21
L’allarme interno della Treadstone scattò alle 7.43 esatte. Anderson, che era il responsabile in servizio, chiamò Dick Richards alle 8.13, dopo che i suoi collaboratori non erano stati in grado di identificare il Trojan che aveva bucato il firewall e attaccato i server locali, e men che meno di isolarlo e neutralizzarlo.
«Vieni in sede» aveva ordinato Anderson a Richards. «Subito.»
Richards, che era seduto sul bordo del letto e si era mangiato le unghie fino a farle sanguinare nell’attesa della telefonata, scattò in piedi, si lavò la faccia con acqua fredda, afferrò l’impermeabile e uscì. Sulla strada per l’ufficio, gli scappò un sorrisetto compiaciuto.
Arrivò dopo quattordici minuti esatti, e trovò l’ufficio immerso in una sorta di agitazione controllata. Al reparto IT non avevano ancora capito come avesse fatto il virus ad attaccare i server locali, ma nessuno si preoccupava dei danni che poteva arrecare al sistema.
Dopo essersi unito alla squadra convocata in fretta e furia, Richards si sedette al terminale del server e iniziò a dare la caccia al virus che lui stesso aveva creato e installato come una bomba a orologeria nella rete locale della Treadstone.
La creazione era stata divertente, ma installarlo si era rivelato più difficile del previsto; si era pentito di non aver studiato meglio le complessità del firewall durante la sua breve permanenza alla Treadstone.
Aveva dato per scontato che il firewall della Treadstone fosse realizzato con la stessa architettura di quelli del Dipartimento della difesa e del Pentagono, che conosceva bene. Con sgomento si era ben presto reso conto che invece era completamente diverso, basato su algoritmi a lui sconosciuti.
Si era scervellato per ore per capirne i segreti e non era riuscito a trovare il modo di aggirarlo finché alle quattro del mattino non aveva scoperto come funzionava l’algoritmo di base. Per festeggiare il risultato si era alzato e aveva preso una birra dal frigo, insieme ad alcune fette di prosciutto che aveva arrotolato formando dei sigari da intingere nella senape piccante, e aveva mandato giù il tutto con la birra. Mentre mangiava, pensava ai vari modi per far penetrare il Trojan nel firewall. Doveva sembrare un attacco dall’esterno.
Si era lavato le mani ed era tornato alla scrivania, ricominciando il delicato e difficile tentativo. Il programma che aveva creato era piccolo ma molto potente. Una volta aggirato il firewall, il programma imitava il server, reindirizzando le richieste di dati che arrivavano dalla Treadstone in un vicolo cieco che avrebbe ben presto portato il traffico intranet a un fragoroso arresto.
Quella mattina, il suo lavoro era di installare il virus che aveva preparato mentre, al tempo stesso, cercava di isolare il Trojan per eliminarlo. Era un lavoretto insidioso tanto quanto quello della notte precedente, perché doveva sembrare che il virus fosse stato liberato dal Trojan nel momento in cui veniva isolato. Come se non bastasse, Sam Anderson prese una sedia e si accomodò accanto a lui.
«Come va?»
Richards mugugnò, sperando che il vice di Peter si annoiasse in fretta e se ne andasse. Era immobile davanti allo schermo, fissava le righe di comando che scorrevano. Stuxnet era roba vecchia rispetto al programma che aveva messo a punto – una forma virale avanzata che conteneva le parti migliori dell’algoritmo di Stuxnet – e lo aveva innestato in un’architettura totalmente diversa, nota nell’ambiente come Duqu, che, tra le tante caratteristiche, utilizzava certificati digitali sia falsi sia rubati per insinuarsi nel boot del sistema operativo. Una volta entrato lì, poteva modificare qualsiasi comando.
«Qualche progresso?»
Richards digrignò i denti. Non aveva messo in conto il fatto di essere osservato. «Ho identificato il Trojan.»
«E adesso?»
Anderson non capisce un accidente di software, pensava Richards, perché dovrebbe insospettirsi? «Adesso devo isolarlo.»
«Vuoi dire che devi rimuoverlo?»
«In un certo senso.» Tutte quelle domande stupide gli impedivano di concentrarsi. «Anche se rimuovere qualcosa in termini informatici non significa molto.»
Anderson si chinò in avanti. «Puoi spiegarti meglio?»
Richards si sforzò di non urlare. Lavorare per tre padroni era già abbastanza stressante, non aveva bisogno di quell’interferenza. «Magari un’altra volta.»
