CAPITOLO 1

 

 

«Animo, Werner, presto sarà Natale!» dissi. Scossi la bottiglia, dividendo le ultime gocce di whisky rimaste fra i due bicchierini di plastica bianca in bilico sull'autoradio. Spinsi la bottiglia vuota sotto il sedile. L'odore di whisky era forte. Dovevo averne versato sul riscaldamento o sul cuoio, caldo ed elegante, intorno al vano della radio. Pensavo che Werner lo avrebbe rifiutato. Non era un bevitore e ormai ne aveva avuto già abbastanza, ma a Berlino le notti d'inverno sono gelide ed egli ingollò il suo whisky in un'unica sorsata e tossì, poi schiacciò il bicchierino fra le grosse mani muscolose e prese a separare i pezzi rotti da quelli piegati in modo da riuscire a farli entrare tutti quanti nel portacenere. Zena, la moglie di Werner, era ossessionata dall'ordine e l'auto era sua.

«Sta ancora arrivando gente» osservò Werner mentre una Mercedes limousine nera si accostava al marciapiede. La luce dei fari della Mercedes si rifletté abbagliante sui cristalli e sulla lucida carrozzeria delle auto posteggiate e brillò sulla superficie ghiacciata della strada. L'autista si affrettò ad aprire la portiera e ne scesero otto o nove persone. Gli uomini indossavano cappotti scuri di cachemire sull'abito da sera, le donne un assortimento di pellicce varie. Qui a Berlino, nel quartiere di Wannsee, dove pellicce e cappotti di cachemire sono gli indumenti di ogni giorno, li chiamano fautewlee e ce n'è una quantità.

«Cosa aspetti? Non ci resta che entrare e arrestarlo subito.» Le parole gli uscirono un po' confuse ed egli mi fece un gran sorriso ammettendo le sue condizioni. Quantunque conoscessi Werner fin dai tempi di scuola, ben raramente lo avevo visto ubriaco, o anche soltanto un po' brillo com'era ora. Domani avrebbe avuto mal di testa e avrebbe dato la colpa a me, e altrettanto avrebbe fatto sua moglie Zena. Per questa e per altre ragioni domani, di buon'ora, sarebbe stato il momento giusto per lasciare Berlino. La casa di Wannsee era grande; un brutto guazzabuglio di ampliamenti, balconi, terrazze per prendere il sole e ambienti ricavati da una sopraelevazione quasi nascondevano l'edificio originale, che era stato costruito su un crinale in modo che dal terrazzo posteriore si godesse la vista della foresta e, oltre, delle acque scure del lago. Ora il terrazzo era vuoto, i mobili da giardino accatastati e i tendoni da sole arrotolati, ma la casa risplendeva di luci e nel giardino anteriore gli alberi spogli erano stati inghirlandati di centinaia di minuscole lampadine bianche, una miriade di fiori di elettricità.

«L'uomo del BFV sa il fatto suo>. dissi. «Quando il contatto sarà stato stabilito verrà e ce lo dirà.»

«Il contatto non si farà vedere qui. Secondo te, Mosca non sa che a Londra abbiamo un disertore che sta vuotando il sacco? A quest'ora la loro rete è già all'erta.»

«Non necessariamente.» Era la centesima volta che lo contraddicevo su questo punto e non dubitavo che presto avremmo avuto un altro scambio di idee al riguardo. Werner aveva quarant'anni, era più vecchio di me di poche settimane soltanto, eppure si preoccupava come una vecchietta e metteva in agitazione anche me. «Anche il fatto stesso che non venga può offrirci una possibilità di identificarlo» continuai. «Questa sera abbiamo due agenti in borghese che controllano tutti quelli che arrivano e l'ufficio ha una copia della lista degli invitati.»

«Questo nel caso che il contatto sia un ospite» osservò il mio compagno.

«Anche il personale viene controllato.»

«Il contatto sarà uno sconosciuto» fece. «Non sarà certo così babbeo da offrircelo su un piatto d'argento.»

«Lo so.»

«Andiamo di nuovo dentro?» propose Werner. «In questo periodo mi vengono i crampi quando resto seduto troppo a lungo in una macchina piccola.» Aprii la portiera e uscii. Werner chiuse la sua senza far rumore; è un'abitudine che viene con anni e anni di lavoro di sorveglianza. Questo esclusivo quartiere periferico era composto in prevalenza da ville fra i boschi e il lago, ed era abbastanza silenzioso da consentirmi di udire il rumore dei pesanti autocarri che si fermavano al posto di controllo di Drewitz per poi attaccare il lungo tratto di autostrada che, attraversando la Repubblica Democratica, conduceva alla Germania Occidentale. «Stanotte nevicherà» previdi. Werner non diede segno di avermi sentito. «Guarda tutto questo lusso» disse con un gesto che quasi gli fece perdere l'equilibrio sul ghiaccio formatosi nel rigagnolo. Fino a dove riuscivamo a vedere, l'intera strada pareva un parcheggio o, meglio ancora, un autosalone, poiché le auto erano, quasi senza eccezione, lustre, nuove e costose. Mercedes V - 8 cinque litri con l'antenna del radiotelefono, Porsche turbo, grosse Ferrari e tre o quattro Rolls - Royce. Le targhe mostravano da quanto lontano potessero arrivare gli ospiti di un ricevimento così suntuoso. Uomini d'affari di Amburgo, banchieri di Francoforte, gente di cinema di Monaco e ben pagati ufficiali di Bonn. Alcune auto erano state fatte salire sul marciapiede per far posto ad altre parcheggiate in doppia fila.

Superammo un paio di poliziotti che si aggiravano fra le lunghe file di auto controllando le targhe e ammirando la vernice perfetta delle carrozzerie. Nel vialetto d'accesso c'erano due Parkwachter che battevano i piedi a terra per difendersi dal freddo, pronti a parcheggiare l'auto degli ospiti così sfortunati da non avere un autista. Werner salì il pendio ghiacciato del vialetto con le braccia allargate per mantenersi in equilibrio, assumendo l'andatura dondolante di un pinguino ben nutrito. Nonostante i doppi vetri alle finestre, sbarrate contro il gelo della notte berlinese, dalla casa proveniva il suono debole di un vorticoso e sdolcinato valzer di Strauss suonato da un'orchestra di venti elementi. Era come affogare in un denso frappé alla fragola. Un domestico ci aprì la porta e un altro ci prese i cappotti. Uno dei nostri si infilò subito dentro e si piazzò accanto al maggiordomo e, quando ci affacciammo nel vestibolo addobbato dai fiori, non diede alcun segno di riconoscerci. Werner, imbarazzato, si lisciò la giacca da sera di seta e, cogliendo una fuggevole immagine di sé nello specchio con la cornice dorata che copriva la parete, si aggiustò la cravatta a farfalla. Il suo completo di seta rifinito a mano era stato confezionato su misura da uno dei più esclusivi sarti di Berlino, ma sulla sua figura tarchiata qualsiasi abito pareva preso a noleggio.

