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Zeb

Stavo facendo una fottuta pazzia.

Dovevo implorare il suo aiuto, cercare di fare la cosa giusta. Avrei dovuto essere spaventato e imbarazzato dalle conseguenze delle mie azioni passate. Di certo non avrei dovuto lasciarmi trascinare dalla bruciante scossa di desiderio innescata dalla sola presenza di Sayer. Quando ero andato a chiedere il suo aiuto non pensavo di comportarmi così, ma non c'era stato modo di evitarlo.

Forse era il fatto di vederla per la prima volta senza la sua classica, severa divisa da avvocato. Se c'era una donna capace di essere tragicamente impeccabile e ferocemente perfetta, quella era lei. Era sempre vestita in modo inappuntabile, tanto che a volte non sembrava neanche vera: sembrava più che altro una bambola a grandezza naturale, senza un capello fuori posto, con un trucco discreto e perfetto sul viso, anche dopo un'intera giornata di lavoro. La sua bellezza curatissima e la sua studiata perfezione ti mettevano in soggezione.

Quando l'avevo vista lì, spettinata, con dei vestiti stropicciati nei quali evidentemente aveva dormito, le nuvole dei miei pensieri sulla possibile paternità si erano subito disperse, lasciando spazio a tutta una serie di torbide fantasie sessuali su quello che avrei potuto fare con le mani e la bocca per stropicciarla ancora di più. Dio, quanto volevo toccarla, assaggiarla. Volevo scoprire se l'avrei trovata fredda come appariva, e come poterla sciogliere a poco a poco, trasformandola in una liquida pozza di voluttà.

Quel bacio era stato un ottimo inizio.

Dannazione, il modo in cui aveva risposto, inarcando il suo corpo contro di me, lasciandosi andare completamente al solo tocco delle mie labbra sulle sue, mi aveva fatto capire che avrebbe accettato senza problemi qualunque cosa volessi farle. Anche se, chiaramente, aveva dei dubbi al riguardo. Per quanto all'apparenza Sayer fosse assolutamente perfetta, era ormai ovvio per me che appena sotto la superficie c'erano molte crepe. Si nascondeva dentro una conchiglia molto più fragile e sottile di quanto forse lei stessa credesse.

Dopo aver confessato la verità a Sayer (era stato come buttarsi in un precipizio senza sapere che cosa c'era sotto), c'erano altre persone che dovevo aggiornare su quella discutibile situazione. Sapevo che mia madre e mia sorella mi avrebbero sostenuto, a prescindere dal risultato del test di paternità, ma mi spaventava dover vedere la delusione nei loro sguardi, una volta che avessi raccontato che cosa avevo fatto. Scoprendo che avevo preso l'ennesima decisione affrettata, una decisione fatale che poteva influenzare il resto della mia vita, non avrebbero potuto evitare di sentirsi frustrate ed esasperate.

Avevo visto il cuore di mia madre spezzarsi davanti alla condanna del giudice, quando non mi ero opposto alle accuse di aggressione aggravata e messa a rischio dell'incolumità di un minore. Non l'avevo mai vista piangere così, neanche la sera in cui mio padre ci aveva abbandonato, quando ero piccolo. Non avrei mai voluto infliggerle di nuovo quella sofferenza, e mi si torceva lo stomaco al pensiero che, se quel test fosse stato positivo, avrei potuto causargliela una seconda volta. Da quando ero uscito di prigione non volevo altro che renderla orgogliosa: per questo lavoravo sei giorni alla settimana e mi tenevo accuratamente fuori dai guai, trattenendo la mia natura focosa.

Per mia sorella Beryl la questione era un po' diversa. Quando ero finito dentro, lei avrebbe voluto combattere di più per impedirlo. Era venuta in tribunale con il naso rotto, gli occhi neri e un braccio ingessato, con ancora i postumi di un trauma cranico che l'aveva tenuta in ospedale per una settimana. Era pronta a dire a chiunque volesse ascoltarla che l'unico motivo per cui ero lì era che quel buono a nulla del suo fidanzato, il padre della mia nipotina, l'aveva picchiata selvaggiamente.