Anderson stava per chiedergli qualcos’altro quando gli squillò il cellulare. Una voce iniziò a parlare dall’altra parte della linea. «Cazzo!» Più ascoltava, più il suo sguardo si faceva preoccupato.
Richards si voltò verso di lui. «Cosa c’è?»
Ma Anderson stava già attraversando la stanza di corsa. Afferrò il cappotto e si precipitò fuori.
Richards si strinse nelle spalle e ritornò a concentrarsi sul suo complicato sabotaggio.
«Mi serve un cadavere.» Il segretario Hendricks era al cellulare con Roger Davies, il suo primo assistente. «Maschio, senza legami familiari. Uno con precedenti per furto con scasso sarebbe l’ideale. Poi, ho bisogno che invii una squadra selezionata per la pulizia. Dobbiamo sterilizzare un appartamento.» Ascoltò brevemente il ronzio della voce di Davies poi lo interruppe. «Capisco, però fallo subito.»
Hendricks riagganciò, poi guardò disgustato il corpo di Charles Thorne. «Ann, certo che hai una bella mira. Però vorrei che tu avessi trovato un’altra soluzione.»
«Anch’io.» Erano in camera da letto, lei avvolta in un morbido accappatoio. Dopo aver chiamato il suo contatto, avrebbe voluto rivestirsi, ma Hendricks l’aveva istruita troppo bene: non doveva contaminare la scena finché non fosse arrivato con altri ordini. «Non ho avuto scelta, credo che abbia perso la testa.»
Hendricks si asciugò la fronte con il palmo della mano. Aveva chiesto ad Ann di recuperare il vestito da terra, mentre lui verificava che non ci fossero schizzi di sangue sopra, poi le aveva ordinato di appenderlo nell’armadio. Le scarpe invece erano macchiate, così le aveva messe in un sacchetto dell’immondizia che aveva portato con sé. Ancora prima di varcare la soglia dell’appartamento aveva indossato i guanti usa e getta e i copriscarpe.
Raccolse la Walther PPK/S di Ann e iniziò a ripulirla metodicamente per togliere le impronte della donna. «Pensi di riuscire ad affrontare Li da sola?»
«Da quanto tempo lavoro in segreto per te? Sedici anni? Certo che posso affrontarlo da sola!» Diede un’occhiata a Hendricks. «Però tu non sei preoccupato per Li.»
«No, non per lui.» Hendricks sospirò. «Ma per il suo capo, chiunque sia.» Si voltò, non voleva più avere il cadavere sotto gli occhi, non finché Roger non fosse arrivato con il suo carico. Avrebbe potuto assegnare quel compito a uno qualsiasi dei suoi numerosi subordinati, ma sapeva che era proprio così che avvenivano le fughe di notizie, anche nelle organizzazioni clandestine più sicure. Più sporco era il lavoro, più era necessario affrontarlo di persona, così aveva imparato. E questo era un lavoro incredibilmente sporco. Sospirò. «La struttura dei servizi segreti cinesi è a dir poco opaca, sarebbe di grandissimo aiuto sapere con chi abbiamo a che fare veramente.»
Si voltò verso di lei. «Ann, adesso ho bisogno che tu scopra questo per me. Non possiamo più chiederlo al povero Charles.» Thorne era stato un agente inconsapevole: passava informazioni sbagliate a Li, senza sapere che erano false. La sua tremenda sete di potere lo aveva accecato. Peggio per lui, meglio per Hendricks. Come il segretario aveva previsto, aveva commesso errori di valutazione, in particolare quello di prendere accordi con Li per ottenere notizie in esclusiva per la rivista. Purtroppo, quella fase dell’operazione si era conclusa prematuramente.
Forse Ann non aveva gestito bene la propria relazione con Charles, pensava il segretario, ma ormai non faceva molta differenza. Questo è il rischio che si corre a manipolare gli esseri umani: il loro comportamento non è sempre prevedibile.
«Va bene, ci penso io» replicò Ann.
Questa donna ha il ghiaccio al posto del sangue, pensò Hendricks.
«Sembri molto preoccupato» continuò Ann.
«È per Soraya.»
«Già, ho sentito.» Ann piegò la testa di lato. «Come sta?»
«Ha rischiato di morire» rispose Hendricks mettendo nelle parole più enfasi di quanto avesse voluto.
Ann lo guardava fredda, con le braccia incrociate sul petto. «Però non è morta, vero?»
«No.»
«Dobbiamo ringraziare la nostra buona stella.»
