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PERDUTI IN COMPLICATI LABIRINTI

La colazione fu un’esperienza avvilente. Per quanto mi sforzassi, Frau Gottschalk era impermeabile al mio fascino. Forse lo sopravvalutavo, o forse dopo tutti quegli anni era così ben tarato sui Frankenstein che non funzionava da nessun’altra parte.

Non era un pensiero confortante.

Frau Gottschalk si rifiutava di consegnarci la chiave della nostra camera: per la nostra «protezione», diceva, come se tutelare la virtù delle fanciulle facesse parte del suo lavoro. Il suo pane riusciva a essere bruciato e molliccio al contempo, il suo latte era fresco come mi sentivo io dopo una notte in bianco, la sua compagnia intollerabile.

Battemmo velocemente in ritirata da quella casa. Mentre la porta si richiudeva a chiave dietro di noi, mi lasciai sfuggire un profondo sospiro di sollievo. Almeno non avremmo passato lì un’altra notte. Appena trovato Victor ci saremmo potute trasferire.

Tutto sarebbe cambiato.

Tirai fuori l’ultima lettera di Victor che risaliva a quasi un anno e mezzo prima: le mie dita si curvarono d’istinto come artigli sulla data e guardai l’indirizzo del mittente. L’avevo imparato a memoria, eppure la lettera era come un talismano che ci avrebbe guidati da lui.

«Dobbiamo trovare una carrozza?» Justine scrutò il cielo dubbiosa. Le nubi minacciavano altra pioggia. Però non volevo perdere tempo a cercare un cocchiere, e certamente non avevo intenzione di tornare indietro e chiedere aiuto a Frau Gottschalk.

«Dopo tutte quelle ore sedute ieri, una passeggiata ci farà bene.» Due anni prima, quando Victor stava per partire, avevo ricopiato una mappa di Ingolstadt. Quando disegnavo piantine mi premuravo di aggiungere tutti i particolari artistici e i fronzoli che Victor ammirava tanto. Mi prendeva in giro per la loro inutilità, ma le mostrava sempre con orgoglio ai pochi ospiti che venivano a casa.

Avevo con me la mappa originale su cui mi ero basata. Non era decorata, perché era destinata al mio utilizzo personale.

Seguendo le linee delle strade come una chiromante legge il futuro sul palmo di una mano, picchiettai il dito al ritmo del mio cuore. «Ecco» dissi. «Qui troveremo Victor.» Io e Justine ci prendemmo a braccetto e ci incamminammo caute sui marciapiedi infangati, lasciandoci guidare dalle correnti d’inchiostro della cartina.

«Victor Frankenstein?» domandò un uomo con baffi sottili e anemici come la sua corporatura, parlando in francese. «Perché lo cercate?»

«Sono sua cugina» risposi. Non era vero, ma ci avevano detto di definirci così. I suoi genitori non ci permettevano di chiamarci fratello e sorella. Mi avevano sfamata, vestita e istruita insieme a Victor finché lui non era partito per la scuola di città e poi per l’università, però mi avevano lasciato il mio cognome e non mi avevano mai adottata formalmente.

Vivevo con i Frankenstein, ma non ero una di loro. E non lo dimenticavo mai.

L’uomo emise una specie di grugnito strozzato e si tirò la punta dei baffi. «Non lo vedo da oltre un anno. Diceva di aver bisogno di più spazio. Che arrogante. Mi accusava di spiarlo, come se potessero interessarmi gli scarabocchi di uno studente pazzo. Sono un dottore, sapete!»

«Ah!» esclamò Justine, turbata dall’agitazione dell’uomo e cercando di placarlo. «Dottore in cosa?»

Lui si massaggiò la nuca, guardò in alto e di lato come se avesse visto qualcosa di interessante. «Lingue orientali. Poesia, per la precisione. Cinese e giapponese, ma parlo anche un po’ di coreano.»

«Non dubito che vi sarà utilissimo qui, in una pensione per studenti.» Accompagnai quelle parole taglienti con un sorriso affilato. Come osava insultare il mio Victor?

Strinse gli occhi. «Sì, ora noto la somiglianza di famiglia.»

Capii che stavo sbagliando approccio e cambiai espressione. Abbassai appena le palpebre, sollevai il mento e sorrisi come se non avessi mai avuto un segreto in vita mia. «La poesia è così bella! I vostri pensionanti sono davvero fortunati. Pensate a come sarebbe opprimente soggiornare in casa di un matematico! Solo freddi numeri. Le vostre stanze, invece, devono essere molto ambite. Posso immaginare che Victor avesse bisogno di più spazio solo per qualche motivo pratico.»

Ora l’uomo sembrava confuso, spiazzato dalla mia trasformazione improvvisa, e dubitava già della cattiveria che aveva visto in me. «Be’. Ecco. Sì. Non mi ha mai spiegato perché gli servisse più spazio.»

«Ha per caso il suo nuovo indirizzo?»

Le sue sopracciglia lottarono tra l’ironico e il dispiaciuto. «Non ci siamo più tenuti in contatto dal giorno in cui mi ha definito uno stupido con l’ovatta nelle orecchie.»