Quando avevo scoperto quello che le aveva fatto, niente avrebbe potuto fermarmi, e infatti non mi ero fermato neanche un secondo a riflettere sulle conseguenze del mio attacco al suo aguzzino sotto gli occhi suoi e della mia nipotina di tre anni. Beryl non riusciva a credere che fossi io l'accusato, mentre lo stronzo con cui usciva era libero come l'aria. Non si capacitava neppure del fatto che, dato che sua figlia Joss aveva assistito al pestaggio, dovessi anche rispondere di abuso minorile. Per Beryl era un'ingiustizia disgustosa, ma io avevo deciso che piuttosto che trascinare tutti in tribunale e sottoporre lei e Joss a un processo, avrei accettato la condanna senza difendermi.

A quel punto non c'era più nulla che lei potesse fare. Avrei dovuto comunque subire una condanna, a prescindere dalle argomentazione della difesa, quindi volevo farlo nel modo più veloce possibile, per limitare al massimo la sofferenza di coloro che amavo. Volevo solo che finisse tutto al più presto: forse mi sentivo anche in colpa per aver perso completamente le staffe davanti a Joss, ed ero infuriato con me stesso per non essermi accorto di che cosa stava passando mia sorella. Quella era stata la decisione più difficile della mia vita, finché non si era presentata Echo nel mio cantiere ad annunciarmi che avevo un figlio.

Beryl aveva nascosto per anni le violenze del suo ex, ma come accade sempre a un certo punto lui aveva superato il limite. Davanti a un'evidenza così brutale avevo perso ogni controllo, e avevo insegnato a quel tipo una lezione che non avrebbe mai dimenticato a proposito della violenza sulle donne, e in particolare su quella che amavo incondizionatamente. Aveva picchiato mia sorella, le aveva fatto del male, e in cambio io lo avevo quasi ucciso, armato solo dei miei pugni e dalla mia furia. Ero completamente fuori controllo e, se devo essere sincero, quando ero rientrato in me mi ero reso conto di aver superato un limite, e che meritavo una punizione per questo.

Mi sforzavo di tenere a freno la mia rabbia, e a volte mi si stringeva il cuore vedendo il lampo di paura negli occhi di mia sorella, quando pensava a quanto potevo diventare pericoloso se venivo provocato. Negli ultimi sette anni mi ero impegnato al massimo per diventare rispettabile e dimostrare il mio rimorso, perché non volevo più essere quell'uomo irascibile. Non volevo che la mia famiglia, o qualcuna delle persone a cui tenevo, potesse vedermi come una bomba pronta a esplodere.

Sapevo che quando avessi raccontato a Beryl di Hyde lei avrebbe reagito abbracciandomi forte e rassicurandomi. Se Hyde fosse risultato mio figlio, Beryl mi avrebbe appoggiato e mi avrebbe aiutato a combattere per rimettere le cose a posto, ma dietro le sue parole incoraggianti avrei sempre colto la disapprovazione di una sorella per aver agito senza pensare alle conseguenze.

Anche se aveva apprezzato che avessi preso le sue difese, e se mi ripeteva sempre quanto si sentiva in colpa per non aver mollato prima quello stronzo, sacrificando così due anni della mia vita, mi ricordava anche che avremmo potuto gestire la situazione in modo decisamente migliore, e che alla fine avevamo pagato molto care le mie azioni.

Così, sospirando e tirandomi indietro i capelli spettinati, imboccai il vialetto della casa di mia madre con il mio furgoncino vintage perfettamente restaurato, e parcheggiai accanto alla piccola ibrida di mia sorella, che occupava già metà dello spazio.

Ero cresciuto in un sobborgo di Denver chiamato Lakewood, e mia madre viveva ancora nella casetta di mattoni a un piano dove io e Beryl avevamo trascorso l'infanzia. Era un quartiere per famiglie, molto tranquillo. Mia madre ci si era trasferita poco dopo l'abbandono di mio padre. Anche dopo tanto tempo, e dopo tutto quello che mi era successo, entrare nel vialetto di cemento crepato che portava al garage mi faceva sentire a casa.

Avevo offerto a mia madre di trasferirsi in una delle mie case, o di ristrutturare la sua, ma lei non ne voleva sapere. Beryl aveva finito per prendere una casa in città, poco lontano, per semplificarle la vita: la mamma andava a prendere mia nipote a scuola e la teneva nel pomeriggio fino a quando Beryl usciva dal suo lavoro allo sportello di una banca. Mia madre non aveva nessuna intenzione di spostarsi, e sosteneva che la sua casa andava benissimo così com'era.

