Cassetta 6: Lato A
Tony toglie le chiavi dal quadro. Ha bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi mentre parla. — È da quando siamo partiti che cerco di trovare il modo migliore per dirtelo. Anche mentre eravamo qui seduti. Anche mentre tu vomitavi l'anima.
— Hai notato che non ti ho vomitato in macchina.
— Sì. — Sorride, guardando le chiavi. — Grazie. Ho apprezzato il gesto.
Chiudo la portiera. Lo stomaco si sta riprendendo.
— È venuta a casa mia — dice Tony. — Hannah. E quella è stata la mia chance.
— Per cosa?
— Clay, le avvisaglie c'erano tutte.
— Anch'io ho avuto la mia chance — gli dico. Mi levo le cuffie e le appendo al ginocchio. — Alla festa. Quando ci siamo baciati, lei è uscita di testa. E non ho capito il perché. Quella è stata la mia chance.
Dentro la macchina è buio. E tranquillo. Con i finestrini alzati, il mondo esterno sembra in preda a un sonno profondo.
— Siamo tutti colpevoli — ribatte lui. — Almeno un po'.
— Insomma è venuta a casa tua? — gli chiedo.
— Con la bici. Quella con cui andava sempre a scuola.
— Quella blu. Fammi indovinare. Tu eri a trafficare con la macchina.
Tony ride. — Che novità, eh? Ma non era mai venuta a casa mia, perciò ero un po' sorpreso. Sai, a scuola andavamo abbastanza d'accordo, quindi non ho dato molto peso alla cosa. Quello che mi è sembrato strano, però, è stato il motivo della visita.
— Ovvero?
Guarda fuori dal finestrino, e mi accorgo che fa un respiro profondo. — È venuta da me per darmi la sua bici.
Le sue parole rimangono lì, sospese. Indisturbate. Per un tempo dolorosamente lungo.
— Voleva che la tenessi io. A lei non serviva più. Quando le ho chiesto come mai, si è stretta nelle spalle. Non c'era un motivo. Ma era un campanello d'allarme. E io non ci ho fatto caso.
Riassumo uno dei punti sul volantino di scuola: — Dare via beni personali.
Tony annuisce. — Ha detto che ero l'unico, secondo lei, che poteva averne bisogno. Sono quello che ha la macchina più vecchia di tutti a scuola, ha detto, e se dovessi ritrovarmi appiedato, è importante avere un piano di riserva.
— Ma questa bellezza non si rompe mai.
— Questo catorcio si rompe in continuazione. E' che riesco sempre ad aggiustarla. A ogni modo, le ho detto che non potevo accettare la sua bici. Non senza darle qualcosa in cambio.
— E cosa le hai dato?
— Non lo dimenticherò mai — dice, e si volta a guardarmi. — I suoi occhi, Clay, non si sono staccati da me un attimo. Continuava a fissarmi, e poi si è messa a piangere. Mentre mi guardava, hanno cominciato a scenderle le lacrime.
Tony si asciuga lui stesso le lacrime, e si passa una mano lungo il labbro superiore. — Avrei dovuto fare qualcosa.
I campanelli d'allarme c'erano eccome, per chiunque volesse vederli.
— E lei cosa ha chiesto?
— Mi ha chiesto come facevo a fare le mie cassette, quelle che ascolto in macchina. — Appoggia indietro la testa e fa un respiro profondo. — Così, le ho detto del vecchio registratore di mio padre. — Fa una pausa. — Poi, mi ha chiesto se avevo qualcosa per registrare la voce.
— Dio.
— Un registratore portatile o roba del genere. Qualcosa che non bisognava attaccare alla spina ma che si poteva portare in giro. E non le ho domandato a cosa le servisse. Le ho detto di aspettarmi lì, che sarei andato a prenderlo.
— E gliel'hai dato?
Si volta verso di me, scuro in volto. — Non sapevo cosa volesse farne, Clay.
— Tranquillo, non ti sto accusando di niente, Tony. Ma non ha fatto nessun accenno al perché le servisse?
