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«Chiacchiere, insinuazioni, indizi, congetture.» Il presidente degli Stati Uniti spinse la cartellina gialla con il rapporto quotidiano dei servizi segreti verso Christopher Hendricks, che si trovava dall’altra parte del tavolo.

«Con il dovuto rispetto, signore» replicò il segretario della Difesa, «ritengo che ci sia qualcosa di più.»

Il presidente lanciò al suo più fedele collaboratore uno sguardo eloquente. «Quindi tu pensi che sia tutto vero.»

«Sì, signore.»

Il presidente indicò la cartellina. «Se c’è una cosa che ho imparato, nella mia lunga e onorata carriera politica, è che una verità non supportata dai fatti è più pericolosa di una menzogna.»

Hendricks tamburellò le dita sulla cartellina. «Perché, signore?» Non voleva essere polemico, ma solo capire il senso di quelle parole.

Il presidente sospirò. «Perché le chiacchiere, le insinuazioni, gli indizi e le congetture, in mancanza di fatti concreti, finiscono per diventare leggende, che poi si radicano nella mente delle persone e diventano qualcosa di più, qualcosa di straordinario: diventano indelebili. È così che è nato quello che Nietzsche chiama il superuomo.»

«E lei crede che ci troviamo di fronte a un caso del genere?»

«Sì.»

«E che quest’uomo non esista.»

«Non è quello che ho detto.» Il presidente fece ruotare la sedia, appoggiò gli avambracci sulla scrivania lucida e unì i polpastrelli con aria pensosa. «Non credo alle chiacchiere su tutto ciò che quest’uomo ha fatto ed è in grado di fare. No, in questo momento non ci credo.»

I due rimasero in silenzio. Fuori dallo Studio Ovale per un attimo si udì il rumore di un aspiratore di foglie, proprio all’interno dei muri di cemento rinforzato, vicino al perimetro della zona inviolabile. Guardando fuori, Hendricks non vide alcuna foglia, ma del resto tutti i lavori che si svolgevano alla Casa Bianca erano segreti per definizione.

Hendricks si schiarì la voce. «Tuttavia, signore, sono fermamente convinto che quest’uomo rappresenti una concreta minaccia per il Paese.»

Dalla finestra si vedeva sventolare la bandiera americana: il vento ne faceva increspare le stelle. Il presidente aveva gli occhi quasi chiusi, il respiro profondo e regolare. Se non l’avesse conosciuto bene, Hendricks avrebbe pensato che si fosse addormentato.

Dopo aver fatto cenno al segretario di passargli la cartellina, il presidente la aprì, poi sfogliò i paragrafi scritti a macchina. «Parlami della tua agenzia.»

«Alla Treadstone tutto procede bene.»

«Entrambi i direttori sono operativi?»

«Certo.»

«Hai risposto un po’ troppo in fretta, Chris. Quattro mesi fa Peter Marks è stato colpito di striscio dall’esplosione di un’autobomba. Quasi contemporaneamente, Soraya Moore è rimasta coinvolta in tragici eventi a Parigi ed è rimasta ferita.»

«Però ha portato a termine l’incarico.»

«Non metterti sulla difensiva» ribatté il presidente. «Ti sto soltanto esprimendo le mie preoccupazioni.»

«Sono stati entrambi rimessi a nuovo, dal punto di vista fisico e psicologico.»

«Sono molto lieto di sentirtelo dire, ma quei due direttori sono un po’ particolari, Chris.»

«In che senso?»

«Nel senso che non mi risulta che i direttori dei servizi segreti di norma partecipino alle azioni sul campo.»

«La Treadstone è così, è un’agenzia molto piccola.»

«Certo, e vogliamo che rimanga tale.» Il presidente fece una pausa. «E Dick Richards come sta?»

«Si sta integrando con il resto della squadra.»

Il presidente annuì, poi iniziò a picchiettare l’indice sul labbro inferiore, con aria pensosa. «Va bene» concluse. «Assegna l’incarico alla Treadstone, se proprio vuoi: Marks, Moore, Richards, decidi tu. Però…» sollevò il dito in segno di ammonimento «… mi informerai quotidianamente sui progressi. Voglio i fatti, Chris, più di ogni altra cosa. Portami le prove che questo imprenditore…»

«Il prossimo nemico numero uno della Sicurezza nazionale.»

