13

Sayer

La bella commessa, vestita in modo molto simile a me, veleggiò verso Zeb, che stava scuotendo la testa di fronte al prezzo delle lenzuola per bambini. Io la guardai male. Ci aveva già chiesto una volta se poteva aiutarci a trovare qualcosa nell'enorme negozio dell'elegante centro commerciale di Cherry Creek, e io le avevo già risposto che sapevo esattamente dove dovevamo andare, quindi potevo solo dedurre che il suo ritorno fosse dovuto al sedere di Zeb fasciato dai jeans slavati, e alle sue spalle possenti sotto la camicia a scacchi, piuttosto che da un sincero desiderio di rendersi utile.

Quando incrociò il mio sguardo se la diede a gambe, proprio mentre lui ributtava sullo scaffale un set di lenzuola di un filato così pregiato che nessun bambino sarebbe mai stato in grado di apprezzare. Si mise le mani nei capelli, e si rivolse a me con uno sbuffo di frustrazione. Vidi una vecchietta che stava esaminando dei tappetini da bagno lì vicino sobbalzare e fuggire verso un'altra corsia, come se Zeb fosse il lupo cattivo pronto a far crollare con un soffio l'intero edificio. A me piaceva il suo aspetto, mi piaceva moltissimo. Aveva l'aria di poter conquistare il mondo intero, ma evidentemente questo intimoriva il cliente medio dei negozi di lusso. Io alzai gli occhi al cielo e mi voltai verso di lui, mentre mi prendeva per il gomito e mi guidava fuori dalla sezione biancheria.

«Non hanno lenzuola coi trenini o i supereroi? Chi spenderebbe cinquecento dollari per delle lenzuola che in pochi anni, quando il bambino cambierà letto, diventeranno troppo piccole?»

La sua frustrazione era buffa, in qualche modo. «Io lo farei. Non ti sto neanche a dire quanto costano le lenzuola del mio letto.»

Lui alzò gli occhi su di me e mi passò un braccio intorno alle spalle. La vecchietta di prima ci guardò passare tirando su col naso in modo altezzoso, e poi fu il turno della commessa di guardarmi storto, mentre ce ne tornavamo verso il cuore del centro commerciale.

«Mi piacciono le tue lenzuola.» Nel suo tono si mescolavano umorismo e allusioni sessuali. «Ma anche se il tuo letto fosse coperto di carta vetrata, con te sopra, nuda, non me ne accorgerei neppure.»

«Ouch.» Lo mormorai piano, ma non potei trattenere l'ondata di piacere causata da quella dolcissima dichiarazione.

Lui ridacchiò, e lasciò vagare lo sguardo sul resto dei negozi di lusso, con le loro insegne moderne e le loro vetrine minimaliste. «In questo centro commerciale non troverò niente di adatto alla camera di un bambino, vero?»

Quando mi aveva scritto un messaggio per chiedermi di accompagnarlo a cercare la roba per preparare la cameretta di Hyde, all'inizio avrei voluto rifiutare. Mi sembrava una cosa troppo intima, troppo duratura. Mi pareva che lui non solo si stesse scavando un posto nella mia quotidianità, ma che stesse anche cercando di creare uno spazio destinato a me nella sua vita così piena e complicata. Con lui ero troppo vicina al limite del baratro, rischiavo ogni minuto di lasciarmi andare e cadere irreparabilmente nella sua rete. Ormai ero aggrappata solo con la punta delle dita, ed ero terrorizzata.

Quando la mia vita era vuota e sterile sapevo di essere al sicuro, anche se mi sentivo terribilmente sola. Sapevo che se avessi perso la presa la caduta avrebbe potuto uccidermi, che potevo schiantarmi nell'impatto, quindi continuavo ad aggrapparmi al terreno che mi era più familiare, per tenermi su. Ma per quanto rimanessi abbarbicata al bordo del precipizio, cercando di non cedere alle emozioni che mi suscitava, Zeb era sempre là sotto ad attirarmi, a trascinarmi, a insistere perché mi schiantassi su di lui e su tutte le promesse di amore eterno che, lo sapevo, non vedeva l'ora di farmi.

Intuendo la mia esitazione, aveva aggiunto che aveva già chiesto a Beryl, ma che Joss era a casa malata e che sua madre aveva un impegno per cena. Aveva insistito che aveva bisogno di un parere femminile per aiutarlo a prepararsi all'arrivo di suo figlio, e io non avevo saputo resistere, ma l'unico posto dove ero abituata a fare acquisti era Cherry Creek.

Non appena eravamo entrati nel parcheggio era apparso lampante che la sua Jeep fangosa stridesse fra le Mercedes e le Audi sparse per il garage, e la nostra visita al negozio Nordstrom non aveva fatto altro che confermare la realtà che i negozi che frequentavo non erano proprio l'ambiente naturale di Zeb. Perfino le commesse apprezzavano la novità che il suo aspetto rude offriva alla vista.