— Anche se gliel'avessi chiesto, pensi che mi avrebbe detto la verità?
No. Quando è andata a casa di Tony, aveva già deciso. Se voleva essere fermata, essere salvata da se stessa, c'ero io per lei. Alla festa. E lo sapeva.
Scuoto la testa. — Non te l'avrebbe mai detto.
— Pochi giorni dopo — prosegue lui. — torno da scuola e trovo un pacco appoggiato sulla veranda di casa. Me io porto in camera e comincio ad ascoltare le cassette. Ma non riesco a capire.
— Ti ha lasciato un biglietto o qualcosa?
— No. Solo le cassette. Ma non aveva alcun senso, perché io e lei avevamo insieme la terza ora e quel giorno c'eravamo visti a scuola.
— Cosa?
— Così, quando sono tornato a casa e ho cominciato ad ascoltare le cassette, le ho finite tutte in un attimo. Premendo FAST-FORWARD, per vedere se c'ero anch'io. Ma niente. A quel punto, ho capito che doveva avermi spedito il secondo gruppo di cassette. Così, ho cercato il suo numero sull'elenco, e ho chiamato casa sua, ma non rispondeva nessuno. Ho chiamato il negozio dei suoi. Gli ho chiesto se Hannah era lì, e loro mi hanno domandato se era successo qualcosa perché dovevo sembrare un pazzo al telefono.
— E cosa gli hai detto?
— Gli ho detto che c'era un problema e che dovevano rintracciarla subito. Ma non ho avuto il coraggio di spiegargli il perché. — Fa un piccolo respiro, incerto. — E il giorno dopo non si è presentata a scuola.
Voglio dirgli che mi dispiace, che non oso immaginare come si dev'essere sentito. Ma poi penso a domani, alle lezioni a scuola, e mi rendo conto che lo scoprirò presto; rivedendo per la prima volta le altre persone presenti sulle cassette.
— Quel giorno sono tornato a casa prima — continua. — Ho detto che non mi sentivo molto bene. E mi ci sono voluti diversi giorni per riprendermi. Ma quando sono tornato a scuola, Justin Foley aveva una faccia terribile. Poi Alex. E ho pensato, okay, molta di questa gente se lo merita, perciò farò come ha detto lei: farò in modo che tutte le persone della lista ascoltino quello che ha da dire.
— Ma come fai a tenere il conto? — chiedo. — Come hai fatto a sapere che ora ce le avevo io?
— Con te è stato facile. Mi hai rubato il walkman, Clay.
Ridiamo entrambi. Ed è una sensazione piacevole. Una valvola di sfogo. Come ridere a un funerale. Di cattivo gusto, ma ci vuole.
— Con gli altri, è stato un po' più complicato. Appena suonava l'ultima campanella, mi fiondavo subito in macchina e andavo a parcheggiarmi il più vicino possibile all'uscita della scuola. Quando vedevo uscire il prossimo o la prossima sulla lista, sapendo che erano già trascorsi un paio di giorni da quando la persona precedente aveva ascoltato le cassette, li chiamavo per nome, e facevo loro segno di avvicinarsi.
— E poi gli chiedevi se avevano ricevuto le cassette?
— No. Avrebbero negato, giusto? Invece, non appena si avvicinavano, io mostravo loro una cassetta e gli dicevo di salire in macchina, perché c'era una canzone che volevo fargli sentire. A quel punto, mi bastava osservare la loro reazione.
— E poi inserivi una delle sue cassette?
— No, altrimenti scappavano subito via, dovevo inventarmi qualcosa, così facevo ascoltare loro una canzone. Una qualunque. E quelli se ne stavano seduti lì, dove sei tu adesso, a domandarsi perché diavolo gli stessi facendo ascoltare quella canzone. Ma se invece avevo ragione, il loro sguardo diventava opaco, come se fossero su un altro pianeta.
— Ma perché proprio tu? Perché le ha date a te?
— Non lo so. L'unica spiegazione plausibile è che sono stato io a darle il registratore. Avrà pensato che ci avrei potuto rimettere anch'io e che, quindi, non mi sarei tirato indietro.
