6
Fuggivano le oscure sagome
della città

Venerdì, 29 gennaio 2016,

San Costanzo di Perugia, vescovo e martire

1.

L’infermiere entrò nella stanza prestando attenzione a non far rumore. Una preoccupazione inutile, perché l’uomo disteso nel letto non poteva sentirlo. Ma la prudenza non era mai troppa quando si aveva a che fare con quella gente lì. Si tirò dietro il carrellino metallico con le ruote che cigolavano sul pavimento di linoleum. All’interno della stanza c’era un ragazzo in piedi vicino alla finestra, immobile e silenzioso, teneva le braccia conserte e lo seguiva con lo sguardo. L’infermiere si chiamava Alessandro, per tutti Sandro, e anche se era stato a lavorare al Nord per tanti anni prima di ottenere l’agognato trasferimento vicino casa, era pur sempre cresciuto lì, fra quelle strade e quei vicoli, fra i grandi casermoni tutti uguali e le vedette per lo spaccio, e sapeva chi era quel paziente con i deflussori delle flebo che gli uscivano dalle braccia e il tubo endotracheale dell’aria che gli scendeva giù lungo la gola. Gli uomini all’ingresso con le tute del Napoli e il rigonfiamento della pistola toglievano comunque ogni possibile dubbio.

Cercò di fare in fretta per uscire da quella stanza e potersi dedicare ai suoi pazienti, a quelli che non tenevano santi in paradiso e peccati da scontare. Sandro amava il suo lavoro, fin dalla prima volta che si era specchiato negli occhi riconoscenti di un’anziana che stava lentamente morendo. Gli sembrava che la sua presenza di fianco ai malati desse un senso a tutta la sua vita, e questo era più di quanto molti potessero affermare. Di certo più di quanto potesse vantare quello lì disteso in silenzio davanti a lui.

Cambiò la flebo impedendo ai propri pensieri di mostrarsi sul volto. Silenzioso e professionale. Voleva essere un’ombra per quelle persone. Presto visto e presto dimenticato.

Era una settimana che quel tipo era attaccato ai macchinari della terapia intensiva. Senza che nulla cambiasse, senza decidersi se andare o rimanere. Vivere o morire. Durante quei giorni era stato un viavai di brutta gente e poliziotti in borghese, donne in lacrime che recitavano il rosario e politici locali che venivano a porgere omaggio. L’atrio del reparto era ancora pieno di fiori che ormai marcivano lasciando un odore stantio, ma almeno erano riusciti a far portare via i lumini e quell’improvvisato altarino votivo…

Fece quello che doveva in silenzio, poi uscì dalla stanza sempre sotto l’occhio vigile di quel ragazzo dalle braccia conserte che sembrava una statua. Fuori, Salvatore Cuomo che si atteggiava a grande capo, camminava spavaldo dando ordini e gonfiando il petto. Negli ultimi giorni, Palletta aveva avuto una trasformazione. Nessuno lo chiamava più così, tanto per cominciare, e le parole degli uomini di ’o Cardinale si erano fatte deferenti, avevano cominciato a portargli rispetto. Qualcuno aveva anche cominciato a chiamarlo Don Salvatore e lui aveva preso a comportarsi di conseguenza.

Sandro se ne era accorto ma quelle cose non lo riguardavano, lui voleva solo tornare dai pazienti. Spinse il carrellino a testa bassa avviandosi lungo il corridoio. Tuttavia Salvatore Cuomo aveva voglia di fare un po’ di teatro.

«’Uaglio’, come procede?» domandò con voce impostata per farsi sentire da tutti.

L’infermiere ebbe un sussulto, lui voleva essere invisibile. «Non so» rispose incerto, «dovrebbe rivolgersi a un medico».

«Sì, ma io adesso lo sto chiedendo a te».

Il ragazzo strinse le mani sulla sbarra di ferro del carrellino. Non poteva sottrarsi. «I valori sono stabili».

Palletta si accarezzò il mento facendo finta di valutare con attenzione quelle parole. «Mmm… Mi raccomando, ’uaglio’, qualsiasi novità, qualsiasi cosa sulla salute di quel grandissimo uomo che è Don Peppe ’o Cardinale, tu devi riferire subito a me e solo a me. Hai capito?». Il tono era appiccicoso e melodrammatico.