«Sull'altro lato del centro commerciale c'è un negozio Bed Bath & Beyond. Scommetto che là ce le hanno le lenzuola con i trenini.» Ripensandoci, probabilmente avremmo dovuto cominciare da lì. Quella catena era molto più in linea con lo stile di Zeb, e più adatta alle famiglie con bambini. «Te l'avevo detto che non sono brava con l'arredamento e roba del genere. Io mi limito al beige e ai colori neutri.» Il beige e i colori neutri non erano offensivi, sempre che un colore potesse essere offensivo, come sosteneva mio padre. Secondo lui, qualsiasi cosa poteva essere giudicata e disprezzata, se poteva usarla per far vergognare qualcun altro dei propri gusti e delle proprie preferenze.

Zeb mi attirò più vicino, e mi diede un bacio sulla testa, mentre varie persone si spostavano per lasciarci passare. Tutti sembravano adeguarsi alla sua implicita richiesta di fargli largo. Era uno spettacolo notevole, e sapere che ero io la fortunata per cui lui creava quello spazio mi fece scorrere un piccolo brivido lungo la schiena.

«Tu credi di doverti limitare al beige e ai colori tenui, ma in realtà ami i colori e tutto ciò che è originale e divertente, solo che nascondi queste cose dove credi che nessuno possa notarle.»

Io aggrottai la fronte e feci per allontanarmi, ma lui non me lo permise: allungò una mano e prese la mia. Nessuno in tutta la mia vita, a quanto ricordavo, mi aveva mai preso per mano. Né mia madre né mio padre, neanche Nathan... nessuno tranne Zeb, e questo mi scosse profondamente. Avrei voluto contemporaneamente liberarmi e aggrapparmi a lui così forte da non staccarmi mai più. La mia presa sulle cose che mi davano sicurezza si allentò ancora di più. Ormai mi tenevo solo con la punta delle dita.

«Ma cosa dici? Tutto quello che c'è in casa mia è neutro e opaco, tutto quello che possiedo o indosso ha colori spenti. Perfino la mia auto è grigia.»

Lui fece una specie di grugnito, e mi strinse più forte la mano. «Ma scommetto un milione di dollari che la tua biancheria intima è rossa, oppure blu, e che hai le unghie dei piedi dipinte di un colore assurdo, completo di decorazioni. I tuoi capi da ginnastica sono neri o grigi, ma su ogni singolo indumento c'è una striscia fosforescente o una macchia di colore. Senza contare che avresti potuto pagare qualcuno per coprire quel muro rosso nella tua cucina, oppure avresti potuto comprare una casa moderna invece di spendere una fortuna per recuperare e restaurare quella vecchia, meravigliosa dimora. Anche tu hai una fiamma che brucia, Sayer. È nascosta per bene, ma c'è, e se qualcuno è abbastanza intelligente da cercarla la troverà stupenda.»

Questo mi fece quasi bloccare di colpo, per poter metabolizzare le sue parole. Non avevo mai considerato le piccole cose della mia vita, che facevo soltanto per me, per i piccoli scampoli di felicità che mi davano, come una fiamma. Le consideravo come piaceri vergognosi, che ancora non riuscivo a credere di poter ottenere senza pagare un prezzo: stavo ancora aspettando che un morto venisse a dirmi che erano frivoli e inutilmente dispendiosi. Non mi ero mai accorta che Zeb le aveva notate.

Mi tirò gentilmente per la mano per farmi riprendere il cammino e mi guardò da sopra la spalla. «E non credere neanche per un secondo che non mi sia accorto di quanto ti piacciono i miei tatuaggi: non riesci a smettere di toccarli. Non mi sto certo lamentando, ma di solito le ragazze li apprezzano solo all'inizio, poi smettono di guardarli perché diventano parte dello sfondo. Però per te è diverso. Per quante volte tu li abbia guardati o leccati, vuoi continuare a esplorarli, ad assorbirli. Non solo ti piacciono i colori, Sayer: ti piace assaporarli e contemplarli.»

Dio, il suo modo di riconoscere la verità mi sconvolgeva ogni volta.

Espirai lentamente e lo guardai con la coda dell'occhio, perché sentivo che stava spiando la mia reazione.

«Sono cresciuta pensando che dovesse essere tutto perfetto. Mio padre era molto esigente, su ogni minimo dettaglio della mia vita. Tanto per cominciare voleva un maschio, quindi l'ho deluso dal mio primo minuto di vita, dato che ero una femmina. Quella è stata la prima di un'infinita lista di delusioni che gli ho inflitto nel corso della vita. Quello che indossavo, come mi pettinavo, come mi truccavo, con chi facevo amicizia, come tenevo la mia stanza: passava tutto al vaglio, e niente era mai all'altezza delle sue aspettative. Disprezzava tutto ciò che ero e che facevo, quindi verso i dieci, undici anni, decisi che la cosa migliore era attenermi ai colori neutri. Era molto più difficile per lui distinguere fra il crema e il beige. Cominciai a usare il bianco, il nero e l'avorio come basi per riuscire a sfuggirgli.» Scossi un po' la testa, mentre finalmente raggiungevamo il negozio vivacemente illuminato. «Quelle abitudini me le sono portate nella mia vita da adulta, ma immagino che con il tempo qualche frammento delle cose che mi piacevano veramente si sia fatto strada senza che me ne accorgessi.»