In piedi, in fondo a uno scalone dall'architettura elaborata, c'erano due uomini anziani con colletto duro e abito da sera di alta sartoria che non faceva alcuna concessione alle tendenze stilistiche moderne. I due fumavano grossi sigari e si parlavano accostando la testa per superare il chiasso dell'orchestra che giungeva dalla sala da ballo oltre il vestibolo. Uno degli uomini ci fissò ma continuò a parlare come se per lui non fossimo visibili. Non avevamo l'aspetto giusto per una riunione di quel genere, ed egli guardò da un'altra parte, senza dubbio pensando che fossimo due gorilla ingaggiati per proteggere l'argenteria. Fino al 1945 la casa - o Villa, come vengono chiamate le grandi dimore del luogo - era appartenuta a un uomo che aveva iniziato la sua carriera come piccolo funzionario nell'organizzazione degli agricoltori filonazisti, e fu per puro caso che proprio al suo dipartimento venisse assegnato il compito di decidere quali agricoltori e lavoratori agricoli fossero così indispensabili all'economia da essere esentati dal prestare servizio nell'esercito. Ma da quel momento in poi - al pari di altri burocrati prima e dopo di lui - venne sommerso da una pioggia di doni e di possibilità e prese a vivere in grande stile e la casa ne era la testimonianza tangibile. Per alcuni anni dopo la guerra la casa venne utilizzata come alloggio temporaneo per i camionisti dell'esercito americano in transito. Solo di recente era tornata a essere un'abitazione di famiglia. Il rivestimento a pannelli di legno, che palesemente risaliva all'edificio originale ottocentesco, era stato accuratamente riparato e livellato, ma ora il legno di quercia era dipinto di grigio chiaro.

Un enorme quadro raffigurante un soldato a cavallo dominava la parete di fronte alla scala, e su tutti i lati della stanza c'era uno sfoggio di fiori freschi attentamente disposti. Ma, nonostante tutta la cura posta nelle innovazioni, ciò che attirava lo sguardo era il pavimento del grande atrio, un complesso motivo decorativo in marmo nero, bianco e rosso con un disco centrale di marmo più recente che aveva sostituito una grande svastica dorata. Werner spinse una porta segreta dissimulata nella pannellatura e io lo seguii lungo un tetro corridoio di disimpegno attraverso il quale i domestici potevano spostarsi senza essere visti. All'estremità del passaggio c'era una dispensa. Tovaglie di lino pulite erano disposte su uno scaffale, una dozzina di bottiglie vuote di champagne erano capovolte nel lavandino a sgocciolare e il bidone della spazzatura era pieno di resti di tramezzini, fogliette di prezzemolo e alcuni bicchieri rotti. Un cameriere in giacca bianca giunse con un grande vassoio d'argento pieno di bicchieri sporchi. Li vuotò, li posò sul montacarichi di servizio assieme alle bottiglie vuote, asciugò il vassoio con un panno preso da sotto il lavandino e se ne andò senza nemmeno lanciare un'occhiata né a Werner né a me. «É qui, vicino al bar» disse Werner, tenendo la porta aperta in modo che potessimo vedere da una parte all'altra dell'affollato salone da ballo. Gli invitati facevano ressa intorno ai tavoli dove due uomini in candida divisa da chef dispensavano una dozzina di differenti qualità di salsiccia e boccali di birra forte traboccanti di schiuma. L'uomo che avremmo dovuto fermare stava emergendo dalla calca con qualcosa da mangiare e da bere.

«Spero ardentemente che non stiamo facendo una fesseria» mormorai. Quell'uomo non era un semplice impiegatuccio. Era il segretario privato di un membro anziano del parlamento di Bonn. «Se si ostina a negare tutto, non sono certo che riusciremo a tener duro». aggiunsi. Osservai attentamente il sospettato, cercando di capire come l'avrebbe presa. Era un ometto piccolo coi capelli tagliati a spazzola e la barba a punta ben curata.

C'era qualcosa di squisitamente tedesco in quella combinazione. Riusciva a essere appariscente persino in mezzo alla vistosa eleganza, dei berlinesi d'alto ceto. La sua giacca aveva ampi risvolti di seta, e pure di seta erano profili, polsi e costure dei pantaloni. Portava i lembi del farfallino infilati sotto il colletto e un fazzoletto di seta nera nel taschino della giacca. «Sembra che abbia molto meno di trentadue anni, non ti pare?» domandò Werner. «Mai fidarsi troppo dei tabulati, specie quando elencano funzionari statali o anche membri del Bundestag.

Quando installarono il computer, ci misero dentro tutti i dati riguardanti questa gente facendoli copiare da dattilografe che per una manciata di monetine facevano ore e ore di straordinario.»

«Che ne pensi?» domandò Werner. «Ha un'aria che non mi piace.»

«É colpevole» osservò lui. Non aveva maggiori informazioni di me, ma stava cercando di rassicurarmi. «Ma le affermazioni non comprovate di un disertore come Stinnes non impressionerebbero gran che un pubblico tribunale, anche ammesso che Londra permetta a Stinnes di deporre. Se il capo di questo tizio lo sosterrà e tutti e due si mettessero a gridare allo scandalo, potrebbe anche scamparla.»

«Quando lo prendiamo, Bernie?»

«Forse il suo contatto verrà qui» risposi. Era una scusa per tirarla per le lunghe. «Dovrebbe essere proprio un principiante, Bernie. Una sola occhiata a questo posto - illuminato come un albero di Natale, poliziotti all'esterno, niente spazio per muoversi - e nessuno con un po' di esperienza si arrischierebbe a entrarci.»

«Forse non si aspettano problemi» dissi ottimisticamente. «Mosca sa che Stinnes è sparito e hanno avuto tutto il tempo di mettere sul chi va là la loro rete. E chiunque abbia esperienza sentirà puzzo di sorveglianza appena avrà parcheggiato.»