«Qualunque cosa sia, portami le prove della sua pericolosità, oppure impiegherai i tuoi uomini in questioni più urgenti. D’accordo?»

«Sì, signore.» Hendricks si alzò e lasciò lo Studio Ovale, ancora più agitato di quando vi era entrato.

Tre mesi prima, quando Soraya Moore era rientrata da Parigi, aveva trovato diversi cambiamenti alla Treadstone. Prima di tutto, la sede era stata spostata da Washington a Langley, in Virginia, dopo che un’autobomba, eludendo tutti i controlli di sicurezza, era esplosa nel parcheggio sotterraneo e aveva ferito il suo caro amico e condirettore Peter Marks. L’altra novità era quel tizio alto e magro, con i capelli fini e il sorriso da vincente.

«Ti distrai un attimo e cambia tutto» aveva bisbigliato Soraya a Peter.

Peter si era messo a ridere e l’aveva abbracciata. Lei sapeva che lui avrebbe voluto chiederle di Amun Chalthoum, il capo del servizio segreto egiziano al-Mukhabarat, che era stato ucciso nel corso della sua missione a Parigi. Gli lanciò un’occhiata di avvertimento e lui si morse la lingua.

Il tizio alto e magro si era alzato e si stava avvicinando. Tese la mano e si presentò come Dick Richards. Dick stava per Richard. Soraya pensò che era un nome davvero ridicolo.

«È bello averla di nuovo tra noi» esordì cortese.

Lei lo guardò con aria perplessa. «E perché mai?»

«Ho sentito molto parlare di lei, fin dal mio primo giorno di lavoro, soprattutto dal direttore Marks.» Le sorrise. «Vorrei aggiornarla sui dossier ai quali sto lavorando, se le fa piacere.»

Lei sfoggiò un sorriso di circostanza fino a quando Richards non si fu allontanato, poi si voltò verso Peter. «Si chiama davvero così?»

«Richard Richards, assurdo, no?»

«Che cos’ha intenzione di fare Hendricks con lui?»

«Richards non è stato scelto dal nostro capo, l’ha nominato il presidente in persona.»

Soraya lanciò un’occhiata a Richards, che era tornato al computer. «Una spia alla Treadstone?»

«Forse sì» rispose Peter. «Pare che sia un genio dell’informatica, abilissimo soprattutto nell’intercettare i software di spionaggio.»

Quella di Soraya era una battuta, ma Peter aveva risposto seriamente. «Allora Hendricks non gode più della fiducia del presidente?»

«Credo che il presidente abbia dei dubbi su noi due, dopo quello che ci è successo» le sussurrò Peter all’orecchio.

Soraya impiegò un bel po’ prima di riuscire a parlare dei traumi passati e di Amun, e Peter fu molto paziente: era convinto che si sarebbe confidata, non appena fosse stata pronta.

Avevano appena ricevuto una telefonata da Hendricks, che li aveva convocati per una riunione lampo di lì a un’ora; senza una parola, si erano infilati le giacche ed erano usciti, per sfruttare quel tempo a loro disposizione.

«Riunione di valutazione preliminare fra quaranta minuti» aveva annunciato Tricia, una bionda piuttosto in carne, a Peter quando li aveva visti sulla porta. Lui aveva grugnito qualcosa, con la testa altrove.

Una volta usciti dal palazzo, attraversarono la strada e, nei pressi del parco, comprarono caffè e dolci alla cannella al loro chiosco preferito e poi si incamminarono a testa bassa oltre i rami spogli, dando le spalle agli uffici.

«La cosa peggiore» esordì Soraya «è che Richards è un tipo in gamba, potrebbe tornarci utile.»

«Sì, se potessimo fidarci di lui.»

Soraya si riscaldò bevendo un sorso di caffè. «Potremmo provare a fargli cambiare idea.»

«Ci metteremmo contro il presidente.»