Gli rivolsi un sorriso un po' sbilenco. «In realtà quel muro color papavero mi piace moltissimo. Lo terrò così anche dopo che Poppy se ne sarà andata.»

Lui mi lasciò andare la mano e appoggiò il palmo alla base della mia schiena, guidandomi dentro il negozio di fronte a noi. Poi mi chiese sottovoce, in modo che solo io potessi sentirlo: «Che cosa è successo con tua madre, Sayer? Se tuo padre era un uomo crudele e maniaco del controllo, perché non gli si è opposta? Perché è rimasta con lui? Perché non ti ha protetta da lui?».

Erano le stesse domande che mi avevano tormentato fino a quel momento, quelle che mi avevano convinto a chiudere il mio cuore in uno scrigno di ghiaccio. Non potei evitare di stringere i pugni e piantarmi le unghie nei palmi tanto da sentire dolore, mentre gli rispondevo: «Lei lo amava. Lo amava davvero, completamente, e questo l'ha uccisa. Non le importava quanto lui si comportasse male con lei, quanto orribilmente la trattasse. Ogni singolo giorno lei cercava di compiacerlo, di essere la moglie perfetta e di rendere me la figlia perfetta. Non desiderava altro che la sua approvazione, una qualche forma di affetto e considerazione, e lui lo sapeva bene, quindi si divertiva a prenderla in giro e a tormentarla». I miei ricordi cominciarono ad agitarsi nella presa ferrea in cui li tenevo, e scivolarono via. Si mescolarono a tutte le emozioni che Zeb aveva scatenato dentro di me, e mi fecero stringere dolorosamente lo stomaco, e sentire una fitta pulsante nel punto in cui avrei dovuto avere il cuore.

«La tradiva, e le diceva che non era bella come le sue amanti. Lei si affamava, passava le sue giornate in palestra. Cambiava pettinatura, si sottoponeva a interventi estetici, e lui continuava a deriderla, a dirle che non sarebbe mai stata perfetta. Dopo la delusione patita alla mia nascita, lui voleva un figlio maschio, ma la salute, non solo mentale, di mia madre era incompatibile con un'altra gravidanza: non è riuscita a portarne a termine una seconda. Per lui era diventata inutile, eppure lei continuava a provarci. La sua vita non era altro che una corsa infinita alla ricerca di un irraggiungibile traguardo, dove finalmente lui avrebbe ricambiato il suo amore. È morta perché ha capito che non sarebbe mai riuscita ad accontentarlo, e non poteva vivere con questa consapevolezza. Mi ha lasciato con lui, sapendo chi era e di che cosa era capace. Non credo che potrò mai perdonarla per questo.»

Questi sentimenti mi rendevano una persona orribile e senza cuore, una donna crudele, ma era la verità. Se l'avessi perdonata, le cateratte si sarebbero aperte e non avrei più potuto trattenere tutta l'oscurità spaventosa e terribilmente dolorosa che si annidava dentro di me. Se l'avessi liberata con il mio perdono, non avrei più potuto ignorarla, e non ero sicura di essere abbastanza forte per sopravvivere al confronto.

Zeb non rispose e mi accompagnò verso uno scaffale pieno di lenzuola colorate per bambini. Vedevo già un set con Superman e Batman, e un altro con un trenino. Zeb si precipitò su un set decorato con camion e macchine d'epoca, e completò l'opera prendendo anche un tappeto e delle tende coordinate per la cameretta di Hyde. Era divertente assistere al suo entusiasmo, e il mio cuore si riempì di dolcezza pensando che Hyde aveva un padre che lo adorava e che non gli avrebbe mai fatto passare gli orrori che avevo vissuto io. La mia verità era molto più spiacevole e difficile da digerire di quella di Zeb.

Quando mi chiese di scegliere un altro set di lenzuola, accettai, e ne presi uno pieno di forme geometriche astratte, molto colorato. Certo non aveva le macchine e i camion, ma si intonava abbastanza bene con le altre cose che lui aveva scelto, ed era caotico e divertente. Sarebbe servito allo scopo di rendere l'appartamento più a misura di bambino: sarebbe stato evidente sia a Hyde sia a qualsiasi ispettore del tribunale incaricato di un controllo che Zeb stava riorganizzando la sua vita per suo figlio.

Il prezzo dell'intero carico di acquisti era più che ragionevole, e la cassiera che ci fece il conto aveva un anellino al naso e i dreadlock. Non batté ciglio di fronte a tutti i tatuaggi di Zeb e alla sua barba rigogliosa. Mi rimproverai silenziosamente per averlo portato in quel negozio costosissimo: quell'errore mi faceva sentire sciocca e incoerente, così come il prolungato silenzio che ci accompagnò fino alla Jeep.