«Avrei dovuto scegliere…»
«Hai scelto lei perché era la persona giusta per quell’incarico.»
«Mi avevi detto che tuo marito aveva un debole per lei.»
«Sì, Christopher, ma non è questa la ragione. L’infatuazione di Charles per lei ha soltanto reso l’incarico più semplice da portare a termine, ma lei avrebbe comunque trovato il modo di riuscirci. È una ragazza eccezionale, molto in gamba. E da quello che mi hai detto, si è divertita a passargli le informazioni sbagliate.»
Hendricks annuì. «Si è divertita molto a contribuire a far abbassare la cresta a Li e ai suoi amici.»
«Lo vedi? Ti senti in colpa solo perché è finita in ospedale a causa della commozione cerebrale.»
Non era per quello, pensò Hendricks con rammarico. O almeno, non solo per quello. Ciò che lo preoccupava più di ogni altra cosa era la gravidanza di Soraya. Gli sembrava evidente che il figlio fosse di Charles Thorne, e se era così, come avrebbe reagito Ann? Al momento la senatrice era la sua punta di diamante, non poteva permettersi di perderla, soprattutto adesso che avevano stabilito un contatto così stretto con Li.
La domanda che tormentava Hendricks era quella che riguardava l’identità del capo di Li, a cui nessuna delle tanto sbandierate fonti del Dipartimento della difesa era stata in grado di risalire.
Hendricks tornò a problemi più pratici. «Ann, vestiti e vattene da qui prima che arrivi la squadra. Hai un posto dove andare?»
Lei annuì. «Ho una camera al Liaison, la uso quando faccio molto tardi al Congresso.»
«Vacci subito. Domani potrai iniziare a recitare la parte della vedova.»
«E Li?»
«Vorrà porgerti le sue condoglianze. Invitalo a farlo di persona.»
«Non sarà facile. Come abbiamo visto, è un tipo molto accorto. Se si insospettisse adesso, non riusciremmo mai a scoprire chi è il suo capo e cosa vuole.»
«Hai ragione.» Hendricks rifletté per un momento. «Gli darai qualcosa che placherà tutti i suoi sospetti.»
«Dovrà essere qualcosa di grosso, qualcosa di importante.»
Hendricks annuì. «Certo. Dagli la sua fidanzata.»
«Che cosa?» Ann era davvero scossa e lo guardava allibita. «Non possiamo, lo sai che non possiamo.»
«Hai un’idea migliore?»
Silenzio. «Mio Dio, non ho firmato per fare una cosa del genere.»
«Sì che l’hai fatto, Ann. L’hai fatto.»
Lei si inumidì le labbra, era pallida. «Stiamo manipolando la vita delle persone.»
«Ma non si tratta di civili. Tutti abbiamo sottoscritto lo stesso tipo di contratto.»
«Con il sangue.»
Lui non la contraddisse.
Lei guardò per l’ultima volta il cadavere del marito. «Fino a che punto» chiese «sei privo di emozioni?»
«Adesso è meglio che te ne vada» fu la sola risposta di Hendricks.
Quattro minuti dopo che Ann fu uscita, arrivò la squadra di pulizia. Davies consegnò l’uomo che aveva ucciso Charles Thorne in uno scontro a fuoco durante un tentativo di furto. Hendricks sistemò la Walther nella mano destra del cadavere, ripiegando le dita intorno al grilletto. Quando lui e Davies ebbero terminato la messa in scena e si furono assicurati che tutto fosse perfetto, chiamò Eric Brey, il direttore dell’FBI, e con voce neutra lo informò dell’assassinio.
«Cazzo!» esclamò Peter. «Sono vivo!»
«Sembri deluso» replicò Anderson.
Sobbalzò, sentiva il ronzio costante di un motore. Si guardò intorno.
«Sei su un’ambulanza. È stata Delia a soccorrerti. Era all’interno della scuola durante la sparatoria. Mi ha chiamato subito.»
«Come sto?»
«Stai bene» rispose Anderson.
«Dove mi hanno colpito?»
«Sei…» Anderson guardò l’infermiere alla sua destra.
Peter di colpo avvertì un nodo allo stomaco. «Non sento niente.»
L’espressione di Anderson non lasciava trapelare nulla. «È lo shock, non significa niente.»
«Ma non sento…» Peter si irrigidì. «Sono stato colpito alla spina dorsale?»
Anderson scosse la testa.
Meglio morto che storpio, pensò Peter.