Tutto sommato io non me ne lamentavo: era bello avere una solida base, un posto sicuro e accogliente che rimaneva sempre uguale a se stesso. Mia madre ci aveva sempre tenuto a farci sentire a casa, ed era uno dei motivi principali per cui avevo scelto di fare la stessa cosa per i miei clienti.

Mi piacevano molto il lavoro manuale e l'indipendenza di possedere un'impresa. Ma non c'erano parole per descrivere il senso di soddisfazione che provavo consegnando le chiavi a una nuova famiglia, sapendo che lasciavo loro una base sicura, un luogo da poter davvero chiamare casa.

Sentivo che ciò che facevo era molto più che piantare chiodi o passare un po' di vernice sui muri, ed era per questo che la mia squadra era composta da persone che avevano bisogno di una seconda occasione, e di un modo per sdebitarsi.

Ognuno dei miei ragazzi era un ex detenuto o un individuo a rischio per qualche motivo: ero il capitano di una ciurma di ripescati, e non potevo esserne più felice. Volevo che chiunque prendessi sotto la mia ala capisse che era possibile rifarsi una vita anche dopo un grave errore, che l'unico modo di andare avanti era quello di sfruttare una seconda occasione. Volevo che tutti loro comprendessero la vera importanza di avere una casa. Volevo anche dare a quei ragazzi un'opportunità che non avrebbero ottenuto facilmente altrove, insegnargli un mestiere che gli sarebbe servito per il resto della loro vita, dovunque li avesse portati. Da quando avevo cominciato ad assumere gli impresentabili c'erano stati un paio di fallimenti, ma in generale trovavo persone infinitamente grate di poter fare un lavoro onesto in un ambiente dove nessuno li giudicava per gli sbagli del passato.

Entrai senza bussare al cancello di metallo, dato che la porta di ingresso era aperta e lasciava filtrare un suono di risate infantili. Era il weekend, un momento per rilassarsi e stare in famiglia. Di solito ci riunivamo la domenica, per il brunch o per la cena a seconda dei miei impegni di lavoro, ma Beryl passava sempre un paio d'ore nel pomeriggio per stare con la mamma e permettere a Joss di giocare con gli amici che aveva nel vicinato.

Mi aggirai per la casa vuota, seguendo le risate e gli strilli che venivano dal cortile sul retro. Scorsi la testa scura di mia madre piegata verso mia sorella, mentre parlavano a bassa voce. La mia adorabile nipotina stava giocando con un gruppo di bambini. Attraversai in punta di piedi la cucina e la sala da pranzo con un grande sorriso stampato in faccia, e raggiunsi la porta a vetri scorrevole che dava sul portico di calcestruzzo dove erano sedute mia madre e mia sorella.

Joss mi vide e alzò un braccio per salutarmi, ma io scossi la testa e portai un dito alle labbra per dirle di stare zitta mentre prendevo di sorpresa la mamma e la nonna. I miei scarponi cigolavano un po' su pavimento laminato che mia madre si rifiutava di lasciarmi sostituire, ma era un rumore troppo debole per attirare l'attenzione. Joss mi osservava ridacchiando. Io afferrai le maniglie di metallo della porta scorrevole e le aprii di scatto gridando: «BUUUUH!».

Beryl lasciò cadere il bicchiere e mia madre saltò dalla sedia come se avesse preso fuoco. Io mi rotolavo dalle risate. La mamma si voltò di scatto e mi diede un colpo scherzoso al centro del petto, che io finsi di massaggiare. Mi lanciò un'occhiataccia. «Zebulon Fuller! Stai cercando di far venire un infarto a questa povera vecchia?»

Mia madre era tutt'altro che vecchia, anzi, a parte qualche ruga intorno agli occhi, sembrava così giovane e bella da poter tranquillamente passare per la mia sorella maggiore, quindi non le risposi neanche. Mi limitai a grugnire e a chinarmi per prendere in braccio Joss che era corsa da me. La cinsi con un braccio mentre lei si aggrappava alla mia barba. Lo faceva ogni volta che mi vedeva, e mi faceva sempre sorridere. Le schioccai un bacio sulla guancia e le feci il solletico con le mie basette. Lei ridacchiò.