Lui buttò i sacchetti nel retro e poi venne ad aprirmi la portiera. La sua Jeep era coperta di fango e di vari altri detriti, dato che la parcheggiava fuori dai cantieri, e non mi lasciava entrare senza darmi una mano. Mi disse scherzosamente che se mi fossi sporcata non avrebbe potuto permettersi di ripagare il mio completo pantalone, e mi stavo chiedendo se non fosse davvero preoccupato di questo.

Lui appoggiò una mano sulla maniglia e l'altra sul mio fianco, all'altezza della vita. Chinò un po' la testa, per guardarmi dritto negli occhi, e mi disse piano: «Tuo padre era uno stronzo, e vorrei che fosse ancora in circolazione per potergli dare una lezione, ma tua madre...». Scosse lentamente la testa. «A volte non possiamo controllare coloro che amiamo. Ho visto mia sorella combattere con questa verità per anni. Odiava il comportamento di suo marito, eppure allo stesso tempo lo amava. Se lasci che tutto ciò che hai fatto per sopravvivere a tuo padre e il risentimento verso tua madre ti riempiano il cuore, non avrai mai spazio per i sentimenti che vuoi davvero provare. È come un terreno pregiato la cui proprietà è legata al passato, dove non è possibile costruire un futuro.»

Io distolsi lo sguardo, mentre lui spalancava la portiera e mi prendeva per la vita per aiutarmi a salire. Quando si sistemò al posto di guida accanto a me, io sospirai e mormorai: «Non sono sicura che il terreno sia abbastanza stabile per poterci costruire, che si faccia o no chiarezza sul passato».

Lui guardò nello specchietto per uscire dal parcheggio, e poi allungò una mano per mettermela sulla coscia. «Ci vuole soltanto qualcuno che sappia come fare. Per fortuna di entrambi, ho una licenza di esperto per le costruzioni su terreni instabili.»

Io mi misi a ridere, e intrecciai le dita con le sue mentre lui guidava fuori dal garage. Quando svoltò dalla parte opposta di casa mia, dove pensavo che mi avrebbe riportato, mi guardai in giro stupita.

«Dove andiamo?»

«Muoio di fame e sono assetato. Il bar di Asa è a pochi isolati da qui, sulla Broadway, quindi pensavo che potevamo fermarci a mangiare un boccone.» Nei suoi occhi verdi si accese una luce ironica. «Non preoccuparti, non sto certo pensando di portarti fuori per un appuntamento, dato che sembri allergica all'idea.»

Io ero un po' restia ad accettare. Non è che non volessi uscire con lui, solo che l'idea di mangiare insieme, in pubblico, faceva sembrare tutto molto più reale, mentre fino a quel momento ero riuscita a convincermi che si trattasse soltanto di sesso e di lavoro. Alla fine il lavoro si sarebbe concluso, quando lui avesse ottenuto l'affidamento di Hyde, e il sesso sarebbe stato più difficile da organizzare, e dubitavo che Zeb avrebbe continuato a sforzarsi di vedermi spesso. Se restavamo legati da rapporti di lavoro e da una buona chimica a letto non era necessario scomodare i sentimenti... o almeno non lo sarebbe stato se io avessi fatto le cose per bene fin dall'inizio, e invece avevo combinato un disastro colossale.

«È solo un hamburger e una bibita, Say. Non ti ho certo chiesto di sposarmi.»

A quelle parole battei le palpebre, e mi accorsi che mi ero irrigidita come una statua. Deglutii forte e mi agitai un po'.

«Okay, scusami. Non avevo intenzione di farmi prendere dal panico.»

«Però è successo. Prima o poi dovrai cominciare a trascorrere del tempo con me fuori dal letto e dal tribunale, Sayer. Fra poco un bambino di cinque anni verrà a vivere con me, e questo significa che dovrai prendere tutto il pacchetto. Quando ci sarà Hyde il fatto che passiamo del tempo insieme acquisterà tutto un altro significato.»

Mi strinse la coscia, e io cercai di non lasciarmi sconvolgere da quella rivelazione. Quindi aveva intenzione di continuare a vedermi spesso. Che cosa diavolo stava succedendo?

Mi schiarii la voce. «Ce ne preoccuperemo quando sarà il momento, Zeb.»

«Perché ho l'impressione che tu stia usando una specie di tattica da avvocato per evitare l'argomento?» Sembrava seccato, ma ormai eravamo arrivati al locale, quindi evitai di ammettere che in effetti stavo cercando disperatamente di scantonare. Quando eravamo nudi e aggrovigliati, eravamo perfetti, ma non ero tanto sicura che questo potesse tradursi in un successo nella vita reale, così in un attimo mi aggrappai più forte al bordo del precipizio, e mi sollevai di qualche centimetro, più lontana dalla zona pericolosa dell'amore e del desiderio.

«Entriamo a mangiare. Anch'io ho fame, e adoro l'hamburger col bacon di Darcy. Ne parleremo più tardi.»