Anderson gli appoggiò una mano sulla spalla. «Capo, lo so cosa stai pensando, ma al momento non c’è nulla di definitivo. Rilassati e stai tranquillo. I chirurghi sono già pronti, lasciamo che facciano il loro lavoro, andrà tutto per il meglio.»
Peter chiuse gli occhi, avrebbe voluto zittire le voci che urlavano nella sua testa. Doveva restare nel presente. Que sera, sera, al futuro avrebbe pensato poi. «Il tizio che mi ha sparato… devo scoprire la sua identità.»
«Capo, non aveva documenti.»
«Impronte digitali, denti, Dna?»
«Stiamo procedendo.»
Peter annuì. «C’è un’altra cosa: Richards.»
«Gli sto addosso. Stamattina c’è stata una violazione della rete aziendale, un Trojan. Ho convocato Richards.»
Peter ripensò al fatto che Richards lavorava per Tom Brick e per la Core Energy. «Può essere stato proprio lui a installarlo. Quello stronzo è abbastanza in gamba da aggirare il firewall.»
«Ci ho pensato anch’io, infatti ho piazzato un keylogger elettronico sul terminale del server che sta usando per individuare il Trojan e isolarlo.»
«Bravo, Sam.» Peter trasalì per una fitta di dolore. «Non ho ancora scoperto perché Brick vuole inserirsi nella rete della Treadstone.»
«Lo scopriremo. Non agitarti, capo.»
Anderson annuì all’infermiere accanto a lui, che infilò un ago nella vena del braccio di Peter.
«È importante, è molto importante» ripeté, ma faceva già fatica a parlare.
«Ci penso io, capo.» Mantenendo fede a quanto appena detto, mentre Peter scivolava nell’incoscienza Anderson cercò un numero sul cellulare e fece la prima di una lunga serie di telefonate.
Mentre si addentrava nel cuore pulsante di Città del Messico, con l’odore di sangue nelle narici, Bourne non si era dimenticato del Babilonese. Poteva essere ovunque, e percorreva le sue stesse strade, usando tutti i contatti che aveva nel Paese per rintracciare la sua preda.
Preferiva pensare a Ilan Halevy piuttosto che a Rebeka, che non era stato in grado di proteggere, morta prima di riuscire a portare a termine la missione che si era assegnata da sola, una missione così importante da spingerla ad abbandonare il Mossad per agire in autonomia.
Adesso la missione di Rebeka era diventata la sua.
Bourne attraversava la città in cerca di Halevy: le loro strade erano inevitabilmente destinate a incrociarsi.
Si diresse a est, in direzione dell’aeroporto, e svoltò quando vide l’insegna luminosa del supermercato Superama. Al numero 1151 di Avenida Revolución, nel quartiere di Merced Gómez, circoscrizione Benito Juárez, entrò nell’enorme parcheggio, fermò il taxi e scese.
Usò uno degli stracci che trovò nel bagagliaio per ripulire gli interni. Quando ebbe finito, si fermò e guardò Rebeka. Sotto la maglietta strappata scorse un portafogli in maglia di alluminio, lo tirò fuori e lo ripulì dal sangue. All’interno c’era il passaporto con la finta identità di Rebeka, il denaro che aveva recuperato nell’appartamento di Stoccolma, e una collanina d’argento con un ciondolo a forma di stella di David. Non gli aveva mai mostrato il suo talismano. Non gli sembrava giusto lasciare lì il portafogli, così lo prese. Sapeva di non poter fare più nulla per lei. La salutò in silenzio, chiuse la portiera utilizzando lo straccio, e attraversò il parcheggio diretto al supermercato.
Nel bagno, gettò via lo straccio e si lavò le mani per togliere ogni traccia di sangue, poi si liberò della giacca e della maglietta macchiati e indossò gli abiti nuovi che aveva appena comprato: un paio di jeans neri, una maglietta bianca e una giacca grigia.
Mentre, di nuovo al parcheggio, camminava tra le file di automobili cercandone una vecchia, sentì alle spalle il rombo di una motocicletta. Era di grossa cilindrata, una Chief Dark Horse della Indian. La vide avvicinarsi con la coda dell’occhio, ma quando la sentì accelerare di colpo si girò di scatto nella sua direzione. La guidava un uomo con il volto nascosto dal casco integrale con la visiera a specchio.
La Indian stava percorrendo la fila parallela a quella dove si trovava Bourne, che ritornò a concentrarsi sull’auto che aveva scelto. Piegò una gruccia per abiti che aveva preso nel negozio e infilò l’uncino tra il finestrino e la portiera, facendo scattare la sicura. Stava per aprirla quando la Indian ricomparve in fondo alla sua fila, avvicinandosi velocemente.
