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Era un omone robusto, con le spalle curve: sembrava un orso. Indossava un abito fatto su misura dal tessuto pregiato, che costava più di un anno di stipendio di molti dei suoi tirapiedi. In quella giornata di sole, si trovava in Place de la Concorde. Il vociare incessante dei turisti gli ricordava il martellare di un esercito di picchi. La spirale del traffico che si avvolgeva senza sosta intorno all’isola di cemento al centro della piazza era come la morte, che procede inesorabile tenendosi a distanza, fino al momento in cui ti travolge e ti schiaccia sul selciato, per poi riprendere la sua corsa. Ripensava ai giorni sprecati della sua giovinezza, prima di scoprire chi era veramente e come sfruttare la sua forza interiore: tutto tempo buttato via, che non avrebbe recuperato mai più.

Quando era a Parigi, Place de la Concorde era una delle sue mete preferite, per via di quel suo legame con la morte, sia passata sia presente. Era lì che la ghigliottina era calata sulla testa di Maria Antonietta e di molti altri, colpevoli e innocenti, durante il Regime del terrore. Gli piaceva il suono di quelle parole, Règne de la Terreur, in tutte le lingue.

Sì voltò e la vide incedere sulle gambe lunghissime, baciata dalla luce. Nascosta da una nuvola di turisti, anche lei lo vide, ma lo ignorò finché non giunse all’estremità dell’obelisco millenario che aveva glorificato il regno di Ramsete II. Prima del 1829, quando era stato donato alla Francia dal viceré egiziano Mehmet Alì, era all’ingresso del tempio di Luxor, dunque era un monumento di grande valore storico. Questo pensava l’omone mentre frotte di turisti andavano e venivano, riservando all’alta colonna poco più di un’occhiata distratta. Ogni giorno la storia del mondo veniva cancellata, sepolta sotto una montagna di esalazioni digitali emesse da Internet e lette frettolosamente da milioni di persone sui loro smartphone o iPad. Per le nuove masse, la vita di Britney Spears, di Angelina Jolie e di Jennifer Aniston era più interessante di quella di Marcel Proust, di Richard Wagner e di Victor Hugo, sempre che qualcuno di loro avesse una vaga idea di chi fossero quegli illustri personaggi.

L’uomo trattenne l’improvviso bisogno di sputare, e stirò le labbra in un sorriso, mentre fendeva la folla per avvicinarsi a Martha Christiana, che si era fermata sul lato occidentale dell’obelisco. Teneva le mani infilate nelle tasche del corto soprabito di L’Wren Scott, rosso e nero, all’ultima moda, sotto il quale indossava una gonna della stessa stilista, un modello che metteva in risalto le sue splendide gambe. Quando le si avvicinò, lei non si voltò a guardarlo, ma inclinò la testa nella sua direzione.

«È bello rivederti, amico mio. È passato così tanto tempo.»

«Direi troppo, chérie

Lei sorrise in maniera enigmatica. «Così mi lusinghi.»

Lui esplose in una risata. «Non credo che ce ne sia bisogno.»

Aveva ragione: era una donna bellissima, mora, con gli occhi scuri, decisamente latina, sia nel fisico sia nel temperamento. Per quanto focosa ed esuberante potesse essere, aveva una forte padronanza di sé. La ammirava molto per la sua indipendenza, ma al tempo stesso cercava sempre di sottometterla. Non c’era ancora riuscito, e una parte di lui ne era felice, perché sapeva che gli sarebbe stata meno utile, una volta soggiogata. Nei suoi rari momenti di ozio, si chiedeva perché lei continuasse a tornare da lui. Non era certo obbligata, e del resto lei non era il tipo che fa qualcosa perché costretta, come aveva scoperto la seconda volta che l’aveva incontrata. Ma adesso doveva scacciare i pensieri che lo riportavano a quel periodo buio per focalizzarsi sul motivo urgente di quell’incontro.