«Lui non lo ha sentito» ribattei accennando con la testa al nostro uomo coi capelli a spazzola che intanto beveva la sua birra a lunghe sorsate intrattenendo conversazione con un altro ospite. «Mosca non può permettersi di spedire una fonte come lui al centro di addestramento» disse Werner. «Ma proprio per questo possiamo essere sicurissimi che il suo contatto sarà qualcuno addestrato a Mosca: vale a dire circospetto.

Tanto vale arrestarlo adesso.»

«Noi non diciamo nulla e non arrestiamo nessuno» gli ripetei ancora. «É la sicurezza tedesca che si occupa di questo qui; verrà semplicemente trattenuto per essere interrogato. Noi stiamo a guardare come va.»

«Lascia che ci pensi io, Bernie.» Werner Volkmann era berlinese di nascita. Io, da bambino, avevo frequentato le scuole qui e il mio tedesco era puro quanto il suo ma, poiché sono inglese, Werner era ben deciso a non cedere sul concetto che il suo tedesco fosse, in virtù di chissà quale magia, più puro del mio. Immagino che io avrei provato la stessa sensazione riguardo a un qualsiasi tedesco che parlasse inglese con perfetto accento londinese, quindi non replicai. «Non voglio lasciargli intuire che c'è di mezzo un servizio non tedesco. Se capisce chi siamo, capirà anche che Stinnes è a Londra.»

«Lo sanno già, Bernie. Ormai devono per forza sapere dov'è.»

«Stinnes ha già abbastanza guai anche senza avere alle calcagna una squadra punitiva del KGB.» Werner osservava i ballerini e sorrideva tra sé per qualcosa di divertente che solo lui conosceva, aveva dipinta sul volto l'espressione che talvolta assume chi ha bevuto troppo. Il suo viso era ancora abbronzato per il periodo trascorso in Messico e aveva denti bianchi e perfetti. - Pareva quasi bello, nonostante le protuberanze che guastavano la linea dell'abito. «É come in un film di Hollywood» commentò. «Già» dissi io. «La spesa prevista è troppo alta per la televisione.»

Il salone da ballo era affollato di coppie eleganti, ciascuna delle quali indossava il genere di abito che sarebbe parso appropriato per un trattenimento danzante di fine secolo. E gli ospiti non erano i matusa incartapecoriti che mi sarei aspettato di vedere alla festa per il cinquantesimo compleanno del proprietario di una fabbrica di lavastoviglie. Qui c'era una quantità di giovani riccamente vestiti che volteggiavano alla musica di un'altra epoca in un'altra città. Kaiserstadt. Non era così che veniva chiamata Vienna al tempo in cui in Europa vi era un solo imperatore e una sola capitale per lui? Erano il trucco e le pettinature a conferire una stridente nota di modernità; e anche la pistola che formava un rigonfiamento sotto la bella giacca di seta di Werner. Penso che fosse quella a farla apparire tanto stretta sul petto. Il cameriere in giacca bianca tornò con un altro vassoio pieno di bicchieri. Alcuni non erano vuoti. Si sentì all'improvviso odore di alcool quando rovesciò ciliegine, olive e resti di bevande nell'acqua calda, già pronta nel lavello, prima di sistemare i bicchieri nel montacarichi di servizio. Poi si voltò verso Werner e disse rispettosamente: «Hanno arrestato il contatto, signore. All'auto, proprio come lei aveva previsto» e cominciò a pulire il vassoio vuoto con un panno. «Cos'è tutta questa faccenda, Werner?» mi informai. Il cameriere guardò prima me e poi Werner e, quando questi gli fece cenno di sì col capo, continuò: «Il contatto si è avvicinato all'auto del sospettato, che era parcheggiata... una donna di almeno quarant'anni, forse anche di più. Aveva una chiave che si adattava alla portiera. Ha aperto lo scomparto portaoggetti e ha tirato fuori una busta. L'abbiamo presa in custodia, ma la busta non è ancora stata aperta. Il capitano vuol sapere se dobbiamo portarla in ufficio o trattenerla qui, nel corridoio di servizio, perché lei possa parlarle». La musica cessò e i ballerini applaudirono. Da qualche punto all'estremità opposta della sala da ballo giunse la voce di un uomo che cantava una vecchia canzone tradizionale. L'uomo si fermò, imbarazzato, e si udirono delle risate.

«Ha dato un indirizzo di Berlino?»

«Kreuzberg. Un appartamento dalle parti del canale Landwehr.»

«Dica al suo capitano di portare la donna all'appartamento. Perquisitelo e tenetela lì. Richiamatemi qui per confermare che abbia dato l'indirizzo esatto e poi più tardi arriverò io per parlarle» dissi. «Non permettetele di telefonare a nessuno. Assicuratevi che la busta non venga aperta; sappiamo già cosa contiene. Ne avrò bisogno come prova, quindi non permettete a nessuno di manipolarla.»

«Sì, signore» rispose il cameriere e si incamminò verso la sala da ballo, mentre i ballerini se ne andavano. «Perché non mi hai avvisato che era uno dei nostri?» domandai a Werner. Lui ridacchiò. «Dovevi vedere la tua faccia.»

«Sei sbronzo, Werner» ribattei. «Non hai nemmeno riconosciuto un poliziotto in borghese. Che ti sta capitando, Bernie?»

«Avrei dovuto capirlo. Gli danno sempre il compito di portare via i piatti sporchi. Un poliziotto non conosce abbastanza bene cibi e vini da poterli servire a tavola.»

«Non pensavi che valesse la pena di tener d'occhio la sua auto.» Stava cominciando a irritarmi. «Se avessi i soldi che hai tu», dissi «non me ne andrei in giro con un nugolo di poliziotti e di uomini della sicurezza.»

«E che faresti?»

«Coi soldi? Se non avessi i bambini, mi troverei una pensioncina in Toscana, in qualche posto non troppo lontano dalla spiaggia.»

«Ammettilo: tu non pensavi che valesse la pena di tener d'occhio la sua auto, vero?»

«Sei un genio.»

«Non c'è bisogno di fare del sarcasmo» disse Werner. «Ora lo hai in pugno. Senza di me ti saresti fatto prendere a pesci in faccia.» Ruttò piano piano, tenendo una mano davanti alla bocca. «Sì, Werner.»

