CAPITOLO 28
«Ora stanno attraversando il Checkpoint Charlie.» Riconobbi la voce che usciva dal minuscolo altoparlante, quantunque non potessi darle un nome.
Era uno degli esperti dell Unità Operativa di Berlino. Dal posto di controllo osservava il gruppo del KGB che passava all'Ovest per l'incontro. «Tre Volvo nere.» Per l'ascolto delle informazioni che ci pervenivano via radio avevo il mio ricetrasmettitore. Udii qualcuno da questa parte che domandava: «Quanti sono?». In piedi accanto a me, nella suite dei VIP dell'Hotel Steigenberger, Frank esclamò: «Tre Volvo! Gesù Cristo! E una fottuta invasione?». Frank si era impegnato, ma ora che le cose stavano realmente avvenendo era agitatissimo. Gli avevo detto di bere qualcosa, ma lui aveva rifiutato. «Tutto d'un colpo è diventata verde» disse Frank, continuando a guardare dalla finestra la lontana strada sotto di noi. «Berlino, intendo. Gli inverni sembrano sempre interminabili. Poi, all'improvviso, viene fuori il sole e ti accorgi che ci sono castagni, magnolie, fiori ovunque. Le nuvole grigie, la neve e il ghiaccio se ne sono andati, ed è verde dappertutto.» Disse solo questo, ma fu sufficiente. Mi resi conto in quel momento che Frank amava Berlino quanto l'amavo io. E tutti quei discorsi che voleva andarsene di qui, mettersi in pensione in Inghilterra e non pensarci più erano solo sciocchezze. Gli piaceva stare qui. Immagino che ciò che lo aveva messo di fronte alla verità fosse il pensionamento imminente; imballare i suoi dischi di Ellington, separare le sue proprietà personali dai mobili e dagli oggetti appartenenti alla residenza, lo aveva reso infelice.
«Tre autisti più nove passeggeri» rispose la voce. «Chi è?» domandai a Frank. «Mi pare di riconoscere la voce.»
«Il vecchio Percy Danvers» mi rispose. Era uno che lavorava qui sin dai tempi di mio padre. Sua madre era una tedesca della Slesia, il padre era inglese: lui era sergente della Guardia Irlandese. «Ancora in servizio?»
«Va in pensione il prossimo anno, appena pochi mesi dopo di me. Ma lui resta qui in città» rispose Frank un po' malinconico. «Non so come faranno in ufficio senza Percy.»
«Chi prende Berlino quando tu te ne vai?» gli feci, bevendo lentamente il bicchiere di whisky di cui avevo bisogno per affrontarli. Fiona sarebbe davvero venuta? «Si era parlato di Bret.»
«Ora non se ne parlerà più.»
«Non m'importa chi verrà qui. Pur di potermene andare.» Lo guardai. Ora entrambi sapevamo che non era vero. Frank sorrise. Poi Bret Rensselaer tornò dal telefono e io lo misi al corrente: «Sono in nove; hanno appena passato il Checkpoint Charlie. Saranno qui da un momento all'altro».
Alle spalle di Bret c'era un ragazzo tedesco - Peter - che gli era stato assegnato come guardia del corpo. Era un ragazzo simpatico, ma aveva preso l'incarico troppo seriamente, e non lo perdeva di vista nemmeno un secondo. Bret annuì e si avvicinò un momento alla finestra, poi si sprofondò in una delle morbide poltrone di pelle grigia. La suite dei VIP dell'Hotel Steigenberger occupa l'intera lunghezza dell'edificio, ma la sua entrata non è in vista, e molti clienti fissi dell'albergo non sanno nemmeno che esiste. Per questo motivo viene usata per incontri ad alto livello sia di affari sia politici, e da magnati, uomini politici e divi del cinema che non vogliono pubblicità. C'è una sala da pranzo a un'estremità e un elegante ufficio dall'altra. Nel mezzo c'è una saletta col televisore, un soggiorno, camere da letto, e persino un piccolo locale dove i camerieri possono sturare lo champagne e preparare i canapè. Champagne e canapè erano pronti per il gruppo del KGB, ma ben prima di questi nella lista delle priorità venivano le serrature extra, i congegni di sicurezza e le porte che isolavano completamente questa parte dell'ultimo piano, e l'ascensore privato della suite che avrebbe consentito ai delegati del KGB di arrivare e andarsene senza mescolarsi con gli altri ospiti dell'albergo. «Qual è il loro punto debole?» domandò Bret, parlando dietro di noi, quasi fra sé. Ormai Bret aveva recuperato parte della sua sicurezza. Aveva il talento tutto americano di saper fare un salto indietro; tutto ciò di cui aveva bisogno era una doccia calda, biancheria pulita e le pagine sportive dell'Herald Tribune. Io non risposi, ma Frank disse: «Fiona».