«Sì signore». Sandro tratteneva a stento il disgusto mentre cercava di allontanarsi. Ma Salvatore gli impediva il passaggio. Basso e grasso, gli si era messo davanti facendo resistenza con il suo ventre gonfio.

«Non aggio capit’, ’uaglio’».

E Sandro invece aveva capito benissimo. «Sì, Don Salvatore» ripeté più forte.

Adesso poteva andare. Adesso che avevano sentito tutti.

Palletta si scansò sorridendo.

Il giovane si avviò verso i pazienti sentendosi una merda.

L’uomo se ne stava sprofondato nella sua poltrona preferita. Anni e anni avevano fatto sì che i cuscini e lo schienale assumessero la forma del suo corpo e adesso accomodarsi lì era un vero piacere. L’ultimo in cui potesse ancora indulgere.

Si guardò attorno. La stanza era avvolta nella penombra, le serrande abbassate, la porta sprangata, solo la lampada alla sua destra la rischiarava debolmente. Ma a lui non interessava. Conosceva quel luogo. Lo conosceva da sempre, l’aveva amato e odiato al tempo stesso. Un po’ come aveva fatto con la sua vita, che era stata racchiusa tra quelle mura. Ogni cosa gli parlava del passato, di quello che era stato o che avrebbe potuto essere. Ma alla fine di tutto, alla fine della fiera, lui era rimasto lì da solo, a fissare vecchi mobili carichi di polvere.

Allungò una mano sul tavolino basso di fronte e afferrò la lettera. Ripiegata in quattro, la aprì con un lungo sospiro. Da quando era arrivata l’aveva letta e riletta mille volte e adesso aveva l’impressione che le parole stessero sbiadendo davanti a lui, che si consumassero sempre più, fino a che sarebbero finalmente sparite. E lui con loro.

Fissò gli occhi sulle prime righe e cominciò a leggere sottovoce, le labbra che si muovevano impercettibilmente.

«Tu non mi conosci, ma è arrivato il momento di dirti chi sono…».

Continuò la lettura parola dopo parola, dolore dopo dolore. Sino a ripiegare con cura il foglio di carta. Sino a tornare a sprofondare nella poltrona. Ma sarebbe stato ancora per poco.

Aveva un appuntamento a cui non poteva mancare.

2.

Michele camminava a passo svelto ma quel freddo umido gli penetrava nelle ossa. Le nuvole di vapore gli si condensavano davanti alla bocca, come sbuffi di una locomotiva. Sembrava stesse fumando. E allora pensò che tanto valeva accendersene una. Si fermò al centro del marciapiede, fra le persone che procedevano inconsapevoli e sicure verso chissà dove, e cercò il pacchetto nelle tasche del giaccone. Accese e aspirò con forza. Sentì il fumo caldo scendere nella gola e riempirgli i polmoni; per un istante valutò l’idea, un giorno o l’altro, di smettere di fumare, ma poi sorrise della sua stupidità. Non sarebbe cambiato molto.

Il cielo era bianco, di un candore abbagliante. In quell’alba ghiacciata erano scesi anche dei fiocchi di neve. Li aveva fissati con curiosità. Non ci era abituato. Dalle sue parti era una cosa rara, ma lì doveva essere normale, nessuno ci aveva fatto caso e tutti si muovevano tranquilli, come se nulla fosse. Soffiò il fumo caldo sulle mani intirizzite, le strofinò con forza cercando un po’ di calore e riprese la marcia.

Proseguì lungo Rudolfstraße sino all’incrocio con Hauptstraße. Non aveva timore di perdersi, la città non era molto grande, le strade principali si intersecavano le une con le altre come soldatini ubbidienti, e lui aveva passato la sera precedente a studiare la cartina che aveva acquistato alla stazione ferroviaria. La camera d’albergo che aveva preso era minuscola, perfettamente ordinata e fin troppo pulita. Gli ricordava la sua cella, mancavano solo le sbarre alle finestre e le brande inchiodate al pavimento. Aveva provato a guardare la TV ma era stato inutile. Dei programmi non capiva nulla e le televendite di pentole e materassi erano sempre le stesse anche in tedesco. Aveva preferito mettersi a studiare la mappa per evitare di perdersi fra le vie della città e dover chiedere delle informazioni che non sarebbe riuscito a capire.

Meglio muoversi rapidi. Meglio non farsi notare.