Lei scrollò le spalle. «E allora, dov’è la novità?»

Lui rise e l’abbracciò. «Mi sei mancata.»

Soraya masticò un boccone con aria riflessiva. «Sono rimasta a Parigi per tanto tempo…»

«Non mi sorprende. È una città difficile da dimenticare.»

«È stato terribile perdere Amun.»

Peter ebbe la delicatezza di rimanere in silenzio. Per un po’ camminarono senza parlare. Un ragazzino srotolava il filo di un aquilone ridendo con il padre.

Soraya li guardava e seguiva il volo dell’aquilone. «Durante la convalescenza pensavo: “Che cosa farò adesso? È così che voglio passare il resto della mia vita, perdendo i miei amici e…”.» Si interruppe. Provava sentimenti forti, anche se contrastanti, per Amun. Aveva creduto di essere innamorata di lui, ma poi si era resa conto che non era così. Quella rivelazione però la faceva sentire ancora più in colpa. Se lei non gliel’avesse chiesto, se lui non fosse stato innamorato di lei, Amun non l’avrebbe mai seguita a Parigi, e sarebbe stato ancora vivo.

Le era passata la fame, così offrì il caffè e il resto della colazione a un barbone sdraiato su una panchina, che la guardò stupito e la ringraziò con un cenno del capo. Quando si furono allontanati, lei sussurrò: «Peter, non mi sopporto più».

«Sei solo un essere umano.»

«Per favore!»

«Non avevi mai commesso errori prima?»

«Sì, errori umani» rispose lei, tenendo la testa bassa. «Ma questo è stato un terribile errore di valutazione che non intendo ripetere mai più.»

Il silenzio durò così a lungo che Peter si preoccupò. «Non starai pensando di ritirarti?»

«Sto pensando di tornare a Parigi.»

«Davvero?»

Lei annuì.

Di colpo Peter cambiò espressione. «Hai conosciuto qualcuno?»

«Può darsi.»

«Basta che non sia un francese, ti prego, dimmi che non è un francese.»

Lei continuava a osservare l’aquilone che saliva sempre più in alto.

Lui rise. «Vai» le disse. E subito dopo: «Non andartene, per favore».

«Non è l’unico motivo. Laggiù mi sono resa conto che ci sono altre cose nella vita oltre che dare la caccia alle ombre.»

Peter scosse la testa. «Vorrei trovare le parole giuste per…»

All’improvviso le cedette una gamba; barcollò e lui la tenne su per un braccio, dopo aver buttato a terra il dolce e il caffè, che si allargò in una pozza ai loro piedi. Preoccupato, la condusse fino a una panchina, dove lei crollò con la testa tra le mani.

«Respira» la incoraggiò appoggiandole una mano sulla schiena. «Respira.»

Lei annuì e obbedì.

«Soraya, che ti succede?»

«Niente.»

«Non raccontare bugie a un bugiardo professionista.»

Lei inspirò ed espirò lentamente. «Non lo so. Mi capita da quando sono stata dimessa dall’ospedale. Ogni tanto mi vengono questi mancamenti.»

«Ne hai parlato con un medico?»

«Non ce n’è stato bisogno, sono diventati sempre meno frequenti. Non mi capitava da due settimane.»

«Ma adesso è successo di nuovo.» Le massaggiava la schiena per tranquillizzarla. «Voglio che fissi una visita…»

«Smettila di trattarmi come una bambina.»

«E allora smetti di comportarti come una bambina.» La sua voce si addolcì. «Sono preoccupato per te e non capisco perché tu non lo sia.»

«Va tutto bene, davvero» replicò lei.

«Adesso non puoi andartene» continuò lui. «Almeno non fino a quando…»

Lei rise e poi sollevò la testa, aveva gli occhi pieni di lacrime. «È proprio questo il problema.» Poi scosse il capo. «Peter, non troverò mai pace.»

«Intendi dire che non meriti di trovare un po’ di pace.»

Lei lo guardò e lui si strinse nelle spalle, accennando un sorriso. «Forse dovremmo impegnarci di più e convincerci che anche noi meritiamo di essere felici.»