Bourne rimase accanto all’automobile, gli occhi fissi sulla moto. Gli era quasi addosso quando spalancò la portiera. La ruota anteriore della Indian colpì il metallo con un tonfo sordo e il retro si impennò disarcionando il pilota, che fece una capriola oltre la portiera e atterrò sul tetto dell’auto.
Mentre scivolava giù, Bourne lo afferrò e lo sbatté contro la fiancata della macchina. Gli strappò il casco e vide da vicino i danni che le fiamme avevano procurato al collo di Halevy.
Quando il Babilonese gli saltò addosso, Bourne gli sferrò una ginocchiata all’inguine, poi un pugno alla tempia. Lo afferrò per evitare che cadesse, ma Halevy fece in tempo a dargli un calcio al ginocchio e poi, liberandosi dalla presa, riuscì anche a rifilargli un forte pugno nello stomaco, che fece fare a Bourne un giro completo su se stesso, ma non gli impedì di colpire l’avversario ai reni.
Bourne cadde a terra, con Halevy addosso. Il Babilonese tirò fuori un coltello e lo puntò direttamente alla gola di Bourne, che però riuscì ad allungare una mano e a graffiarlo sul collo ustionato. Halevy arretrò, gli occhi gli si riempirono di lacrime per il dolore atroce e Bourne gli afferrò il polso e glielo sbatté contro il baule dell’automobile. Il coltello cadde sull’asfalto e Bourne premette il gomito contro la gola del Babilonese.
«Parlami di Ouyang.» Ouyang era il nome che Rebeka gli aveva detto prima di morire.
Halevy lo fissò con espressione minacciosa. «Non so nemmeno chi o cosa sia un Ouyang.»
Bourne gli premette con forza il fascio di nervi sul lato del collo, Halevy strinse i denti, gli occhi quasi fuori dalle orbite e il viso imperlato di sudore. Il lato sinistro del collo era scorticato e lacerato dalle fiamme che avevano divorato gli strati superficiali della pelle. Respirava a fatica.
«Ouyang, forza!»
«Come fai a sapere di Ouyang?»
Quando Bourne riprese a tormentargli il collo, Halevy si inarcò e prese a tremare. Dalla bocca aperta gli uscivano mugolii, sembrava un animale preso nella tagliola che cerca di liberarsi una zampa.
«Ben David tratta con Ouyang.»
«Non il direttore o Dani Amit?»
Halevy espirò profondamente, come se volesse calmarsi, poi scosse la testa. «È una questione personale, il Mossad non c’entra.»
«E allora tu come fai a saperlo?»
«Io non…» Il Babilonese aveva il volto bluastro, le ferite da rosse erano diventate rosa, quasi livide in contrasto con la barba ispida che non radeva da qualche giorno. Sudava copiosamente. «Va bene, va bene. Ouyang è un ministro cinese, Ben David ha un affare in ballo con lui, ma giuro che non so di cosa si tratta. Ben David mi ha assoldato per confondere le acque con Tel Aviv, per assicurarsi che né il direttore né Dani Amit scoprano quello che sta combinando.» Per un attimo assunse un’espressione astuta. «Ma Rebeka lo aveva scoperto, vero? È lei che ti ha parlato di Ouyang.»
«Non ha alcuna importanza» rispose Bourne.
«Sì, invece.» Il Babilonese sorrise, nonostante il dolore. «Ben David ha un debole per lei, l’ha sempre avuto.»
«E nonostante questo ti ha incaricato di ucciderla.»
«È fatto così.» Halevy era scosso dai brividi e cercò di riprendere fiato. «Diviso, sempre diviso, proprio come il nostro Paese, come tutti i Paesi del Medio Oriente. Lui è innamorato di Rebeka, non so come gli sia venuto in mente di ordinare di ucciderla.» Di nuovo un’altra serie di sbuffi quasi animaleschi. «So che non mi crederai, ma sono contento che sia ancora viva.»
A quel punto, Bourne si alzò in piedi e, trascinando Halevy per la maglietta, si avvicinò al taxi e gli sbatté la faccia contro il finestrino.
«La vedi? È morta! E la colpa è solo tua e di Ben David.»
