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Zeb

Mi baciò, e io la seguii all'interno. Sarebbe stata un'occasione perfetta per imparare a pensare molto bene alle conseguenze delle mie azioni prima di buttarmi a capofitto nel vuoto, peccato che non avessi alcuna intenzione di fermarmi, o di evitare di innamorarmi ancora di più.

Era una cosa stupida, probabilmente ancora più stupida di quando avevo passato una notte con la madre di Hyde in un momento in cui ero instabile e fuori controllo, dopo essere stato privato della mia libertà per più di due anni. Entrambe le esperienze avrebbero finito per lasciare dei segni indelebili sul mio modo di essere e di amare. Sapevo che Sayer mi avrebbe spezzato il cuore, ed ero deciso a lasciarglielo fare. Era gelida come la sua apparenza abituale, la sua pelle ghiacciata in tutti i punti di contatto con la mia. Dentro invece aveva un inferno di fuoco, una tempesta di troppe emozioni, che conferiva una luce selvaggia e oscura al suo sguardo di solito così trasparente. Pensai ancora una volta che quella donna era un uragano, un mare in burrasca che mi avrebbe distrutto e devastato, e io volevo che mi facesse a pezzi.

Tutto ciò che provavo per lei, tutte le emozioni, buone e cattive, pulite e sporche, e tutte le mie incertezze divamparono in punte acuminate che mi premevano sotto la pelle per arrivare a lei. Ormai si sarebbe sciolta completamente sotto di me, perché il suo centro non era più difeso da barriere di ghiaccio. Io avevo fatto il lavoro pesante, creando spazio nella sua vita per me e per mio figlio, riorganizzando le cose per trovare un posto destinato unicamente a me. Adesso toccava a lei riuscire a liberarsi di tutti i vincoli inutili che mi impedivano di rivendicare il resto di ciò che mi spettava.

Cominciai a sbottonarmi la camicia non appena la porta della sua camera si chiuse dietro di me. L'avrei lasciata nella casa che avevo costruito per lei, e avrei lasciato dietro di me tutto quello che potevo, così da impedirle di dimenticarmi, anche se avesse voluto. Le avrei impedito di ignorare quello che, lo sapevo, significavamo l'uno per l'altra.

La guardai con gli occhi semichiusi mentre si toglieva la giacca e il resto, voltandosi verso di me. Era bellissima, e quel momento mi sembrò davvero fatale. Cercai di convincermi a girare i tacchi e andarmene prima che le cose fra noi diventassero ancora più difficili e complicate, ma poi lei si sfilò la camicetta, il suo reggiseno finì per terra e all'improvviso le sue mani si erano infilate sotto la maglietta che avevo messo sotto la camicia per difendermi dal freddo. Mi toccava in modo più deciso e diretto di quanto avesse mai fatto.

Di solito le piaceva passarmi le dita sulla pelle, esplorarmi e accarezzarmi con un tocco leggero, ma questa volta sembrava volersi prendere qualcosa, come se volesse stringermi a sé, anche se era lei quella che mi stava allontanando con tutte le sue forze.

Prima che me ne rendessi conto mi aveva slacciato i pantaloni, e mi stava sfilando i jeans e i boxer. La mia testa e il mio cuore sapevano che quello era un addio, ma il mio pene non sembrava per niente preoccupato del dolore straziante che mi aspettava: cadde voglioso nelle sue mani, mentre lei alzava su di me uno sguardo tempestoso. Quello che c'era dietro non era un bello spettacolo: era un vortice violento e distruttivo, che si agitava dentro di lei senza posa, e sapere di non essere in grado di domarlo, di non averne le capacità, mi spezzava il cuore. Non c'era modo di recuperare Sayer Cole. Solo lei poteva distruggere tutto e ricostruirsi da zero.

Mi ero spogliato di tutto quello che potevo con quella donna. Non c'era nient'altro che potessi offrirle o che potessi creare per lei, così mi sottrassi alla sua presa, facendola mugolare e infastidendo decisamente una certa parte della mia anatomia. La feci voltare di schiena, mettendole le mani sulle spalle. Non ero sicuro di poter superare vivo quella prova sotto lo sguardo di quegli occhi tempestosi, che mi supplicavano di sistemare tutto. Io avevo fatto ciò che potevo, ora spettava a lei.

