Cassetta 4: Lato A
Al ritorno, la luce rossa lampeggia, ma attraverso comunque di corsa le strisce. Nel parcheggio ci sono ancora meno macchine di prima, ma di mia madre neanche l'ombra.
A pochi metri di distanza dal Rosie's, smetto di correre. Appoggio la schiena contro la vetrina di un negozio di animali, cercando di riprendere fiato. Poi mi chino in avanti, con le mani appoggiate alle ginocchia, nella speranza di calmarmi prima che arrivi mamma.
Impossibile. Perché anche se le mie gambe hanno smesso di correre, la mente continua a galoppare. Mi lascio scivolare a terra contro il vetro freddo, con le ginocchia piegate, sforzandomi di trattenere le lacrime.
Ma c'è poco tempo. Ormai sarà qui a momenti.
Con un grosso respiro, mi rialzo, vado dritto da Rosie's, e apro la porta.
Una folata di aria calda si precipita all'esterno: un puzzo fatto di grasso di hamburger e zucchero. All'interno tre dei cinque séparé lungo la parete sono occupati. In uno, un ragazzo e una ragazza bevono frappé e sgranocchiano popcorn del Crestmont. Gli altri due, sono pieni di studenti. Libri vari coprono i tavoli, lasciando spazio a sufficienza solo per le bevande e un paio di cestini di patatine fritte.
Per fortuna, il séparé giù in fondo è occupato: almeno non devo decidere se sedermi lì o meno.
Attaccato con lo scotch a uno dei flipper, c'è un biglietto scritto a mano che dice "Fuori servizio". Un ragazzo di quinta che mi sembra di conoscere è in piedi davanti all'altro flipper, tutto concentrato a giocare.
Come suggerito da Hannah, prendo posto al bancone deserto.
Dietro al bancone, un tizio con un grembiule bianco separa le posate in due diversi contenitori di plastica. Mi fa un cenno con la testa. — Quando sei pronto, chiamami.
Prendo il menu, infilato tra due portatovaglioli color argento. Sul davanti c'è tutta la storia del Rosie's, con tanto di foto in bianco e nero, da quarant'anni fa a oggi. Giro il menu dall'altra parte, ma non c'è niente che mi stuzzichi. Non ora.
Quindici minuti. È il tempo che Hannah ha detto di aspettare. Quindici minuti e poi potrò ordinare.
C'era qualcosa che non andava quando mi ha chiamato mia madre. Qualcosa che non andava in me, e so che se n'è accorta. Ma lungo il tragitto si metterà davvero ad ascoltare le cassette per scoprire il perché?
Sono un imbecille. Dovevo dirle che sarei venuto io a prenderle. Ma non l'ho fatto, e ora mi tocca aspettare e vedere che succede.
Il ragazzo con i popcorn chiede la chiave del bagno. Il tizio dietro al bancone punta il dito verso la parete. Due chiavi penzolano da due diversi ganci di ottone. Una è attaccata a un cagnolino di plastica azzurro. L'altra, a un elefantino rosa. Il ragazzo afferra l'animale azzurro e si dirige in fondo al corridoio.
Dopo aver sistemato i contenitori di plastica sotto il bancone, l'uomo svita la parte superiore di una dozzina di porta-sale e porta-pepe, senza calcolarmi minimamente. Il che va benissimo.
— Hai già ordinato?
Mi volto di scatto. Mia madre si siede sullo sgabello accanto al mio e prende un menu. Accanto a lei, sul bancone, c'è la scatola da scarpe di Hannah.
— Conti di restare? — chiedo.
Se rimane qui, possiamo parlare. Non mi dispiacerebbe. Sarebbe bello pensare ad altro per un po'. Fare una pausa.
Mi guarda dritto negli occhi e sorride. Poi si porta una mano sulla pancia e corruga la fronte cancellando il suo sorriso. — Non è una buona idea, mi sa.
— Non sei mica grassa, mamma.
Mi allunga la scatola da scarpe sul bancone. — E il tuo amico dov'è? Non stavi lavorando con qualcuno?
Già. Una ricerca per la scuola. — È dovuto, sai… è in bagno.
Per un attimo, il suo sguardo si spinge oltre la mia spalla. Mi sbaglierò, ma credo abbia voluto controllare se entrambe le chiavi fossero appese alla parete oppure no.
Grazie a Dio, non lo erano.
— Hai abbastanza soldi? — mi chiede.
— Per cosa?
— Per mangiare. — Rimette a posto il suo menu e punta il dito contro il mio. — I frappé al malto e cioccolato sono una favola.
— Sei stata qui altre volte? — Sono un po' sorpreso. Non ho mai visto gente adulta da Rosie's.
Mamma ride. Mi poggia una mano sulla testa e usa il pollice per spianarmi la fronte corrugata. — Non c'è mica da stupirsi, Clay. Questo posto c'è da un'eternità. — Tira fuori un biglietto da dieci e lo piazza sopra la scatola da scarpe. — Mangia quello che vuoi, ma prendi un frappé al malto per me.