Svoltò in Hauptstraße superando l’Ars Electronica Center e si incamminò lungo il ponte dei Nibelunghi che attraversava il Danubio e portava nella parte vecchia della città. Aveva letto sulla cartina che l’Ars Electronica era un museo del futuro, che parlava di scienza e realtà virtuale e considerò, con notevole candore intellettuale, che a lui di quelle cose non gliene fregava un cazzo. Il fiume invece era diverso, aveva un che di maestoso e affascinante che lo spinse a fermarsi a metà del ponte per poterlo ammirare.

Si domandò quanto fosse freddo e profondo lì giù. Quanto fosse buio sul fondo di quelle acque. Si appoggiò alla balaustra mentre il vento lo schiaffeggiava con forza e il fumo della sigaretta si dissolveva veloce. Gettò il mozzicone cercando di seguirlo con lo sguardo, ma fu inutile. Si perse nella corrente.

Oltrepassato il ponte entrò nella Hauptplatz, la piazza principale della città. Il cuore di Linz.

A chiunque dopo la scarcerazione aveva raccontato cose diverse: a quella merda di avvocato, al bulgaro pazzo, agli zingari che lo avevano aiutato. Fuga in Spagna, espatrio in Francia, aerei e spiagge dorate, questo aveva detto, ma la sua meta reale era sempre stata quella città nel nord dell’Austria, poco lontana dal confine tedesco. Prevalentemente industriale, era distante dai grandi flussi turistici e poco conosciuta dagli italiani. Un posto ordinato e pulito, ricco e indifferente. L’ideale per gente come lui.

Aveva impiegato quasi una settimana a raggiungerla. Il figlio di Olban l’aveva lasciato una cinquantina di chilometri oltre il confine con la Francia, alle porte di un paesino di cui un minuto dopo aveva già dimenticato il nome. Il ragazzo aveva fretta di tornare indietro, di rientrare al campo nomadi per farsi vedere dagli sbirri che perquisivano le roulotte, come se lui non si fosse mai allontanato. Michele non ne aveva di certo sentito la mancanza, ma prima di scendere dalla macchina con le sue poche cose gli aveva chiesto un ultimo favore. Si era tolto dal collo la catenina d’oro che aveva recuperato passando sul cadavere del bulgaro e l’aveva infilata nel vecchio portadocumenti fornito da Olban. Aveva tirato un lungo sospiro porgendolo al ragazzo.

«Questa dalla a tuo padre. Lui sa cosa deve farci».

L’altro era dubbioso. Per essere più convincente, Michele rovistò tra le sue cose buttate nella federa di Yleana, tirò fuori la vecchia pistola e prese a scarrellare e caricare il colpo in canna.

Il giovane zingaro capì perfettamente il messaggio e, in fin dei conti, a lui non costava niente dare al padre quella cazzo di catenina. Fece di sì con la testa.

Michele era soddisfatto e scese dalla Yaris grigia senza voltarsi indietro. Sentì l’auto che ripartiva veloce.

Trovò un pessimo alberghetto in cui non facevano troppe domande. Alla richiesta di documenti allungò cento euro al tizio dietro il bancone, che li fece sparire in silenzio. La mattina dopo andò via prima dell’alba, pagò il doppio del prezzo e il concierge non azzardò commenti, semplicemente si voltò mentre lui usciva. Riprese il viaggio verso est, comprò dei vestiti che gli davano un’aria rispettabile, si fece la fototessera da applicare ai nuovi documenti ed evitò accuratamente di transitare in Svizzera. La carta di identità non avrebbe resistito ai controlli dei gendarmi. Si mosse invece verso la Germania e poi raggiunse l’Austria.

Doveva ammettere che la piazza principale di Linz era bella. Grande e squadrata, dava una sensazione di respiro. Alcuni imponenti palazzi e l’antico duomo cittadino ne delimitavano il perimetro e al centro svettava una colonna contorta e aggrovigliata, sulla cui sommità statue dorate spiccavano nel cielo bianco e freddo. Era la colonna della Trinità, padre, figlio e…

… e tornò a pensare a Don Ciro Pinochet. Agli anni passati insieme nel loro cubo di cemento armato, venti ore al giorno fra conte e controlli, perquisizioni e orari rigidamente scanditi. Il padre di Michele era già morto sparato quando conobbe Pinochet, e il figlio del boss venne ucciso mentre loro continuavano la loro quieta convivenza. E si ritrovarono così: un figlio senza padre e un padre senza un figlio.