Aprii la cerniera dei suoi pantaloni e lasciai scivolare il tessuto grigio scuro per la lunghezza delle gambe. Proprio come avevo scommesso al centro commerciale, la sua biancheria intima era di un bel colore turchese. Però mi ostacolava, così le tolsi anche quella, sempre tenendola di spalle, e le posai una mano alla base del collo. Aveva ancora i capelli intrecciati e raccolti sopra la testa, quindi la sua nuca era scoperta e la faceva sembrare un po' più vulnerabile di quanto in realtà non fosse.

Le baciai la spalla nuda, leccai la vena che pulsava a lato della sua gola – e sapevo che pulsava per me. Sfiorai col naso la curva gentile della mascella, e le andai ancora più vicino per sussurrarle all'orecchio: «Quando sarà finita, prima di uscire da quella porta ti dirò che ti amo».

Lei irrigidì la schiena nel punto in cui era premuta contro il mio petto, e cercò di voltarsi per guardarmi, ma non glielo permisi. Feci scorrere una mano sotto il suo braccio, lungo la cassa toracica per potermela riempire con il suo seno. La punta rosata si inturgidì immediatamente, crescendo contro la mia pelle. Usai i fianchi per spingerla verso il bordo del letto, dato che le mie gambe erano ancora mezze intrappolate nei pantaloni. Non avevo intenzione di spogliarmi completamente: anche se l'amavo, in quel momento non potevo fare l'amore con lei. Ero troppo arrabbiato, con lei e con me stesso per averla seguita in casa sapendo benissimo che sarebbe andata a finire male. In generale tutta quella situazione mi faceva infuriare. Ci meritavamo di essere felici, ci meritavamo di far funzionare la nostra storia. Ero arrabbiato perché non potevo forzare le cose nella direzione che volevo: ero abituato a ottenere ciò che desideravo grazie alla mia ostinazione e alla mia tenacia.

Lei ubbidì al mio ordine silenzioso di mettersi sul letto davanti a me, in ginocchio. In quella posizione il suo meraviglioso sedere era in piena vista, e il suo varco già lucido e bagnato era perfettamente in linea con la direzione in cui puntava la mia erezione. Lei incrociò le braccia e appoggiò la fronte sul letto: penso che dopo ciò che le avevo detto non riuscisse a guardarmi. Era vero che l'amavo, chiunque fosse e chiunque decidesse di diventare, ma non potevo essere innamorato di lei finché non avesse trovato dentro di sé lo spazio per ricambiare il mio amore.

Passai le dita su e giù lungo la sua spina dorsale e fermai il palmo sul fianco. Volevo spingermi dentro di lei con forza, tirarle i capelli e lasciare i segni dei denti sulla pelle delicata. Volevo sfregare la faccia su ogni centimetro del suo corpo candido, e lasciarci i segni della mia barba. Volevo usare la mia lingua per tormentarla, per portarla sull'orlo del piacere e poi toglierglielo, come aveva fatto lei con il mio amore. Volevo usare tutto ciò che di solito la faceva godere per farla soffrire. Io stavo soffrendo, e sapevo che era così anche per lei. La differenza era che lei aveva il potere di mettere fine a quella sofferenza. Tutto il potere era nelle sue mani, e così tutto il dolore, doveva soltanto lasciarlo cadere per poter afferrare il resto che cercavo di farle prendere, come l'amore e l'eternità.

Affondai le dita di una mano nel suo fianco, e con l'altra esplorai le piccole adorabili fossette alla base della sua schiena. Percorsi la curva voluttuosa delle natiche, e quando arrivai a quel centro già caldo e trepidante non persi tempo: mi ci tuffai a capofitto, roteando le dita, e non appena sobbalzò per quell'invasione improvvisa le ordinai di stare ferma.

Non fu un momento di dolcezza. Non fu semplice o romantico: tutto il contrario, ma in quel momento mi sentivo dilaniato, e cattivo. Un addio di quel genere non poteva certo essere facile, per nessuno dei due.

