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«Le credi?» domandò Bree quando, quella sera verso le undici, tornai finalmente a casa dopo una delle giornate più sconvolgenti della mia vita.

«Perché non dovrei?» replicai, mangiando i kebab di agnello in salsa di arachidi che Nana aveva preparato per cena. «Le altre ragazze che parlavano inglese hanno confermato la sua storia. E pure i ragazzini.»

«È disumano» commentò Bree.

«Su questo sono assolutamente d’accordo» risposi, e ripensai a Mina Codrescu, seduta sul suo eskimo, che si era accesa la sigaretta prima di incominciare a parlare.

Aveva diciannove anni e veniva da Bălți, una cittadina nel Nord della Moldavia. La madre era morta, il padre beveva e lei non aveva nulla, a parte un’infarinatura di inglese e il sogno di emigrare. Un giorno aveva incontrato un russo in un bar che le aveva fatto balenare la possibilità di andare negli Stati Uniti e l’aveva portata nella capitale, Chișinău, dove le aveva presentato un suo compare, anche lui russo.

«Lui ha detto che dovevo lavorare cinque anni, poi libera di stare in America» mi aveva spiegato Mina senza guardarmi negli occhi.

«Che tipo di lavoro?» aveva chiesto Sampson.

«Sessuale» aveva risposto Mina in tono di sfida.

«E lei ha accettato?»

«Sono qui, no?» era stata la sua risposta.

Ero stato zitto.

Mina aveva continuato a fumare e, sempre in tono di sfida, aveva spiegato: «Mi conveniva. Farei di nuovo. Sono qui in America, no? Posso realizzare mio sogno. Se dicevo no, non succedeva».

«Non la stiamo giudicando, Mina» chiarii. «Ci racconti cos’è successo, dopo che lei ha accettato l’offerta.»

Mina aveva spiegato che il secondo russo aveva preteso prestazioni sessuali per tre giorni e poi le aveva dato un biglietto aereo per Miami, dove era stata accolta da una donna di cui sapeva soltanto il nome, Lori.

Lori si era fatta consegnare passaporto e cellulare, dicendo che il passaporto le sarebbe stato restituito dopo cinque anni e il cellulare una volta avesse avuto la destinazione definitiva. Nottetempo, l’aveva portata in un deposito di camion, dove erano state raggiunte da un certo numero di ragazzi, maschi e femmine, arrivati a bordo di furgoni.

Per terra c’era un mucchio di indumenti usati ed era stato ordinato loro di vestirsi pesante. Lori aveva preso un eskimo, un paio di pantaloni e degli scarponi per Mina e l’aveva fatta salire sul camion frigo, promettendole una vita migliore alla fine del viaggio. Una vita di lussi.

«Per me non terribile perché abituata a freddo, ma altri poco vestiti» ci aveva spiegato Mina. «Noi cercavamo di scaldarli, ma erano troppo deboli e malati per viaggio e sono morti.»

«Quanto tempo siete rimasti a bordo di quel camion?»

«Non so. Non avevo orologio o telefono. Due giorni? Forse di più.»

«Era l’unica moldava?»

«No, altre due ragazze» aveva risposto Mina. «E poi ungheresi e slovacche.»

Molte erano state reclutate in maniera analoga alla sua, ci aveva spiegato, mentre alcune già lavoravano come prostitute in Germania.

«Che tristezza!» esclamò Bree, interrompendo il corso dei miei pensieri. «In certe parti del mondo i giovani hanno così poche speranze che, pur di migliorare le loro condizioni di vita, accettano la schiavitù sessuale.»

«O quantomeno un contratto di servitù debitoria» risposi.

Bree mi lanciò un’occhiata carica di scetticismo. «Secondo te dopo cinque anni i russi li avrebbero liberati? Io non credo proprio. Quei poveracci sono usa e getta. Mina sarebbe finita cadavere in un fosso.»

«Può darsi. Adesso, però, ha una chance» dissi. «Quando è arrivato da Virginia Beach l’agente dell’Immigration and Naturalization Service, ho chiesto a Mahoney di far presente che Mina è un elemento fondamentale per le indagini. Spero che le concedano l’asilo politico.»

«Potrebbe essere la sua salvezza.»

Annuii, cercando di rimanere positivo, nonostante la stanchezza e lo sconforto. Bree si accorse che ero provato e mi chiese: «Come stai, Alex?»

«Così così» risposi. «Durante il viaggio di ritorno, in elicottero, pensavo a Jannie, Ali e tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di nascere negli Stati Uniti e non siamo costretti a prostituirci per uscire dalla miseria. Mi sembra un’ingiustizia intollerabile. O sono esagerato?»

«Sei indignato» puntualizzò Bree. «Scandalizzato che succedano certe cose.»

«Faccio male?»

«No. Ti amo anche perché hai un innato senso di giustizia.»

Sorrisi. «Grazie.»

«Prego» rispose lei con un sorriso. Poi sbadigliò e disse: «Devo andare a dormire».

«Aspetta. Com’è andata la tua giornata, comandante della squadra Investigativa?»

Bree si alzò e fece un gesto come a dire che non valeva la pena parlarne. «Meglio lasciar perdere. Voglio svegliarmi presto e riposata, domani mattina, e vedere le cose sotto una luce migliore.»

«Buona idea.»

«Sono una fucina di buone idee» replicò Bree, e mi diede un bacio sulla guancia.

Qualcuno ucciderà
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