«Fiona?» Avevo colto una punta di risentimento nella voce di Bret? Una sfumatura di possessività dovuta a un certo attaccamento che Bret poteva ancora provare per lei? «Fiona è il loro punto debole? Cosa intendi dire, Frank?» Quello si voltò e andò a sedersi sulla poltrona di fronte a Bret. Sin dal momento in cui lo avevo portato a casa di Frank a Grunewald, fra i due uomini si era creata un'atmosfera distante, quasi gelida. Non avrei saputo dire fino a qual punto fosse ostilità latente e fino a quale imbarazzo, un sintomo del dispiacere di Frank per l'umiliazione di cui Bret stava soffrendo. Frank si spiegò: «É l'ultima arrivata nella loro organizzazione. E probabile che alcuni la considerino ancora con sospetto; senza dubbio, tutti provano una certa ostilità nei suoi confronti».
«Questa tua opinione si basa su qualche rapporto che hai ricevuto?» fece Bret. «é una straniera» gli rispose.
«Assegnandole un incarico, hanno diminuito le prospettive di promozione degli altri. Confronta la sua posizione con la nostra. Noi ci conosciamo tutti da anni. Sappiamo cosa possiamo aspettarci l'uno dall'altro, sia in termini di aiuto che di intralcio. Lei è isolata. Non ha vecchi alleati. Non ha esperienza di quali azioni od opinioni i suoi colleghi possono attendersi da lei. É costantemente sotto il microscopio; tutti quelli che le stanno intorno cercheranno di trovare da ridire su ciò che fa. Ogni sua parola verrà soppesata, sillaba per sillaba, da gente che non è solidale con lei.»
«É una dipendente di Mosca» considerò Bret. C'era di nuovo un'indefinibile nota di qualcosa che avrebbe potuto essere affetto o persino orgoglio. Bret mi guardò, ma io guardai il mio bicchiere. «Una ragione in più perché i dipendenti del suo ufficio di Berlino ce l'abbiamo con lei» fece Frank. «E allora cosa proponi?» gli domandò Bret. «Dobbiamo offrirle la possibilità di negoziare separatamente dal resto dei suoi, di parlare senza che l'ascoltino.»
«Non sarà facile, Frank» dissi. «Tu sai bene perché mandano gruppi così numerosi. Non vogliono che nessuno resti solo con noi.»
«Dobbiamo trovare un modo,» insistette. «Bernard deve portare il discorso sul piano domestico. Deve esserci qualcosa di cui potrebbe parlarle.»
«Parlale dei bambini» mi suggerì Bret. Avrei potuto tranquillamente strozzarlo, invece sorrisi. «Può darsi che lei ci abbia pensato da sé» disse Frank. Anche lui conosceva bene Fiona. «Forse avrà architettato lei stessa qualcosa per avere qualche minuto libero con noi.»
«E noi?» fece Bret. «Qual è il nostro punto debole?» Peter, la sua guardia del corpo, non lo perdeva di vista e si sforzava di seguire la conversazione. «Facile» gli rispose Frank. «Il nostro punto debole è Werner Volkman.» La sua antipatia per Werner era dovuta alla relazione che aveva avuto con Zena, sua moglie. Il senso di colpa porta con sé il risentimento; Frank detestava Werner perché lo aveva fatto becco. «Il nome di Werner non è stato nemmeno menzionato» osservò Bret. «Almeno, questo è quanto Bernard ci dice.»