«Andiamo ad arrestare quel bastardo... Io avevo questa sensazione riguardo alla macchina... il modo in cui aveva chiuso le portiere e poi s'era guardato intorno come se potesse esserci qualcuno in attesa.» C'era sempre stata una componente didattica nel carattere di Werner.

Avrebbe dovuto fare il maestro di scuola, come voleva sua madre. «Sei stupido e sbronzo, Werner.»

«Andiamo ad arrestarlo?»

«Va' a fargli sentire per bene il tuo fiato.» Werner sorrise: aveva dimostrato quale brillante agente operativo avrebbe potuto essere.

Werner era molto, molto felice.

 

Ovviamente, il tizio scatenò un pandemonio. Voleva il suo avvocato e voleva parlare col suo capo e poi anche con alcuni suoi amici al governo. Conoscevo quel tipo d'uomo sin troppo bene; ci trattava come se noi fossimo stati colti a rubare segreti per conto dei russi. Quando la squadra che lo aveva arrestato se lo portò via, stava ancora protestando. Gli uomini non erano per nulla impressionati; avevano già assistito a spettacoli del genere. Erano esperti fatti venire dall'"ufficio politico" del BFV di Bonn. Lo condussero all'ufficio del BFV di Spandau, ma io decisi che per quella notte non sarebbero riusciti a ottenere da lui altro che proteste indignate. Forse domani si sarebbe calmato un po' e si sarebbe sufficientemente innervosito da dire qualcosa che valesse la pena di ascoltare, prima che venisse il momento di formulare un'accusa o rilasciarlo. Per fortuna non sarei stato io a dover prendere questa decisione. Nel frattempo volevo vedere se dalla donna si poteva tirar fuori qualcosa. Guidava Werner. Non parlò molto durante il tragitto fino a Kreuzberg. Io tenevo gli occhi fissi fuori del finestrino. Berlino è una specie di libro di storia della violenza del XX secolo, e a ogni angolo di strada si associava il ricordo di qualcosa che avevo udito, visto o letto. Seguimmo la strada che costeggiava il canale Landwehr, le cui acque chiazzate di grasso si addentrano fin nel cuore della città con un percorso quanto mai tortuoso, acque che custodiscono innumerevoli oscuri segreti.

Nel 1919, quando gli spartachisti tentarono di appropriarsi della città con l'insurrezione armata, due ufficiali della Guardia a cavallo prelevarono la già malmenata Rosa Luxenburg dal loro quartier generale all'Hotel Eden, vicino allo zoo, la uccisero con un colpo d'arma da fuoco e la gettarono nel canale. Gli ufficiali sostennero che era stata portata via dai rivoltosi infuriati, ma quattro mesi più tardi il suo cadavere gonfio venne a galla e si impigliò in una chiusa. Ora, a Berlino Est, si intitolano strade al suo nome. Ma non tutti gli spettri finiscono nel canale. Nel febbraio del 1920 un sergente di polizia tirò fuori dal corso d'acqua, all'altezza del ponte di Bendler, una giovane donna.

Trasportata all'ospedale Elisabeth in Lutzowstrasse, venne poi identificata come la granduchessa Anastasia, la figlia minore del defunto zar di tutte le Russie e unica sopravvissuta al massacro. «É qui» disse Werner fermando l'auto vicino al marciapiede. «Meno male che c'è un poliziotto alla porta, o al ritorno la troveremmo ripulita di tutto, anche della carrozzeria.» L'indirizzo dato dal contatto corrispondeva a un malandato casamento del secolo scorso in un quartiere virtualmente occupato da immigrati turchi. L'entrata in pietra grigia, una volta imponente e che ancora mostrava le tracce delle schegge di proiettile che l'avevano colpita durante la guerra, era deturpata da lucenti scritte con lo spray colorato. Nell'androne buio ristagnavano odori di cibo speziato, sporcizia e disinfettante. Nelle case vecchie, gli appartamenti non sono numerati, ma all'ultimo piano trovammo gli uomini del BFV. Alla porta c'erano due serrature di sicurezza, ma ben scarsi indizi che all'interno ci fosse qualcosa da proteggere.

Due uomini stavano ancora ispezionando l'ingresso. Battevano sui muri, sollevavano le assicelle del pavimento e infilavano cacciaviti nell'intonaco, in profondità, con quella sorta di imperscrutabile godimento che è concesso agli uomini benedetti dal potere di essere distruttivi per decreto governativo. Era il tipico rifugio per la notte procurato dal KGB ai suoi fedeli. Ultimi piani: gelidi, angusti e a buon mercato. Forse sceglievano rifugi così squallidi per ricordare agli interessati quale fosse la condizione dei poveri nell'economia capitalistica. O forse in zone come questa si facevano meno domande sugli andirivieni di ogni sorta di persone e a tutte le ore. Niente TV, niente radio, nulla di morbido su cui sedere. Una rete metallica con una vecchia coperta grigia, quattro sedie di legno, un piccolo tavolo col piano di plastica su cui era posato del pane nero grossolanamente affettato, un fornelletto elettrico, un bollitore tutto acciaccato, latte in scatola, caffè solubile e alcune bustine di zucchero il cui involucro dimostrava la loro provenienza dall'Hilton. C'erano tre libri in tedesco in edizione tascabile, pieni di orecchie - Dickens, Schiller - e una collezione di giornali di parole incrociate, quasi tutte completate. Su uno dei due letti singoli c'era una valigetta aperta il cui contenuto era sparpagliato. Era evidentemente il bagaglio della donna: un abito nero da poco prezzo, biancheria di nylon, scarpe di cuoio col tacco basso, una mela e un'arancia e un quotidiano inglese, il Socialist Worker. Un giovane ufficiale del BFV mi stava aspettando.

Ci salutammo ed egli mi informò che alla donna era stata fatta soltanto qualche domanda preliminare. All'inizio si era offerta di fare una dichiarazione, mi disse l'ufficiale, ma poi aveva cambiato idea. Lui aveva mandato un uomo a procurarsi una macchina da scrivere, così, se avesse cambiato idea di nuovo, avremmo potuto raccogliere la sua dichiarazione. Mi porse alcuni marchi occidentali, una patente di guida e un passaporto: il contenuto della sua borsetta. Patente e passaporto erano britannici. «Ho un registratore tascabile» gli comunicai senza abbassare la voce. «Dopo che le avrò parlato decideremo cosa dev'essere scritto e glielo faremo firmare. E voglio che lei sia presente quando la donna firmerà.» La donna era seduta nella minuscola cucina. Sulla tavola c'erano tazze sporche e forcine per capelli, sicuramente frutto della perquisizione della borsetta, che ora teneva in grembo. «Il capitano mi dice che lei vuol fare una dichiarazione.» le feci in inglese. «Lei è inglese?» mi domandò guardando prima me e poi Werner. Non si mostrò molto sorpresa nel vederci in abito da sera, con gemelli fantasia e scarpe di vernice. Doveva aver capito che eravamo stati di servizio all'interno della casa.