La galera divenne qualcosa di diverso e inaspettato. Il rispetto divenne affetto e Michele, che sentiva di non aver più nulla da dimostrare, si trovò a specchiarsi negli occhi di quell’uomo anziano che aveva visto e fatto troppe cose. Cose terribili. Ma nonostante il loro rapporto, Michele si accorse che qualcosa in Don Ciro era successo, dopo la morte del figlio nulla era più come prima né mai avrebbe potuto esserlo. Pinochet era come svuotato, debole, fragile. Per lungo tempo si era aggrappato a quel ragazzo che invecchiava con lui e con cui condivideva le giornate, ma le forze lo stavano abbandonando e non ce la faceva più a fronteggiare il passato e i suoi segreti.

Michele ricordava bene quel giorno di quasi cinque anni prima. Il momento preciso in cui era cambiato per sempre quello che restava della sua vita.

Pinochet se ne stava disteso sulla sua branda, completamente vestito, a fissare le macchie del soffitto. Michele gli aveva ceduto il letto di sopra. Una questione di rispetto.

«’Uaglio’, tieni pacienza?».

Tiradritto stava uscendo dalla cella, una mano aggrappata al blindo di metallo. Se ne stava per andare ai passeggi a sgranchire un po’ le gambe, quando si bloccò voltandosi verso l’amico.

«Certo, Don Ciro. Tenete bisogno?».

«Tengo bisogno di parlarti».

Lui rivolse uno sguardo al poliziotto penitenziario che gli stava aprendo il cancello, gli sorrise debolmente per scusarsi e quello lo richiuse dentro con una doppia mandata delle pesanti chiavi.

Michele si sentiva di buon umore: aveva appena finito di leggere uno dei libri che gli aveva consigliato proprio Pinochet e stava già pensando a cominciarne un altro; era una splendida giornata di sole, gli erano arrivate le sigarette e per la sera aveva in mente di cucinare un ragù come quello che faceva sua madre. Insomma, quel giorno la galera non gli pesava, e se Don Ciro teneva bisogno avrebbe rinunciato volentieri alla passeggiata.

Tornò indietro andandosi a sedere sullo sgabello di legno, il vecchio scese dalla branda in alto e si sedette sul letto di sotto accanto a Michele. Erano protesi l’uno verso l’altro, come prete e penitente nell’atto della confessione. Ma in quel momento c’erano solo peccatori, e nessuna assoluzione sarebbe mai stata possibile.

Senza sapere perché, Michele cominciò a percepire qualcosa.

«’Uaglio’, ti voglio fare un regalo» disse piano Don Ciro fissandolo negli occhi profondi.

«Un libro?» chiese l’altro sorridendo. Cercava di allentare la tensione che aveva riempito la cella, ma era inutile.

«No, Michele. Ti voglio regalare qualcosa di meglio. Ti voglio regalare la verità».

«In che senso, lo Zì? Non ti sto a capire».

«Capirai».

Michele era confuso, ma rimase in rispettoso silenzio.

«Ti voglio raccontare un po’ di cose sulla tua vita».

«Ma lo Zì, io la conosco la…».

«No, Miche’, tu non conosci un cazzo» lo interruppe Pinochet. «Quando sei arrivato qua, eri un ’uaglione tutto palle e niente cervello, ma sono passati parecchi anni da allora e adesso le cose sono diverse. Tu sei cresciuto, io sono invecchiato, e il tempo se n’è fujte».

«Non siete invecchiato, lo Zì, voi siete sempre Don Ciro Pinochet».

«Non mi interrompere, Miche’, tengo da parlare. Quando sei arrivato qua, tu sapevi perfettamente chi ero e cosa avevo fatto, ma quello che non immagini è che anche io sapevo chi eri tu. Conoscevo il nome della gente a cui avevi sparato, il sangue che avevi versato, l’ambizione che ti aveva consumato. Ma soprattutto conoscevo, e lo conosco ancora, il nome di chi s’è fottuto la vita tua».

Michele sentì un brivido attraversargli il corpo, salire lungo la schiena e trasformarsi in un lieve formicolio delle mani. L’istinto di conservazione lo avvertì del pericolo. Un pericolo ben peggiore di un colpo di pistola o di una rissa fra detenuti. Si mosse a disagio sullo sgabello duro, avrebbe voluto alzarsi di scatto e andarsene da lì, scendere le scale della sezione sino ai cortili di passeggio, camminare a passo svelto, con forza e rabbia, per svegliare le gambe addormentate, fumare e parlare, fissare il cielo grigio oltre il muro di cinta e non pensare a niente. Niente galera, niente giorni tutti uguali, niente Don Ciro Pinochet… niente verità. E invece rimase lì, seduto di fronte a quell’uomo che lo fissava come un padre fissa il figlio, e che lentamente lo uccideva.