Martha si era appoggiata all’enorme obelisco, con le gambe incrociate all’altezza delle caviglie sottili; le sue Louboutin scintillavano al sole.

«Quando ero giovane» riprese lui, «credevo nell’idea di ricompensa, come se la vita fosse giusta e predeterminata e non potesse disseminare il mio percorso di ostacoli che non riuscivo a immaginare né ad accettare. E allora cos’è successo? Che ho fallito, più e più volte, fino a che mi sono rotto la testa e mi sono reso conto che stavo prendendo in giro me stesso. In realtà, non sapevo nulla della vita.»

Tirò fuori il pacchetto di sigarette, gliene offrì una e ne prese un’altra per sé, poi accese prima quella di lei e quindi la propria. Quando le si avvicinò, inspirò il suo profumo, che aveva note di limone e cannella. Qualcosa vibrò dentro di lui: la cannella risvegliava l’erotismo e la sua mente fu invasa da un flusso di immagini e pensieri, che riuscì ad arrestare. Aspirò il fumo e la nicotina gli riempì i polmoni, aiutandolo a prendere le distanze dal passato.

«Mi sono reso conto che la vita cercava di guidarmi, di darmi lezioni che mi sarebbero servite a sopravvivere e ad avere successo. Capii che dovevo liberarmi dell’orgoglio, abbracciare gli ostacoli che non riuscivo ad accettare e trovare la mia strada attraverso di loro, invece di evitarli. Perché è lì la chiave del successo di chiunque, non solo del mio.»

Martha Christiana lo ascoltava in silenzio, quasi in contemplazione, senza perdere una sola sillaba. A lui piaceva questa sua caratteristica: non era così concentrata su se stessa da non riuscire ad ascoltare ciò che era importante. Bastava questo a distinguerla dalla massa, a renderla così simile a lui.

«Ogni volta che si accetta l’inaccettabile, avviene un cambiamento» commentò lei. «Cambiare o morire, questo è il principio fondamentale che entrambi abbiamo imparato, giusto? E poi, a un certo punto, si verifica la metamorfosi, e di colpo siamo diversi.»

«Più di quanto avremmo mai immaginato.»

Lei annuì, fissando le file di ippocastani perfettamente allineati lungo gli Champs-Élysées. «Ed eccoci di nuovo qui, ad aspettare che calino le ombre.»

«Ti sbagli, le ombre siamo noi» replicò lui.

Martha Christiana fece una risatina. «Proprio così.»

Continuarono a fumare insieme, come vecchi amici, circondati dalla folla che andava e veniva.

Alla fine, lui lasciò cadere a terra il mozzicone e lo schiacciò sotto il tacco. «Hai una macchina?»

«Sì, mi sta aspettando, come sempre.»

«Molto bene» annuì, poi si inumidì le labbra. «Ho un problema.»

Quella frase, che pronunciava ogni volta per introdurre un argomento di lavoro, riusciva a tranquillizzarlo. In realtà aveva sempre problemi, ma non chiamava quasi mai Martha per risolverli. Lei gli era preziosa perché aveva uno speciale talento nel risolvere quelli che nessun altro avrebbe saputo affrontare.

«Maschio o femmina?»

Lui prese una foto dalla tasca interna della giacca e gliela passò.

«Che bel diavoletto! È proprio il mio tipo.»

«Bene!» Rise e le passò una chiavetta USB. «Qui ci sono tutte le informazioni rilevanti sull’obiettivo, anche se so che preferisci fare le tue ricerche da sola.»

«A volte sì, comunque mi piace verificare tutte le informazioni, anche le più insignificanti. Dove si trova adesso questo Don Fernando Herrera?»

«In giro.» Scoprì i denti, bianchi come tessere del mahjong. «Mi sta cercando.»

Martha Christiana inarcò le sopracciglia, perplessa. «Non sembra un assassino.»