Lei era così calda e morbida sotto le mie mani, così diversa da quelle barriere serrate che avevo visto nei suoi occhi. Era dolce e sinuosa mentre seguiva i movimenti delle mie dita con il suo corpo. Fece per alzare la testa, e capii che stava per guardarmi da sopra la spalla, ma così non sarei stato in grado di nascondere il nostro legame, e il mio istinto di salvarci entrambi dalla corrente dentro di lei che ci stava allontanando sempre di più. Lasciai andare il fianco e mi piegai in avanti per immergere la mano nei suoi capelli. Tirai bruscamente, senza gentilezza, spargendo mille forcine sul letto e sul pavimento. Le trecce bionde si sciolsero in onde infinite sulle sue spalle e nelle mie mani, che usai per tenerla ferma dove la volevo, cioè il più lontano possibile da me, anche se avevo le dita dentro di lei e se il mio pene si stava sfregando allegramente nel perfetto avvallamento fra le sue natiche. La sentii fare un verso di dolore quando la cinghia della mia cintura le colpì il retro delle gambe, ma non mi fermai. Per quanto mi riguardava, potevamo anche soffrire in due.

Cominciò a mugolare, sentii il suo corpo accelerare e tendersi intorno alle mie dita. Stava per venire, stava per accettare l'ultimo regalo che potevo farle, fatto di piacere e ricordi, e sapevo che me ne sarei pentito se non l'avessi condiviso entrando dentro di lei.

Tirai fuori le dita dal suo centro ormai fradicio e la spinsi più vicino al brodo del letto, sollevandole il sedere ancora di più e facilitandomi al massimo la spinta profonda dentro il suo corpo rovente. Sentii i suoi muscoli contrarsi su di me, era una sensazione talmente meravigliosa che quasi mi si incrociarono gli occhi. Forse in quel momento ero arrabbiato con entrambi, ma non potevo negare che avrei sempre adorato quello che facevamo insieme. Venerare il suo corpo con il mio non avrebbe mai potuto essere qualcosa di brutale o spiacevole. Quando entravamo in contatto non c'erano punizioni, soltanto accoglienza e bellezza. Ero stato un idiota se mi ero illuso del contrario.

Vapore... l'incontro di fuoco e ghiaccio produce vapore, un vapore rovente che si espanse fra di noi, ribollendo dolorosamente e violentemente.

Non riuscivo più a sopportare la distanza, non ero in grado di scoparla senza starle vicino. Usai ancora la presa sui suoi capelli per tirarla su, in modo che la sua schiena aderisse al mio corpo. Quando girò la testa per guardarmi, io nostri occhi erano vicinissimi.

Stava piangendo.

Mentre ci guardavamo, vedevo grosse lacrime scendere dai suoi occhi. Strinsi una mano sul suo seno, e appoggiai l'altra sul suo cuore, per sentirlo battere il mio nome. Rallentai il ritmo delle mie spinte dentro e fuori di lei, trattenni la mia furia per sfiorarle le labbra con le mie. Capii che quelle lacrime erano il ghiaccio della sua eterna corazza che si scioglieva, e calmai il ritmo del mio cuore. C'era ancora una speranza. Era piccola e tremolante, nascosta dietro tante altre cose che sembravano molto più importanti, ma era lì e non poteva essere ignorata.

La baciai davvero, la baciai con tutto ciò che avevo. La baciai con la paura e la disperazione che avevo provato la prima volta che le nostre labbra si erano incontrate. La baciai con tanta forza e tanta furia da costringerla a farmi spazio. Lei rispose al mio bacio nello stesso modo. Fu uno scontro di labbra e di denti, un duello di lingue e di cuori palpitanti. Fu una bellissima confusione scivolosa, e quando intensificai il movimento dei miei fianchi e cominciai a spingere sempre più forte dentro di lei, rispose gemendo contro il mio corpo, e aggrappandosi alla mia nuca come a un'ancora di salvezza.

Ma io non potevo essere la sua ancora. Era lei che doveva salvare se stessa, quando però lo avesse fatto mi avrebbe trovato ad aspettarla sulla riva per aiutarla a rialzarsi, dopo che la tempesta che la imprigionava si fosse esaurita e che i venti ululanti che agitavano violentemente le sue emozioni si fossero calmati.

Strinsi fra le dita un capezzolo eretto e poi ci passai intorno il pollice. Lei ansimò nella mia bocca, e posò una mano su quella che avevo appoggiato sul suo cuore. Io le presi l'altra e la guidai lungo il suo addome piatto, fino ad arrivare entrambi all'inizio delle sue cosce. Sapevo come toccarla, sapevo come farla godere con una sola leggerissima pressione. Conoscevo tutti i suoi punti segreti del piacere, e sapevo come usarli per farla crollare davanti a me.

