che tracciava le porcherie di Richards, ci ha portati dritti dritti alla rete della Core Energy, dove erano custoditi i codici per l’attivazione del virus che ha attaccato i server della Treadstone.»
«Io non c’entro con…»
«La smetta!» lo interruppe Anderson. «Lei c’entra eccome, Brick, e noi lo dimostreremo.»
«Li, che cosa farà adesso?» chiese Ann Ring.
Li Wan non si era mai trovato in una situazione così difficile; da quando Ann gli aveva svelato la vera identità di Natasha Illion, gli sembrava che la sua testa fosse sul punto di esplodere. Non poteva informare il ministro Ouyang, perché non si sarebbe mai più fidato di lui, e ne avrebbe avuto tutte le ragioni. Era disperato, cercava di farsi venire in mente quante informazioni riservate avesse inavvertitamente rivelato a Natasha, a letto o in qualunque altro luogo. Con terrore, si accorse di non riuscire nemmeno a ricordarle tutte. La sua carriera era in pericolo, ma non rischiava solo uno scivolone, bensì la morte. Aveva bisogno di aiuto, subito.
Guardò Ann Ring, aprì la bocca, la richiuse, poi finalmente riuscì a parlare. «Mi trovo in una situazione insostenibile.»
«Non potrei essere più d’accordo.» Ann teneva lo sguardo fisso su di lui.
Per un po’ non dissero nulla. Dopo aver terminato la cena in un silenzio irreale, Ann pensò che fosse meglio andarsene e così si spostarono in un locale aperto fino a tardi, dove si appartarono in un séparé, lontano dagli altri clienti, che comunque erano interessati solo a bere e a guardare il football in tv.
Li Wan aspettava invano che Ann Ring gli suggerisse cosa fare. «In situazioni come questa» disse alla fine, «c’è un solo modo per affrontare le cose. Lei deve proteggermi.»
Ann spalancò gli occhi. «Io sono una senatrice degli Stati Uniti, non devo fare proprio nulla!»
Li Wan deglutì. «Posso aiutarla, nello stesso modo in cui aiutavo suo marito.»
«Ma davvero? E cosa faceva per lui?»
«Gli passavo informazioni che usava per i suoi scoop. È così che ha costruito la sua carriera.»
«E perché io non ne sapevo nulla?»
«Charles era bravo a mantenere i segreti.»
«Sì, lo era. E cosa le dava in cambio?»
Lui si passò una mano davanti agli occhi, e rimase in silenzio.
«Li, non credo di poterla aiutare» affermò Ann, poi spostò il bicchiere e iniziò a raccogliere le sue cose, pronta ad andarsene.
«Aspetti, per favore.» Si sentiva svuotato. Il fatto che stesse anche solo prendendo in considerazione l’idea di svelare le informazioni che aveva richiesto a Charles la diceva lunga su quanto fosse nei guai. «Senatrice Ring, ha mai sentito parlare del SILEX?»
Ann si concentrò. «Il nome non mi è nuovo, ma in questo momento non mi viene in mente in che occasione l’ho sentito.»
«SILEX significa separazione degli isotopi tramite eccitazione laser. È un processo rivoluzionario volto ad arricchire in tempi rapidi il combustibile per i reattori nucleari.»
«Adesso ricordo: il processo è stato acquisito dalla GE, che ha fatto un accordo con la Hitachi. Hanno dichiarato che sarebbero state in grado di realizzare un impianto capace di arricchire in un anno tanto uranio da alimentare sessanta reattori nucleari, un terzo dell’energia necessaria al Paese.»
«E quindi il governo è stato coinvolto nell’iniziativa.»
«Temevano che qualcuno potesse rubare la formula del SILEX e produrre uranio destinato ad armi nucleari.»
Li annuì. «Il mio unico interesse era essere continuamente aggiornato sui progressi del SILEX.»
«E perché mai il governo cinese era interessato al SILEX?»
«Non posso rispondere alla sua domanda, perché, a dire il vero, non lo so.» Era la verità: Ouyang non si era mai sbottonato con lui e mai come in quel momento Li gliene era grato.
Dopo un breve silenzio, che però a Li sembrò molto lungo, Ann disse: «Bene, cosa posso fare per aiutarla?».
«Ci sto mettendo un’eternità» disse Soraya.
«Così non funziona» replicò Peter. «Non abbiamo tempo di chiamare tutti i contatti della Treadstone sul campo con un satellitare sicuro.»
«Lo so, ho cercato di collegarmi al server di Gibilterra.» Soraya guardava lo schermo del portatile che le avevano mandato dalla sede. I tecnici assegnati a lei e Peter durante il ricovero in ospedale le avevano messo a disposizione un collegamento velocissimo e avevano connesso anche il suo cellulare via Bluetooth. «Finora non ho avuto fortuna.»
«Non voglio nemmeno pensarci. Il server è inattaccabile, anche se qualcuno all’esterno della Treadstone fosse al corrente della sua esistenza.»
«Sta’ tranquillo, è inattaccabile.»
«Quello che mi preoccupa…»
«Peter, cosa c’è?» Soraya aveva sollevato la testa.
«Niente.» Lui distolse lo sguardo.
«Non ti credo.» Spostò il portatile e si avvicinò al letto di Peter. Erano stati sistemati nella stessa camera, una stanza ampia e luminosa, dove erano state installate le apparecchiature informatiche.