«Infatti non lo è.»

«E allora cosa vuole da te? Perché lo vuoi eliminare?»

«Vuole tutto, vuole prendermi qualcosa che è più importante persino della mia stessa vita.»

Martha Christiana si voltò verso di lui, preoccupata. «Di cosa stai parlando, guapo

«Della mia eredità. Vuole prendersi tutto quello che ho e tutto quello che potrò avere in futuro.»

«Non glielo permetterò.»

Lui sorrise e le sfiorò il dorso della mano con un tocco leggero. «Martha, quando avrai finito qualcuno verrà a prenderti. Avrò bisogno di te per un incarico molto speciale.»

La donna gli sorrise mentre si allontanava dall’obelisco. «Ci penso io a Don Fernando Herrera.»

«Non avevo dubbi.»

«Questa faccenda di Bourne, questa relazione» riprese Ze’ev, «è una stupidaggine, non ne vale proprio la pena. Ti porterà alla tomba, e Ben David se ne occuperà personalmente.»

«E sei venuto fin qui da Tel Aviv per dirmelo?»

«Rebeka, sto cercando di aiutarti, non lo capisci?»

La tempesta si stava allontanando, un raggio di sole fece capolino tra le nubi, e Rebeka strizzò gli occhi, colpita da quella luce improvvisa. Camminavano a fatica tra piccoli cumuli di neve fresca. La distesa d’acqua, color grigio perla, quasi non si distingueva dalla spiaggia sassosa che scendeva fino al mare. Stavano camminando in circolo, o almeno così sembrava. Il paesaggio era punteggiato di casette; qua e là qualcuno spalava il vialetto di casa. Lei voleva tornare a Sadelöga, ma Ze’ev ostacolava i suoi piani. Sapeva di dover trovare un modo per sfruttare la sua presenza a proprio vantaggio, ma non aveva molto tempo.

«Non capisco che cosa ci guadagni tu.»

Lui si scrocchiò le dita. Non portava i guanti. Nonostante fosse di stanza a Tel Aviv, Ze’ev era uno degli uomini di Ben David, il che lo rendeva ancora più pericoloso. Ma c’erano anche altre ragioni per diffidare di lui, se era vero quello che aveva sentito a Dahr El Ahmar.

«Guadagnarci?»

«Non credo che Dani Amit e il direttore sarebbero felici di sapere che mi stai aiutando.»

Strinse le dita a pugno; era una dimostrazione di forza o un avvertimento per lei? «Nessuno dei due ne è al corrente, né lo sarà mai.»

Lui sospirò in risposta allo sguardo scettico di lei.

«E va bene. Ilan Halevy ce l’ha con me da quando ha fatto strada.»

«Perché?»

Ze’ev sbuffò rumorosamente. «Ho cercato di farlo buttare fuori dal Mossad. Era all’inizio della carriera, era una mina vagante, voleva fare tutto a modo suo, senza seguire le direttive del Mossad.»

«Alla fine però hai avuto torto.»

«Sì, e lui non perde occasione per ricordarmelo. Non sarà contento finché non mi avrà tolto di mezzo.»

«Ilan Halevy non conosce il significato della parola “contento”.»

«Già…»

Lei annuì. «Va bene, voi due non vi sopportate, ma io cosa c’entro?»

«Voglio che lui fallisca.»

«Ti basta questo?»

«No, voglio che il suo fallimento sia spettacolare, di quelli da cui non ci si risolleva più.»

Rebeka rifletté un attimo. «Allora hai in mente un piano.»

Per un attimo sembrò lasciarsi andare a un sorriso.

«Non c’è modo di farlo tornare indietro, lo hai detto anche tu.»

«Sì, sarebbe una perdita di tempo. Invece lo attireremo a Sadelöga.»

«E poi?»

«Poi vedremo.»