«Basta, zio Zeb!» Cominciò a divincolarsi, finché non la misi giù e la lasciai tornare di corsa a giocare coi suoi amici.

Feci un sospiro teatrale e mi avvicinai per prendere una delle sedie libere di fronte a mia sorella. «Ah, mi ha già lasciato da parte.»

Beryl mi stava ancora guardando storto, asciugandosi le dita sui jeans. «Ha quasi undici anni. Aspetta che entri nell'adolescenza, e allora gli unici ragazzi che correrà ad abbracciare saranno quelli con cui esce.»

Alla sola idea feci un ringhio basso, e poi scattai in avanti sentendo qualcosa di freddo e scivoloso insinuarsi nella mia maglietta e lungo la schiena. Cominciai a contorcermi e quasi mi sfilai la maglietta nel tentativo di recuperare il cubetto di ghiaccio che Beryl mi aveva infilato nel collo.

«Fai schifo.»

«Sei tu che mi hai fatto rovesciare il bicchiere, cretino.»

Restammo a fissarci per un secondo finché mia madre fece una specie di sospiro e ci girammo verso di lei.

«Sto ancora aspettando il giorno in cui voi due smetterete di litigare come facevate da bambini, ma a questo punto non credo che vivrò abbastanza da vederlo. Zeb, è sabato, perché non sei al lavoro?»

Considerai l'idea di lanciare a Beryl il cubetto gocciolante, ma poi lo lasciai cadere a terra. Mi passai una mano sulla barba e le guardai con espressione solenne.

«È successa una cosa, e dovevo chiedere aiuto a un'amica, così mi sono preso la giornata libera. E devo anche raccontarvi quello che sta succedendo. È un discorso che va fatto di persona.»

Mia madre si portò una mano alla bocca. Vidi che tremava un po'. Lo sguardo di Beryl si indurì. Allungò una mano e la appoggiò sulla mia spalla rigida.

«Stai bene? Sei finito in qualche guaio?»

Feci una smorfia involontaria, spostando lo sguardo sui bambini che giocavano in cortile. «È un guaio, solo che non so ancora di che tipo.»

«Che cosa è successo?» Beryl parlava a voce bassa, e gli occhi di mia madre si riempirono di preoccupazione. Erano dello stesso esatto colore dei miei, quindi dal modo in cui si scurirono capii che si aspettava già il peggio. Mi si strinse il cuore e mi si bloccò il respiro: era esattamente la reazione che temevo. Ero tornato al punto in cui non vedeva più me, ma quello di cui ero capace. Ormai ero abituato a essere giudicato, ma quando quell'atteggiamento veniva da qualcuno che amavo incondizionatamente faceva più male del solito.

«Questa settimana si è presentata in cantiere una ragazza e mi ha dato una notizia che ha sconvolto la mia vita.»

Sentii le dita di Beryl affondarmi nella spalla. «Che fine ha fatto l'avvocatessa da cui eri così ossessionato? Quella che cercavi di impressionare ammazzandoti di fatica per costruirle la casa dei suoi sogni? O dei tuoi, a seconda dei punti di vista.»

Io scossi la testa lentamente, poi mi chinai in avanti appoggiando i gomiti alle ginocchia e nascondendomi la faccia fra le mani. Beryl mi conosceva fin troppo bene. Certo, la casa di Sayer era la sua idea, il sogno della sua vita, ma il lavoro che ci avevo messo io, la passione spasmodica che avevo riversato in ogni singolo dettaglio, significavano che una parte di me era entrata in quell'edificio. La casa di Sayer era davvero la casa dei miei sogni, e lei non lo sapeva neanche.

«Non è un problema di ragazze, Beryl... o comunque non come credi tu. Sayer è proprio l'amica a cui ho chiesto aiuto. Si occupa di diritto di famiglia... potrei aver bisogno di lei perché molto probabilmente ne ho una.»

«Che cosa?!» sibilò mia madre, mentre mia sorella infilava una serie di imprecazioni per la sorpresa.

Mi premetti le dita sulle tempie e sospirai di nuovo. «Come vi stavo dicendo, questa donna è venuta al cantiere e ha sganciato una bomba. Era molto sconvolta, ma è riuscita a dirmi che una sua amica, che è morta di recente, mi aveva identificato come il padre del suo bambino. Un bambino che al momento sta per essere dato in affidamento.»