Soraya si sedette sul bordo del letto e gli prese la mano. «Cosa c’è?»
«Io… mi fa male la gamba, è un dolore fantasma.»
«Come fai a essere certo che non sia vero?»
«I medici…»
«’Fanculo i medici, anche loro a volte sbagliano.»
«Soraya, i miei nervi non rispondono, le gambe sono morte.»
Gli strinse la mano. «Non dire così!»
Peter aveva occhiaie molto profonde, che lei non gli aveva mai visto, nemmeno dopo che aveva lavorato per giorni di fila. Provò una fitta al cuore.
Forse l’amico intuì i suoi pensieri, la conosceva molto bene. «Prima mi abituo a quello che è successo, meglio sarà.»
Si chinò su di lui. «Non ci arrenderemo.»
«Nessuno si vuole arrendere, te lo prometto.» Si sforzò di sorriderle. «Cosa sei riuscita a tirare fuori dal computer?»
«Ho provato a chiamare Jason via Skype, forse lui sa perché la Core Energy ha messo fuori uso la nostra rete informatica.»
«E cosa ti ha detto?»
«Non è collegato, gli ho lasciato alcuni messaggi sulla segreteria del cellulare.»
«Perché non ci concentriamo su quello che riusciamo a verificare, ad esempio come diavolo è riuscito Brick a far sì che Richards superasse i nostri controlli prima dell’assunzione.»
«Forse lo ha contattato dopo che ha cominciato a lavorare per noi.»
«No, sono stato con loro nella villa di Brick in Virginia, e sono certo che si conoscessero da molto tempo.»
«Il che significa che Richards gli passava informazioni fin da quando lavorava per la NSA, forse addirittura informazioni che riguardavano il presidente.»
«Dobbiamo interrogare Brick, non appena Sam ce lo avrà portato» concluse Peter.
«Stai scherzando, vero? Guarda come siamo conciati, e dovremmo farlo venire qui? » Scosse la testa. «No, Sam dovrà farlo per noi. Potremo seguire tutto sulla tv a circuito chiuso, e metterci in contatto con Sam con un auricolare wireless, così potremo suggerirgli le domande, che ne dici?»
Peter annuì, ma non era molto convinto. Era spento, grigio, e Soraya gli aveva ricordato che non poteva muoversi. Le dispiaceva, ma non c’erano alternative, e poi sarebbe successo mille altre volte, nelle settimane successive.
Lo guardò per un po’. «Peter, mio figlio avrà bisogno di una presenza maschile, di una figura paterna.»
Lui non trattenne una risatina. «Già, sono proprio quello giusto per…»
«Certo che lo sei! A chi altri dovrei permettere di avvicinarsi al mio bambino?» Le brillavano gli occhi mentre lo diceva.
Quando il ministro della Cultura del governo francese, Jacques Robbinet, ricevette la telefonata di Jason Bourne si trovava sul sedile posteriore di una Renault blindata guidata dal suo autista, ed era accompagnato dalla fedele guardia del corpo. Erano le 21.32. Robbinet era atteso a cena dalla sua amante, e per questo stava per rifiutare la chiamata, ma la Renault era bloccata nel traffico, e rispose più che altro per passare il tempo.
«Jason, dove sei?» chiese con sincera cordialità.
«Sulle scale della riva destra della Senna, proprio davanti al Pont des Invalides.»
Robbinet non era un ministro. Quel titolo era una copertura: in realtà era il responsabile del Quai d’Orsay, l’equivalente francese della CIA. Si mise subito in allarme. «Sei stato coinvolto nell’incidente del Pont Alexandre III?» Robbinet aveva ricevuto la notizia venti minuti prima di lasciare l’ufficio e aveva mandato due dei suoi uomini ad aiutare la polizia, in caso di interrogatori. A Parigi era insolito che un’auto sfondasse il parapetto di un ponte; le misure di sicurezza erano state incrementate e lui non era tipo da sottovalutare alcun dettaglio.
«C’è stato un rapimento e un tentativo di omicidio, ci siamo allontanati a nuoto.»
«Ci?»
«Sono con un amico, Don Fernando Herrera.»
«Oh mio Dio!»
«Lo conosci?»
Robbinet si piegò in avanti, toccò la spalla dell’autista e gli comunicò il cambiamento di destinazione. «Ma certo che lo conosco!» Robbinet disse all’autista di far partire la sirena, evitare l’ingorgo e salire sul marciapiede, se fosse stato necessario, ma di sbrigarsi. «Rimani dove sei, sarò lì tra pochi minuti.»
«Jacques, stammi a sentire. Devi procurarmi un aereo.»
Robbinet rise. «Tutto qui?»
«Devo arrivare in Libano il prima possibile.»
Robbinet conosceva quel tono di voce. «La situazione è così grave?»
«Gravissima. Mi hanno rapito proprio per impedirmi di andarci.»
«Va bene, adesso vi tiro fuori dall’acqua e vi procuro degli abiti asciutti, nel frattempo faccio preparare un aereo per voi.» Sapeva che Bourne non era tipo da scherzare né da esagerare. «Un aereo militare, armato, così non vi mancherà niente.»
«Grazie, Jacques.»
«L’unico modo per ringraziarmi» replicò in tono asciutto «è non farti ammazzare.»