La sede di Washington di «Politics as Usual» era in E Street. Soraya stava salendo al sedicesimo piano, insieme a un gruppetto di manager che parlavano di opzioni, margini e strategie di investimento sui cambi; lei cercava di non pensare. Si lanciò fuori dall’ascensore non appena si aprirono le porte, e si diresse ad ampie falcate verso il bancone di acero e acciaio.

«Charles è in ufficio?» chiese a Marsha, l’addetta alla reception.

«Sì, signorina Moore» rispose la donna, sfoggiando un sorriso professionale. «Si accomodi, lo chiamo subito.»

«Grazie, aspetto qui.»

Marsha annuì mentre digitava l’interno di Charles. Anche se era molto vicina, Soraya colse solo un mormorio incomprensibile. Diede un’occhiata alla reception, anche se la conosceva bene: targhe che celebravano l’agenzia di stampa online Peabody erano disseminate qua e là, così come gli articoli che avevano vinto il premio Pulitzer. Non poté fare a meno di rileggere il brillante articolo che Charles aveva scritto due anni prima su una cellula terroristica siriana, poco nota ma molto temibile. Era proprio per via di quel lavoro che lo aveva contattato, per cercare di appropriarsi delle sue fonti, ma con risultati piuttosto scarsi.

Quando avvertì la sua presenza sollevò la testa per accoglierlo con un bel sorriso. Alto e magro, con una chioma disordinata e prematuramente ingrigita, era molto elegante, come sempre: abito blu scuro, camicia grigia, cravatta con stampe acquerello a tinte delicate.

Appena la vide le fece cenno di avvicinarsi, ma c’era qualcosa di strano nel suo sorriso, qualcosa che lei non riusciva a decifrare e che la mise subito in agitazione. Cominciò a dubitare della sua decisione: una parte di lei voleva voltarsi, prendere l’ascensore e non vederlo mai più.

Invece gli andò incontro e si incamminarono insieme lungo il corridoio, verso il suo ufficio; lui le appoggiò una mano sulla spalla. Prima di entrare, lei diede un’occhiata alla targa appesa alla destra della porta: CHARLES THORNE, VICE-CAPOREDATTORE.

Lui richiuse la porta.

Devo concludere questa faccenda il più in fretta possibile, prima di perdere il coraggio, pensò lei. «Charles» esordì mentre si sedeva.

«È una coincidenza fortunata che tu sia venuta qui proprio adesso» la interruppe sollevando una mano per anticiparla, e poi abbassò lentamente le veneziane. «Soraya, prima che tu dica qualunque cosa…»

Oh no, adesso ricomincia con la solfa della moglie, e di quanto la ama. Non adesso, per favore, non adesso!, pensò lei.

«Devo dirti una cosa strettamente confidenziale.»

Ci siamo, pensò lei. «Ma certo, dimmi.»

«L’FBI sta indagando su di noi.»

Sentì il cuore fare un balzo nel petto. «Su di noi?»

«Su “Politics as Usual”, sull’editore Marchand, sul caporedattore Davidoff, su di me.»

«Io… non capisco.» Sentiva le tempie pulsarle, e non era una sensazione piacevole. «Per quale motivo?»

Charles si passò una mano sul viso. «Intercettazioni: vittime di delitti, personaggi famosi, la polizia di New York, alcuni politici.» Lui tentennava, con uno sguardo carico di dolore. «Vittime dell’11 settembre.»

«Stai scherzando?»

«Purtroppo no.»

Si sentiva accaldata, come se avesse avuto la febbre. «Ma… è vero?»

«Io e te dobbiamo…» tossì e si schiarì la gola. «Dobbiamo prendere strade diverse.»

«Ma tu…» scuoteva la testa, le fischiavano le orecchie. «Ma come hai potuto…?»

«Soraya, non sono stato io, te lo giuro.»

Non risponderà alla mia domanda, pensò lei. Poi lo guardò negli occhi e sentì di nuovo quella frase: Dobbiamo prendere strade diverse.