«Sono certo che Bernard ci ha detto la verità» fece Frank. «Ma loro hanno in mano Werner, che è il suo amico più caro. Sanno cosa vogliamo in cambio.»
«Cosa noi fingiamo di volere in cambio» puntualizzai. «Il reale vantaggio è far sapere alla Centrale di Londra che Stinnes è un uomo di Mosca che ha organizzato una montatura contro Bret e che farà passare un guaio anche ad altri. E noi dobbiamo farlo senza che Mosca si renda conto di qual è il nostro vero scopo: Chiedere il rilascio di Werner è una cortina fumogena comodissima.» Frank sorrise a quello che considerava un tentativo di dare una spiegazione razionale al mio comportamento. Pensava che Werner fosse il vero motivo per il quale mi stavo dando tanto da fare. Ma Frank si sbagliava, e io non avrei permesso a nessuno dei due di scoprirlo. Il mio vero motivo erano i miei figli. «Bernard!» All'improvviso entrò mia moglie. «Che suite stupenda!
L'hai scelta tu?» Un sorriso freddo, nel caso che qualcuno la ritenesse sincera. Rimase lì, in piedi, come in attesa del solito bacio, ma io esitai e poi le porsi la mano. Lei la strinse con un sorriso beffardo.
«Ciao, Fi» dissi. Aveva un abito di lana grigia, semplice ma costoso.
Non viveva come una proletaria, ma piuttosto come quelli che spiegano ai proletari che cosa è consentito loro di fare. «Ciao, Frank; ciao, Bret» si rivolse Fiona ai due sorridendo e stringendo loro la mano. Era lei la responsabile del gruppo, e voleva che fosse chiaro. Questa era la sua prima visita ufficiale all'Ovest. Ripensandoci in un secondo tempo mi resi conto che, nonostante tutte le nostre assicurazioni, stava domandandosi se non l'avremmo arrestata. Ma andò avanti con la stessa vivace sicurezza con la quale affrontava ogni cosa. Aveva cambiato pettinatura. Aveva lasciato crescere i capelli e li portava raccolti sulla nuca in una specie di crocchia. Era il tipo di pettinatura che Hollywood avrebbe fatto portare all'alto funzionario comunista in gonnella, in quel genere di film nel quale si toglie gli occhiali, scioglie i capelli e, negli ultimi metri di pellicola, si trasforma in capitalista. Ninotchka. Se si poteva far conto sulle apparenze, era una parte che sembrava adatta a lei. Dopo che tutti si furono salutati stringendosi la mano, un cameriere - vale a dire uno dei nostri, armato ma vestito da cameriere - servì da bere. Frank offrì champagne. Avrei scommesso che non lo avrebbero accettato. Frank aveva messo in frigo del vino bianco russo, prevedendo che magari gli avrebbero chiesto qualcosa del genere, tanto per fare i difficili. Ma Fiona disse che lo champagne sarebbe andato a meraviglia, e tutti presero champagne. Tranne me: io presi un altro scotch. Non erano entrati tutti e nove. Due uomini del KGB, armati, erano rimasti in corridoio, un altro aveva avuto l'incarico di aiutare gli autisti a curare che nessuno manomettesse le auto, e qualcun altro sorvegliava l'uso dell'ascensore privato.
I negoziatori effettivi erano tre, più due impiegati. L'unico che conoscevo, oltre a Fiona, era Pavel Moskvin, la cui strada continuava a incrociarsi con la mia. Si tolse il cappotto nero lungo fino alle caviglie e lo gettò sul divano. Mi guardò fisso. Io sorrisi e lui distolse lo sguardo. Nel gruppo c'era un uomo molto più giovane, un biondo di circa venticinque anni, che indossava quel genere di abito portato dagli uomini del KGB che non potevano uscire da Mosca. Doveva aver trascorso un sacco di tempo al registratore, poiché il suo tedesco e il suo inglese erano perfetti e privi di accento, e fece persino qualche battuta. Ma doveva essere veramente nelle grazie di Fiona, e non le staccava gli occhi di dosso, casomai volesse qualcosa. Accanto a lui c'era il terzo negoziatore, un uomo dai capelli bianchi che non fece altro che aggrottare la fronte. «Spero tu sia d'accordo che il tempo è il fattore essenziale» attaccò Bret. Sarebbe stato lui a dirigere l'incontro; su questo Frank si era dichiarato d'accordo fin dal principio. Bret era quello che aveva più da perdere. Se l'incontro si fosse rivelato un fiasco, Bret non avrebbe potuto prendersela che con se stesso. E senza dubbio Frank lo avrebbe lasciato ai lupi nel disperato tentativo di salvarsi. E, mi domandai, cosa avrebbe detto Frank a mio riguardo?