Quando lei si alza, la porta del bagno si apre con un cigolio. Mi volto e osservo il ragazzo che riappende la chiave con il cagnolino azzurro. Si scusa con la ragazza per averci messo tanto e la bacia sulla fronte, tornando poi a sedersi.
— Clay? — dice mia madre.
Prima di voltarmi di nuovo, chiudo per un istante gli occhi, e prendo fiato. — Sì?
Si sforza di sorridere. — Torna presto. — Ma è un sorriso ferito.
Mi rimangono ancora quattro cassette. Sette storie. Il mio nome. Dov'è che compare?
La guardo negli occhi. — Mi ci vorrà un po'. — E abbasso lo sguardo. Sul menu. — È una ricerca per la scuola. Non dice niente, ma con la coda dell'occhio la vedo ferma lì in piedi. Alza una mano. Chiudo gli occhi e sento le sue dita accarezzarmi la testa e scendere giù lungo la nuca.
— Fai il bravo — dice. Annuisco.
E se ne va.
Sollevo il coperchio della scatola e srotolo la carta con le bolle. Le cassette non sono state toccate.
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La materia preferita da tutti… o meglio, la materia obbligatoria preferita da tutti… è Attualità. È una specie di corso-facoltativo obbligatorio. E anche se non lo fosse, lo sceglierebbero tutti comunque perché è un voto alto assicurato.
E il più delle volte è pure divertente. Io lo seguirei anche solo per quello.
Ci sono pochissimi compiti, e non bisogna sottovalutare i punti bonus per chi partecipa attivamente in classe! In pratica, t'incoraggiano a gridare le tue opinioni davanti a tutti. A chi non piacerebbe?
Allungo la mano per prendere lo zaino e lo appoggio sullo sgabello dove poco fa era seduta mia madre.
Sentendomi sempre più un'esclusa, l'ora di attualità era il mio rifugio ideale a scuola. Ogni volta che entravo in quell'aula, mi veniva da spalancare le braccia e gridare "Centocinquanta la gallina canta!"
Avvolgo nella carta con le bolle le tre cassette che ho già ascoltato e le rimetto nella scatola da scarpe. Basta. Finito.
Per un'ora al giorno, qualunque fosse il pettegolezzo più recente su di me, era vietato colpirmi o ridacchiare alle mie spalle. La prof Bradley non amava gli studenti che ridacchiano.
Apro la tasca più grande dello zaino e c'infilo dentro la scatola da scarpe di Hannah.
Era la regola numero uno, fin dal primo giorno. Chi ridacchiava delle parole di un altro, doveva portare alla prof una barretta di KitKat da dividere con questa persona. Se poi uno ridacchiava con particolare cattiveria, doveva portargliene una confezione gigante.
Disposte sul bancone, accanto al walkman e al frappé al cioccolato e malto in onore di mia madre, ci sono le tre cassette successive.
E tutti pagavano pegno senza fiatare, tanto era il rispetto che avevamo per la Bradley. Nessuno l'accusava mai di favoritismi, perché lei non ne faceva. Se diceva che avevi ridacchiato, era vero. E lo sapevi benissimo. Il giorno dopo, c'er a sempre sulla cattedra una barretta di KitKat pronta da dividere.
E se non c'era? Non saprei.
Non è mai successo.
Raccolgo le due cassette successive, con su scritto in smalto blu i numeri nove e dieci, e undici e dodici, e me le nascondo nella tasca interna del giubbotto.
La prof Bradley ripeteva sempre che attualità era la sua materia preferita da insegnare – o da "moderare", come diceva lei. A ogni lezione, c'era una breve lettura da fare a casa, con statistiche ed esempi tratti dalla cronaca. Poi, si discuteva in classe.
L'ultima cassetta, la settima, ha un tredici scritto su un lato, e niente sull'altro. Questa me la infilo nella tasca dietro dei jeans.
Bullismo. Droghe. Autostima. Rapporti di coppia. Non esistevano tabù nella classe della prof Bradley. Il che ovviamente faceva storcere il naso a molti insegnanti. Era una perdita di tempo, dicevano. Loro volevano insegnarci solo fatti nudi e crudi. Era l'unica cosa che capivano.
I fari di un'auto illuminano per un attimo la vetrina di Rosie's e io strizzo gli occhi.
Volevano insegnarci il significato di X in relazione a Y, anziché aiutarci a comprendere meglio noi stessi e gli altri. Volevano farci imparare a memoria la data esatta della Magna Carta – poco importa cosa fosse – anziché discutere del controllo delle nascite.
Facciamo anche educazione sessuale, ma quella è una barzelletta.
Il che voleva dire che ogni anno, durante le riunioni di bilancio, attualità era la materia che subiva i tagli maggiori. E ogni anno, la Bradley e gli altri insegnanti si portavano in commissione un gruppetto di studenti, per fornire esempi sui benefici concreti che noi tutti avevamo tratto dai vari corsi.