«Sì» ammisi. Con la mano feci segno a Werner di uscire dalla stanza.

«Lei è un responsabile?» mi chiese. Parlava esagerando l'accento delle classi alte, come fanno le commesse delle boutiques di Knightsbridge.

«Voglio sapere di che cosa mi si accusa. Vi avviso che conosco i miei diritti. Sono in arresto?» Dal tavolino presi il coltello per tagliare il pane e glielo agitai sotto il naso.

«Ai termini dell'articolo 43 della legislazione del Governo Militare Alleato, tuttora in forza in questa città, il possesso di questo coltello da pane è un reato passibile di pena capitale.»

«Lei dev'essere proprio matto. La guerra è finita quasi quarant'anni fa.» Misi il coltello in un cassetto e lo chiusi con un colpo. Il rumore la fece trasalire. Spostai una sedia della cucina e mi sedetti in modo da avere la donna di fronte a meno di un metro.

«Lei non è in Germania» le dissi. «Questa è Berlino. É il decreto 511, ratificato nel 1951, comprende una clausola secondo la quale raccogliere notizie è un reato per il quale sono previsti dieci anni di prigione. Non si parla di spionaggio o di attività nei servizi d'informazione; il semplice fatto di raccogliere notizie è reato.» Posai il suo passaporto sulla tavola e girai le pagine come per leggere per la prima volta come si chiamava e che lavoro faceva. «Quindi, non venga a raccontarmi che conosce i suoi diritti. Lei non ha diritti.» Dal passaporto lessi ad alta voce: «Carol Elvira Miller, nata a Londra nel 1930, occupazione: insegnante». Poi alzai gli occhi e la guardai. Lei mi rispose col fermo sguardo calmo e neutro che la macchina fotografica aveva fissato sul passaporto I suoi capelli erano diritti e corti, tagliati alla paggio. Aveva gli occhi azzurro chiaro e il naso appuntito, il che le conferiva una naturale espressione impertinente. Un tempo era stata graziosa ma ora era magra e tirata e - col suo antiquato abito scuro e la totale assenza di trucco - sembrava ben avviata ad apparire una fragile donna anziana.

«Elvira. É un nome tedesco, no?» La donna non diede segni di paura. Si illuminò, come accade così spesso alle donne quando il discorso si fa personale. «É spagnolo. Lo ha usato Mozart nel Don Giovanni.» Annuii. «E Miller?» Lei sorrise nervosamente. Non era impaurita, ma il suo sorriso era quello di chi vuol apparire ansioso di collaborare. Il mio discorsetto intimidatorio aveva funzionato. «Mio padre è tedesco... era tedesco. Di Lipsia. Emigrò in Inghilterra molto prima del periodo hitleriano. Mia madre è inglese... di Newcastle» aggiunse dopo una lunga pausa. «Sposata?»

«Mio marito morì quasi dieci anni fa. Si chiamava Johnson ma io tornai a usare il nome della mia famiglia di origine.»

«Figli?»

«Una figlia sposata.»

«Dove insegna?»

«Avevo delle supplenze a Londra, ma il lavoro si è fatto sempre più scarso. Negli ultimi mesi sono stata virtualmente disoccupata.»

«Lei sapeva cosa c'era nella busta che ha ritirato questa sera da quell'auto?»

«Non voglio farle perdere tempo inventando scuse. Sapevo che conteneva segreti di qualche genere.» Aveva la voce chiara e le maniere pedanti di tutti gli insegnanti del mondo. «E sapeva dove sarebbe andata a finire la busta?»

«Voglio fare una dichiarazione. L'ho già detto all'altro funzionario.

Voglio esser riportata in Inghilterra e parlare con qualcuno del servizio di sicurezza britannico. Solo allora farò una dichiarazione completa.»

«Perché?» domandai. «Perché è così ansiosa di tornare in Inghilterra?

Lei è un agente russo; lo sappiamo entrambi. Che differenza fa il luogo in cui verrà formulata l'accusa?»

«Sono stata una stupida. Ora me ne rendo conto.»

«Se n'è resa conto prima o dopo esser stata presa in custodia?» Strinse le labbra, quasi stesse reprimendo un sorriso. «É stato un colpo duro.» Posò le mani sul tavolo. Erano bianche e grinzose e costellate di quelle macchioline marrone che vengono con la mezza età. C'erano anche tracce di nicotina, e l'inchiostro di una penna che perdeva aveva segnato pollice e indice. «Semplicemente, non riesco a far cessare il tremito.

Mentre sedevo qui a osservare gli uomini dei servizi di sicurezza che mi perquisivano il bagaglio, ho avuto abbastanza tempo per riflettere su quanto sono stata stupida. Io amo l'Inghilterra. Mio padre mi ha allevata insegnandomi ad amare tutto ciò che fosse inglese.» Nonostante quest'affermazione, riscivolò subito sul tedesco.

Non era tedesca; non era inglese. Colsi la sensazione di mancanza di radici che era in lei e vi riconobbi qualcosa che provavo anch'io.

Dissi: «É stato un uomo?». Lei mi guardò e si accigliò. Si era aspettata di essere rassicurata, un sorriso in risposta ai sorrisi che lei mi aveva rivolto e la promessa che non le sarebbe accaduto nulla di veramente grave. «Un uomo... quello che l'ha istigata a impegolarsi in questa pazzia?» Dovette cogliere un vago accenno di disprezzo nella mia voce. «No. Ho fatto tutto da me. Mi iscrissi al Partito quindici anni fa. Dopo la morte di mio marito volevo tenermi occupata, così divenni molto attiva nel sindacato degli insegnanti. E un giorno mi dissi: diamine, perché non andare fino in fondo?»

«E in che cosa consisteva"andare fino in fondo", signora Miller?»