«Sì». disse Fiona. «Possiamo prendere nota?» Bret continuò: «Di conseguenza avevamo pensato di spezzare l'incontro in discussioni a due. L'argomento principale sarà il vostro uomo Stinnes. Al contempo potremo parlare di procedure, sperando di giungere a un accordo. Tu sei il funzionario di grado più elevato?»
«Sì» rispose Fiona bevendo un po' di champagne. Ovviamente, sapeva cosa stava per arrivare, ma si mantenne seria. «Il nostro negoziatore di grado più elevato è il signor Samson» annunciò Bret. Vi fu un lungo silenzio. A Pavel Moskvin non piaceva proprio per nulla. Non aveva toccato lo champagne che, posato sulla tavola da pranzo, stava perdendo tutta l'effervescenza. Mostrò la sua ostilità incrociando le braccia e guardandoci con aria torva. «Che ne pensi, colonnello Moskvin?» domandò Fiona. Colonnello Moskvin, era così... attento a te, maggiore Stinnes, pensai. «Meglio che stiamo tutti assieme» rispose Moskvin. «Niente trucchi.»
«Benissimo» disse Bret, allontanandosi per andare a sedersi alla tavola da pranzo rotonda. Il cameriere riempì di nuovo i bicchieri. Il giovane biondo mise la sua sedia dietro a Fiona in modo da potersi sedere col taccuino sulle ginocchia. «Cos'è che volete?» fece Moskvin, come volendo sostituirsi a Fiona, che si appoggiò allo schienale, senza parlare. Con le braccia incrociate, la giacca gli tirava sulla schiena rivelando la pistola accuratamente sistemata sotto l'ascella. «Noi abbiamo il vostro Stinnes», disse Bret. «E stato un buon tentativo ma è fallito. Fino ad ora abbiamo tenuto a bada la stampa, ma c'è un limite di tempo oltre il quale non possiamo andare.» Il giovane biondo tradusse per Moskvin.
Moskvin annuì deciso. «É per questo che lo avete portato a Berlino?» domandò Fiona. «In parte. Ma anche i tedeschi hanno i quotidiani. Una volta che la storia venga risaputa, non avremmo altra alternativa che consegnarlo alla PA e allora sarà fuori della nostra portata.»
«La PA?» fece Moskvin. «Che cos'è?» Evidentemente capiva l'inglese a sufficienza per seguire gran parte della conversazione. «La Pubblica Accusa» specificò Bret. «Promuove le azioni penali per conto dello Stato. E un altro ministero, sul quale non abbiamo alcun controllo.»
«E in cambio?» domandò Fiona. «Voi avete arrestato Werner Volkmann» dissi. «Ah, sì?» fece Fiona. Molto russo. «Non sono venuto qui per perdere tempo,» dissi. La mia osservazione parve adirarla. «No» fece con voce sommessa, vibrante di odio e di risentimento. «Tu sei venuto qui per discutere il destino di Erich Stinnes, un buon compagno leale spudoratamente rapito dai vostri terroristi, nonostante la sua condizione di diplomatico. E che, secondo le nostre fonti, è stato sistematicamente affamato e torturato nel tentativo di indurlo a far sì che tradisse il suo paese.» Fiona non aveva tardato a impadronirsi delle espressioni predilette del Partito. Mica male come discorso e fui tentato di risponderle in tono sarcastico, ma non lo feci. Guardai Frank. Ora entrambi sapevamo che io avevo ragione, e potevo leggere il sollievo sul suo viso. Se la versione ufficiale del KGB era che Erich Stinnes era stato rapito, affamato e torturato, significava che Stinnes sarebbe stato reintegrato a pieno diritto nel KGB. A Londra, anche le teste più dure avrebbero accettato il fatto che Stinnes ci era stato mandato di proposito per crearci dei problemi. «Non trasformiamo questo incontro in un dibattito politico» dissi. «Werner Volkmann contro il maggiore Stinnes; un baratto conveniente per entrambe le parti.»