— Non sei sulle cassette, ma ne fai parte comunque.
Si volta a fissare il parabrezza e stringe forte il volante.
— Devo andare.
— Non volevo insinuare niente. Te lo giuro.
— Lo so. Ma è tardi. Mio padre comincerà a pensare che sono rimasto in panne da qualche parte.
— Non vuoi che si metta a trafficare sulla tua macchina?— afferro la maniglia e poi, ricordandomene di colpo, mollo la presa e tiro fuori il cellulare. — Devo chiederti un favore. Ti va di fare un saluto a mia madre?
— Certo.
Scorro il suo nome sulla rubrica, schiaccio CHIAMA, e lei mi risponde all'istante.
— Clay?
— Ehi, mamma.
— Dove sei? — sembra risentita.
— Te l'ho detto che rientravo tardi.
— Lo so. Me l'hai detto. È che credevo che saresti già tornato a quest'ora.
— Mi dispiace. Ma ci metterò ancora un po'. Forse resto a dormire a casa di Tony.
Con un tempismo perfetto: — Salve, signora Jensen.
Mi chiede se ho bevuto.
— Mamma, no. Te lo giuro.
— In fondo, è per la ricerca di storia, no?
Ho un tuffo al cuore. Vuole disperatamente credere alle mie scuse. Ogni volta che le racconto una bugia, tenta di credermi a tutti i costi.
— Mi fido di te, Clay.
Le dico che passerò da casa a prendere la mia roba prima di andare a scuola, e riattacco.
— Dove passerai la notte? — mi chiede Tony.
— Non lo so. Probabilmente tornerò a casa. Ma se poi non torno, non voglio che si preoccupi.
Gira la chiave nel quadro e accende motore e fari. — Vuoi che ti dia uno strappo da qualche parte?
Afferro la maniglia della portiera, e faccio un cenno con la testa verso la casa. — Qui è dove sono arrivato con la registrazione — dico. — Ma grazie lo stesso.
Lui ha lo sguardo fisso davanti a sé.
— Dico sul serio. Grazie infinite. — E non mi riferisco solo al passaggio in macchina. Ma a tutto quanto. A come lui ha reagito quando sono scoppiato a piangere. A come ha cercato di farmi ridere nella sera più brutta della mia vita.
È bello sapere che c'è qualcuno che capisce quello che sto ascoltando, quello che sto passando. In un certo senso, rende meno terribile il fatto di dover continuare con la registrazione.
Scendo e richiudo la portiera. La macchina riparte. Schiaccio PLAY.
Rieccoci alla festa, miei cari ascoltatori. Ma non rilassatevi troppo, un minuto e ce ne andiamo.
Mezzo isolato più avanti, la Mustang di Tony si ferma all'incrocio, svolta a sinistra, e si allontana.
Se il tempo fosse un filo rosso che collega tutte le vostre storie, la festa sarebbe il punto dove tutti nodi vengono al pettine. E quei nodi continuano a crescere, diventando sempre più ingarbugliati, fino a trascinare dentro anche le altre storie.
Quando Justin e io abbiamo finalmente smesso di guardarci in modo terribile e penoso, io ho attraversato il corridoio e sono tornata in mezzo alla folla. O meglio, ho iniziato a barcollare in mezzo alla folla. Non tanto per l'alcol. Ma per tutto il resto.
Mi siedo sul marciapiede, a pochi passi da dove ho vomitato fuori dalla macchina di Tony. Se la persona che vive qui – in effetti, non ho idea di chi avesse organizzato la festa – vuole uscire fuori a chiedermi di andarmene, ben venga. Anzi, spero proprio che lo faccia.
Mi sono aggrappata prima al pianoforte. Poi al seggiolino. E mi sono seduta.
Volevo andarmene, ma dove? Non potevo mica tornare a casa. Non ancora.
E comunque, come facevo ad andarmene? Ero troppo debole per camminare. O almeno, così mi sembrava. Ma in realtà, ero troppo debole anche solo per provarci. L'unica cosa certa era che volevo andarmene via senza pensare più a niente e a nessuno.