«Il nome di mio padre era Muller; tanto vale che glielo dica, perché, comunque, non le ci vorrebbe molto a scoprirlo. Hugo Muller. Lo cambiò in Miller quando ottenne la naturalizzazione. Voleva che tutti noi fossimo inglesi.» Di nuovo premette forte le mani contro il tavolo e se le guardò mentre parlava. Sembrava che le stesse biasimando per aver fatto cose che lei non aveva mai realmente approvato. «Mi chiesero di ritirare plichi, di badare a certe cose e via dicendo. Più tardi iniziai a dare ospitalità nel mio alloggio di Londra. Ci portavano gente a tarda notte - russi, cecoslovacchi - gente che di solito non parlava né inglese né tedesco. Talvolta marinai, a giudicare da com'erano vestiti.

Sembravano sempre affamati come lupi. Una volta ce ne fu uno vestito da prete. Parlava polacco, ma riuscii a farmi capire. Al mattino, poi, qualcuno arrivava e se li riprendeva.» Sospirò e poi alzò lo sguardo su di me per vedere in che modo prendevo la sua confessione. «Ho una camera da letto in più» aggiunse, come se la proprietà dei locali in cui offriva da dormire fosse più importante dei servizi resi al KGB. Per un bel po' tacque e continuò a guardarsi le mani. «Erano fuggiaschi» osservai per invitarla a ricominciare.

«Non so chi fossero. Dopo, di solito, trovavo nella cassetta per le lettere una busta con dentro qualche sterlina, ma non lo facevo per i soldi.»

«Perché lo faceva?»

«Ero una marxista, servivo la causa.»

«E ora?»

«Mi hanno ingannata» disse. «Mi hanno usata per il loro sporco lavoro. Che gliene importava di cosa mi sarebbe capitato se fossi stata presa? Che gliene importa ora? Che cosa dovrei fare?» Sembravano più le amare lamentele di una donna abbandonata dall'amante che le proteste di un agente arrestato.

«Lei dovrebbe godere del fatto di essere una martire» risposi. «É così che funzionano le cose per loro.»

«Le darò nomi e indirizzi. Le dirò tutto ciò che so.» Si protese in avanti. «Non voglio andare in prigione. Deve proprio comparire tutto sui giornali?»

«Ha importanza?»

«Mia figlia vive in Canada. Ha sposato un ragazzo spagnolo incontrato durante le vacanze. Hanno chiesto la cittadinanza canadese, ma le pratiche non sono ancora terminate e sarebbe terribile se con questo pasticcio in cui sono coinvolta rovinassi loro la vita. Sono così felici insieme.»

«É questa ospitalità per la notte che lei forniva ai suoi amici russi quando è cessata?» Mi lanciò un'occhiata penetrante, sorpresa dal fatto che io avessi capito che era cessata. «Due attività che non legano» spiegai. «Quello di fornire un posto per dormire era semplicemente un incarico provvisorio per vedere quanto ci si poteva fidare di lei.» Ella annuì. «Due anni fa» ammise a voce bassa «forse due e mezzo.»

«E poi?»

«Venni a Berlino per una settimana. Mi pagarono il viaggio. Passai all'Est e trascorsi una settimana in un centro di addestramento; tutti gli altri allievi erano tedeschi, ma, come lei vede, parlo bene la lingua. Mio padre insisteva sempre perché mi tenessi in esercizio.»

«Una settimana a Potsdam?»

«Sì, appena fuori Potsdam, esatto.»

«Non tralasci nulla, signora Miller» l'ammonii. «No, non tralascerò nulla» promise nervosamente. «Ci rimasi dieci giorni e imparai cose sulle radio a onde corte, i micropunti e così via. Probabilmente lei sa bene di cosa parlo.»

«Sì, so di cosa parla. É un centro di addestramento per spie.»

«Sì» disse in un sussurro. «Non intenderà raccontarmi che lei uscì da quel posto senza rendersi conto di essere una spia russa perfettamente addestrata, eh, signora Miller?» Lei alzò gli occhi e incontrò i miei che la fissavano. «No, come le ho già detto, ero una marxista entusiasta. Ero del tutto pronta a fare la spia per loro. Da come la vedevo io, lo facevo a favore degli oppressi e degli affamati di tutto il mondo. Penso di essere tuttora una marxista - leninista.»

«E allora dev'essere un'incurabile romantica» considerai. «Fu un errore fare ciò che feci; di questo mi rendo conto, ovviamente. L'Inghilterra è stata buona con me, ma metà del mondo muore di fame e il marxismo è l'unica soluzione.»

«Non mi tenga conferenze, signora Miller» esclamai. «Provvede più che a sufficienza il mio ufficio.» Mi alzai per potermi sbottonare il cappotto e trovare le sigarette. «Vuole una sigaretta?» domandai. Non diede segno di avermi udito. «Sto cercando di smettere, ma me le porto dietro.»

Ancora nessuna risposta. Forse era troppo impegnata a pensare a che cosa le sarebbe potuto accadere. Andai alla finestra e guardai fuori. Era troppo buio per vedere molto, eccetto la permanente falsa aurora di Berlino: il chiarore bianco - verdastro proveniente dai riflettori che illuminano a giorno la "fascia della morte" lungo il lato orientale del Muro. Conoscevo questa strada piuttosto bene, essendo passato per questo isolato migliaia di volte. Dal 1961, quando iniziarono la costruzione del Muro, seguire il tortuoso percorso del canale Landwehr era divenuto il modo più rapido per girargli intorno, passando dalle sfavillanti luci al neon del Ku-damm ai potenti riflettori del Checkpoint Charlie. «Andrò in prigione?» mi domandò. Non mi voltai. Mi abbottonai il cappotto, contento di aver resistito alla tentazione di fumare. Mi tolsi di tasca il minuscolo registratore Pearlcorder, di un brillante metallo argenteo.

Non tentai di nasconderlo, desideravo che lei lo vedesse. «Andrò in prigione?» domandò di nuovo. «Non lo so» risposi. «Ma spero di sì.»

Erano occorsi non più di quaranta minuti per ottenere una confessione.

Werner mi attendeva nella stanza accanto, dove non c'era riscaldamento.

Era seduto su una sedia della cucina, col collo di pelliccia del cappotto alzato sulle orecchie in modo da arrivare quasi a toccare la falda del cappello. «Ha cantato come si deve?» chiese. «Mi pari un becchino, Werner. Un becchino molto benestante in attesa di un cadavere molto benestante.»