«Dov'è il compagno Stinnes?» domandò Fiona. «Qui a Berlino. Dov'è Werner?»
«Checkpoint Charlie» rispose lei. Era strano come dopo tanti anni i comunisti continuassero a usare il nome datogli dall'esercito degli Stati Uniti. «In buone condizioni?» Volete mandare qualcuno a vederlo?» domandò. «Abbiamo qualcuno al Checkpoint Charlie. Siamo d'accordo che dia un'occhiata mentre noi andiamo avanti con le trattative?» chiesi.
Lei guardò Moskvin, che annuì quasi impercettibilmente. «Molto bene. E il compagno Stinnes?» domandò Fiona. Io guardai Bret. Dello scambio, era lui che doveva preoccuparsi. «Lo abbiamo qui, nell'albergo» disse. «Ma solo uno di voi collaboratori può vederlo, uno solo. Non posso permettere che ci andiate tutti.» Buon vecchio Bret. Non mi sarei aspettato che ci arrivasse, ma aveva centrato il colpo in pieno. «Andrò io» disse mia moglie. Moskvin non era contento, ma non poteva farci nulla. Se avesse sollevato obiezioni, Fiona avrebbe mandato lui a vedere Stinnes e avrebbe avuto ugualmente la possibilità di parlarmi in privato.
Erich Stinnes era in una suite lungo il corridoio. Gli uomini di Frank lo avevano virtualmente rapito da Berwick House sventolando autorizzazioni varie e un permesso firmato da Bret nella sua qualità di presidente del comitato, posizione che, tecnicamente parlando, conservava tuttora. Ma io la accompagnai in una suite vuota, contigua a quella nella quale Stinnes veniva custodito. «Cos'è questa storia?» chiese Fiona ispezionando le stanze vuote, e addirittura rovistando fra le rose in cerca di un microfono. Fiona sapeva essere quanto mai rude quando si trattava di apparecchiature elettroniche di sorveglianza.
«Cos'è?» Pareva ansiosa. «Rilassati» la invitai. «Non ho intenzione di far valere i miei diritti coniugali.»
«Sono venuta a vedere Stinnes» disse lei «Sei venuta perché volevi avere la possibilità di parlarmi in privato.»
«Ciononostante, voglio vederlo.»
«É in fondo al corridoio, e ci aspetta».
«Sta bene?»
«Che te ne importa?»
«Erich Stinnes è un'ottima persona, Bernard. Farò tutto ciò che posso per evitare che muoia in prigione.» Che Stinnes fingesse di essere malato faceva parte del loro piano. Ora era evidente. «Non preoccuparti.
Sappiamo entrambi che Erich Stinnes è sano come un pesce. Se ne tornerà a casa col petto pieno di medaglie.»
«É un brav'uomo» insistette, volendo convincermi che per lei fosse importante. Non aveva negato che Stinnes stava bene. La sua malattia faceva parte della messinscena: un tocco aggiunto da Fiona, senza dubbio, per rendergli la vita un po' più facile. «Non abbiamo tempo da perdere parlando di Erich Stinnes» le dissi. «No, tu sei venuto qui per parlare del tuo prezioso Werner». ribatté lei. Persino adesso che mi aveva lasciato c'era ancora una sfumatura di risentimento nella sua voce. Chissà se tutte le mogli temono le amicizie precedenti il matrimonio e ne restano offese. «Di nuovo sbagliato. É dei bambini che dobbiamo parlare.»
«Non c'è nulla di cui parlare. Li voglio per una vacanza. Non è chiedere molto. Tessa ti ha parlato?»
«Lo ha fatto. Ma io non voglio che tu ti prenda i bambini.»
«Sono miei come tuoi. Pensi che io non sia un essere umano? Pensi che io non li ami quanto li ami tu?»
«Come faccio a credere che tu li ami come li amo io quando ci hai lasciati?»