Poi, una mano mi ha toccato la spalla. Una specie di pizzicotto.
Jenny Kurtz.
La cheerleader dell'ufficio studenti.
Jenny, questa cassetta è per te.
Lascio cadere la testa contro le ginocchia.
Jenny mi ha chiesto se avevo bisogno di un passaggio e mi è quasi venuto da ridere. Si vedeva così tanto? Ero davvero messa così male?
Così, mi sono aggrappata al suo braccio e lei mi ha aiutata ad alzarmi. Una sensazione piacevole, lasciare che qualcuno mi aiutasse. Poi siamo uscite dalla porta principale, tra una folla di gente collassata sulla veranda o intenta a sfumacchiare in cortile.
Da qualche parte, nel frattempo, io continuavo ad attraversare a piedi un isolato dopo l'altro, cercando di capire come mai avevo lasciato la festa. Cercando di comprendere, di razionalizzare, quello che era appena successo tra me e Hannah.
Il marciapiede era umido. I miei piedi, pesanti e intorpiditi, si trascinavano a stento. Io cercavo di sentire il suono di ogni ciottolo e di ogni foglia che calpestavo. Volevo sentire ogni cosa. Pur di coprire la musica e le voci alle mie spalle.
Malgrado la distanza, riuscivo ancora a sentire quella musica. Attutita. Ovattata. Come se non potessi allontanarmi a sufficienza.
E ricordo ancora ogni singola canzone.
Jenny, tu non hai aperto bocca. Non mi hai fatto domande. Ed ero così sollevata. Forse ti sono capitate cose o hai visto capitare cose alle feste, che non si possono raccontare. O almeno non subito. Il che è piuttosto calzante, perché non ho mai raccontato a nessuno quello che sto per dire.
O meglio… sì… ho provato a parlarne. Una volta. Ma lui non ha voluto saperne.
È la storia numero dodici? La tredici? O qualcosa che non c'entra niente? Uno dei tanti nomi scritti su quel foglio di cui Hannah non vuole parlare?
Così, Jenny, mi hai accompagnata alla tua auto. E anche se avevo la testa altrove – lo sguardo perso nel vuoto – ho avvertito la tua presenza. Mi hai sorretto il braccio con grande cura, mentre mi facevi accomodare sul sedile del passeggero. Poi mi hai allacciato la cintura, sei salita in macchina, e siamo partite.
Quello che è successo dopo, non lo so di preciso. Non ero attenta, perché nella tua auto mi sentivo al sicuro. L'aria all'interno era tiepida e confortante. Il rumore dei tergicristalli, azionati al minimo, mi ha cullato gentilmente fuori dai miei pensieri e dentro l'abitacolo. Riportandomi così alla realtà.
Non pioveva granché, ma l'acqua offuscava il parabrezza quel tanto che bastava per avvolgere tutto in un'atmosfera da sogno. Ed era quello che mi serviva. Per impedire al mio mondo di diventare troppo reale, troppo in fretta.
E poi… lo schianto. Non c'è niente di meglio di un incidente per farti tornare di colpo alla normalità.
Un incidente? Un altro? Due nella stessa sera? Com'è che non ne ho sentito parlare?
La ruota anteriore destra ha preso in pieno il marciapiede e c'è salita sopra. Un palo di legno ha sbattuto contro il paraurti, spezzandosi in due come uno stuzzicadenti.
Dio. No.
Il segnale di Stop è caduto all'indietro, davanti ai tuoi fari. È finito sotto le ruote e tu hai gridato, affondando il piede sul freno. Nello specchietto laterale ho intravisto scintille alzarsi dall'asfalto mentre la macchina finiva la sua corsa in derapata.
Okay, ora sì che ero sveglia.
Siamo rimaste un attimo lì sedute, con lo sguardo fisso oltre il parabrezza. Nessuna parola, nessuno sguardo tra di noi. I tergicristalli spostavano la pioggia da una parte all'altra. E le mie mani erano ancora aggrappate alla cintura di sicurezza, felici che avessimo travolto solo un cartello.
