12

Prendemmo la 295 verso Baltimora e passammo buona parte del viaggio in silenzio. Da una parte avrei voluto fare a mio figlio mille raccomandazioni, dirgli di fare questa o quest’altra cosa e avvertirlo preventivamente delle difficoltà che avrebbe potuto incontrare.

Ma Damon era andato via di casa a sedici anni per inseguire il suo sogno ed era ormai autonomo e in grado di gestire la sua vita. Questo mi faceva piacere e mi rattristava al tempo stesso. Il mio ruolo di genitore era ormai limitato a qualche consiglio ogni tanto, mentre un tempo Damon dipendeva esclusivamente da me.

Passando per Hyattsville, Maryland, ripensai al giorno in cui era nato. La mia prima moglie, Maria, aveva pianto di gioia quando l’infermiera glielo aveva dato in braccio. Avevo voluto bene fin da subito a quel fagottino urlante.

Cercai di non pensare alla sera in cui Maria era stata uccisa in una sparatoria e mi concentrai invece sugli anni dopo la sua morte, che erano stati terribili per me. La mia unica consolazione erano Damon e Jannie, che all’epoca era piccolissima. Non ce l’avrei fatta, senza l’aiuto di Nana, che era intervenuta ancora una volta, come quando ero bambino, e aveva fatto da madre a Damon con la stessa dolcezza con cui si era presa cura di me.

Nei pressi di Laurel, Maryland, Damon e io cominciammo a parlare di baseball. Eravamo d’accordo sul fatto che Bryce Harper sarebbe assurto alla Hall of Fame, salvo problemi di salute. Qualche anno prima eravamo andati a New York a vederlo giocare nella All-Star Game e vincere l’Home Run Derby. Era un giocatore straordinariamente veloce e forte.

«Anche Jannie è così, non trovi?» disse Damon. «Un’atleta eccezionale, nata per vincere. Lo vedi da come si muovono.»

«Neanche tu sei male, come atleta» dissi.

«Okay, ma posso aspirare a essere settimo o ottavo in Prima divisione.»

«Non ti sottovalutare.»

«È la verità» replicò. «Invece Jannie... Jannie è a livelli stellari.»

Era proprio così. Vederla in gara era come vedere una gazzella inseguita da un leone e...

«Attento, papà!»

Davanti a noi, un caravan Jayco di otto metri, trainato da un pickup Ford F-150, aveva cominciato a sbandare paurosamente. Premetti il freno un istante prima che facesse testacoda, si rovesciasse e finisse sulla corsia di sinistra, arrivando a pochi centimetri dal nostro paraurti anteriore.

Accelerai e lo evitai, ma il caravan investì un’auto che stava sopraggiungendo e il pickup andò a sbattere contro qualcos’altro e il risultante ammasso di lamiere attraversò la corsia di destra e finì giù dalla scarpata.

«Porca vacca!» esclamò Damon. «Abbiamo rischiato di rimanerci secchi.»

Avevo il cuore a mille e mi tremavano le mani. Accostai. Avevamo davvero rischiato di lasciarci la pelle. La morte ci aveva sfiorato, ma per stavolta ci aveva risparmiato.

«Forza» dissi, prendendo il cellulare per chiamare il 911. «Dobbiamo dare una mano.»

Damon scese dalla macchina e corse verso la scarpata, mentre io spiegavo all’operatore che cosa era successo.

Quando raggiunsi il pickup, vidi che Damon scuoteva la testa. L’autista era morto, mezzo fuori dal lunotto posteriore. Sentimmo il pianto di un bambino nella vettura investita dal caravan, che si era capottata.

«Aiuto!» gridò una donna. «Qualcuno ci aiuti!»

Damon si inginocchiò vicino alla macchina e io lo imitai. La giovane mamma perdeva sangue dalla testa. Il bambino era a testa ingiù, ma sembrava illeso. Probabilmente piangeva solo perché non gli piaceva stare in quella posizione.

«Sta arrivando un’ambulanza» spiegai. «Come si chiama, signora?»

«Sally Jo» rispose la donna. «Sally Jo Hepner. Sanguino come un maiale al macello. Morirò dissanguata?»

«No, non credo proprio. Si è fatta un bel taglio e avrà bisogno di punti, ma non è in pericolo di vita. Come si chiama suo figlio?»

Sentivo già le sirene in lontananza.

«Bobby» rispose la donna. «Come mio padre.»

Damon si era infilato dal finestrino e aveva sganciato il seggiolino. Piano piano, lo tirò fuori. Bobby Hepner era ancora scosso, ma la vista della mamma lo calmò.

Vigili del fuoco e paramedici arrivarono nel giro di cinque minuti. Rimanemmo a guardare mentre estraevano la donna dall’auto e la sistemavano su una barella spinale con un collare. Poi caricarono sull’ambulanza anche il bambino.

«Direi che ora possiamo andare» mormorai. «La scuola ti attende.»

Damon sorrise, ma quando risalì in macchina era pensieroso. «La vita è strana. Ci sei e un momento dopo non ci sei più.»

«Meglio non pensarci troppo.»

«Lo so. Ma quando vedi una scena del genere ti chiedi che cosa ci stiamo a fare a questo mondo... Non sappiamo per quanto.»

«La morale è che dobbiamo vivere come se ogni istante fosse l’ultimo ed essere grati del tempo che ci è concesso. Da questo punto di vista, aver sfiorato la morte è un messaggio importante. Non era ancora la nostra ora, ma ci ha ricordato che la vita è fragile e preziosa. Non eravamo qui per trovare la morte, ma per andare al college. E questo faremo.»

Damon chinò la testa, ma poi sorrise. «Okay» disse.

La Johns Hopkins era cambiata dai miei tempi, ma il campus di Homewood era ancora un’oasi di verde e di costruzioni di mattoni rossi nella città di Baltimora e provai lo stesso brivido di eccitazione di quando ci ero andato a studiare. Un gruppo di studenti volontari ci consegnò il materiale illustrativo e ci condusse a sbrigare le formalità necessarie.

Trovammo il dormitorio di Damon e incontrammo il suo compagno di stanza, che era del Massachusetts, si chiamava William Clancy e giocava a lacrosse. Era con i suoi genitori. I due ragazzi si piacquero subito. Li aiutammo a sistemarsi e poi ci fu un momento di imbarazzo, quando ci accorgemmo che non vedevano l’ora che noi genitori ci congedassimo.

«Accompagnami alla macchina» chiesi a Damon. «Voglio darti una cosa.»

«Okay» disse Damon. Poi si rivolse al suo compagno di stanza. «Mi aspetti? Così andiamo insieme al picnic di benvenuto?»

«D’accordo» rispose William.

Arrivati alla macchina, guardai mio figlio con orgoglio e affetto.

«Che cosa mi volevi dare?» chiese Damon.

Lo abbracciai in lacrime.

«Tua madre sarebbe orgogliosa di te» gli dissi commosso.

Damon era a disagio, quando mi distaccai. Aveva anche lui le lacrime agli occhi. Disse: «Grazie, papà. Di tutto».

Non riuscii a trattenermi e lo abbracciai di nuovo. Poi gli dissi che era meglio salutarci, prima che io crollassi definitivamente, e lui rise. Battemmo il pugno e lo guardai andare verso il luogo che mi aveva trasformato in un uomo adulto.

Il viaggio di ritorno fu dolce e amaro al tempo stesso: ero felice per Damon e triste per la perdita del bambino che avevo cresciuto e che era di colpo diventato grande.

Qualcuno ucciderà
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