«A volte vi sono vincoli di fedeltà e aspirazioni che vanno oltre la famiglia.»
«É questa una delle cose che hai intenzione di spiegare al piccolo Billy quando lo porterai a visitare le centrali elettriche di Mosca e gli mostrerai la metropolitana?»
«Sono i miei figli.»
«Non ti rendi conto di quanto può essere pericoloso portarli con te? Non ti rendi conto che diventeranno ostaggi a garanzia del tuo buon comportamento? Non è evidente che una volta che saranno là non vi sarà mai più consentito di tornare all'Ovest tutti insieme? Tratterranno sempre i bambini per essere sicuri che tu faccia il tuo dovere di buona comunista e torni all'Est come ogni buon cittadino sovietico deve fare.»
«Che vita fanno adesso? Tu lavori sempre. La tata trascorre l'esistenza davanti alla TV. Sono continuamente sballottati fra tua madre, mio padre e ritorno. Presto ti metterai con un'altra donna e così avranno una matrigna. Che vita è? Con me potrebbero avere una casa vera e propria e una vita familiare stabile.»
«Con un patrigno?»
«Non c'è nessun altro uomo, Bernard» sussurrò. «E non ci sarà mai. É per questo che ho tanto bisogno dei bambini. Tu puoi averne altri, a dozzine, se li vuoi. Per un uomo è facile - può avere figli fino a ottant'anni. Ma io, fra poco, avrò superato l'età in cui è opportuno metterne al mondo. Non puoi negarmi i bambini.» Come tutte le donne era tiranneggiata dalla propria biologia. «Non portarli in un paese che non potranno più lasciare. Fiona! Guardami, Fiona. Lo dico per il tuo bene, per il bene dei bambini e anche per il mio.»
«Devo vederli. Devo.» Innervosita, andò alla finestra, guardò fuori poi tornò indietro verso di me. «Vedili in Olanda o in Svezia o in qualche altro paese neutrale. Ti imploro di non portarli all'Est.»
«É un altro dei tuoi trucchetti» disse in tono aspro. «Lo sai che ho ragione, Fi.» Fiona si torse le mani e prese a rigirarsi gli anelli intorno alle dita. La fede era ancora al suo posto, e così pure il diamante che le avevo comprato vendendo la mia vecchia Ferrari. «Come stanno?» Era una voce diversa. «Billy ha imparato un nuovo gioco di prestigio e Sally sta imparando a scrivere con la destra.»
«Quanto sono cari. Ho ricevuto le loro lettere e i disegni. Grazie.»
«É stata un'idea di Tessa.»
«Tessa è diventata adulta di colpo.»
«Sì, è così.»
«Continua ad avere quelle sue stupide relazioni?»
«Sì, ma George la sta richiamando all'ordine. Penso che stia cominciando a domandarsi se ne vale la pena.»
«Qual è il trucco?»
«Quale trucco?»
«Quello di Billy.»
«Oh! Taglia a metà un pezzo di corda e poi lo fa tornare di nuovo intero.»
«É convincente?»
«La tata continua a non capirci ancora nulla.»
«É un talento di famiglia, immagino.»
«Immagino di sì» dissi, pur non sapendo con certezza a quale genere di inganni si riferisse, o se intendesse i miei inganni oppure i suoi. «Mi arrestano se torno in Inghilterra col mio vecchio passaporto?» mi domandò. «Mi informerò» promisi. «Ma perché non vedere i bambini in Olanda?»
«Meglio che tu non ti renda complice, Bernard.»
«Stiamo cospirando già in questo momento. Quale dei nostri padroni lo tollererebbe?»
«Né l'uno né l'altro» rispose lei. Era una concessione, una minuscola concessione, ma la prima che mi faceva. «Mi manchi, Fi.»
«Oh, Bernard» sussurrò, con gli occhi pieni di lacrime. Feci per prenderla fra le braccia ma lei si tirò indietro. «No» disse. «No.»
«Farò ciò che posso» dissi. Non so esattamente che cosa intendessi, e lei non me lo domandò; non era altro che un suono astratto che avevo emesso con l'intenzione di confortarla, e lei lo accettò come tale. «Non lasceranno libero Werner» mi annunciò guardandosi intorno, preoccupata che la conversazione venisse registrata. «Pensavo che fossimo d'accordo.»