L'incidente tra l'uomo anziano e il ragazzo della nostra scuola. Hannah ne era a conoscenza? Sapeva che era stata Jenny a causarlo?
La tua portiera si è aperta e io ti ho vista fare il giro della macchina, chinandoti poi tra i due fari a controllare i danni. Hai passato una mano sull'ammaccatura e hai piegato la testa in avanti. Non riuscivo a capire se eri incazzata. O se stavi piangendo.
Forse ridevi del fatto che l'intera serata si era rivelata un incubo?
So già dove andare. Non mi serve la mappa. So esattamente dov'è la prossima stella, quindi mi alzo e mi avvio.
L'ammaccatura non era grave. Voglio dire, non era certo bella, ma immagino ti sarai sentita sollevata. Poteva andarci peggio. Molto, molto peggio. Per esempio… avremmo potuto investire qualcos'altro.
Lo sa eccome.
Una persona.
Qualunque cosa stessi pensando, ti sei comunque rialzata con una faccia priva di espressione. Ferma lì in piedi, a guardare il danno e a scuotere la testa.
Poi hai incrociato il mio sguardo. E sono sicura di averti vista scura in volto, anche se solo per un attimo. Ma quell'espressione tetra si è subito tramutata in un sorriso. Seguito da un'alzata di spalle.
E qual è stata la prima cosa che hai detto non appena sei risalita in macchina? — Non ci voleva proprio. — Poi hai inserito la chiave nel quadro e… io ti ho bloccata. Non potevo farti ripartire così.
All'incrocio dove Tony ha svoltato a sinistra, io giro a destra. È a poca distanza da qui. Il cartello con il segnale di Stop.
Tu hai chiuso gli occhi e hai detto: — Hannah, non sono ubriaca.
Non ti ho mica accusata di essere ubriaca, Jenny. Solo, mi chiedevo come diavolo avessi fatto a uscire di strada.
— Piove — ti sei giustificata.
E in effetti, sì, piovigginava. A malapena.
Ti ho chiesto di parcheggiare.
Mi hai risposto di essere ragionevole. Abitavamo entrambe poco lontano e avresti imboccato solo strade secondarie, come se questo facesse qualche differenza.
Lo vedo. Un palo di metallo che regge un segnale di Stop, con tanto di lettere catarifrangenti, visibili fin da qui. Ma la sera dell'incidente, era diverso. Le lettere non erano catarifrangenti e il cartello era fissato a un semplice palo di legno.
— Hannah, non preoccuparti — hai detto. E ti sei messa a ridere. — Nessuno rispetta i segnali di Stop. Tirano tutti dritto. Così, ora che non c'è più il segnale, è anche legale. Capisci? La gente mi ringrazierà.
Ti ho chiesto di nuovo di parcheggiare. Avremmo trovato un passaggio a casa con qualcuno alla festa. L'indomani mattina presto sarei venuta a prenderti e ti avrei riaccompagnata alla macchina.
Ma tu hai tentato di nuovo di tranquillizzarmi. — Hannah, ascolta.
— Parcheggia — ho insistito. — Te lo chiedo per favore.
E poi mi hai detto di scendere. Io mi sono rifiutata. Ho tentato di farti ragionare. Per fortuna si trattava solo di un cartello. Chissà cosa poteva succedere se ti lasciavo guidare fino a casa.
Ma ancora una volta: — Scendi.
Sono rimasta seduta a lungo con gli occhi chiusi, ad ascoltare la pioggia e i tergicristalli.
— Hannah! Ti ho detto… di scendere!
Così, alla fine, ho ceduto. Ho aperto la portiera e sono scesa. Ma non l'ho richiusa. Mi sono voltata a guardarti. E tu fissavi il parabrezza – tra i tergicristalli – aggrappata al volante.
Manca ancora un isolato, ma non riesco a staccare gli occhi dal segnale di Stop, dritto davanti a me.
Ti ho chiesto se potevo usare il tuo cellulare. L'ho visto appoggiato lì, nel vano sotto l'autoradio.
— A che ti serve? — mi hai domandato.