Lui fece un grugnito di insoddisfazione, ma comunque venne ad aprirmi la portiera per aiutarmi a scendere dalla Jeep. Quando mi trovai in piedi di fronte a lui, con le sue mani sui fianchi, si chinò per baciarmi con passione. Non me ne stupii. Lo faceva sempre quando io rimandavo la discussione sulla nostra situazione sentimentale. Era come un avvertimento che per il momento stava lasciando perdere, ma che la questione non era chiusa.

«Alla fine non ci sarà più spazio per altri più tardi, Say. Ci sarà solo un presente, e dovrai decidere che cosa vuoi fare.»

Il bar era strapieno, e appena messo piede all'interno ci trovammo circondati dal baccano. Un uomo imponente, con la pelle di uno splendido colore leggermente più scuro di una bella abbronzatura, salutò Zeb battendo il pugno contro il suo, e me con un cenno del capo. Era bellissimo e aveva la stessa aria decisa di Zeb, quindi scelsi di non provare a rispondere maldestramente con un salve, ma di usare lo stesso cenno che aveva fatto lui. I suoi occhi erano di un insolito azzurro chiaro, e trascoloravano in un cerchio di un giallo dorato all'esterno dell'iride. Non avevo mai visto niente del genere, e facevo fatica a evitare di fissarlo ogni volta che mi trovavo in sua presenza. Avevo già incontrato Dash Churchill qualche altra volta, quando ero venuta al bar con le ragazze. Era sempre stato molto cortese, ma non mi era mai sembrato particolarmente amichevole, anche se mi aveva detto di chiamarlo Church, con quel suo accento strascicato del Mississippi.

Per quel concentrato di spirito e sfacciataggine coi capelli rossi che era Dixie Carmichael, invece, non si poteva dire lo stesso. La barista storica del locale era sempre allegra ed entusiasta, e non esitò a buttarci le braccia al collo, anche se Zeb dovette chinarsi parecchio per permettere a quella ragazza piccolina di arrivare fino a lui.

«Oh, mio Dio, non vi vedo da secoli! Stasera c'è un bel casino, temo che farete fatica a trovare un tavolo libero.» Spalancò gli occhi.

Zeb si accarezzò la barba e si guardò intorno nel locale affollato. «Che cosa succede di speciale stasera?»

Dixie scrollò le spalle. «La band è una delle scoperte di Jet. Ogni volta che ci manda un gruppo ci riempiono il locale, e oggi al bar non c'è Asa, che sta cercando di traslocare nella nuova casa. Quindi siamo solo io, Danny, che è qui da poco, e questo tizio appena arrivato, Zack. Sono tutti e due bravi, ma non veloci come Asa. Dovrei chiamare Rome, ma Cora è incinta e sta per partorire, quindi lo farò solo in caso di vera emergenza.»

Aveva snocciolato tutti i nomi familiari delle donne e degli uomini che componevano la famiglia acquisita di mio fratello. Io annuii come se avessi capito tutto, e poi toccai Zeb sulla spalla. «Tu cerca un tavolo, io vado a lavarmi le mani prima di mangiare.» Avevo anche bisogno di un minuto per riprendermi. La mia maschera si stava staccando, e la donna che spuntava sotto di essa stava cominciando a prendere possesso della mia vita.

Lui annuì e si allontanò, e io cominciai a farmi largo fra la folla per arrivare al bagno. Poco dopo sentii un tocco leggero sul gomito. Gli occhi scuri di Dixie brillavano con tutto il romanticismo e il sentimento che mancavano a me.

«Quindi c'è qualcosa fra te e il gigante, eh?» Era una domanda innocente, che allo stesso tempo non lo era.

«Lo sto aiutando per alcune cose, e questo ci ha portato a passare molto tempo insieme.» Come risposta sullo stato del mio rapporto con Zeb era quanto di più vicino ci potesse essere all'ambiguità del linguaggio legale.

Dixie ridacchiò come una bambina: quella ragazza esuberante era veramente l'unica persona adulta al mondo che potesse permettersi di farlo riuscendo comunque a sembrare simpatica e sexy. «È da parecchio che lui voleva passare del tempo con te, e io ho sempre pensato che la cosa fosse reciproca. Comunque, di qualsiasi cosa si tratti, buon per voi. Adoro vedere due belle persone che si trovano, anche se non sembrano ben assortite. Anzi secondo me in questo caso è anche meglio!»

Il suo sguardo scivolò verso il buttafuori dalla pelle scura, e poi tornò su di me.

«Rendetevi felici a vicenda, è l'unica cosa che conta. Ora devo andare a prendere una comanda, e a strillare al tipo nuovo di darsi una mossa. Se Zeb trova un posto ti porterò una Coors Light.»