«Oh, Zeb» disse la mamma con voce dolce. Non riuscii ad alzare gli occhi per guardarla.

«Non puoi fidarti della prima sconosciuta, Zeb. Che prove ha? È una cosa ridicola.» Sapevo che Beryl si sarebbe subito messa sulla difensiva, e lo apprezzavo, ma il fatto che il bambino in questione avesse la mia faccia era una prova piuttosto solida.

Tirai fuori il cellulare e recuperai la fotografia. Misi il telefono al centro del tavolo senza una parola, e aspettai che la mia famiglia ne capisse il significato. Gli occhi di mia madre si riempirono subito di lacrime, e per una volta Beryl sembrò ammutolita.

«Questa foto è la prova. Non mi sono semplicemente fidato di lei, e comunque alcuni dettagli della sua storia concorrono a farmi pensare che il bambino potrebbe essere mio. Quando sono uscito di prigione non ero del tutto in me: tornare a casa è stato difficile quasi quanto finire dentro. Dopo più di due anni di assenza, avevo bisogno di un po' di tempo prima di potervi incontrare, e in quel tempo ho fatto delle cose piuttosto irresponsabili. Cose che potrebbero facilmente aver portato all'esistenza di questo bambino.»

Mia madre prese il telefono. Le sue mani tremavano visibilmente. «Sembra esattamente la foto del tuo primo giorno di scuola, a parte il fatto che la tua maglietta era di Star Wars

«Lo so, mamma.»

Finalmente alzai lo sguardo e incontrai quello di mia sorella: era pieno di comprensione, esasperazione e della profonda consapevolezza che non mi avrebbe mai lasciato solo a gestire questa situazione.

«Che cosa ha detto l'avvocato?»

Mi appoggiai allo schienale della sedia, intrecciai le dita dietro la testa e risposi, senza riuscire a reprimere un sorrisetto: «Prima o dopo che la baciassi?».

«Zeb!» Mia madre mi lanciò un'occhiataccia e mia sorella si limitò a scuotere la testa.

«Dici sul serio? Hai pensato che: "Ehi, lo sai che potrei avere un figlio da qualche parte nel mondo" fosse un buon approccio? Spero che ti abbia dato un calcio nelle palle.»

«Ha detto che lunedì mattina per prima cosa avanzerà una richiesta perché venga fatto un test di paternità, anche se credo sappiamo tutti quale sarà il risultato. Io non ho alcun dubbio che il bambino sia mio.» Poi agitai le sopracciglia. «Dopodiché ha risposto al mio bacio.»

«Okay, e una volta che la paternità sarà stata dimostrata, che cosa succederà? Ci hai pensato bene, Zeb? Sei davvero pronto a fare il papà a tempo pieno? E il tuo lavoro? Tu lavori sempre.» Erano le stesse domande che mi vorticavano in mente fin da quando Echo mi aveva teso quell'imboscata, e la mia risposta era sempre la stessa.

«Certo che non sono pronto. Non ho idea di come fare il padre, né di come si cresce un bambino, ma non è questo il problema: quel bambino ha bisogno di me. Non c'è motivo che siano i servizi sociali a occuparsi di lui quando posso farlo io. È una mia responsabilità.» Avevo davanti le due persone che sapevano meglio di tutti quanto prendevo seriamente le mie responsabilità.

«Allora d'accordo. Dimmi solo che cosa hai bisogno che io faccia: sai che ti aiuterò in tutti i modi possibili, Zeb.» Beryl si allungò e mi scompigliò i capelli, proprio come faceva quando eravamo piccoli. «E per quel che vale, credo che sarai un padre fantastico, a prescindere da come lo sei diventato. Quando ami qualcuno tu lo fai con tutta l'anima, fratellino.»

Mia madre rimise il telefono sul tavolo con aria riluttante, e io lo feci scivolare verso di me.

Io e Beryl restammo a guardarla combattere con le lacrime per alcuni lunghissimi minuti. Speravo che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, e stavo già per rompere il silenzio con qualche frase affrettata di scuse, quando si alzò per girare intorno al tavolo e venire a piantarsi di fronte a me. Dovetti deglutire forte per trattenere l'onda di emozioni che minacciava di sommergermi. Nel suo sguardo verde scuro non c'era delusione o condanna, non c'era traccia del giudizio che temevo a ogni piè sospinto. C'era solo un amore incondizionato e infinito.