Non so perché ti ho detto la verità. Avrei dovuto mentirti. — Dobbiamo avvertire qualcuno del cartello.
Tu tenevi lo sguardo fisso davanti a te. — La rintracceranno. Rintracceranno la chiamata, Hannah. — Poi hai acceso il motore e mi hai detto di chiudere la portiera.
Io non l'ho fatto.
Così hai inserito la retromarcia e io mi sono dovuta scansare all'indietro per evitare che la portiera mi travolgesse.
Te ne sei fregata che il cartello di metallo schiacciasse – o meglio, grattasse – la parte sotto della macchina. Quando te ne sei liberata, è rimasto lì davanti ai miei piedi, tutto deformato e coperto di graffi color argento.
Hai fatto un rombo con il motore, io ho colto l'avvertimento e sono risalita sul marciapiede.
Poi sei partita di scatto, provocando la chiusura della portiera rimasta aperta, mentre acquistavi gradualmente velocità… e l'hai fatta franca.
In effetti, l'hai fatta franca con qualcosa di molto più grave che non il semplice abbattimento di un cartello stradale, Jenny.
E ancora una volta, io avrei potuto impedirlo… in qualche modo.
Avremmo tutti potuto impedirlo. Tutti avremmo potuto impedire qualcosa. I pettegolezzi. Lo stupro.
Il tuo gesto.
Ci doveva pur essere qualcosa che avrei potuto dire o fare. Quantomeno, avrei potuto rubarti le chiavi della macchina. O, meglio ancora, avrei potuto allungare la mano e rubarti il telefono per chiamare la polizia.
In realtà, sarebbe bastato quello. Perché tu sei riuscita a tornare subito a casa. Ma non era questo il problema. Il problema è che il segnale stradale è rimasto in terra.
B-6 sulle vostre mappe. A due isolati di distanza dalla festa c'è un segnale di Stop. Ma quella sera, o meglio, a un certo momento di quella sera, non c'era più. E fuori pioveva. E qualcuno stava tentando di consegnare le pizze in orario. E qualcun altro, sulla corsia opposta, stava svoltando.
Il vecchio.
Non c'era nessun segnale di Stop su quell'angolo. Non quella sera. E uno di loro, uno dei due guidatori, è morto.
Nessuno sapeva chi fosse stato. Né noi. Né la polizia.
Ma Jenny lo sapeva eccome. E Hannah. E forse anche i genitori di Jenny, visto che le hanno aggiustato il paraurti in quattro e quattr'otto.
Non conoscevo il ragazzo dell'incidente. Era di quinta. E quando ho visto la sua foto sul giornale, non l'ho riconosciuto. Era solo una delle tante facce della scuola che non ho mai avuto occasione di conoscere… né mai conoscerò.
Non ho neanche partecipato al funerale. Certo, forse ci sarei dovuta andare, ma non l'ho fatto. Non potevo. E ora penso che capiate il perché.
Non lo sapeva. Non ha riconosciuto l'altro guidatore. Non sapeva che si trattava del tizio che aveva visto di fronte a casa sua. Alla sua vecchia casa. Meglio così. Quella sera, lo aveva visto uscire dal garage. Lo aveva osservato allontanarsi in macchina senza che lui si accorgesse di lei.
Ma alcuni di voi erano presenti, al funerale.
Per andare a restituire uno spazzolino da denti. È quello che mi ha detto la moglie mentre aspettavamo sul divano che la polizia lo riportasse a casa. Stava attraversando la città per ridare lo spazzolino da denti alla nipotina. Le avevano fatto da babysitter mentre i genitori erano in vacanza e lei si era poi scordata lo spazzolino a casa loro. I suoi avevano detto che non c'era bisogno di attraversare la città solo per quello. Avevano un sacco di spazzolini di scorta. — Ma lui fa di queste cose — mi ha detto la moglie. — E' fatto così.
Poi è arrivata la polizia.