Okay, potrei andare avanti ore a difendere la prof. Ma sarà pur successo qualcosa durante quelle lezioni, giusto? Altrimenti, che senso avrebbe parlarne?
L'anno prossimo; malgrado il mio piccolo incidente, spero tanto che l'ora di attualità continui.
Lo so, lo so. Vi aspettavate che dicessi il contrario, vero? Credete che, se la prof Bradley ha avuto un ruolo attivo nella mia vicenda, la sua lezione dovrebbe essere cancellata. Ma non è così.
A scuola nessuno sa quello che sto per dirvi. E non è stato il corso in sé a pesare sulla mia decisione. Anche se non lo avessi mai frequentato, il risultato sarebbe stato lo stesso.
O forse no.
Ma è proprio questo il nocciolo della questione. Non si può mai sapere con certezza che tipo d'impatto ognuno di noi può avere sugli altri. Spesso, non ce ne rendiamo nemmeno conto. Eppure, questo impatto esiste eccome.
Mamma aveva ragione. Il frappé è super. Un mix perfetto di gelato, cioccolato e malto.
E io sono un imbecille a starmene qui, a godermi il frappé.
In fondo all'aula la Bradley aveva messo un portariviste di metallo. Uno di quelli girevoli, che si vedono anche nei supermercati. Ma dentro non c'era nessuna rivista. All'inizio dell'anno, infatti, ogni studente riceveva un sacchetto di carta, decombile con matite colorate, adesivi e francobolli, che poi aprivamo e appendevamo al portariviste con dei pezzetti di scotch.
La prof sapeva che gli studenti hanno spesso difficoltà a farsi i complimenti a vicenda, così aveva escogitato un modo per farci esprimere i nostri sentimenti, pur mantenendo l'anonimato.
Ammiri il modo in cui Tizio parla apertamente della propria famiglia? Infila un biglietto nel suo sacchetto e diglielo.
Condividi il timore di un altro di non riuscire a passare l'esame di storia? Lasciagli un biglietto. Digli che penserai a lui mentre studi per il prossimo compito in classe.
Hai apprezzato la sua performance nella recita di fine anno?
Ti piace il suo nuovo taglio di capelli?
Anche Hannah si è tagliata i capelli. Nella foto al Monet, ce li aveva molto più lunghi. Io è così che me la ricordo. Anche adesso.
Se ci riesci, vai a dirglielo in faccia. Altrimenti, puoi scriverglielo su un biglietto, così la persona si sentirà ugualmente apprezzata. E a quanto mi risulta, nessuno ha mai osato infilare in un sacchetto un commento negativo o sarcastico. Avevamo troppo rispetto per la prof Bradley.
Perciò, Zach Dempsey, qual è la tua scusa?
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Ma… Che succede? Oh Dio. Alzo gli occhi e vedo Tony in piedi accanto a me; ha il dito premuto su PAUSE. — È il mio walkman questo?
Non rispondo, perché non riesco a decifrare l'espressione sulla sua faccia. Non sembra arrabbiato, anche se, in effetti, gliel'ho preso senza dire niente.
Confuso? Forse. Ma se è così, c'è sotto dell'altro. È la stessa espressione che aveva quando gli ho dato una mano con la macchina. Quando continuava a fissarmi, anziché aiutare il padre con la torcia elettrica.
Preoccupato. Angosciato.
— Tony, ehi.
Mi levo le cuffie dalle orecchie e me le appendo al collo. Il walkman. Certo, mi ha chiesto del walkman. — Sì, in effetti. Era nella tua macchina. L'ho visto mentre ti davo una mano. Oggi pomeriggio. Mi sa che ti ho chiesto se potevo prenderlo in prestito.
Sono un cretino.
Lui appoggia una mano sul bancone e si mette a sedere sullo sgabello accanto al mio. — Scusami, Clay — dice. Mi guarda dritto negli occhi. Riesce a intuire che sono un pessimo bugiardo? — Quando c'è mio padre divento una iena. Di sicuro me lo hai chiesto e io me ne sono scordato.
Il suo sguardo cade sugli auricolari gialli appesi al collo, e percorre poi tutta la lunghezza del filo fino al walkman, appoggiato sul bancone. Prego solo che non mi chieda che cassetta c'è dentro. Fra Tony e mia madre, sto raccontando un sacco di balle oggi. E se me lo chiede, dovrò raccontarne un'altra.
— Basta che me lo riporti quando hai finito. — Si alza in piedi e mi dà una pacca sulla spalla. — Tienilo finché ti serve.
— Grazie.
— Fai pure con calma — aggiunge. Prende un menu infilato tra due portatovaglioli, si dirige verso un séparé vuoto alle mie spalle, e si siede.
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Non preoccuparti, Zach. Non mi hai infilato nessuna cattiveria nel sacchetto. Lo so. Semmai, hai fatto di peggio.
A quanto mi risulta, Zach è un bravo ragazzo. Troppo timido perché la gente si metta a sparlare di lui.