«Io non le ho fatto niente, lo sai.» Mentre pronunciava queste parole, si voltò di scatto: nel palmo della mano aveva un’arma a forma di ago, sulla cui punta brillava la goccia di una sostanza che doveva essere un veleno a effetto rapido. Bourne sollevò un braccio e sentì che l’ago rimaneva impigliato nel tessuto nella giacca. La punta gli raschiò la pelle, ma senza perforarla. Bourne diede una testata sul naso al Babilonese con il palmo, poi gli assestò un secondo colpo che gli fratturò la laringe.
Bourne gettò via l’ago che era rimasto sul braccio e colpì forte il Babilonese su un orecchio. Halevy boccheggiava, cadde sulle ginocchia, cercando ancora disperatamente di sferrare un colpo. Bourne lo afferrò, gli diede una ginocchiata all’inguine, poi lo colpì più e più volte fino a che non sentì le ossa del costato scricchiolare.
Dopo avere ucciso il Babilonese, Bourne entrò nella vecchia auto che aveva scelto, la mise in moto collegando i cavi e poi uscì dal parcheggio diretto all’aeroporto internazionale Benito Juárez. Lì comprò un biglietto di prima classe, e andò a cercare qualcosa da mangiare.
Mentre aspettava che lo servissero, tirò fuori il piccolo teschio decorato con i cristalli che el Enterrador gli aveva dato come amuleto contro Maceo Encarnación. Quell’uomo è protetto da un potere quasi mistico, che sembra arrivare direttamente dagli dei.
Mentre si rigirava il teschio tra le mani, pensava agli ultimi avvenimenti, dal loro arrivo a Città del Messico: tutto era collegato in qualche modo a Constanza Camargo. E iniziò anche a riflettere su un altro aspetto: perché Harry Rowland avrebbe dovuto nascondersi dentro l’armadio della camera, se non sapeva che stavano arrivando? E come faceva a conoscere la loro posizione in modo così preciso?
Bourne fissava il teschietto e la sua mente corse a un altro tipo di dei: quelli della tecnologia. Appoggiò il piccolo oggetto sul tavolo e lo mandò in frantumi con un pugno, poi ispezionò attentamente i frammenti ed estrasse il minuscolo localizzatore che era stato inserito all’interno. Non lo distrusse: voleva che continuasse a trasmettere il segnale, come se non fosse stato scoperto.
Si alzò, pagò il pasto che non aveva nemmeno toccato, poi uscì dalla sala delle partenze e si diresse al parcheggio per trovare un’auto con la quale tornare in città.
«Ci sono molti modi per rimanere vivi dopo essere morti.» Don Fernando Herrera rise vedendo l’espressione sul volto di Martha Christiana. «Questo è solo uno dei tanti.»
Il pilota era atterrato in un ampio prato a sud di Parigi; non c’erano piste, né maniche a vento, né uffici della dogana. L’aereo aveva deviato dal piano di volo, e dopo una convulsa richiesta di Sos era uscito dai radar degli aeroporti Charles de Gaulle e Orly.
«Non esistono i maghi, solo gli illusionisti» continuò Herrera. «Dobbiamo creare l’illusione della morte. Per riuscirci, abbiamo bisogno di un disastro vero, ed è per questo motivo che l’aereo è atterrato qui, dove nessuno si è fatto male.»
«I cadaveri che ho visto a bordo però sono veri.»
Herrera annuì e le passò una cartellina.
«Cos’è?»
«Aprila.»
Martha vide che conteneva i rapporti del medico legale sui tre cadaveri recuperati dallo schianto dell’aereo che non era ancora avvenuto. Le tre vittime erano carbonizzate, impossibili da riconoscere, ma identificabili dalle impronte dei denti. Di seguito c’erano i nomi di Herrera, del pilota e del copilota.
Martha sollevò la testa. «E le loro famiglie? Cosa dirai loro?»
Herrera indicò i due uomini che stavano uscendo dal jet, che aveva i motori ancora accesi. «Non hanno famiglia, ed è una delle ragioni per cui sono stati assunti.»
«Ma come farai a…?»
«Ho degli amici all’interno dell’Eliseo che faranno i rilievi sulla scena dell’incidente.»
Il pilota si avvicinò a Herrera. «I corpi sono stati sistemati al loro posto, siamo pronti a procedere.»
Herrera controllò l’orologio. «Siamo scomparsi dai radar da sette minuti. Procediamo subito.»
Il pilota annuì, poi si voltò verso il copilota, che era rimasto indietro e teneva in mano una scatolina nera con alcuni pulsanti. Quando ne schiacciò uno, i motori del jet iniziarono a emettere un suono più acuto, che presto diventò un sibilo. Un altro pulsante rilasciò i freni e il jet si mosse in avanti, guadagnando velocità rapidamente. Quando il terzo pulsante fu premuto, ci fu un rumore assordante, la terra tremò e una palla di fuoco nera e rossa si levò in cielo.