Lei si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi.

«Soraya?»

Lei non sapeva cosa dire, e nemmeno cosa pensare. Respirava a fatica: in un attimo, il suo mondo era andato in pezzi. Non potevano separarsi, non adesso, era impensabile. Di colpo le tornò in mente la cena con Delia, la sera successiva al suo primo incontro con Charles.

«Ma sei impazzita?» le aveva gridato l’amica, strabuzzando gli occhi. «Charles Thorne? Stai scherzando? Ma non lo sai chi è sua moglie?»

«Certo che lo so» aveva risposto Soraya.

«E nonostante questo hai…?»

«Non siamo riusciti a controllarci.»

«Certo che potevate controllarvi.» Delia era furiosa. «Siete due adulti, non due ragazzini.»

«Sono cose che capitano anche agli adulti, Dee. Per questo si chiama…»

«No, ti prego, non dire quella parola!» aveva esclamato Delia alzando le mani verso l’amica.

«Non è una storia di una notte, se questo può fare qualche differenza.»

«Certo, fa proprio una bella differenza!» aveva replicato ironica Delia a voce un po’ troppo alta, ma poi aveva abbassato il tono per sussurrarle: «Maledizione, Raya, più questa storia va avanti, peggio sarà!».

Soraya ricordò come si era sporta in avanti per prendere la mano di Delia. «Non arrabbiarti, Dee. Devi essere felice per me.»

Più questa storia va avanti, peggio sarà!

«Soraya?» ripeté Thorne. Era davvero colpito dall’espressione che leggeva sul volto di lei.

E adesso, pensò Soraya riaprendo gli occhi, il peggio è arrivato. Doveva dirglielo: era l’unico modo per rimanere insieme, per assicurarsi che lui non mettesse fine alla loro relazione.

Aprì la bocca per parlare, ma la sua mente si ribellò. Dunque hai ridotto il bambino a questo, a una pedina? Fu sommersa da un’ondata di disgusto e, sporgendosi in avanti, afferrò il cestino della carta straccia e vomitò.

«Soraya? Ti senti bene?» Thorne si precipitò da lei.

«No, non mi sento bene» sussurrò lei.

«Ti chiamo un taxi.»

Lei fece un gesto con la mano per rassicurarlo. «Tra un attimo starò meglio.» Doveva dirglielo, non aveva altra scelta, ma un altro conato le salì alla gola, facendola tossire e soffocandola. Ebbe appena il tempo di pensare: No, non oggi, ancora un altro giorno.

Un’ora prima di imbarcarsi per Sadelöga insieme ad Alef, Bourne fece un sogno. Gli avevano sparato ed era caduto nelle acque scure e tempestose del Mediterraneo, ma invece di perdere conoscenza, come gli era capitato molti anni prima, era rimasto cosciente e sentiva dolorose scosse elettriche attraversargli la testa.

Mentre si dibatteva nell’oscurità, si era reso conto di non essere solo. Un’altra presenza avanzava dal fondo del mare, un essere lungo e sottile, un mostruoso serpente marino. Aveva avvolto le sue spire intorno a lui spalancando minacciosamente le fauci dai denti acuminati. Lui cercava di divincolarsi, ma a ogni secondo che passava le sue forze si affievolivano e si disperdevano nell’acqua scura e densa come inchiostro. Il mostro invece diventava sempre più vigoroso e infine gli aveva urlato: «Non saprai mai chi sono, perché non ti arrendi?».

Poi il serpente aveva allentato la presa e si era allontanato, nonostante i suoi tentativi di afferrarlo. Ora il desiderio di conoscere la verità era insopportabile… In quel momento si svegliò completamente sudato.