«Voglio ancora guardare, ma non oggi. Oggi voglio soltanto sentire. Voglio che tu senta quello che siamo insieme, che tu capisca a che cosa stai rinunciando.»

Quando le ordinai di allargare le dita intorno al punto in cui stavo spingendo avanti e indietro dentro di lei, fece un gemito soffocato.

Il tocco della sua mano e la leggera pressione delle sue dita mi regalarono nuove sensazioni e mi fecero impazzire, mentre con l'indice giravo intorno al suo clitoride inturgidito.

Eravamo così carichi di energia repressa che nessuno di noi due aveva veramente bisogno di uno stimolo aggiuntivo, però era dannatamente piacevole.

Le sue dita l'avevano spalancata ancora di più, era calda e bagnata, sentivo il mio cuore battere all'impazzata. Il piacere mi stava quasi piegando le ginocchia. Premetti ancora di più con l'indice, spingendo più forte del solito su quella piccola sporgenza sensibile che mi rispondeva cantando, e continuai a divorare la sua bocca come se fosse il mio ultimo pasto.

Mi graffiò il retro del cranio con le unghie, buttando la testa all'indietro per poter urlare il mio nome. Di solito non urlava quando facevamo sesso, si limitava a incitarmi con mugolii e gemiti sommessi che mi facevano sentire il dominatore assoluto. Ma quel grido... Dio... quel grido spaccatimpani, scuoticervello che le squarciava la gola era il suono più splendido che avessi mai sentito. Il mio nome non mi era mai sembrato così bello. Ormai lo possedeva, e dopo essersi devastata in quel modo sapevo che non avrebbe più potuto negarlo.

La lasciai andare e lei si ripiegò in avanti, permettendomi di afferrarla saldamente ai fianchi e di sbatterla con forza. Non mi ci volle molto, non con il mio nome che ancora mi risuonava nelle orecchie e con il suo corpo disperatamente aggrappato al mio.

Venni così forte che mi si oscurò la vista.

Venni così forte che mi tremarono le ginocchia, e quasi la travolsi cadendole sopra.

Venni così forte che lo sentii fino in ogni cellula del mio corpo.

Venni così forte da sapere che lei avrebbe continuato a sentirmi per giorni e giorni, perché io avrei sentito lei.

Quando il mio respiro si regolarizzò e la mia vista si schiarì, feci scorrere le mani ai lati della sua spina dorsale fino ai suoi capelli ormai arruffati in modo ridicolo, e mi spostai per poter scivolare fuori di lei e baciarla sulla nuca.

Quando separai i nostri corpi esausti ritornò la disperazione, ma questa volta non me ne sentii schiacciato. Feci un passo indietro e mi tirai su i pantaloni, mentre lei si girava supina e fissava il soffitto. Era bellissima, tutta in disordine e sconvolta dalle mie mani e dalla mia bocca. Aveva il seno arrossato, segnato dalle impronte delle mie dita, e fra le sue gambe leggermente aperte eravamo entrambi lucidi e reali, mentre il nostro addio colava fuori dal suo corpo.

Lei sollevò le mani e se le portò intorno alla gola, continuando a fissare il soffitto. Era come se cercasse di trattenere quel grido. Ma non c'era modo di tornare indietro: lo avevamo sentito entrambi.

«Quello che oggi ha rischiato di succedere... Non vorrei mai essere la ragione per cui quel bambino ti debba perdere. Mio padre ha passato la vita a dirmi che ero una persona egoista e senza cervello: non potrei mai accettare di esserlo davvero.»

Io battei le palpebre, un po' stupito da quella rivelazione sommessa, e mi chinai per raccogliere la mia camicia dal pavimento.

«Tu non potresti mai essere egoista o senza cervello, Sayer. In te non c'è neanche una briciola di quella persona.» Mi infilai le mani nei capelli, e li tirai così forte da farmi venire le lacrime agli occhi. «Se vuoi essere il robot privo di emozioni che hai dovuto diventare per sopravvivere a tuo padre e alla morte di tua madre, è una scelta che fai pur sapendo che esistono altre opzioni. È una scelta che fai quando invece potresti scegliere me, scegliere noi. Lo so che è un rischio, ma è un rischio che correremmo insieme.» Sospirai e mi infilai bruscamente la camicia, senza neanche preoccuparmi di cercare la maglietta. «Io ti amo e tu lo sai. Che cosa fare di questo è sempre una tua scelta.»