E come me, ha sempre avuto un debole per Hannah Baker.
Ma prima, torniamo indietro di qualche settimana. Torniamo… da Rosie's.
Lo stomaco mi si contrae, come se avessi fatto una serie di addominali. Chiudo gli occhi e mi sforzo di tornare alla normalità. Ma sono ore ormai che non sto bene. Sento caldo persino alle palpebre. Come se tutto il mio corpo stesse combattendo i sintomi di una malattia.
Ero seduta lì, nel séparé da sola, con lo sguardo fisso dentro il bicchiere vuoto del frappé. Il lato della panca dov'era seduto Marcus sarà stato ancora tiepido, visto che lui se n'era andato un minuto prima. Ed ecco che arriva da me Zach.
E si siede.
Apro gli occhi, sulla fila di sgabelli vuoti lungo il lato del bancone. Su uno di questi, il mio forse, si è seduta anche Hannah, appena è entrata. Da sola. Ma poi è arrivato Marcus e l'ha fatta accomodare in uno dei séparé. Seguo con gli occhi la lunghezza del bancone fino ai flipper giù in fondo al locale, e poi sposto lo sguardo dall'altra parte, verso il loro séparé. Ora è vuoto.
Io ho fatto finta di non vederlo. Non perché avessi qualcosa contro di lui, ma perché il mio cuore e la mia fiducia erano ormai ai minimi termini. E questo tracollo stava scavando un vuoto nel mio petto. Come se ogni nervo del corpo si stesse ritirando verso l'interno, abbandonando le dita delle mani e dei piedi. Fino a scomparire.
Mi bruciano gli occhi. Allungo la mano e la sfrego contro il vetro appannato del bicchiere di frappé. Un velo d'acqua ghiacciata resta attaccato alla mia pelle e io mi passo le dita umide sulle palpebre.
Stavo lì seduta. A pensare. E più pensavo, collegando tra loro i diversi episodi della mia vita, più sentivo che il cuore stava per abbandonarmi.
Zach è stato carinissimo. Ha lasciato che lo ignorassi fino a che la situazione non è diventata quasi comica. Sapevo che lui era lì, ovviamente. Continuava a fissarmi imperterrito. E alla fine, con fare teatrale, si è schiarito la voce.
Ho appoggiato la mano sul tavolo, sfiorando la base del bicchiere: era l'unico gesto che potevo concedergli per fargli capire che ero pronta ad ascoltarlo.
Avvicino il bicchiere e mi metto a girare lentamente il cucchiaino all'interno, ammorbidendo il fondo della bevanda.
Mi ha chiesto se era tutto okay e mi sono sforzata di annuire. Ma i miei occhi continuavano a fissare il bicchiere, o meglio, il cucchiaino all'interno del bicchiere. E tra me e me, mi chiedevo: è così che si sente uno quando impazzisce?
— Mi dispiace — ha detto. — Per quello che è appena successo.
Sentivo che la mia testa continuava ad annuire come se fosse legata a delle molle, ma non sono riuscita a dirgli quanto apprezzavo le sue parole.
Si è offerto di comprarmi un altro frappé, ma non gli ho risposto. Non riuscivo più a parlare? O non mi andava e basta? Non lo so. Parte di me era convinta che lui ci stesse provando; pronto a sfruttare il fatto che ero finalmente sola per chiedermi di uscire. Non ne ero sicura al cento per cento, ma perché avrei dovuto fidarmi?
La cameriera è passata a lasciarmi il conto e a raccattare il bicchiere vuoto. Poco dopo, non avendo ricevuto alcuna riposta, Zach ha lasciato alcuni dollari sul tavolo e se n'è tornato dagli amici.
Continuo a girare il mio frappé. Non ce n'è quasi più, ma voglio tenere lo stesso il bicchiere. Almeno ho una scusa per starmene seduto qui. Per non andarmene.
Gli occhi hanno cominciato a riempirmisi di lacrime, ma non riuscivo a staccare lo sguardo dal piccolo cerchio di condensa, lì dove prima c'era il bicchiere. Se avessi provato a sussurrare anche solo una parola, sarei uscita di testa definitivamente.
O forse ero già completamente fuori?
Continuo a girare.
Una cosa è certa, a quel tavolo, mi sono venuti in mente per la prima volta i peggiori pensieri del mondo. È lì che ho cominciato a pensare… a pensare… a una parola che ancora non riesco a pronunciare.
So che hai tentato di soccorrermi, Zach. Ma sappiamo tutti che non è questo il motivo per cui sei su questa cassetta. Prima di continuare, però, ho una domanda per te. Se tenti di aiutare qualcuno e ti rendi conto che non è possibile, perché mai dovresti rinfacciarglielo?
Nei giorni o nelle settimane scorse, o per tutto il tempo che le cassette hanno impiegato ad arrivare fino a te, Zach, avrai pensato che nessuno l'avrebbe scoperto.
Mi prendo la testa tra le mani. Quanti segreti possono esserci in una scuola?