Mi portai la mano alla bocca fingendomi scandalizzata, ma in realtà lo facevo per nascondere un sorriso. Quanto mi era mancato Victor! «Doveva essere davvero provato dalla fatica degli studi, per comportarsi in una maniera simile. Probabilmente non si è più fatto vivo perché si sente troppo in colpa per come vi ha trattato.» Tirai fuori uno dei biglietti che avevo scritto quella mattina. Frau Gottschalk aveva aggiunto il costo dell’inchiostro al conto della nostra stanza. «Se doveste ricordare qualcosa, o se lui venisse a chiedervi scusa, sareste così gentile da farmelo sapere? Soggiorniamo per un breve periodo alla Casa per signore di Frau Gottschalk.» Gli premetti il biglietto sul palmo toccandolo un po’ più del necessario. Stavolta il suo sguardo era meno confuso e più abbagliato.

Quindi, dopotutto, non ero brava soltanto con i Frankenstein. Frau Gottshalk era semplicemente una persona orribile. Uscimmo dalla vecchia pensione di Victor senza sapere dove trovarlo, eppure mi sentivo già più fiduciosa.

Justine mi indicò una caffetteria e ci fermammo a bere un tè. L’ambiente lasciava un po’ a desiderare in fatto di buon gusto ed eleganza, però era relativamente pulito e il tè era caldo. Avrei voluto lasciar riposare il viso sopra il vapore e mettere in infusione la mia anima insieme alle foglie di tè.

«Cosa facciamo adesso?» Justine teneva le mani sotto il tavolo e tormentava qualcosa. Eravamo le uniche donne nel locale: gli altri clienti erano studenti come si poteva intuire dalle dita sporche d’inchiostro e dal pallore cadaverico. Ogni volta che vedevo un’espressione aggrottata per la concentrazione avvertivo di più la mancanza di Victor. Ma quei volti assorti divennero curiosi appena io e Justine iniziammo a parlare. Finsi di non badarci. Justine non aveva bisogno di fingere, perché sembrava sinceramente ignara dell’effetto che sortivamo sugli uomini. Io invece ero ben consapevole della mia bellezza. La consideravo una capacità, come saper parlare francese, inglese, italiano e tedesco. Era una lingua anche quella, a modo suo; una lingua che si traduceva bene nelle diverse circostanze.

«Hai altre lettere?» domandò Justine. «Contatti da usare?» Ora vidi cosa aveva in mano: un soldatino di piombo che strofinava come un amuleto. Era di William, senza dubbio. Fra i tre figli dei Frankenstein, a me interessava soltanto Victor. Justine amava gli altri due a sufficienza per entrambe.

Mescolai il tè facendo tintinnare il cucchiaino d’argento ammaccato sulla porcellana bianca. Ingolstadt non era una metropoli, ma non era neanche piccola, e aveva una nutrita popolazione studentesca. Non mancavano le pensioni per giovani uomini, nel caso Victor avesse preso alloggio in una casa simile alla precedente.

«È un mistero.» Rivolsi a Justine un sorriso complice. «Come le storie che ti racconto.»

Si distrasse da pensieri che di sicuro erano rivolti a William ed Ernest, laggiù nella casa dei Frankenstein. «Ci saranno un ladro di gioielli e un’ardita imboscata di mezzanotte?»

Versai due zollette di zucchero nel suo tè. A Justine le cose piacevano più dolci possibile, ma non avrebbe mai messo più zucchero degli altri se non fosse stata invitata a farlo. «Be’, dato che inseguiamo uno studioso, credo che i gioielli siano fuori questione. E la nostra affittacamere ci sbatterebbe fuori se ci sorprendesse a tornare dopo mezzanotte. Ma ti prometto che a un certo punto smaschereremo un malfattore.»

Le sfuggì una risata argentina, e mi accorsi che tutti gli occhi si erano voltati su di noi. Li percepivo. Era come indossare uno strato di vestiti in più. Appena un po’ più pesante, più stretto.

Resistetti all’impulso di scostarmi il colletto di pizzo. Mi si abbassarono le palpebre e sussultai per un istante, impercettibilmente, dentro gli abiti candidi e costosi.

Fu al contempo un sollievo e una tragedia quando Victor fu dichiarato abbastanza in grado di interagire con gli altri per frequentare la scuola locale, anziché studiare a casa con istitutori privati.

Durante il giorno avevo più ore libere, in cui non dovevo essere niente per nessuno, a patto di proseguire le lezioni di lingue e arte. Eppure invidiavo profondamente Victor. Ogni mattina veniva portato in barca a remi sull’altra sponda del lago, verso altri ragazzi e altre menti, per imparare e per crescere, mentre io restavo lì. Mi fermavo sul molo finché non lo vedevo sparire, tendevo ogni muscolo, desideravo raggiungerlo, però avrei voluto anche fuggire.