Vidi che le sue mani si contraevano di riflesso sulla sua gola candida, e mi domandai se tutte le emozioni che teneva represse, intrappolate così a fondo dentro di sé, non stessero minacciando di soffocarla.

Feci l'ultimo passo che mancava per toccare le sue ginocchia con le mie, e mi chinai per metterle le mani ai lati del viso. La fissai mentre continuava a piangere e a guardarmi con quegli occhi liquidi, che si stavano scongelando. Il suo iceberg stava perdendo dei pezzi, i cui bordi acuminati la stavano facendo a brandelli.

Appoggiai le labbra sulla sua fronte e sussurrai contro la sua pelle: «Io scelgo te, Sayer. Amante, avvocato, tutto il resto che c'è in mezzo, io ti scelgo. Io scelgo noi. Quando sarai pronta ad accettarlo, vienimi a cercare». Mi tirai su allontanandomi da lei, e le feci un mezzo sorriso, completamente privo di gioia o di allegria. «Ci vediamo in tribunale.»

Il guanto di sfida era stato lanciato, la mia ultima mano era stata giocata. Ormai potevo soltanto amarla e lasciarla andare.

Il fidanzato di Beryl mi era molto simpatico. Era un tipo alla mano, e non sembrava scoraggiato né dal mio pessimo umore né dal fatto che avevo un bambino di cinque anni incollato al fianco. Quando tutta la famiglia si riunì per il brunch della domenica, mi stupii di quanto Hyde fosse timido con loro. Forse sarà stato il fatto che mia madre appena lo vide scoppiò in lacrime, e che da quel momento in poi non la smise di accarezzargli la testa e di chinarsi ad abbracciarlo. O forse sarà stato il fatto che dopo mangiato mia madre e mia sorella gli portarono un esercito di giocattoli che compensava ampiamente ogni Natale e compleanno che ci eravamo persi. Quando avessi riportato tutto quanto a casa nessuno avrebbe più potuto negare che il mio appartamento fosse a misura di bambino.

Continuavo a chiedergli se andava tutto bene, e lui annuiva senza dire niente. Alla fine, dopo esserci abbuffati di dolce, Joss lo trascinò a guardare un film Disney in soggiorno, mentre io e Wes ci occupavamo di lavare i piatti. Beryl era indecisa se tenere d'occhio i bambini o assicurarsi che io non facessi nulla per metterla in imbarazzo, ora che aveva portato ufficialmente il suo uomo a conoscere la famiglia. Alla quinta volta che si affacciò in cucina per chiederci se poteva dare una mano, mi assicurai che mi sentisse raccontare la storia più imbarazzante che ricordavo sui suoi anni del liceo: quando era uscita di nascosto in pieno inverno per incontrare un vicino di casa, era rimasta chiusa fuori per errore, e si era quasi congelata perché aveva troppa paura di suonare il campanello e far capire a mia madre quello che aveva combinato. Dissi a Wes che mia sorella aveva sempre corso dei rischi per gli uomini, e raramente aveva avuto fortuna. Lei mi lanciò un'occhiataccia mentre Wes rideva, ma sotto la battuta le mie parole avevano un preciso significato che lui non poteva ignorare: vedi di non diventare un rischio che si pentirà di aver corso.

Wes mi passò una pila di piatti da asciugare, e si appoggiò al ripiano della cucina per guardarmi in faccia. «Non ho mai faticato tanto nella mia vita come ho dovuto fare per convincerla a darmi un'occasione. Certo, è bellissima, ma fin dall'inizio c'era molto di più. Sapevo che era una persona speciale, e stare con lei mi faceva sentire speciale. Non è una cosa a cui si rinuncia facilmente.»

No, infatti. Erano passati solo pochi giorni, e io continuavo a sentire il peso della lontananza di Sayer in ogni mio respiro e in ogni movimento che facevo. Mi era entrata nelle ossa, si era radicata nelle mie fondamenta così a fondo che la sua assenza mi faceva sentire come se dovessi collassare su me stesso. E quindi ero di nuovo di umore schifoso a causa di quella bionda intoccabile.