Forse avrai avuto una fitta allo stomaco quando hai saputo di me. Ma più passava il tempo, più tu eri tranquillo. Perché più passava il tempo, più probabilità c'erano che il tuo segreto fosse morto con me. Nessuno ne era a conoscenza. Nessuno lo avrebbe mai scoperto.
Ma ora lo scopriremo. E anche il mio stomaco ha una fitta.
Dimmi un po', Zach, pensavi davvero che ti avessi dato il due di picche da Rosie's? Voglio dire, non sei neanche riuscito a chiedermi esplicitamente di uscire, perciò il mio non poteva essere un vero rifiuto, giusto? E allora cos'è stato? Imbarazzo?
Fammi indovinare. Hai detto ai tuoi amichetti di stare a guardare mentre ci provavi con me…e io non ti ho calcolato di striscio.
Oppure era una scommessa? Magari ti avevano sfidato?
Succede spesso. Ultimamente hanno sfidato anche me. Era un tipo che lavorava con noi al Crestmont. Sapeva che lei mi piaceva e che non avevo mai avuto il coraggio di chiederle di uscire. Sapeva anche che negli ultimi mesi, non parlava quasi più con nessuno, cosa che rendeva la sfida ancora più difficile.
Una volta uscita dal mio stato catatonico, subito prima di andarmene, ho origliato un pezzo della conversazione fra te e i tuoi amici. Loro ti stavano prendendo in giro per non essere riuscito a strapparmi quell'appuntamento che, a tuo dire, era ormai cosa fatta.
Devo riconoscere una cosa, Zach. Saresti potuto tornare da loro e dire: "Hannah è pazza. Guardatela. Ha lo sguardo fisso nel vuoto."
E invece, hai lasciato che ti prendessero in giro.
Ma devi essere uno di quelli che cuociono a fuoco lento, accumulando sempre più rabbia, e prendendola sempre più sul personale, quanto più ripensavi al mio presunto rifiuto. E hai deciso di vendicarti nel modo più infantile in assoluto.
Rubando i miei biglietti d'incoraggiamento.
Patetico.
Com'è che me ne sono accorta? Semplice. Tutti quanti ricevevano biglietti, eccetto me. Tutti! E per i motivi più futili. Bastava addirittura che uno si tagliasse i capelli per ricevere tonnellate di biglietti. E c'erano persone in quella classe che io reputavo amiche e che ero certa avrebbero infilato qualche commento nel mio sacchetto quando mi sono accorciata di molto i capelli.
La prima volta che l'ho incrociata in corridoio con i capelli corti, non ho potuto fare a meno di restare a bocca aperta. E lei ha subito distolto lo sguardo. D'istinto, ha fatto per liberarsi la fronte dai capelli, passandoseli dietro le orecchie. Ma erano troppo corti e le sono subito ricaduti in avanti.
Ora che ci penso, me li sono tagliati il giorno stesso in cui Marcus Cooley e io ci siamo incontrati da Rosie's.
Wow! È incredibile. Tutte quelle avvisaglie a cui ci dicono di prestare attenzione sono vere. Appena uscita da Rosie's, sono andata subito a tagliarmi i capelli. Avevo bisogno di cambiare, proprio come ci avevano detto a scuola, così ho cambiato il mio aspetto fisico. L'unica cosa su cui avevo ancora il controllo.
Incredibile.
Fa una pausa. Silenzio. Si sente solo a malapena il fruscio del nastro.
Sono sicura che la scuola avrà fatto intervenire psicologi carichi di volantini, pronti a spiegarvi quali segnali vanno ricercati in uno studente a rischio di…
Un'altra pausa.
No. Come vi ho già detto, non riesco a pronunciare quella parola.
Suicidio. Perché l'hai fatta pronunciare a me?
Il giorno dopo, quando ho trovato il sacchetto vuoto, ho capito subito che c'era sotto qualcosa. O perlomeno, ne ero quasi sicura. I primi mesi di scuola ricevevo più o meno quattro o cinque biglietti al giorno. Ma di colpo, dopo il taglio di capelli rivelatore… più niente.
Così, ho aspettato dapprima una settimana.
Poi due.
Poi tre.
Niente.
Spingo via il bicchiere sul bancone e mi volto a guardare il tipo alla cassa. — Ho finito.
Era ormai ora di scoprire cosa stava succedendo. Così mi sono scritta un biglietto da sola.
Lui mi guarda storto, mentre finisce di contare un resto. Anche la ragazza di fronte alla cassa si volta a guardarmi. Si tocca le orecchie. Le cuffie. Parlo a voce troppo alta.
— Scusa — mormoro. O forse le parole non mi escono nemmeno.
"Hannah" c'era scritto. "Complimenti per i capelli. Scusa se non te l'ho detto prima." E per sicurezza, ho aggiunto anche un faccino viola sorridente.