«Devo dormire» disse lui. «Non reggo più le ore piccole. Se hai intenzione di restare qui e scrivere a macchina tutto quanto, io preferirei andarmene a casa ora.» Era l'alcool che gli aveva tagliato le gambe, ovviamente. La carica vitale di una sbronza non durava mai a lungo in Werner. L'alcool è un depressivo e il suo metabolismo era ormai così lento da non consentirgli di guidare. «Guiderò io» lo tranquillizzai. «E batterò la trascrizione con la tua macchina.»

«Certo» disse Werner. Stavo con lui nel suo appartamento di Dahlem E ora, col suo umore malinconico, non faceva altro che anticipare la reazione della moglie svegliata dal nostro arrivo alle ore piccole del mattino. La macchina da scrivere di Werner era molto rumorosa ed egli sapeva che io avrei voluto finire il lavoro prima di andare a dormire.

«C'è molto?» si informò. «Poca roba. Ma quella donna ci ha dato qualcosa su cui forse alla Centrale di Londra si gratteranno la testa e mediteranno.»

«Che cosa, per esempio?»

«Lo leggerai domattina. Ne parleremo a colazione.»

Era una bella mattinata berlinese. Il cielo era azzurro nonostante tutte le centrali elettriche della Germania Orientale brucino carbone, in modo tale da produrre una costante pallida cortina di smog che incombe sulla città per gran parte dell'anno. Oggi le esalazioni del Braunkohle erano sospinte altrove e fuori gli uccelli cantavano per celebrare l'evento.

Dentro, una grossa vespa, l'ultima sopravvissuta all'estate, girava rabbiosamente qua e là. L'appartamento di Werner a Dahlem lo potevo considerare la mia seconda casa. Lo avevo conosciuto quand'era un luogo di riunione dell'innumerevole schiera dei suoi stravaganti amici. A quel tempo era arredato con vecchi mobili e Werner suonava un pianoforte decorato di bruciature di sigaretta, mentre i suoi modellini di aereo - tutti eseguiti a regola d'arte - erano sospesi al soffitto perché era l'unica garanzia che nessuno ci si sarebbe seduto sopra. Ora era completamente diverso. Le vecchie cose erano state tutte portate via da Zena, la sua giovanissima moglie. Oggi l'appartamento era arredato secondo il gusto di lei: costosi mobili moderni e una grossa pianta di ficus e un tappeto appeso al muro, con bene in vista il nome dell'artista che lo aveva tessuto. L'unica cosa rimasta dai vecchi tempi era il divano pieno di gobbe che si trasformava nel letto pieno di gobbe nel quale io avevo dormito. Sedevamo tutti e tre nella "stanza della prima colazione", un bancone all'estremità della cucina attrezzato come quello di una tavola calda, con Zena nel ruolo della barista. Di qui si vedevano dalla finestra, ed eravamo sufficientemente in alto da scorgerle, le cime degli alberi orlate di sole del Grunewald, distanti solo un paio di isolati. Zena stava spremendo arance con uno spremiagrumi elettrico, mentre nella caffettiera automatica il caffè scendeva a goccia a goccia spandendo il ricco aroma per tutta la stanza.

Stavamo parlando del matrimonio. Io dissi: «La tragedia del matrimonio è che mentre tutte le donne si sposano pensando che il loro uomo cambierà, tutti gli uomini si sposano pensando che la loro moglie non cambierà mai. Entrambi rimangono invariabilmente delusi»

«Balle» commentò Zena versando il succo d'arancia in tre bicchieri. «Gli uomini cambiano, eccome!» Si chinò per veder meglio il livello del succo e assicurarsi che tutti ne avessimo esattamente la stessa quantità. Era un'eredità culturale della sua famiglia prussiana di cui andava tanto orgogliosa, nonostante non avesse nemmeno mai veduto il suo paese d'origine. Ciò perché i prussiani amano considerarsi non solo la coscienza del mondo, ma anche l'estremo giudice e l'estrema giuria. «Non dargli corda, Zena, tesoro». la interruppe Werner. «Queste artificiose definizioni alla Oscar Wilde non sono che un modo di Bernard per infastidire le mogli.» La donna non mollò. Ci provava gusto a discutere con me. «Gli uomini cambiano. Di solito sono loro ad andar via di casa e a rompere il matrimonio, e ciò avviene perché cambiano.»

«Buono questo succo» dissi sorseggiandone un po'. «Il lavoro degli uomini si svolge fuori di casa. Gli uomini vogliono ottenere promozioni e aspirano alla classe sociale più alta dei loro superiori. E a quel punto cominciano ad avere la sensazione che la moglie non sia all'altezza e a guardarsi intorno in cerca di una che abbia le maniere e il modo di esprimersi della classe cui ambiscono.»

«Hai ragione» ammisi. «Io intendevo dire che gli uomini non cambiano nel modo in cui le loro donne vogliono che essi cambino.» Lei sorrise.

Sapeva che il mio era un commento sul modo in cui lei aveva cambiato il povero Werner da uomo senza problemi, e in un certo senso un po' bohémien, in un marito devoto e obbediente. Era stata Zena a fargli smettere di fumare e a metterlo a dieta in modo tale da ridurgli il giro di vita. Ed era Zena che approvava l'acquisto di ogni suo capo di vestiario, dai calzoncini da bagno allo smoking. Sotto questo aspetto, Zena mi considerava il suo antagonista. Io esercitavo la cattiva influenza che avrebbe potuto disfare tutto il buon lavoro, cosa che lei era ben decisa a impedire. Si arrampicò sullo sgabello. Era così ben proporzionata che si notava quanto fosse minuscola solo quando faceva queste cose. Aveva lunghi capelli scuri e quella mattina li aveva raccolti in una coda di cavallo che le scendeva fino alle scapole.

Indossava un kimono di cotone rosso con un'ampia fascia nera che le cingeva la vita; Quella notte non aveva perso il sonno e i suoi occhi erano limpidi e luminosi; aveva persino trovato il tempo di mettersi un velo di trucco. Del trucco non ne avrebbe avuto bisogno - aveva solo ventidue anni e la sua bellezza era fuori discussione - ma questo costituiva la maschera da dietro la quale ella preferiva affrontare il mondo. Il caffè era molto scuro e forte. A lei piaceva così, ma io misi parecchio latte nel mio. Il contaminuti del forno suonò e lei andò a prendere le pagnottine calde. Prima di offrircele, le sistemò in un cestinetto adorno di un tovagliolo a quadretti rossi. «Brotcher.» annunciò. Zena era nata ed era stata allevata a Berlino, ma non chiamava le pagnottine Schnappe, come faceva il resto della popolazione. Lei non voleva essere identificata con la città; preferiva non precludersi possibilità future. «C'è del burro?» domandai spezzando una pagnottina.