Scostò le coperte e si infilò in bagno entrando nella doccia prima ancora di avere aperto l’acqua. Il getto freddo lo colpì come uno schiaffo, ma era proprio quello che voleva, per scrollarsi di dosso le spire di quell’incubo nel più breve tempo possibile. Non era la prima volta che faceva quel sogno, e terminava sempre nello stesso modo. Sapeva che il gigantesco serpente rappresentava il suo passato, che si nascondeva nelle profondità del suo subconscio, dove si arrotolava e si srotolava, senza mai rivelarsi del tutto. Se il mostro marino del sogno aveva ragione, non sarebbe mai successo.

Dopo essersi rasato e vestito, si sedette sul bordo del letto e chiamò Soraya, con il nuovo telefono satellitare. Erano d’accordo di sentirsi di tanto in tanto, e andava bene a entrambi. Spesso si scambiavano informazioni che risultavano utili a entrambi.

A Washington era notte e chiaramente l’aveva svegliata.

«Tutto bene?» le aveva chiesto.

«Benissimo, ho avuto solo una giornata pesante.»

Capì subito che stava mentendo. La incalzò finché lei gli confessò che la commozione cerebrale che aveva riportato a Parigi era peggiorata; aggiunse che era seguita con attenzione da un medico. Poi nominò Nicodemo, e lui le riferì la conversazione che aveva avuto con Christien, aggiungendo che l’uomo aveva a che fare con la Core Energy e in particolare con il suo amministratore delegato, Tom Brick.

«Vuoi dire che Nicodemo esiste davvero?»

«Christien e Don Fernando ne sono convinti. Puoi fare qualche ricerca sulla Core Energy e su Tom Brick?»

«Ma certo.»

«Prenditi cura di te, Soraya.»

Lei esitò un attimo prima di concludere: «Anche tu».

Un’ora e mezza dopo, mentre la notte scivolava via lasciando il posto all’alba, lui e Alef, in una delle auto di Christien, uscivano da Stoccolma alla volta di Sadelöga.

«Non hai l’aria di uno che si sente molto bene» commentò Alef quando imboccarono l’autostrada e partirono a tutta velocità.

Bourne non gli rispose. Ogni tanto guardava lo specchietto retrovisore e memorizzava marca, modello e posizione delle auto che li seguivano.

Anche Alef non poté fare a meno di lanciare un’occhiata allo specchietto. «Aspetti qualcuno?»

«Io aspetto sempre qualcuno.»

Alef fece una risatina. «Sì, so cosa vuoi dire.»

Bourne lo fissò a lungo, intensamente. «Davvero lo sai?»

«Scusa?»

«Hai detto che sai cosa voglio dire quando ho affermato che aspetto sempre qualcuno. Come fai a saperlo?»

Alef ricambiò lo sguardo e scosse la testa confuso. «Non ne ho idea.»

«Pensaci!» Il tono perentorio di Bourne lo fece sobbalzare.

«Non ne ho idea, lo so e basta.» Tornò a osservare lo specchietto. «Niente di sospetto.»

«Per ora.»

Alef annuì, si fidava del giudizio di Bourne. «Ho una buona sensazione riguardo Sadelöga. Voglio dire, riguardo al fatto che ci stiamo andando.»

«Pensi che ti aiuterà a ricordare?»

«Sì, ammesso che ci sia qualcosa che…»

Si interruppe e proseguirono il viaggio in silenzio. Una barca li aspettava, era la stessa che Bourne e Christien avevano usato per andare a pescare, quando avevano tirato Alef fuori dall’acqua. Era stata ripulita, non c’erano più tracce di sangue.

Bourne fece salire Alef, poi mollò gli ormeggi e saltò a bordo. Si diressero lentamente verso Sadelöga. L’aria era densa di umidità, una nebbiolina era calata sul pelo dell’acqua, come un sudario. Mentre si avvicinavano a Sadelöga, Alef iniziò a guardarsi intorno.

«Qualcosa di familiare?» Il fiato di Bourne si condensava in nuvolette nell’aria ghiacciata.