«E Joss.» Scosse la testa ridendo, e gli si illuminarono gli occhi mentre parlava di mia nipote. «Quella bambina è fantastica. Ha una vitalità incredibile, non sai mai che cosa uscirà da quella bocca.»

Io feci una risata secca e appoggiai i piatti per poter assumere una postura simile alla sua.

«Di solito qualcosa che non dovrebbe uscirne. È una combinaguai, e più cresce più la situazione peggiorerà. Beryl non dovrà perderla d'occhio un secondo.»

«Be', spero che non sarà da sola. Io ho intenzione di restare, Zeb. A lungo termine. Voglio entrambe nella mia vita.»

Io lo guardai in silenzio per parecchio tempo, meditabondo. Capivo che la mia mancanza di reazioni lo innervosiva, perché spostò un po' il peso da un piede all'altro. Ero più alto di lui di cinque centimetri buoni, probabilmente pesavo almeno trentacinque chili di più, e sapevo che conosceva il mio passato, però non vacillò e non distolse lo sguardo. Mi disse solo, piano: «Non ti sto chiedendo di lasciarmele, ma vorrei che le condividessi con me».

Io abbassai il mento in un brusco gesto di assenso. «Finché le tratti come si deve e loro ti vogliono intorno, sarò ben contento di farlo. Ti chiedo solo di fare felice mia sorella e di tenere mia nipote fuori dai guai.»

Lui ridacchiò. «Nessuno dei due è un compito facile, ma farò del mio meglio da qui all'eternità.»

Wes amava veramente le mie ragazze, e mentirei se dicessi che non provavo una punta d'invidia per la semplicità della loro relazione. Sapevo che non era proprio così: Beryl era stata scottata e ferita tanto quanto Sayer, ma mia sorella voleva di più, e quindi si era lasciata il passato alle spalle, mentre Sayer sembrava aggrapparcisi con tutte le forze. Se solo fossi riuscito a convincerla a mollare la presa, avrei potuto avere tutto ciò che desideravo: la donna della mia vita, mio figlio, la casa dei miei sogni, e una vita che li comprendesse tutti.

Dopo aver rigovernato andammo a vedere la fine del film con gli altri. Hyde era accoccolato accanto a mia madre: non credo si rendesse conto che quel semplice gesto la stava facendo piangere. La sua presenza insieme a tutti noi sembrava una cosa insignificante, e invece era tutto: lui era nostro, era esattamente dove doveva essere.

Quando lo infagottai nella giacca pesante, gli infilai il suo berretto di Batman nuovo di zecca e lo caricai nel suo seggiolino sul sedile del mio furgone, era ancora silenzioso e riservato. Presto sulle strade ci sarebbe stata la neve, e la mia ragazza avrebbe dovuto rimanere al coperto per l'inverno. Era bellissima e di certo non voleva sporcarsi le ruote. Era l'unica macchina in circolazione in grado di far sembrare figo anche il seggiolino per bambini di Hyde.

Allungai un braccio sullo schienale del sedile per dare un buffetto sulla nuca di mio figlio, e una piccola stretta. Davanti agli altri poteva essere taciturno, ma sapevo che una volta rimasti soli mi avrebbe confessato che cosa lo rendeva così distaccato e pensieroso.

«Come mai sei così silenzioso, tesoro? La nonna è stata felicissima di conoscerti, e Joss ha parlato tutta la settimana dei giochi che avreste fatto insieme.»

Lui alzò le sue spallucce e cominciò a scalciare, come faceva sempre quando era preoccupato. Poi, come se avesse ricevuto un segnale, si morse il labbro di sotto e guardò fuori dal finestrino.

«Puoi dirmelo, Hyde. Puoi dirmi qualunque cosa, e anche se non vuoi dirmi che cosa ti preoccupa va bene lo stesso, però devi sapere che io voglio solo aiutarti, se posso.»

Lui non disse niente per qualche minuto, poi si girò a guardarmi. «Presto verrò a stare con te, giusto?»

Io gli strinsi di nuovo la nuca. «Ci puoi scommettere. Questo è l'ultimo weekend in cui ci vediamo solo di giorno, e poi potrai venire a dormire da me. Non ancora tutti i giorni, ma comunque presto.»

«Okay.» La sua vocina era incerta e tremante. Quando lo guardai in faccia vidi che stava trattenendo le lacrime.