Così in un attimo era sparita, e io ricominciai la mia lotta per arrivare al bagno. Non ero mai stata al bar in un momento così affollato, e non capivo bene che tipo di clientela ci fosse. Sembravano esserci un sacco di ragazzi del college, che probabilmente erano lì per ascoltare la band che avrebbe suonato più tardi, ma anche un folto gruppo di uomini e donne vestiti più o meno come me, che chiaramente erano venuti per un aperitivo dopo il lavoro, e poi un'accozzaglia di altri tipi, che sembravano cercare un locale a caso dove bere qualcosa.

Mi destreggiai fra quei clienti rumorosi e spinsi la porta del bagno. All'interno c'era la fila, e per una volta non mi sentii come un pesce fuor d'acqua, perché sapevo che la donna davanti a me indossava un completo Mauro Grifoni sicuramente molto più costoso del mio tipico abbigliamento da ufficio. Fra l'altro era di uno splendido color blu ardesia, e prima di guadagnarmi il mio cubicolo mi segnai sul telefono la pagina internet dove comprarmene uno. Il blu ardesia era un bel colore, non era certo neutro, e se mi fossi decisa a comprarlo non avrei potuto nasconderlo come un piacere segreto.

Stavo rimettendo il telefono in borsa quando mi scontrai con qualcuno nel corridoio affollato. Misi le mani avanti per sostenermi, e mi ritrovai a fissare gli occhi opachi di un uomo chiaramente ubriaco. Era mezzo svestito: aveva la camicia slacciata fino al petto, ma la cravatta ancora annodata intorno al collo. Oscillò perdendo l'equilibrio, e mi trascinò con sé, dato che mi stava ancora tenendo per le braccia.

Io risposi con una smorfia che speravo passasse per un sorriso amichevole e ripetei: «Mi scusi», cercando di scrollarmelo di dosso.

«Sei proprio un bel bocconcino... e poi sei così alta. Scommetto che hai delle gambe fottutamente fantastiche.»

Io arretrai d'istinto davanti a quell'approccio biascicato, e cercai di liberarmi con più decisione. Ero seccata che nessuna delle altre persone che entravano e uscivano dal bagno si preoccupasse di dirgli qualcosa.

«C'è qualcuno che mi aspetta, deve lasciarmi andare. Adesso.» Enfatizzai soprattutto l'ultima parola e gli diedi una forte spinta al centro del petto. Lui grugnì e serrò la presa sulle mie braccia, facendomi lanciare un gridolino. Di certo mi sarebbero rimasti dei lividi come ricordo di quell'incontro.

«Non voglio lasciarti andare. Voglio baciarti.» Era così confuso e ubriaco che si mangiava le parole, e rischiammo di nuovo di cadere. Si sporse verso il mio viso.

A quel punto ne avevo abbastanza, così gli misi una mano su quella bocca protesa e lo spinsi via con tutta la mia forza. «Che schifo. Mi lasci andare.»

Riuscii a riguadagnare un po' di spazio, ma quando l'uomo si rese conto che non gli avrei permesso di posare le labbra sulle mie, cominciò a scrollarmi con violenza, tanto da farmi scattare la testa all'indietro. Io lanciai uno strillo di sorpresa, mentre lui mi gridava che ero una stronza presuntuosa e che dovevo ringraziare che qualcuno volesse baciare il mio culo da snob.

Stavo per ribattere che in quello stesso bar c'era qualcuno che era più che felice di baciare il mio culo da snob in qualsiasi momento, quando quel qualcuno apparve all'improvviso e il tizio ubriaco finì schiacciato al muro, con addosso cento chili di furore a forma di Zeb.

Zeb non gridava, non agitava i pugni. Si limitava a tenere sollevato quell'uomo afferrandolo per la camicia, e a minacciare di fargli una serie di cose orrende con una voce tranquilla e letale. Solo che in realtà non erano proprio minacce, erano promesse e quel manager ubriaco se ne rese conto. Girò lo sguardo sopra la spalla di Zeb, verso di me, con aria supplichevole. Io sospirai e feci un passo in avanti per mettergli una mano sulla spalla contratta. Sembrava un predatore pronto a saltare alla gola della preda.

«Zeb, lascialo andare.»

«Ti ha messo le mani addosso. Ti ha fatto gridare. Non uscirà di qui senza sanguinare.»

Ringhiò le parole fra i denti, scuotendo l'uomo come lui aveva appena fatto a me. Non l'avevo mai visto in quello stato... in realtà non era vero. La sua espressione era molto simile a quella della foto segnaletica nella mia cartelletta, e questo mi fece salire un'ondata di panico soffocante. Non poteva ricascarci.

L'idea di dover perdere Zeb, di fargli buttare via tutto quello per cui aveva lavorato così duramente, fece quello che il pensiero di mia madre e le confidenze su mio padre non erano riusciti a ottenere. Le cateratte si aprirono, i muri crollarono: tutte le paure, i desideri, le voglie, i sogni e gli incubi che conservavo dentro di me si riversarono violentemente all'esterno. Non era una singola emozione che provavo: sentivo tutto quello che avevo represso così a lungo, e quell'ondata mi mise in ginocchio. Smisi di respirare, di ragionare, e mi lasciai trascinare via dalla piena di tutto ciò che avevo sempre cercato di fingere che non esistesse.