Soraya si alzò rifiutando l’aiuto di Peter e tornarono indietro. Il barbone aveva finito di mangiare e si era raggomitolato sulla panchina, coperto dalle pagine del «Washington Post».

Quando gli passarono vicino, sentirono che russava sonoramente, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. E forse era davvero così, pensò lei.

Lanciò un’occhiata a Peter che le camminava accanto. «Che cosa farei senza di te?»

«Me lo chiedo in continuazione» rispose lui con un gran sorriso.

«Sparita?» esclamò il direttore. «Cosa vuol dire?»

Sopra la sua testa era inciso il motto del Mossad, tratto dal Libro dei Proverbi, 11:14: senza una direzione un popolo decade, il successo sta nel buon numero di consiglieri.

«Non è più sugli schermi radar» ripeté Dani Amit, il responsabile della raccolta informazioni. «Abbiamo fatto del nostro meglio, ma non riusciamo a localizzarla da nessuna parte.»

«Ma dobbiamo farlo!» Il direttore scosse i capelli arruffati e increspò le labbra, un chiaro segno di nervosismo. «Rebeka è fondamentale per la missione. Senza di lei, siamo a un punto morto.»

«Capisco, signore. È ben chiaro a tutti.»

«Allora?»

Gli occhi azzurri di Dani Amit erano colmi di tristezza. «Non sappiamo più cos’altro fare.»

«Com’è possibile? Lei è una di noi.»

«È proprio questo il problema: l’abbiamo addestrata troppo bene.»

«Se fosse vero, i nostri uomini, che sono addestrati bene quanto lei, dovrebbero essere in grado di ritrovarla. Se finora non ci sono riusciti, forse significa che lei è più in gamba di loro» esclamò in tono di rimprovero.

«Temo che…»

«Non voglio sentire quello che stai per dire» tagliò corto il direttore. «Il lavoro alla compagnia aerea?»

«Un vicolo cieco, il suo capo ha perso i contatti con lei sei settimane fa, dopo l’incidente di Damasco. Sono sicuro che non sa dove si trova.»

«Il telefono?»

«O l’ha buttato via o ha disattivato il Gps.»

«Amici, parenti?»

«Li abbiamo contattati. Sappiamo con certezza che Rebeka non aveva parlato di noi con nessuno di loro.»

«Se ha violato le regole in questo modo…»

Non c’era bisogno di completare la frase. Le regole del Mossad erano molto rigide e Rebeka aveva trasgredito la più importante.

Il direttore si voltò e guardò fuori dalla finestra, con aria pensierosa; si trovava nell’ufficio distaccato di Herzliya, all’ultimo piano di un edificio dalla facciata curvilinea in vetro. Dall’altra parte della città sorgevano il centro di addestramento del Mossad e la residenza estiva del primo ministro. Il direttore preferiva lavorare qui ogni volta che era di umore malinconico e trovava opprimente e snervante il quartier generale nel centro di Tel Aviv, troppo simile a un formicaio. In questa sede invece c’era una rotonda con una bella fontana al centro e aiuole profumate e fiorite tutto l’anno, per non parlare del porto con le barche a vela che beccheggiavano al vento. Persino per Amit c’era qualcosa di rassicurante in quella foresta di alberi maestri, perché dava un’impressione di stabilità in un mondo dove tutto poteva cambiare in meno di un secondo.

Al direttore piaceva molto andare in barca. Quando perdeva un agente, cosa che per fortuna accadeva di rado, usciva: solo lui, il mare, il vento e il grido lamentoso dei gabbiani.

Senza nemmeno girarsi, riprese in tono aspro: «Trovala, Dani. Cerca di scoprire perché ha disobbedito e cosa sa esattamente».

«Io non…»

«Ci ha traditi.» Il direttore si voltò, si sporse in avanti facendo cigolare la sedia sotto il suo peso. Ogni parola esprimeva autorità. «È una traditrice, avrà il trattamento che si merita.»

«Memune, mi chiedo se sia saggio saltare così rapidamente alle conclusioni.» Amit aveva usato il titolo che internamente era riservato al direttore e che significava primus inter pares.