«La decisione spetta a Pavel Moskvin. É lui il responsabile di questi negoziati, non io.»
«Werner non ha fatto nulla che potesse avere importanza.»
«So che cosa stava facendo. La Miller era sotto sorveglianza fin dalla settimana scorsa. Aspettavamo che Werner la contattasse.»
«L'operazione Stinnes è fallita completamente. É finita, screditata, rovinata. ciò che Werner abbia detto alla Miller non ha importanza.»
«Calma. Lo so. Ma ho i miei ordini.»
«Niente Werner, niente Stinnes.» Lei non disse nulla, ma il suo viso era bianco e teso, e respirava come sempre quando la tensione diventava insopportabile. Continuai: «E stato Moskvin a uccidere il giovane MacKenzie nel «santuario di Bosham». Scosse le spalle. «Per quale ragione ha dovuto farlo?» domandai. «MacKenzie non avrebbe ammazzato una mosca senza prima pensarci su dieci volte.» Lei mi guardò e fece un profondo sospiro. «Dovrai essere tu a fargliela pagare, Bernard.»
«Cosa?» Con un tono petulante e un balbettìo rapido e confuso che non le erano tipici, disse: «Dovrai essere tu a fargliela pagare... a Moskvin».
Per un attimo restai senza parole. Era mia moglie che aveva parlato?
«Come? Dove?»
«E l'unico modo. Ho portato Werner al parcheggio degli autobus al Checkpoint Charlie. Ho detto a Moskvin che tu avresti voluto vederlo agitare le braccia per essere sicuro che sia in buone condizioni fisiche. Questo, prima che tu ti mettessi d'accordo con Moskvin di mandare là il tuo uomo.»
«Come lo spiegherai?» domandai. «Toglimi di mezzo quell'uomo e non dovrò spiegare nulla.» Non ero ancora sicuro. «Ucciderlo, vuoi dire?» Lei era agitata e impaurita. Quando mi rispose, la sua voce si era fatta stridula. «Capita di restare uccisi. Non sarà la prima volta che qualcuno resta ucciso al Muro, o no?»
«No, ma io non posso mettermi a sparare contro una delegazione come la vostra. Quelli, magari, tirano fuori i carri armati. Non voglio essere l'uomo che scatena la terza Guerra Mondiale. Non sto scherzando, Fi.»
«Devi farlo personalmente, Bernard. Non devi dare ordine a nessun altro.
Non voglio che nessun altro sappia che ne abbiamo discusso.»
«Okay». mi udii rispondere. «Promesso?» Esitai. «É Werner, il tuo amico» disse lei. «Io sto facendo tutto ciò che posso, più di quel che dovrei.» Perché le andava bene, pensai. Non lo faceva per Werner, e nemmeno per me. E, comunque, cosa stava facendo lei? Io ero quello che si stava mettendo il cappio al collo. E ora voleva togliermi la possibilità di spiegare le cose ai miei superiori. «Prometto» feci disperato. «Metti Moskvin e Stinnes sull'ultima auto, e lascia che ci salga anch'io. Ma i bambini stanno con me. E una condizione, Fi.»
«Fa' attenzione, Bernard. E un bruto.» La guardai. Era molto bella, più bella di quanto l'avessi mai ricordata. I suoi occhi erano vellutati e il debole aroma del suo profumo mi suscitò un'ondata di ricordi. «Resta qui, Fi» le sussurrai. «Resta qui in Occidente. Potremmo sistemare tutto.» Lei scosse la testa. «Addio per l'ultima volta. Non preoccuparti, manderò indietro Werner. E, per ora, non ti toglierò i bambini.»
«Resta.» Si sporse in avanti e mi baciò con compostezza, in modo da non far spandere il rossetto; immagino che tutti la tenessero d'occhio in cerca di segni di questo genere. «Tu non capisci. Ma un giorno capirai.»
«Non credo.»
«Andiamo a vedere il compagno Stinnes». concluse Fiona. La sua voce era di nuovo tornata dura e risoluta.