«Ehi, se non ti senti pronto non sei obbligato a venire a stare da me, Hyde. Io ti voglio con me, ma tu devi essere d'accordo.» Certo, per un bambino di cinque anni era un cambiamento importante, ma non capivo qual era esattamente il problema. «Aspetterò che tu sia pronto.» In quel periodo non facevo altro che aspettare che le persone che amavo fossero pronte.

Lui alzò una mano e se la sfregò sugli occhi. Io gli accarezzai ancora la nuca, pensando che forse dovevo accostare e dargli un abbraccio.

«Quando verrò da te mi lascerai da solo in casa? La mamma mi lasciava sempre da solo e io avevo tanta paura. Odiavo il buio, e poi avevo fame. La zia Echo veniva e mi portava a casa sua così non avrei più avuto paura. Adesso mi porti sempre in giro, e ci sono sempre tante persone, quindi non puoi lasciarmi solo. Non mi piace stare da solo.»

Mi arrivò come una coltellata nel cuore. Dovetti accostare davvero perché stavo tremando violentemente, ed ero così pieno di rimorso e di rabbia che non riuscivo quasi a rispondergli. Prima di poterlo fare passai due minuti buoni a respirare profondamente e a cercare di calmarmi. Ero veramente fortunato che fosse sopravvissuto alla negligenza di sua madre. Ero più che fortunato ad aver avuto la possibilità di amarlo e di prendermi cura di lui.

«Io non ti lascerò mai da solo, Hyde. Non ti lascerò solo né a casa mia né in nessun altro posto. Anzi, se mai ti sentirai solo ti insegnerò a usare il mio telefono e potrai chiamare tua zia Echo, oppure tua zia Beryl e Joss, e potrai chiamare la nonna, perché anche se ci sarò io magari potrai lo stesso sentirti un po' solo, a volte. D'accordo?»

Lui annuì, e tirò su col naso una bella quantità di moccio. Si sfregò di nuovo gli occhi, e poi sbatté le ciglia ancora umide di pianto. «E Sayer? Posso chiamarla se mi sento solo?»

Quel bambino sarebbe stato la mia rovina. «Vorresti chiamare Sayer?»

Lui alzò di nuovo le spalle, ma stavolta sorrideva e la fossetta uguale alla mia comparve sulla sua guancia.

«È bellissima e gentile. Ha un buon odore e gioca con me. È una principessa, e mi piace molto.»

Io trattenni un gemito. Era dannatamente vero... be', forse non era una principessa, ma a parte quello, anche a me piaceva molto giocare con lei. «Anche a me piace, e sono sicuro che sarebbe felice di parlare con te se ti sentirai solo. Ci tiene molto alla tua felicità.»

Lui fece un cenno della testa come un piccolo adulto, e il suo sorriso si allargò. «Lei vuole che anche tu sia felice, sai? Me l'ha detto lei.»

Io inarcai le sopracciglia, e riportai l'International sulla strada per non arrivare tardi dalla madre affidataria.

«Ah, sì? E che cosa ti ha detto?»

«Mmh...» Scalciò ancora un po', e poi si mise a ridere quando ruggii perché faceva finta di concentrarsi molto per ricordare la risposta, tamburellando con le dita sul mento. Quando cominciai a fargli il solletico alle costole col dito indice cominciò a sghignazzare e ansimò: «Okay, okay! Ha solo detto che sta lavorando sodo perché io possa andare a casa con te perché è la cosa migliore per tutti e due. Ha detto che io ti faccio felice, e che quindi anch'io sono felice, e anche lei è felice».

Perfettamente logico per un bambino di cinque anni. «È vero che mi rendi felice, ragazzo mio.»

«Anche tu mi rendi felice, Zeb.»

Ci mancava solo il terzo membro di questo circolo di felicità per condividere tutti questi buoni sentimenti, e poi saremmo stati al completo.

«Quando ti ha detto tutte queste cose?»

Lui scrollò le spalle. «Quando è venuta a casa a giocare con me. È sempre vestita elegante.»

Il che significava che doveva essere passata da lui dopo il lavoro. Non avrei voluto essere geloso di mio figlio, ma in un certo modo lo ero.

Forse lei non lo sapeva ancora, o non voleva ammetterlo, ma prima o poi avrebbe scelto noi... tutti e due. Il suo comportamento lo dimostrava.

Quel barlume di speranza a cui mi aggrappavo con tutte le forze cominciò a brillare di nuovo.