Alef scosse la testa.

Alcuni minuti dopo, Bourne rallentò. «È qui che ti abbiamo tirato fuori. Non puoi essere stato in acqua molto a lungo, quindi dobbiamo essere vicino al punto in cui ti hanno sparato.»

Rallentando ancora, avvicinò la barca alla riva.

«Prova a dare un’occhiata.»

Alef annuì. Sembrava molto agitato, come se stesse andando al patibolo. Bourne sapeva cosa provava. Dietro la cortina nebbiosa, blocchi di ghiaccio si muovevano verso la costa. Erano stati lì solo qualche giorno prima, ma la temperatura era scesa di almeno una decina di gradi. Il freddo scoraggiava persino i gabbiani, che di solito erano socievoli. L’aria era così gelida che faceva male ai polmoni.

«Non lo so» disse Alef con aria sconsolata. «Non lo so proprio.» Ma poi, d’un tratto, puntò il naso come un cane da caccia. «Laggiù! È laggiù!» Stava tremando.

«L’hai pedinata! È una tua amica, per l’amor di Dio!» Delia guardava Peter incredula.

«Lo so, lo so, ma…»

«Siete davvero incredibili.» Scuoteva la testa. «Anzi, disumani.»

«Delia, è proprio perché sono suo amico che l’ho seguita.»

Delia sbuffò non molto convinta. Erano nell’ufficio di lei, dove Peter era andato a trovarla. Lei aveva chiuso la porta con un calcio non appena aveva sentito la prima domanda dell’uomo.

«Cosa ci faceva nella sede di “Politics as Usual”?»

«E perché non mi chiedi di che cosa abbiamo parlato oggi a pranzo?»

«Immagino che abbia a che fare con la sua visita al dottor Steen.»

Delia si allontanò da lui e si rifugiò dietro la scrivania, senza smettere di scuotere la testa. «Non so cosa pensi che stia succedendo…»

«È proprio quello che ti sto chiedendo.»

«Devi chiederlo a Soraya, non a me.»

«Non mi dirà nulla.»

«E allora devi accettare che forse ha delle buone ragioni per non parlartene.»

«È proprio questo il punto» replicò Peter avvicinandosi a Delia. «Non credo che le sue ragioni siano accettabili.»

Delia allargò le braccia. «Non so cosa…»

«Penso che lei sia nei guai. Ti chiedo di darmi una mano ad aiutarla.»

«No, Peter, tu mi stai chiedendo di tradire la sua fiducia.» Incrociò le braccia sul petto. «Non lo farò, non mi importa niente di quello che potrai dire o fare.»

La fissò per un tempo che sembrò molto lungo. «Io sono preoccupato per lei, davvero.»

«Allora torna al tuo lavoro, e lascia perdere questa storia.»

«Ma voglio aiutarla.»

«C’è aiuto e aiuto. Se insisti, non potrà che finire male.»

«Non sono certo che tu…»

«Qualunque sia il suo problema, non vuole parlarne con te.» Delia gli sorrise con freddezza. «Peter, credimi: sarebbe la fine della vostra amicizia.»

Alef saltò a terra prima ancora che la barca si fosse accostata alla spiaggia coperta di neve.

«Aspetta!» gli urlò Bourne, spegnendo il motore; poi si lanciò all’inseguimento, imprecando.

«C’è un boschetto di pini e un lago» disse Alef, come parlando a se stesso. «Da qualche parte, è qui, da qualche parte.» Aveva gli occhi sbarrati e dondolava la testa.

Bourne lo aveva quasi raggiunto, quando Alef vide il lago, che sembrava ghiacciato.

«Mi ricordo di averlo attraversato» comunicò a Bourne.

«Una cosa per volta: cosa ci facevi qui?»

Alef scosse il capo. «Ho attraversato il lago, oppure…» Fece un passo sulla superficie ghiacciata. «Cercavo di scappare.»