Zeb aveva troppo da perdere, e io non volevo assolutamente essere il catalizzatore di un disastro. Non potevo permettere che lui o Hyde perdessero il loro futuro per causa mia. Se lo avessi fatto, allora mi sarei meritata ognuno degli orrendi insulti che mio padre aveva usato contro di me. Il disprezzo e lo sdegno che mi avevano accompagnato per tutta la vita sarebbero stati finalmente meritati, e non potevo sopportare questa idea neanche per un secondo.

Cominciai a sentire lungo la schiena il gelo di vecchie parole, che parlavano di valore e di qualità, e di non essere mai abbastanza. Sapevo bene che cosa significava crescere senza un briciolo di amore e non avrei mai messo Hyde nella stessa situazione. Non avrei mai permesso a Zeb di fare un sacrificio del genere per me.

Strinsi il pugno sulla sua spalla muscolosa, sia per sostenermi sia per parlargli direttamente all'orecchio. La mia voce era rauca e tremante, ma lui era così concentrato sull'altro uomo che dubitavo se ne rendesse conto. «Hai troppo da perdere per poterti permettere di sbatacchiare questo tizio come una bambola di stracci. Non vogliamo che qualcuno chiami la polizia. Sarebbe la cosa peggiore, proprio adesso che stai per ottenere l'affidamento.»

Zeb spinse l'avambraccio sulla gola dell'uomo, che gorgogliò mezzo soffocato. «Ti ha messo le mani addosso.»

«Lo so, ma avevo tutto sotto controllo.» Non era vero, e lo stavo perdendo sempre di più. Però c'era in gioco più di quell'idiota ubriaco e dell'istinto naturale di Zeb alla difesa delle persone che amava. I miei lividi sarebbero guariti, ma se lui avesse perso Hyde per un motivo così stupido... non avrei mai potuto convivere con una conseguenza del genere. «Lascialo andare. Ti prego.» Lo stavo implorando, con le lacrime agli occhi, sentivo montare dentro di me la disperazione, avrei fatto qualsiasi cosa per portarlo via da lì.

Sentii la tensione delle sue spalle allentarsi, poi all'improvviso si tirò indietro e lasciò cadere l'uomo, che atterrò in un mucchietto scomposto di terrore.

«Tieni a posto le mani, stronzo.»

Il tizio ci guardò battendo le palpebre con aria ottusa e annuì lentamente. Io appoggiai una mano al centro della schiena di Zeb, ma lui si scostò da quel contatto e mi fece venire voglia di piangere. Ecco perché le emozioni erano pericolose: facevano troppo male, e ce n'erano troppe per poterle gestire. Le mie si agitavano e si infrangevano in grandi ondate che minacciavano di travolgermi. Lui si fece largo tra la folla a grandi passi, alla ricerca di Church. Io lo seguii da vicino.

«Uno stronzo ubriaco l'ha appena aggredita nel corridoio. Le ha messo le mani addosso e ha cominciato a scuoterla. Non voleva lasciarla andare.»

Church si irrigidì e fece un cenno con la testa. I suoi occhi di quel colore inusuale si puntarono con espressione solenne nella direzione che Zeb gli stava indicando. «Ha la camicia mezza aperta e una cravatta rossa. Quel pezzo di merda è fortunato che non l'abbia usata per strozzarlo.»

«Ci penso io. Lo sbatteremo fuori. Vuoi che chiami la polizia?»

«No.» Sporsi la testa da dietro la schiena di Zeb e cominciai a scuoterla disperatamente. «Sto bene. Non chiamare la polizia.»

«Sei sicura?» Church incrociò le braccia sul petto. In una situazione diversa mi sarei presa un minuto per ammirare i suoi muscoli tesi sotto la maglietta nera aderente. Era davvero un uomo attraente e pieno di energia.

«Sono sicura. Andiamocene, Zeb.»

Ci fu uno scambio virile di sguardi d'intesa, una specie di dialogo non verbale il cui significato mi sfuggiva completamente, e poi fui trascinata via, caricata sul sedile del passeggero della Jeep e avviluppata nel silenzio inferocito di Zeb. Riuscii a reggerlo solo per pochi minuti, prima di sbottare: «Mi dispiace».

Lui voltò la testa con uno scatto talmente improvviso che mi stupii che non perdesse il controllo della Jeep. «Per cosa?»

Io alzai le spalle. «Per tutto.» Per non aver gestito meglio la situazione. Per aver pensato di poter uscire incolume dal nostro rapporto. Per non essere stata capace di rispondere alla sua passione e al suo amore con la stessa intensità. Per non essere stata abbastanza coraggiosa da permettergli di far rivivere il mio cuore maltrattato e rinsecchito come aveva fatto con la mia casa.

«Non sopporto gli uomini che mettono le mani addosso alle donne. È una cosa che mi manda fuori dai gangheri.» Lo sapevo bene: era così da quando era successo a sua sorella.