«Noi non ne mangiamo» mi informò. «Ti fa male.»

«Da' a Bernie un po' di quella nuova margarina» suggerì Werner.

«Dovresti dimagrire un po'» mi disse Zena. «Fossi te, non mangerei nemmeno il pane.»

«Vi sono cose d'ogni specie che io faccio e che tu non faresti se fossi me.» La vespa si posò sui miei capelli e io la scacciai. Lei decise di non impegolarsi in quel discorso. Arrotolò un giornale e assestò qualche colpo dalla vespa. Poi, senza nascondere il malumore, andò al frigorifero e mi porse una vaschetta di plastica contenente la margarina. «Grazie» dissi. «Prendo il volo del mattino. Mi tolgo dai piedi appena sbarbato.»

«Non c'è fretta» fece Werner conciliante. Lui si era già sbarbato, naturalmente; Zena non gli avrebbe permesso di far colazione se si fosse presentato con la barba ancora da fare. «Così, hai battuto a macchina tutto quanto questa notte» osservò. «Avrei dovuto restar sveglio anch'io a darti una mano.»

«Non era necessario. Farò fare la traduzione a Londra. Apprezzo che tu e Zena mi abbiate dato un posto per dormire, senza parlare del caffè di ieri sera e della lussuosa colazione di stamattina.» Penso di aver esagerato nell'esprimere il mio apprezzamento. Sono incline a fare così quando mi sento nervoso, e Zena è una grande esperta nell'arte di innervosirmi. «Ero maledettamente stanco» si scusò Werner. La donna mi lanciò un'occhiata, ma quando parlò si rivolse a lui.

«Eri ubriaco.

Credevo che dovessi lavorare ieri sera.»

«E abbiamo lavorato, tesoro» rispose lui. «Non è che abbiamo bevuto molto» affermai. «Werner si sbronza solo con l'odore del grembiule della barista» ribatté lei. Werner aprì la bocca per rispondere all'accusa umiliante, poi si rese conto che avrebbe potuto rimbeccarla solo affermando di aver bevuto moltissimo. Così si limitò a sorseggiare un po' di caffè. «Io l'ho già vista» disse. «La donna?»

«Come si chiama?»

«Muller, dice, ma in passato è stata sposata con uno che si chiamava Johnson. Qui? L'hai vista qui? Lei ha detto che vive in Inghilterra.»

«E stata addestrata nel centro di Potsdam» rispose Werner, sorridendo alla mia espressione sorpresa. «Ho letto il tuo rapporto stamattina, quando mi sono alzato. Non ti spiace, vero?»

«Certo che no. Volevo fartelo leggere. Potrebbero esserci degli sviluppi.»

«Questa faccenda aveva a che fare con Erich Stinnes?» domandò Zena allontanando la vespa con un gesto della mano. «Sì» ammisi. «É stato lui a informarci.» Quella annuì e si versò altro caffè. Era difficile credere che, non molto tempo prima, era stata innamorata di Erich Stinnes, era difficile credere che aveva rischiato la propria vita per proteggerlo e che ancora adesso si sottoponesse a sedute di fisioterapia per via delle lesioni sofferte difendendolo. Ma Zena era giovane e romantica e, per entrambi questi motivi, le sue passioni potevano essere di breve durata. E, per entrambi questi motivi, poteva darsi che non fosse mai stata innamorata di lui, ma fosse semplicemente invaghita dell'idea di essere innamorata. Werner non sembrò notare che era stato fatto il nome di Stinnes. Era il suo modo di fare. "on y soit qui mal y pense": male incolga a chi male pensa, avrebbe potuto benissimo essere il suo motto, troppo generoso e rispettoso dei sentimenti altrui per pensare il peggio di chiunque. E anche quando il peggio era evidente, lui era pronto a perdonare. La scandalosa tresca di Zena con Frank Harrington, il nostro Residente di Berlino, capo della locale Unità Operativa, aveva adirato più me che Werner. Alcuni avevano commentato che Werner era un masochista che provava un piacere perverso dal fatto che la moglie se n'era andata a vivere con Frank, ma io lo conosco troppo bene per accettare quel genere di psicologia spicciola. Werner è un duro che gioca secondo regole proprie. Forse alcune di queste possono essere flessibili, ma Dio aiuti chiunque oltrepassi il limite che egli ha stabilito. É un personaggio da Antico Testamento e la sua collera e la sua vendetta possono essere terribili. Io lo so, e Werner sa che io so. É questo che ci rende così intimi, al punto che nulla può intromettersi fra noi, nemmeno l'astuta piccola Zena. «Ho visto quella Miller da qualche parte» riprese Werner. «Io non dimentico mai un viso.» Guardò la vespa che, pigra e indolente, si arrampicava lentamente su per il muro. Protese la mano verso il giornale di Zena ma la vespa, presentendo il pericolo, volò via. Zena stava ancora pensando a Erich Stinnes. «Noi facciamo tutto il lavoro» disse amara. «Bernard si prende tutto il merito. Ed Erich Stinnes si prende tutto il denaro.» Si riferiva al modo in cui Stinnes, un maggiore del KGB, era stato persuaso a venire a lavorare con noi, dietro corresponsione di una grossa somma in contanti. Prese la caraffa e un po' di caffè gocciolò sulla piastra rovente producendo un suono acuto, sibilante. Dopo essersi versata il caffè, posò la caraffa bollente sulle mattonelle del bancone. Fu probabilmente lo sbalzo di temperatura a spaccarla, poiché si udì un colpo simile a uno sparo e il caffè caldo cominciò a spandersi sulla superficie del bancone, così che tutti saltammo in piedi per non rimanere scottati. Lei afferrò alcuni tovaglioli di carta e, tenendosi a debita distanza dal caffè che scorreva sul pavimento a mattonelle, cominciò ad asciugare qua e là. «L'ho posata con troppa forza», si scusò quando tutto fu di nuovo pulito. «Lo penso anch'io, Zena» dissi. «Era già incrinata», aggiunse Werner. Poi assestò un colpo di giornale arrotolato alla vespa e la uccise..