«Scappare da chi? Chi ti stava inseguendo?»

«Quel lago, quel maledetto lago…» Alef iniziò a tremare.

È come se una tempesta di fulmini si sia scatenata nella sua testa mentre frammenti di memoria riemergono dalla nebbia dell’amnesia. Vede se stesso, sente il suo respiro ansimante, scorge la figura snella che lo insegue con agilità, come se pattinasse sul ghiaccio. Un vuoto improvviso, lo sprazzo che gli ha illuminato la mente è sparito, lui barcolla. Un attimo dopo, è caduto in ginocchio, la figura si avvicina inesorabile, lui si volta rialzandosi, punta la pistola, ma cade, e l’arma gli sfugge di mano. Vorrebbe precipitarsi a recuperarla, ma non ha tempo. Riprende a correre, per mettersi in salvo.

I ricordi lo assalgono come un esercito nemico, a volte sono nitidi, altre sfocati. Tra un’immagine e l’altra, ci sono le tenebre dell’abisso che ormai riconosce come la sua amnesia, quella che gli ha strappato la vita, portandola in un luogo per lui irraggiungibile. Il dolore che l’ha intrappolato adesso si trasforma rapido in terrore. Il panico lo invade mentre schegge di ricordi lo dilaniano così in fretta, così a fondo da sommergerlo: è disorientato, quasi pazzo.

Alef sbatté le palpebre, tornando al presente.

«Va bene così.» Riparato dai pini, all’estremità della distesa d’acqua scintillante, Bourne lo condusse verso la costa, dove aveva ormeggiato la barca. «Penso che per oggi possa bastare.»

«No! La mia vita è qui! Devo riprendermela!» Alef cercò di scappare, ma prima che potesse muoversi Bourne lo afferrò e lo tirò indietro, sotto gli alberi.

«Non puoi allontanarti da qui: è troppo esposto, troppo pericoloso.»

«Pericoloso?»

Bourne lo scosse, cercando di farlo concentrare di nuovo sui fatti. «Ti hanno sparato, ricordi? Qualcuno ti stava inseguendo.»

«Jason, sono morto.» Lo guardava con gli occhi spalancati. «Non vedi? Adesso non c’è nessuno che mi insegue.»

Bourne si rese conto che il viaggio a Sadelöga era stato un errore: troppo prematuro. Alef stava perdendo il contatto con la realtà. «Torniamo alla barca, parliamone con calma.»

Alef esitò, guardò la superficie del lago ghiacciato e poi annuì. «Va bene, come vuoi.»

Ma nel momento in cui Bourne lo lasciò andare, lui scappò via, e si mise a scivolare sul ghiaccio, con le gambe allargate e le braccia aperte come ali per mantenersi in equilibrio.

Bourne balzò in avanti per acciuffarlo, senza perdere d’occhio gli alberi che circondavano il lago, abbastanza fitti da nascondere un esercito. Il vento gli gettava frammenti di ghiaccio sul volto, e appena sollevò una mano per proteggersi gli occhi udì una secca detonazione, come un’immagine fugace che sparisce prima ancora di essere registrata dall’occhio. Il tiratore sparò altre due volte, creando una profonda voragine nella superficie del lago, proprio davanti ai piedi di Alef.

Bourne si lanciò sull’uomo, coprendolo con il proprio corpo, ma al tempo stesso scivolando con lui verso la spaccatura prodotta dai proiettili del cecchino. Il ghiaccio si ruppe sotto i loro piedi in una ragnatela di crepe. Bourne cercò di arretrare, portando con sé Alef, ma altri proiettili colpirono il ghiaccio alle sue spalle, costringendolo a rimanere in quella posizione. Poi, con un lungo scricchiolio, il ghiaccio cedette facendoli precipitare nell’acqua, dove una corrente sorprendentemente forte li risucchiò nell’oscurità ghiacciata.