«Era tutto sotto controllo. Stavo bene, lo stavo tenendo a bada. Tu stai rischiando troppo per poter venire ogni volta in mio soccorso su un cavallo bianco.»

Lui fece un ringhio basso, e vidi le sue nocche diventare bianche mentre stringeva il volante.

«Quando dici queste cose sembri il mio avvocato, non la mia amante. Io mi metterò in mezzo ogni volta che qualcuno ti farà del male, ti minaccerà o ti spaventerà, Sayer. Io ci tengo a te... io ti a...»

Io lo fermai prima che potesse completare quel pensiero: non potevo sentire quelle parole. Se gliele avessi lasciate dire, la piena mi avrebbe sommerso e sarei annegata.

Feci un respiro profondo, cercai di recuperare i cocci della mia corazza e mi preparai a fare quello che, lo sapevo, avrei dovuto fare fin dall'inizio per proteggere entrambi. Allungai una mano e gliela misi sulla gamba. Aspettai che girasse lo sguardo su di me.

«Io sono il tuo avvocato, Zeb. Io voglio quello che è meglio per te e per tuo figlio.» A quanto pareva, quel più tardi era arrivato prima di quanto avessimo previsto. Sapevo che cosa fare in veste di avvocato, e mi concentrai completamente su quello. Non gli avrei permesso di rischiare qualcosa per me: né il suo cuore né il suo bambino né il suo futuro... niente, soprattutto dato che non potevo offrirgli nulla in cambio.

Per il resto del tragitto fino a casa mia lui rimase in un silenzio glaciale, e quando risalì il vialetto e spense il motore capii che quell'addio sarebbe stato il più doloroso che avessi mai affrontato.

Nei suoi occhi verdi c'era un'ombra scura, piena di spine e di emozioni dolorose. Le sentivo sulla pelle, che all'improvviso era diventata troppo sensibile.

Fece un sospiro così pesante che sentii su di me tutto il suo carico di sogni e speranze che avevo infranto.

«Quindi è tutto qui? Vuoi essere solo il mio avvocato? Vuoi risolvere da sola qualsiasi problema, e tenere a bada chiunque voglia farti del male, anche se ci sono io accanto a te? So bene che ho molto da perdere se mi metto nei guai, Sayer. Capisco quanto è alta la posta in gioco, quello che non riesco a capire è come tu possa ignorare di essere proprio uno dei motivi per cui sto cercando così disperatamente di migliorare.» Inarcò le sopracciglia. «Sayer, tu mi hai visto fin dal primo momento, hai visto il vero me. Perché fai così fatica a credere che anch'io abbia visto tutto di te?»

Stavo per mettermi a piangere. Mi morsi il labbro inferiore e mi voltai verso la porta, ma prima che potessi aprirla me lo ritrovai davanti. Era sempre lì, di fronte a me, in un posto che sembrava ormai appartenergli.

Mi prese il viso fra le mani e passò i pollici sulle mie guance. Mi stupii che lasciassero una traccia umida.

«Non so che altro fare con te, Say. Ti ho costruito una casa. Ho fatto l'amore con te. Ti ho portato i colori, ti ho aiutato a festeggiarli. Ti ho fatto sciogliere, e non una volta sola. Voglio dirti quanto ci tengo a te... che altro posso fare? Dimmelo tu.»

Il mondo intero.

Quell'uomo grande e rude mi aveva regalato il mondo intero e io non sapevo che cosa farne. Per una volta, il mio cuore sembrava aver preso fuoco. Erano le mie mani a essere gelide. Troppe emozioni, troppe paure. Non riuscivo a gestirle, mi agitavo nella corrente. Cercai di aggrapparmi all'unico appiglio che sembrava stabile, radicato nel terreno. Mi aggrappai a lui.

Strinsi le mani sulla sua camicia, attirai la sua bocca sulla mia. Gli sussurrai che volevo che entrasse con me per l'ultima volta. Lo feci sapendo che Zebulon Fuller sarebbe stato il primo e l'ultimo uomo che avrei mai preso l'iniziativa di baciare, perché stavo cambiando, stavo inciampando e scivolando in una persona che non aveva ancora un prima e un dopo, ma che era un miscuglio confuso e aggrovigliato di entrambi. Lui meritava molto di meglio. Ero ancora per metà una donna perduta negli orrori del passato, e per metà una donna che stava appena cominciando a rendersi conto dei suoi veri desideri e bisogni, a prendere in mano la sua vita. Lui si meritava una persona completa, e così suo figlio.

Lui mi aveva demolito con la sua onestà diretta e la sua totale disponibilità. Io avevo distrutto il nostro rapporto perché non c'era spazio dentro di me. Anche se tutte le emozioni e i sentimenti che provavo stavano colando fuori, soffocandomi e lasciando un vuoto dentro di me, non riuscivo ancora a trovare posto per tutte le cose meravigliose che lui stava cercando di regalarmi.