Tanto per evitare il terribile imbarazzo di farmi beccare a mandarmi un biglietto da sola, ne ho scritto uno anche per il sacchetto accanto al mio. E dopo la lezione, sono andata al portariviste e ho fatto in modo che tutti mi vedessero depositare un biglietto nell'altro sacchetto. Poi ho infilato con nonchalance la mano dentro al mio, fingendo di controllare se ci fossero biglietti. E dico "fingendo" perché tanto sapevo già che non ce ne sarebbero stati.
E il giorno dopo? Niente. Il biglietto era sparito.
Forse a te sembrava una cosetta da niente, Zach. Ma ora, spero che tu capisca. La mia vita era a pezzi. Avevo bisogno di quei biglietti. Avevo bisogno di qualunque speranza quei biglietti potessero darmi.
E tu? Mi hai portato via anche quella. Hai decretato che non me la meritavo.
Più ascolto queste cassette, più mi sembra di conoscere Hannah. Non l'Hannah degli ultimi anni, ma quella degli ultimi mesi. È l'Hannah che sto imparando a conoscere.
L'Hannah della fine.
L'ultima volta che mi sono trovato così vicino a una persona, una persona destinata a morire, è stata la sera della festa. La sera in cui ho visto due macchine scontrarsi in un incrocio poco illuminato.
Allora, come adesso, non sapevo che quella persona stava morendo.
Allora, come adesso, c'era un sacco di gente intorno. Ma che si poteva fare? Tutti quelli in piedi, attorno alla macchina, che tentavano di tranquillizzare il guidatore, in attesa dell'ambulanza, potevano davvero fare qualcosa?
E la gente che incrociava Hannah nei corridoi, o che le sedeva accanto in classe, avrebbe potuto fare qualcosa?
Forse allora, come adesso, era già troppo tardi.
Allora Zach, quanti biglietti mi hai rubato? Quanti sono i biglietti che non ho avuto la possibilità di leggere? Li hai letti tu? Lo spero. Almeno ci sarà qualcuno che sa cosa gli altri pensano di me.
Mi volto indietro a guardare. Tony è ancora lì, a mangiare patatine fritte e a cospargere di ketchup un hamburger.
È vero, nelle discussioni in classe tendevo a chiudermi a riccio. Ma quando mi aprivo, c'era forse qualcuno che mi ringraziava, lasciandomi un biglietto nel sacchetto? Sarebbe st ato carino saperlo. In effetti, mi avrebbe forse spronata ad aprirmi di più.
Non è giusto. Se Zach avesse saputo quello che Hannah stava passando, sono certo che non avrebbe rubato i biglietti.
Il giorno in cui il "mio" biglietto è sparito, mi sono piazzata fuori dall'aula a chiacchierare insieme a una persona con cui non avevo mai parlato. Di tanto in tanto, guardavo oltre la sua spalla, tenendo d'occhio gli altri studenti che controllavano i loro sacchetti.
Era davvero un bello spettacolo, Zach.
Ed è lì che ti ho beccato. Con un dito, hai sfiorato il bordo superiore del mio sacchetto piegandolo quel tanto che bastava per controllarne l'interno.
Niente.
Così ti sei diretto verso l'uscita senza neanche controllare il tuo, cosa che ho trovato molto interessante.
Il tizio dietro al bancone porta via il mio bicchiere e, con uno straccio sporco di cioccolato, pulisce il bancone.
Ovviamente, questo non provava un bel niente. Magari ti piaceva solo controllare chi riceveva biglietti e chi no… con un particolare interesse nei miei confronti.
Così, il giorno dopo, durante la pausa pranzo, sono entrata nell'aula della prof Bradley. Ho staccato il mio sacchetto dal portariviste e l'ho riattaccato usando un minuscolo pezzettino di scotch. Dentro, ci ho messo un bigliettino piegato in due.
Ancora una volta, alla fine della lezione, mi sono piazzata fuori ad aspettare e a controllare quello che succedeva. Ma stavolta non ho parlato con nessuno. Sono rimasta lì a guardare e basta.
Una trappola perfetta.
Tu hai sfiorato il bordo del mio sacchetto, hai visto il biglietto all'interno e hai infilato la mano dentro per prenderlo. Il sacchetto è caduto in terra e tu sei diventato rosso come un peperone. Ma ti sei chinato a raccoglierlo come se niente fosse. La mia reazione? Incredulità. Voglio dire, ti ho visto con i miei occhi. Me l'aspettavo, persino. Ma non riuscivo lo stesso a crederci.
Malgrado il mio progetto iniziale prevedesse di affrontarti lì per lì, mi sono subito spostata di lato, dietro la porta.
Tu hai svoltato l'angolo di corsa e… ci siamo ritrovati faccia a faccia. Sentivo gli occhi bruciare mentre ti guardavo fisso. Poi ho distolto lo sguardo e ho abbassato la testa. E tu ti sei avviato lungo il corridoio.
Non ha voluto spiegazioni. Non ce n'erano. Lo aveva visto con i suoi occhi.