Si chinò su di me e mi strinse in un abbraccio. Era tutto ciò di cui avevo bisogno, anche se da quando avevo appreso la notizia, pochi giorni prima, non me ne ero ancora reso conto.

Mi diede un bacio sulla testa e sussurrò: «Come si chiama, Zeb? Come si chiama mio nipote?».

Mi ci volle un minuto per ritrovare la voce e riuscire a muovere le braccia per poterla stringere. Dovetti schiarirmi la voce per sbloccare tutte le emozioni che sembravano incastrate.

«Si chiama Hyde.» Dovevo davvero imparare a chiamarlo così, invece che il piccolo o il bambino. Doveva diventare una realtà concreta per me. Doveva diventare più di una vaga, nebulosa idea di qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita per sempre. Era una piccola persona. Era una piccola persona che mi apparteneva, e non era solo la mia mente a doversi abituare a lui, ma anche il mio cuore.

«Ehi, che cosa succede? Perché la nonna sta piangendo e abbraccia lo zio Zeb?» La vocina di Joss era molto preoccupata, così mia madre si staccò da me con un sorriso ancora pieno di lacrime.

«Lo zio mi ha appena detto un segreto che mi ha reso felice, tutto qui. Sono lacrime di gioia.»

Il faccino di Joss si increspò. Guardò noi adulti radunati intorno al tavolo stringendo gli occhi, e disse: «I segreti sono cose brutte».

Beryl allungò una mano e le tirò affettuosamente la coda di cavallo. «Alcuni sono belli. Alcuni sono come una sorpresa, bisogna aspettare il momento giusto per condividerli.»

Joss arricciò le labbra e incrociò le braccia sul petto magro. Senza dubbio era cocciuta e combattiva come sua madre.

«È un segreto sul mio compleanno? Avrò finalmente un cucciolo?» Il suo tono petulante mi fece ridere, e Beryl sospirò.

«Joss, il mondo non gira intorno al tuo compleanno. Mancano ancora tre mesi, e ti ho già detto che secondo me stiamo troppo tempo fuori casa per poterci occupare di un cucciolo in questo momento.»

Lei sollevò di colpo le sue piccole sopracciglia scure, identiche a quelle di Beryl, e io vidi accendersi una scintilla malefica negli occhi blu della mia nipotina subito prima che facesse scoppiare la bomba in faccia a sua madre.

«Allora, se non è un segreto sul mio compleanno, forse è su quel signore che si chiama Wes, che viene sempre a cena da noi? L'hai detto a zio Zeb e lui l'ha raccontato alla nonna? Scommetto che questo la farebbe piangere di gioia. Dice sempre che avresti proprio bisogno di un amico maschio.»

Mia sorella strillò il nome di sua figlia, mentre io ridevo a crepapelle. Allungai la mano e Joss mi diede il cinque, prima di scappare via mentre mia madre strillava il nome di Beryl con lo stesso tono che aveva usto lei con sua figlia.

«Hai un fidanzato?» Mia madre sembrava incredula e deliziata allo stesso tempo. Beryl era bella e intelligente, ma le sue esperienze con gli uomini l'avevano resa molto riservata e iperprotettiva, sia verso la figlia sia verso se stessa. Nel corso degli anni c'era stata qualche storia di breve durata, ma non aveva incontrato nessuno con cui valesse la pena di instaurare un legame più duraturo. Chiunque fosse questo Wes, era già mille miglia avanti agli altri se Beryl lo aveva ammesso non solo in casa sua ma anche al cospetto di Joss.

Mia sorella diventò rossa come un peperone e cominciò a giocherellare nervosamente con i suoi lunghi capelli. «Sì, ho un amico che potrebbe essere anche qualche cosa di più.»

«E perché non ci hai detto niente? Perché non l'abbiamo ancora conosciuto?» Mia madre era entrata nella parte a tutto spiano, e io potevo solo restare a guardare. Beryl mi lanciò un'occhiataccia e io le risposi con un enorme sorriso, molto grato che mi avesse rubato la scena.

«Già, perché non l'abbiamo ancora conosciuto?» Non riuscii a cancellare il divertimento dalla mia voce.