I vetri delle finestre, a prova di proiettile e di bomba, erano rivestiti di una pellicola riflettente che impediva di spiare all’interno, e smorzava un po’ la luce della stanza. Gli occhi del direttore brillarono. «Non mi sono dimenticato che questo era il progetto che ti stava più a cuore, ma devi riconoscere di esserti sbagliato. Se anche volessi concedere a Rebeka il beneficio del dubbio, ormai sarebbe tardi, rischiamo di essere travolti dagli eventi. Siamo amici e compagni d’armi da molto tempo, non obbligarmi a coinvolgere il Duvdevan.»

Il solo pensiero del Duvdevan, il corpo scelto dell’esercito israeliano, provocò ad Amit un brivido di paura. Il fatto che il direttore minacciasse di ricorrere a loro, era la prova di quanto Rebeka fosse importante per la sicurezza di Israele.

«Chi se ne occuperà?» chiese il direttore in tono leggero, come se gli stesse chiedendo notizie della famiglia.

«E cosa mi dice delle sue straordinarie doti, di quanto lei sia utile a…»

«Ci ha traditi, e questo cancella tutto il resto, Amit, anche le sue capacità straordinarie. Dobbiamo ipotizzare che quello che ha scoperto l’abbia indotta a nascondersi. E se avesse intenzione di vendere le informazioni al miglior…»

«Impossibile.»

Per un attimo il direttore lo fissò con gli occhi ridotti a due fessure. «Immagino che, prima di oggi, mi avresti detto che era impossibile che lei scomparisse.» Fece una pausa. «Non è vero?»

Amit chinò il capo. «È così.»

Il direttore intrecciò le dita. «Allora, chi hai scelto?»

«Ilan Halevy» rispose Amit a malincuore.

«Il Babilonese.» Il direttore annuì soddisfatto. Ilan si era guadagnato quel soprannome dopo aver sgominato, in pratica da solo, il progetto iracheno Babilonia, uccidendo più di dieci agenti nemici. «Bene, adesso sì che facciamo sul serio.»

Era con questo spirito che al direttore piaceva lavorare: era uno dei suoi numerosi lati positivi. Purtroppo era anche molto intransigente, ma proprio grazie al suo pugno di ferro il Mossad era riuscito a sopravvivere negli ultimi cinque anni nelle acque agitate dello spionaggio internazionale, tra incursioni clandestine nei territori nemici ed esecuzioni approvate dallo Stato, riducendo al minimo i danni collaterali. Per lui perdere un agente era come un lutto privato, e solo in mare riusciva a seppellire il dolore e a schiarirsi le idee.

«Lo metterai subito al corrente…»

«Subito» lo interruppe Amit. «Conosce bene Rebeka, meglio di tutti.»

«Ma non meglio di te.»

Per il momento Amit ignorò l’insinuazione. «Lo istruirò personalmente, gli riferirò tutto quello che so.»

Era una bugia per evitare un ordine diretto, e Amit sospettava che il suo vecchio amico ne fosse consapevole, ma per fortuna il direttore rimase in silenzio.

Come avrebbe potuto dire al Babilonese tutto ciò che sapeva su Rebeka? Non l’avrebbe mai tradita, nemmeno per accattivarsi i favori del direttore. Anche se mentire era una scelta che poteva costargli la carriera, o almeno mettere fine al suo ruolo operativo all’interno del Mossad.

La sedia cigolò di nuovo quando il direttore si voltò per tornare a osservare il porto. Chissà a cosa stava pensando. «Allora è deciso.» Sembrava che stesse parlando tra sé e sé. «Abbiamo finito.»

Amit si alzò e se ne andò in silenzio: non c’era altro da aggiungere.

Nel corridoio l’aria condizionata era al massimo. Per un momento, Amit rimase immobile, come se non sapesse dove andare. Ogni tanto, il direttore lo invitava in barca con lui, per commemorare l’uomo o la donna che aveva sacrificato la propria vita per la sicurezza del Paese. Amit pensò che sarebbe successo anche dopo la morte di Rebeka.