Usavo il tempo libero per vagabondare. Prima di andare a vivere con i Frankenstein ero quasi una selvaggia, invece lì avevo condotto le mie esplorazioni sempre al fianco di Victor e perciò con una certa circospezione. Dovevo rendere conto a lui delle mie emozioni, reazioni e delle mie espressioni.

Da sola, scoprii un nuovo volto della bellezza nella natura selvatica intorno alla casa. I monti incappucciati di neve incombevano sull’orizzonte e scrutavano ogni mia mossa. Li soprannominai Giudice e Madame Frankenstein. Il lago invece, placido, affascinante e misterioso, lo battezzai Victor. Ma gli alberi… gli alberi erano miei.

Quasi ogni mattina dovevo andare a trovare Madame Frankenstein e giocare con il piccolo e noioso Ernest. Non mi piaceva, però Madame Frankenstein era contenta. Quand’era ancora incinta, con quella pancia ingrossata in un modo orrendo che non capivo, mi aveva detto che, grazie a me, era finalmente riuscita a portare in casa un altro figlio.

Avrei preferito non doverlo mai vedere. Ma non potevo lasciarle sospettare che fosse così, quindi facevo un po’ di moine al bambino in attesa di tornare fuori.

Appena mi allontanavo dalla casa potevo togliermi l’abito bianco e riporlo con cura nel tronco cavo di un albero. Poi, libera di muovermi senza paura di sporcarmi i vestiti, la prova delle mie trasgressioni, vagavo tra le piante come una creatura selvatica.

Scoprivo tane, nidi, buche, i nascondigli delle cose che strisciano e serpeggiano, saltano e balzano, volano e scappano tra il verde scuro e la terra bruna. Il mio cuore si riempiva di gioia quand’ero tra loro, però le mie spedizioni avevano un duplice scopo: scoprendo dove vivevano gli animali che amavo, riuscivo a evitarli se ero con Victor.

Quando non potevo stare fuori, in pieno inverno o al pomeriggio al ritorno di Victor, studiavo sui suoi libri o guardavo dipinti e leggevo poesie. I Frankenstein ne erano felicissimi: consideravano la mia precoce propensione per le arti come una riprova della mia nobile discendenza. In realtà era un modo per fuggire nella natura nei momenti in cui mi sentivo intrappolata in casa.

Se avessi potuto indossare solo la sottoveste, l’avrei fatto. I vestiti però erano parte del ruolo che interpretavo. E non uscivo mai da quel personaggio se c’era il rischio di essere vista da loro.

«Elizabeth?»

Smisi di mescolare il tè, che si era raffreddato mentre guardavo fuori dalla vetrina appannata. Sorrisi a Justine per dissimulare il calo di attenzione. Lei ricambiò per farmi capire che non era arrabbiata. Era sempre così con Justine. Non riuscivo mai a farla arrabbiare con me. Era un grande sollievo non dover scegliere con cura ogni parola ed espressione. A volte, però, la nostra relazione mi pareva altrettanto falsa che quella che avevo con i miei benefattori. Mi chiedevo se Justine fosse davvero tanto buona, o se si comportava così solo per non essere rispedita da quel mostro di sua madre.

No. Non me lo domandavo sul serio. Se a questo mondo c’era un po’ di bene puro, se c’era qualcosa di pulito e incontaminato come la neve fresca, era il cuore di Justine.

«A cosa stavi pensando?» mi chiese.

«Ricordavo la prima volta che Victor mi ha lasciata per la scuola. Aveva tredici anni, andava soltanto fino a Ginevra. Quando tornava, riportava indietro tutti i libri, per permettere anche a me di studiare. E riportava indietro pure un mucchio di buffi aneddoti sul suo povero maestro.» Mi sembrava incredibile che fossero passati appena cinque anni e mezzo. Ora Victor ne aveva diciannove e non portava indietro più niente, neppure se stesso.

«Oh!» Posai il cucchiaio e lasciando perdere definitivamente il tè ormai freddo. «Il suo maestro! Mi è venuto in mente il nostro prossimo indizio. In una delle sue prime lettere descriveva in modo approfondito due professori. Sembrava particolarmente impaziente di lavorare con uno di loro, entrambi avevano da insegnargli qualcosa, diceva. Di certo potranno aiutarci!»

Tirai fuori le poche lettere di Victor. Quattro, di cui tre risalenti al primo mese della sua assenza. Poi erano passati sette mesi fino alla successiva. Infine più nulla. C’era anche la lettera di Henry, datata sei mesi addietro. Ma era l’unica, e non volevo rileggerla mai più. Prima di abbandonarci entrambi, avrebbe almeno potuto degnarsi di comunicarmi il nuovo indirizzo di Victor.

Però ormai la mia rabbia era sbollita, ed era stata sostituita da una paura terribile. Il lungo silenzio di Victor poteva dipendere da uno dei suoi tratti caratteriali più inflessibili. In fondo ero stata io ad ammorbidirlo. Trascorrere tanto tempo senza di me non gli faceva bene. E neppure a me.

Mi alzai, impaziente di mettermi all’opera. «Andiamo a trovare qualche professore.»