Per quelli di voi che ci sono andati, lasciate che vi descriva com'era la scuola il giorno del funerale. In una parola… silenziosa. Un quarto circa degli studenti non si è presentato a lezione. Per lo più gente di quinta, ovviamente. Ma a quelli di noi che sono venuti, i prof hanno subito fatto sapere che, casomai ci fossimo scordati la giustificazione a casa, loro non ci avrebbero segnati assenti se alla fine decidevamo lo stesso di andare al funerale.
Porter ha detto che i funerali possono essere una parte importante del processo di guarigione. Ne dubito. O almeno, nel mio caso non vale. Perché su quell'angolo di strada, mancava un segnale di Stop. Qualcuno lo aveva buttato giù. E qualcun altro… la sottoscritta… avrebbe potuto impedire l'incidente.
Due poliziotti hanno accompagnato dentro il marito, tutto tremante. La moglie si è alzata ed è andata da lui. Lo ha stretto tra le sue braccia e sono scoppiati a piangere.
Quando me ne sono andato, chiudendomi la porta alle spalle, l'ultima immagine che ho visto è stata quella di loro due, in piedi in mezzo al soggiorno. Stretti l'uno all'altra.
Il giorno del funerale, per evitare che quelli di voi che avevano deciso di andare restassero indietro con il programma, noi altri non abbiamo fatto niente. Ogni prof ci ha dato l'ora libera. Libertà di scrivere. Libertà di leggere.
Libertà di pensare.
E io cos'ho fatto? Per la prima volta in assoluto, ho iniziato a pensare al mio funerale.
Sempre più spesso, anche se in termini molto vaghi, avevo cominciato a riflettere sulla mia morte. Sul semplice fatto di morire. Ma quel giorno, visto che tutti voi eravate a un funerale, ho cominciato a pensare a come sarebbe stato il mio.
Raggiungo il segnale di Stop. Allungo la mano e, con la punta delle dita, sfioro il freddo palo di metallo.
Riuscivo tranquillamente a immaginare come sarebbe continuata la vita – la scuola e tutto il resto – senza di me. Ma non riuscivo a immaginare il mio funerale. Quello proprio no. Soprattutto perché non avevo idea di chi sarebbe venuto e di che cosa avrebbe detto.
Non sapevo… non so… cosa voi pensiate di me.
Nemmeno io so cosa pensa di te la gente, Hannah. Quando abbiamo avuto la notizia, visto che i tuoi non hanno voluto fare il funerale qui, nessuno ha parlato apertamente della cosa.
Voglio dire, era una cosa che pesava. Si sentiva. Il banco vuoto. Il fatto che non saresti più tornata. Ma nessuno sapeva da dove cominciare. Nessuno sapeva come affrontare l'argomento.
Ormai sono passate un paio di settimane dalla festa. Fino a ora, sei stata bravissima a nasconderti da me, Jenny. Immagino sia comprensibile. Vorresti dimenticarti di quello che abbiamo fatto insieme, di quello che è successo con la tua auto e il segnale di Stop. Delle conseguenze.
Ma non potrai mai.
Forse non sapevi cosa pensasse di te la gente perché non sapevano neanche loro cosa pensare. Forse non ci hai fornito abbastanza elementi per farci un'idea di te, Hannah.
Non fosse stato per quella festa, io stesso non ti avrei mai conosciuta veramente. Ma per qualche motivo, e te ne sono infinitamente grato, hai voluto darmi questa opportunità. Mi hai dato una chance, anche se piccola. E l'Hannah che ho conosciuto quella sera mi è piaciuta molto. Forse avrei persino potuto amarla.
Ma tu hai preferito che non succedesse. Hai deciso tutto da sola.
Io, invece, dovrò ripensarci solo per un giorno.
Distolgo lo sguardo dal segnale di Stop e mi allontano.
Se avessi saputo che due macchine si sarebbero di lì a poco scontrate a quell'angolo, sarei tornata di corsa alla festa e avrei subito chiamato la polizia. Ma non mi sarei mai aspettata una cosa del genere. Mai e poi mai.
Così, ho iniziato a camminare. Ma non per tornare alla festa. La mia mente correva all'impazzata. Non riuscivo a essere lucida, e nemmeno a camminare dritto.