«Andiamo» disse Herrera, spingendo tutti quanti verso un imponente Suv a trazione integrale che li aspettava al limite del prato. «Adesso.»
Il Cementerio del Tepeyac e soprattutto la basilica di Nostra Signora di Guadalupe avevano un aspetto completamente diverso alla luce del giorno. La sinistra notte messicana era stata spazzata via, lasciando il posto a una sottile patina di religiosità che di sicuro copriva una gran quantità di peccati, veniali e mortali.
Bourne parcheggiò l’auto a un centinaio di metri, poi girò intorno alla basilica. Non c’era traccia del carro funebre che aveva portato lui e Rebeka all’impresa di Diego de la Rivera, il cognato di Maceo Encarnación. E non c’era traccia neanche del finto prete, il misterioso Enterrador. Bourne ricordava molto bene i tatuaggi di bare e lapidi che sfoggiava sugli avambracci.
Arrivò davanti all’ingresso ed entrò con circospezione. L’interno della basilica era pieno di echi e profumava d’incenso. Un coro di voci angeliche saliva verso il cielo: la messa era iniziata. Bourne raggiunse il retro dell’abside e ritrovò il passaggio buio che portava alla canonica.
Prima di arrivarci, si fermò sentendo due voci che provenivano dal piccolo ufficio: una era femminile. Avanzando silenziosamente, Bourne riuscì a sbirciare dentro la canonica, che era dominata dall’enorme crocifisso. Poi vide a chi apparteneva la voce: fu sorpreso nel riconoscere la splendida ragazza che aveva visto scendere le scale della villa di Maceo Encarnación, quella che aveva pianto davanti alla salma della donna che doveva essere sua madre. Adesso Bourne ricordò di aver trovato strano che venisse da una zona della casa dove non c’erano alloggi destinati alla servitù, e per di più nuda sotto la costosa vestaglia. E inoltre, quando aveva risalito le scale, si era diretta verso la camera padronale, dove presumibilmente Maceo Encarnación la aspettava sotto le lenzuola.
E adesso cosa ci faceva lì? Bourne seguiva con lo sguardo la figlia di Maria-Elena che passeggiava nervosamente nella canonica. Poi, la ragazza si fermò di fronte a un uomo dalla tonaca con cappuccio. La barbetta a punta non lasciava dubbi: era el Enterrador.
«Mi dia l’assoluzione per i miei peccati» bisbigliò la ragazza. «Ho pensieri omicidi.»
«Hai messo in pratica questi pensieri?» le chiese il prete in un sussurro rauco.
«No, ma…»
«Allora andrà tutto bene, Anunciata.»
«Lei non può saperlo.»
«Perché?»
«Perché lei non sa quello che so io» ribatté la ragazza con amarezza.
«Allora devi dirmi tutto ciò che sai» replicò el Enterrador, in tono vagamente minaccioso.
Per un attimo lei sembrò spaventata, poi emise un gran sospiro.
«Io mi fidavo di Maceo, credevo che mi amasse» rispose con voce più profonda e più oscura.
«Puoi fidarti di lui, ti ama davvero.»
«Mia madre mi ha lasciato questo.» Aprì un foglio di carta e glielo passò. «Un tempo Maceo andava a letto con mia madre. Lui è mio padre.»
El Enterrador le toccò la testa. «Figlia mia» la consolò, come se fosse stato un prete vero. «Siamo caduti dal giardino del paradiso, tutti noi veniamo da un luogo oscuro. Questa è la nostra eredità, ed è comune a tutti noi. Siamo tutti peccatori, e viviamo in un mondo pieno di peccati. Per quanto la loro relazione fosse inopportuna, i tuoi genitori ti hanno dato la vita.»
«E se accadesse il peggio, se lui mi mettesse incinta?»
«Ovviamente dobbiamo fare in modo che non accada mai.»
«Potrei strappargli i cojones» replicò Anunciata con cattiveria. «Ne sarei davvero felice.»
«Conoscevo tua madre fin dal suo arrivo a Città del Messico. L’ho confessata, speravo di averla aiutata in un momento difficile: lei aveva bisogno d’aiuto e non sapeva a chi rivolgersi. Ora sei tu a venire da me in cerca di aiuto e consiglio. Va’ da tuo padre, parlagli.»