Una guardia passò lungo il corridoio, aprì lo spioncino del blindo e li vide immobili, illuminati dalla luce del sole che tramontava attraverso le sbarre. Richiuse soddisfatto continuando il giro di ronda. Ancora un giorno uguale agli altri.

Ancora un giorno di galera.

Lo scampanellio di un tram che lo invitava a spostarsi strappò Michele ai ricordi. Ma il discorso dello Zio gli echeggiava comunque in testa, da anni, parola per parola, segreto per segreto. Avrebbe potuto recitarlo come una preghiera. Un triste rosario che racchiudeva tutta la sua vita.

Si scansò gettando la sigaretta a terra e riprese la sua strada, dritta e lucente come quei binari. Si incamminò verso un caffè italiano che faceva angolo dove cominciava il viale principale della città. Nonostante il freddo c’erano dei tavolini all’aperto desolatamente vuoti. Si sedette sotto il cielo bianco. Pochi minuti dopo arrivò una ragazza giovane e carina dai capelli biondi, che gli chiese qualcosa in tedesco. Nel dubbio, Michele si limitò a pronunciare due parole universali. Caffè. Espresso. Lei mormorò qualcosa e andò via rapida, lasciandolo libero di tornare con la mente al suo dolore.

Quel giorno, dopo le parole di Don Ciro, Michele non era più uscito dalla cella. L’orario dei passeggi era terminato e le celle erano state richiuse. Si era disteso in silenzio sul letto aspettando che il tempo passasse. Il sole era scappato dietro le colline e la luce era morta. Non si era alzato ad accendere l’interruttore e la stanza adesso era un quieto ammasso di ombre, da fuori provenivano i rumori degli altri detenuti e della vita del carcere, ma lui non li sentiva. In testa aveva solo la voce di Don Ciro, quella ordinata fila di verità che avevano riallacciato tutti i fili dispersi del suo passato. Si sforzò di trovare un indizio, una traccia, una speranza che quelle parole non fossero vere, rivelandole solo come le fantasie di un povero vecchio boss che se ne stava a morire in galera. Ma non servì a niente: i pezzi si incastravano tutti perfettamente nel nuovo mosaico, erano finalmente al loro posto. Immagini, dubbi, sorrisi, silenzi, adesso ogni cosa assumeva un significato chiaro e inequivocabile.

Non sapeva se amare o odiare Don Ciro.

Messaggio e messaggero si confondevano ai suoi occhi. E in lui vedeva colpe che in realtà erano sue. Decise di non parlare, di chiudersi in un ostinato mutismo nella vana illusione che qualcosa cambiasse.

E io adesso che devo fare?

Tu lo devi decidere. Io ho fatto quello che dovevo.

Così era finito il loro dialogo. Poi Pinochet se n’era tornato sulla branda, muovendosi lento per gli acciacchi dell’età.

Michele non aveva più cucinato il ragù di sua madre. Nessuno dei due aveva mangiato, al passaggio del carrello del vitto il blindo della cella era rimasto chiuso e il detenuto lavorante aveva proseguito il giro.

Il sonno si era infiltrato fra i ricordi e il rancore, e Michele si era abbandonato a un inquieto dormiveglia. In un luogo imprecisato della sua mente percepiva i passi dei poliziotti di sorveglianza, le voci confuse delle TV accese, le battute lanciate fra una cella e l’altra. Un concerto conosciuto che si spegneva con il passare delle ore. Solo il cigolare della branda sopra la sua continuava a interrompere il vuoto.

Don Ciro non dormiva. O forse teneva il sonno agitato.

Michele cercò con tutto se stesso di scacciar via ogni pensiero e ricordo, di scivolare nell’incoscienza del sonno. E non mosse un muscolo quando sentì il letto cigolare ancora più forte, Pinochet scendere a fatica e la porta del bagno chiudersi dietro di lui.

Voleva dormire. Dormire e non pensare. Voleva solo silenzio.