Voglio voltarmi indietro. Voltarmi a osservare il segnale di Stop, scritto a caratteri cubitali e catarifrangenti, che tenta di impedire il gesto di Hannah. Stop!
Ma continuo a guardare dritto davanti a me, cercando di considerarlo per quello che è. Un semplice cartello stradale. Un segnale a un angolo di strada. Nient'altro.
Ho cominciato a girare a destra e a sinistra, senza sapere minimamente dove andare.
Abbiamo camminato per quelle strade insieme, Hannah. Strade diverse, stesso momento. Stessa serata. Abbiamo camminato per allontanarci. Io, da te. E tu, dalla festa. No. Da te stessa.
E poi ho sentito una macchina che inchiodava, mi sono voltato, e ho visto due auto che si scontravano.
Alla fine, sono arrivata a una stazione di servizio. C-7 sulle vostre mappe. E ho usato un telefono pubblico per chiamare la polizia. Mentre il telefono squillava, io mi sono ritrovata ad abbracciare l'apparecchio; una parte di me sperava che non rispondesse nessuno.
Volevo aspettare. Volevo che il telefono continuasse semplicemente a squillare. Volevo che la vita rimanesse bloccata lì… in pausa.
Non ne posso più di questa mappa. Non voglio andare alla stazione di servizio.
Quando hanno preso la mia chiamata, ho leccato via le lacrime che mi bagnavano le labbra e ho detto che all'angolo tra Tanglewood e South…
Ma la donna mi ha interrotto subito. Mi ha detto di calmarmi. Ed è stato allora che mi sono resa conto di quanto io stessi piangendo. Di quanto mi stessi sforzando di riprendere fiato.
Attraverso la strada e mi allontano sempre più dalla casa della festa. Nelle ultime settimane, ho allungato la strada un sacco di volte pur di non rivedere quella casa. Pur di evitare il ricordo, la sofferenza, della mia unica sera in compagnia di Hannah Baker. Non ci tengo proprio a vederla due volte nella stessa sera.
Mi ha detto che la polizia era già stata avvertita e che una macchina della volante sarebbe stata lì a momenti.
Mi passo lo zaino sul davanti e tiro fuori la mappa.
Ero scioccata. Stentavo a credere che tu avessi davvero chiamato la polizia, Jenny.
Apro la mappa e le do un'ultima occhiata.
Ma in realtà non c'era niente di così scioccante. Perché alla fine è risultato che non eri stata tu a chiamare.
Poi la accartoccio tutta, fino a ottenere una palla grande quanto il mio pugno.
È stato a scuola, il giorno dopo, quando tutti non facevano altro che parlare dell'accaduto, che ho scoperto chi era stato a chiamare. Ma non per segnalare la caduta di un cartello stradale.
Infilo la mappa in fondo a un cespuglio, e mi allontano.
Bensì un incidente d'auto. Un incidente causato dalla caduta di un cartello stradale. Un incidente che non sapevo nemmeno fosse avvenuto… fino a quel momento.
Ma quella sera, dopo aver riattaccato, ho vagato ancora un po' per le strade. Perché dovevo smettere di piangere. Prima di tornare a casa, volevo calmarmi un po'. Se i miei mi avessero beccata a rientrare di nascosto con le lacrime agli occhi, mi avrebbero fatto troppe domande. Domande senza risposta.
È quello che sto facendo anch'io. Vago per le strade. Non ho pianto la sera della festa, ma ora riesco a stento a trattenermi.
E non posso tornare a casa.
Così, mi sono messa a camminare senza sapere dove andare. Ed era piacevole. Il freddo. La nebbia. In effetti, la pioggia si era ormai trasformata in una leggera nebbiolina.
Ho camminato per ore, immaginando che la nebbia diventasse sempre più spessa fino a inghiottirmi del tutto. Il pensiero di sparire così – con semplicità – mi rendeva felice.
Ma le cose, come ben sapete, sono andate poi diversamente.
Apro il walkman per girare la cassetta. Dio. Faccio un sospiro tremante e chiudo gli occhi. La fine.