A metà corridoio, mentre camminavi in tutta fretta, ti ho visto abbassare la testa come se stessi leggendo qualcosa. Il mio biglietto? Esatto.
Ti sei voltato un istante per controllare se ero ancora lì ferma a guardarti. E in quel momento, ho avuto paura. Avresti affrontato la situazione di petto, dicendo che ti dispiaceva? Mi avresti urlato dietro?
Dunque? Nessuna delle due cose. Invece, ti sei rigirato e hai continuato a camminare, avvicinandoti sempre più all'uscita dell'edificio! Alla tua via di fuga.
E mentre ero lì in piedi in mezzo al corridoio – sola – a cercare di capire quello che era appena successo, ho intuito come stavano davvero le cose: il fatto è che non mi meritavo nemmeno una spiegazione; né una reazione. Non ai tuoi occhi, Zach.
Pausa.
Tanto perché lo sappiate, il biglietto era indirizzato a Zach in persona, con tanto di nome. Forse ora lui lo considererà una sorta di prologo a queste cassette. Perché in quel biglietto, confessavo di essere arrivata a un punto della mia vita in cui avevo bisogno di ogni incoraggiamento possibile e immaginabile. Incoraggiamento… che lui mi stava negando.
Mi mordo il pollice, sforzandomi di non voltarmi a guardare Tony. Si chiederà cosa sto ascoltando? Gliene frega qualcosa?
Ma non ne potevo più. Vedete, Zach non è l'unico a bollire a fuoco lento.
Gli ho urlato dietro: — Perché?
In corridoio, c'erano ancora alcune persone dirette da un'aula all'altra. E sono trasalite tutte quante. Ma solo un ragazzo si è fermato. Ed è rimasto lì, a guardarmi, infilandosi poi il mio biglietto nella tasca dietro dei pantaloni.
Ho continuato a urlare quella parola più e più volte. Le lacrime, non più trattenute, mi rigavano il viso. — Perché? Perché, Zach?
Lo avevo sentito dire. Hannah aveva fatto una scenata in corridoio senza nessuna ragione apparente, umiliandosi davanti a tutti.
Ma si sbagliavano. Una ragione c'era, eccome.
Ora, scendiamo un po' nel privato. Sull'onda dell'onestà intellettuale – del parlare a cuore aperto – che mi contraddistingue, lasciate che vi dica una cosa: i miei mi amano. So che mi vogliono bene. Ma le cose non sono state facili ultimamente. Nell'ultimo anno. Da quando hanno costruito il nuovo centro commerciale appena fuori città.
Me lo ricordo bene. I genitori di Hannah erano sul telegiornale locale tutte le sere, a manifestare contro l'apertura del mega centro commerciale, a ripetere che avrebbe messo in ginocchio i piccoli commercianti del centro. Dicevano che nessuno sarebbe più andato a fare spese da loro.
Quando è stato inaugurato, i miei sono diventati scostanti. Di colpo, hanno dovuto affrontare un sacco di problemi. Nel tentativo di far quadrare i conti. Voglio dire, con me ci parlavano, ma non come prima.
Quando mi sono tagliata i capelli, mia madre non se n'è nemmeno accorta.
E a quanto mi risulta – grazie infinite, Zach – neanche a scuola se ne sono accorti.
Io sì.
Infondo all'aula la prof aveva un suo sacchetto. Era appeso insieme agli altri sul portariviste girevole. Potevamo usarlo – e lei ci incoraggiava a farlo – per depositare commenti sull'andamento del corso. Positivi o negativi che fossero. Ma lei voleva anche che suggerissimo possibili argomenti di discussione.
Ed è quello che ho fatto. Ho depositato un biglietto per la Bradley con scritto: "Suicidio." Ogni tanto ci penso. Non troppo seriamente, ma ci penso.
Era questo il biglietto. Parola per parola. Lo so perché l'ho scritto e riscritto decine di volte prima di infilarlo nel suo sacchetto. Scrivevo, e buttavo via, riscrivevo, accartocciavo e ributtavo via.
Ma perché scrivere un biglietto del genere? Ogni volta che trascrivevo le mie parole su un nuovo foglio, tornavo a chiedermelo. Perché lo stavo scrivendo? Era falso. In fondo, non ci pensavo mica. Non seriamente. Non in dettaglio. Era solo un pensiero che mi frullava per la testa di tanto in tanto e che io respingevo con forza.
Ultimamente, però, mi toccava respingerlo sempre più spesso.
Ed era un argomento che non era mai stato affrontato in classe. Di sicuro, non ero l'unica a pensarci, giusto? Quindi perché non discuterne tutti insieme?
O forse, sotto sotto, c'era anche un'altra motivazione. Forse speravo dentro di me che qualcuno intuisse chi aveva scritto il biglietto e cercasse di soccorrermi.
Forse. Non lo so. Ma ero sempre attenta a non tradirmi.
Il taglio di capelli. Il fatto di abbassare lo sguardo nei corridoi. Eri attenta, ma le avvisaglie c'erano tutte. Piccole, ma c'erano.