«Uhm, perché non sono sicura di che cosa fare con lui. Ci siamo conosciuti al lavoro: è un cliente della banca. Mi ha chiesto di uscire per un caffè e gli ho detto di no. Poi me lo ha chiesto ancora, e ancora, finché non ho accettato. È tenace, e mi fa ridere. È molto simpatico, ha un buon lavoro. Con Joss è bravissimo, insomma mi sembra decisamente troppo bello per essere vero, sto giusto aspettando che il principe ritorni ranocchio, o che dimostri la sua vera natura. Se ve lo presentassi, sarebbe come ammettere che voglio averlo nella mia vita. Sto cercando con tutte le mie forze di non affezionarmi a lui.»

Allora fu il mio turno di allungare una mano e mettergliela sulla spalla, stringendogliela. «Non c'è niente di male ad aspirare al meglio, sorella.»

Lei si appoggiò in avanti, nascondendo la faccia fra le mani. «Non dire così. Sarà solo più difficile quando crollerà tutto.»

Nessuno di noi due era mai stato molto fortunato in amore. Il primo uomo a cui lei aveva dato il suo cuore la picchiava, e la prima ragazza con cui pensavo avrei passato il resto della mia vita non aveva retto quando avevo dovuto subire le conseguenze della mia vendetta contro il picchiatore di mia sorella. Nonostante tutto, però, sentii il bisogno di ricordarle: «Certe cose sono fatte per resistere a tutto, e non crolleranno per niente al mondo, non importa quanta pressione o quanti sforzi debbano sopportare. Guarda le meraviglie con cui lavoro ogni giorno: sono in piedi da più di un secolo, e invece di cadere in rovina tengono duro».

Lei rispose con una smorfia, e si alzò dalla sedia. «Non so se vale anche per me, e poi ho una figlia a cui badare.» Mi puntò un indice contro. «E anche tu. Se credi che l'avvocatessa possa aiutarti a ottenere l'affidamento di Hyde, forse dovresti pensarci due volte prima di corteggiarla. So che ti piace, Zeb, ma adesso le tue priorità dovranno cambiare, in cima alla lista deve esserci quel bambino. Per una volta dovrai fermarti a pensare a quello che può succedere se agisci solo sulla base delle emozioni, senza preoccuparti del risultato finale. Se cominci una storia con lei e poi le cose non funzionano, che cosa potrebbe significare per te e tuo figlio?» Allungò una mano e mi diede un colpetto proprio in mezzo agli occhi. «Per una volta usa questo, e non questo». Puntò un dito al centro del mio petto, dove il mio cuore batteva forte e convinto.

Io le spostai la mano e mi alzai dalla sedia. Ero molto più alto di lei. «Credo che dovrò trovare il modo di far convivere entrambi. Lasciare il comando a uno solo dei due non può portare a niente di buono». Lo avevo capito osservando l'avvocatessa bionda che mi ossessionava tanto. Sayer era una brava persona, ma si comportava sempre in modo prudente e controllato, l'esatto opposto del mio buttarmi a capofitto nella vita. Era il suo cervello che pilotava le sue azioni e le sue reazioni.

O almeno era stato così finché non le avevo messo le mani addosso.

Forse non era proprio il cuore che aveva preso il comando quando l'avevo toccata, ma senza dubbio il suo corpo era ansioso di mettere all'angolo il cervello, per una volta. Speravo che, giocando bene le mie carte, sarei riuscito a fare in modo che il suo cuore potesse dire la sua. Non volevo neanche considerare la logica di Beryl, quando diceva che se le cose andavano male con Sayer anche la situazione con Hyde poteva compromettersi. Non riuscivo a immaginare di sopravvivere a tutto quanto senza lei a guidarmi. Avevo bisogno di molto di più del suo aiuto. Avevo bisogno di lei, della sua tranquillità, della sua confidenza quando mi diceva che poteva aiutarmi a fare arrivare mio figlio nel posto che gli competeva.

Io per vivere costruivo e rinnovavo edifici. Se volevo dedicarmi a una donna, se volevo avere non soltanto lei ma una vita incentrata su di lei, certo non avrei costruito nulla che non fosse a prova di bomba, anche se questo significava dover entrare e buttare giù qualche muro, o fissare meglio le strutture esistenti. Sayer Cole era come un progetto per me, un progetto che non vedevo l'ora di iniziare.