«Quello che ho fatto!» Anunciata rabbrividì. «È un peccato abominevole, lei dovrebbe saperlo più di chiunque altro.»
«Dov’è Maceo adesso?»
«Non lo sa? Se n’è andato, con Rowland. Sono diretti all’aeroporto.»
«Dove stanno andando?» chiese Bourne entrando nella canonica.
Anunciata e il finto prete si voltarono a guardarlo. La ragazza gli rivolse un’occhiata curiosa, ma el Enterrador sbarrò gli occhi per lo stupore.
«Chi è lei, señor?» chiese Anunciata.
«Io e Rebeka eravamo nella villa stamattina presto.»
«Allora è stato lei a…?»
Ma Bourne non le prestava più attenzione. «Stai pensando che dovrei essere ancora all’aeroporto, vero?»
«E come farei a…?»
«Il teschietto con i cristalli che mi hai dato: ho trovato il trasmettitore.»
El Enterrador tirò fuori da sotto la tonaca uno stiletto affilato, ma Bourne fece segno di no con la testa e spianò la pistola che aveva sottratto alla guardia di Maceo Encarnación. «Mettilo giù, Enterrador.»
Anunciata sgranò gli occhioni, diventando ancora più bella. «È un prete, perché l’ha chiamato Enterrador?»
«È il suo soprannome.» Si rivolse all’uomo. «Prete, mostrale i tatuaggi che hai sugli avambracci.»
«Tatuaggi?» ripeté Anunciata. Fissò il prete, sbigottita.
Lui non disse niente, non la guardò nemmeno.
Lei allungò la mano, gli sollevò le maniche della tonaca e rimase senza fiato davanti ai complessi disegni che vide sulle braccia dell’uomo.
«Che cosa significano?»
«Diglielo, becchino» lo invitò Bourne. «Anche a me piacerebbe conoscere questa storia.»
El Enterrador lo fissò. «Non era previsto che tu ritornassi qui.»
«Non era previsto nemmeno che tu mi controllassi con un localizzatore.» Bourne annuì. «E adesso dicci la verità.»
«Riguardo a cosa?» sussurrò el Enterrador. «Maceo Encarnación mi ha chiesto di aiutarlo, e io l’ho fatto.»
«Rebeka, la mia amica, è morta. Appoggia lo stiletto sul tavolo.»
El Enterrador obbedì, dopo una leggera esitazione.
«La verità» riprese Bourne. «È per questo che sono tornato qui. E tu, Anunciata?»
Lei scosse la testa. «Non capisco.»
«Chiedi al becchino. È lui quello che ha bisogno di essere perdonato.»
Lei scosse di nuovo la testa.
«Io e Rebeka ci siamo introdotti nella villa di Maceo Encarnación dentro un carro funebre. Perché ciò accadesse, qualcuno all’interno della villa doveva morire.»
«Mia madre!»
Bourne annuì. «Proprio così. Ma come era possibile che qualcuno sapesse in anticipo che sarebbe morta?» Guardò il prete. «Qualcuno doveva saperlo, il che significa che tua madre è stata assassinata.»
Gli occhi di Anunciata si riempirono di lacrime. «Il medico ha detto che è morta d’infarto. Non aveva nessun segno sul corpo, lo so, l’ho preparata io per… per la sepoltura.»
«Il veleno non lascia segni sul corpo» replicò Bourne. «E se l’assassino è in gamba, non li lascia nemmeno all’interno del corpo. Becchino, credo che questa sia stata la tua parte nel complotto.» Si voltò verso Anunciata. «Ecco perché ha quel soprannome.»
La ragazza si voltò verso el Enterrador. «È vero?»
«Certo che no» sbuffò. «La sola idea che possa aver fatto del male a tua madre è assurda.»
«No, se è stato Encarnación a chiedertelo.»
«È stato lei?» Anunciata si rivolse all’Enterrador; aveva il volto in fiamme e tremava.
«Ti ho già detto che…»
«Voglio sapere la verità!» urlò la ragazza. «Questa è una chiesa, voglio la verità!»
Il prete si avventò sullo stiletto, ma lei fu più veloce, o forse si era già preparata a quella mossa. Afferrò il coltello, avanzò di un passo e poi lo piantò con forza nella gola dell’Enterrador.
Lui spalancò gli occhi in un misto di terrore e incredulità.
Si afferrò al bordo della scrivania per non cadere, ma le dita scivolarono e crollò sul pavimento in una pozza di sangue.