E poi, tutto a un tratto, hai reagito.
Anche se con te mi sono tradita, Zach. Sapevi che ero stata io a mettere quel biglietto nel sacchetto della prof. Non potevi non saperlo. Lei l'ha pescato e l'ha letto il giorno dopo che ti ho beccato. Il giorno dopo che ho avuto quel crollo in corridoio.
Pochi giorni prima di prendere le pastiglie, Hannah era tornata quella di una volta. Salutava tutti nei corridoi. Guardava le persone dritto negli occhi. Un cambiamento piuttosto drastico, visto che erano mesi che non si comportava più così.
Come la vera Hannah.
E invece non hai alzato un dito, Zach. Anche quando la Bradley ha sollevato l'argomento, non hai fatto niente per soccorrermi.
Drastico, davvero.
Cosa speravo di ottenere dai miei compagni? Diciamo che ero soprattutto curiosa di sentire cosa avevano da dire. Le loro riflessioni. I loro sentimenti.
E cavolo, se ne avevano.
Uno ha detto che era difficile poter intervenire senza sapere perché un determinato ragazzo volesse uccidersi.
Al che ho quasi ribattuto: — O una ragazza. Potrebbe anche trattarsi di una ragazza.
Poi sono intervenuti anche altri.
— Se si sentono soli, potremmo invitarli a sedere con noi alla mensa.
— Se è per i voti a scuola, potremmo aiutarli con i compiti.
— Se è per la situazione a casa, si potrebbe forse… non so… trovare uno psicologo o roba del genere.
Ma ogni cosa che dicevano – ogni singola cosa! – aveva un non so che di risentito.
Poi, una ragazza – il nome non ha importanza – ha detto quello che tutti pensavano tra sé e sé: — È come se la persona che ha scritto questo biglietto volesse attirare l'attenzione. Se facesse sul serio, sarebbe già uscita allo scoperto.
Dio. Non c'era modo che Hannah potesse aprirsi in quella classe.
Non potevo crederci.
In passato, la prof Bradley aveva trovato nel suo sacchetto bigliettini che proponevano discussioni di gruppo sul diritto all'aborto, la violenza domestica, il tradimento del partner – uomo o donna che fosse – e il copiare nei compiti in classe. Nessuno aveva mai insistito per sapere chi avesse proposto un determinato argomento. Ma per qualche motivo, nessuno sembrava disposto a discutere di suicidio in astratto.
Per una decina di minuti la profila snocciolato varie statistiche – locali – che ci hanno colto tutti di sorpresa. Siccome siamo minorenni, ha detto, a meno che il suicidio non avvenga in un luogo pubblico, con tanto di testimoni oculari, è difficile che i giornali ne riportino la notizia. Nessun genitore ci tiene a far sapere che il proprio figlio, il figlio allevato con tanto amore, si è tolto la vita. Spesso la gente è portata a credere che si tratti di semplici incidenti. Il rovescio della medaglia è che nessuno sa mai con esattezza cosa avviene ai membri della propria comunità.
Detto questo, una discussione vera e propria sull'argomento non c'è stata.
Erano solo dei ficcanaso, oppure pensavano davvero che conoscere tutti gli elementi del puzzle fosse il modo migliore per aiutare una persona? Non saprei. Un po' tutte e due le cose, forse.
La prima ora, in classe del prof Porter, io mi ritrovavo spesso a osservare Hannah. Se fosse uscita la questione del suicidio, magari i nostri sguardi si sarebbero incrociati e io gliel'avrei letto in faccia.
Ma in tutta onestà, non so se sarebbero riusciti a convincermi in un senso o nell'altro. Perché forse ero semplicemente egoista. Forse volevo davvero attirare l'attenzione. Sentire gente che discutesse di me e dei miei problemi.
Considerato quello che mi ha detto alla festa, avrebbe voluto che me ne rendessi conto. Mi avrebbe guardato dritto negli occhi, pregando che me ne accorgessi.
O forse volevo solo che qualcuno puntasse il dito nella mia direzione dicendo: «Hannah. Stai meditando di suicidarti? Ti prego di non farlo, Hannah. Per favore»?
Ma sotto sotto, la verità è che l'unica persona che lo diceva davvero ero io. In fondo, quelle erano parole mie.
Alla fine della lezione, la Bradley ha distribuito un volantino intitolato Campanelli d'allarme in un potenziale suicida. E indovinate cosa figurava nella top five?
Un cambiamento repentino nell'aspetto esteriore.
Mi sono aggrappata a una ciocca di capelli, tagliati da poco.
Hmm… Chi l'avrebbe mai detto che sarei stata così prevedibile?
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Sfregandomi il mento sulla spalla, noto Tony con la coda dell'occhio, ancora seduto nel suo séparé. L'hamburger è sparito, come anche gran parte delle patatine. Se ne sta lì, del tutto ignaro di quello che sto passando.
Apro il walkman, tiro fuori la cassetta numero quattro e la rigiro.