In quel silenzio un rumore secco. Deciso e cattivo. Legno contro cemento. Un rumore carico di significati che d’istinto lui spinse in un angolo della sua coscienza, ma inesorabilmente risuonò dapprima piano, poi sempre più forte, finché esplose di nuovo.

Lo sgabello.

La consapevolezza di quello che era appena successo aveva travolto Michele, che si era alzato dal letto lanciandosi contro la porta del bagno serrata, aveva cominciato a tirare con forza ma era stato inutile. Le sue urla coprivano il rumore degli anfibi che correvano lungo la sezione, non si accorse del cancello della cella che veniva aperta né delle mani che si univano alle sue per tirare ancora più forte quella maledetta maniglia.

La porta si aprì di schianto e Michele entrò.

Il corpo di Don Ciro Pinochet pendeva impiccato.

Michele si lanciò ad abbracciargli le gambe cercando di sollevarlo. I poliziotti penitenziari si arrampicarono immediatamente sulla finestra e tagliarono il cappio. Il corpo si afflosciò sulle spalle di Michele. Un fagotto di ossa consumato dalla vecchiaia e dai rimorsi. Lo portarono fuori dal bagno distendendolo a terra, Michele rimase in piedi. Immobile con la bocca spalancata e l’aria che sembrava sgusciargli fuori dai polmoni, mentre le guardie, rapide e decise, praticavano il massaggio cardiaco. Michele indietreggiò, senza rendersene conto, finché la schiena non fu contro la parete opposta della cella. Il suo mondo finiva lì. Non poteva scappare oltre quelle mura e quell’uomo disteso a terra. Ancora passi affrettati, mentre le urla degli altri detenuti si rincorrevano lungo la sezione. Arrivarono medico e infermiere con il defibrillatore. Tutti a terra, tutti attorno al corpo di Don Ciro. Michele muto in piedi.

Voci concitate. Scariche elettriche. Una barella che correva verso l’infermeria. Un poliziotto che lo accompagnava fuori, gli domandava qualcosa, ma lui non capiva cosa dicesse. Ancora domande, nessuna risposta. Michele fu rinchiuso nella nuova cella, spoglia e fredda, si sedette sullo sgabello in legno. Identico a quello da cui Pinochet si era lasciato cadere.

Aspettò. Passò un tempo indefinito. Minuti. Ore. Lui rimase lì senza pensare finché il blindo della cella non si aprì di nuovo. Dall’altra parte delle sbarre c’era il comandante di Reparto, teneva fra le dita il solito mezzo sigaro spento. Si guardarono negli occhi e l’ufficiale scosse la testa.

Michele annuì.

«Ormai è freddo. Gliene faccio un altro?».

Michele alzò lo sguardo e vide un uomo basso e corpulento con un improbabile maglione di lana a scacchi, le maniche ben tirate sui grossi avambracci e un grembiule candido annodato in vita. Il barista.

Annuì cercando di snebbiare la mente. Si sentiva come dopo essersi svegliato da un profondo sonno.

«L’avevo capito subito che sei italiano anche tu. Io mi chiamo Giancarlo e sono il titolare, vengo dal Molise. Oddio, “vengo”… Sono trent’anni che sto qua, c’ho trovato pure moglie e, che vuoi, alla fine non si sta poi male, a parte ’sto freddo. Ogni tanto me ne torno pure giù al paese e…».

In dieci minuti riuscì a raccontargli tutta la sua vita. Michele ascoltò accennando frasi di circostanza e, un paio di volte, incerti sorrisi.

Alla fine della sua breve e articolata autobiografia, l’uomo afferrò la tazzina e si voltò per andare a preparare un nuovo caffè.

«Giancarlo, scusami, posso chiederti un favore?».

«Ma certo, per un paesano qualsiasi cosa. Cosa posso fare per te?» disse gioviale.

Michele rispose con suo sorriso. «Sto cercando una persona».

3.

Errore di sistema: XFS 142.68.

L’ispettore Carmine Lopresti, dando prova del suo autocontrollo e della sua professionalità, urlò una bestemmia, lanciò il portapenne contro il muro e prese a pugni la tastiera. Il suo rapporto con la tecnologia non era proprio idilliaco e quella era la settima volta che gli si imballava il computer in meno di un’ora. Tirò un sospiro cercando di calmarsi, allungò i piedi sotto la scrivania, si accese una sigaretta e vaffanculo il divieto di fumo, che gli facessero pure la multa. Lui non era tagliato per il lavoro d’ufficio, per le schermate di Excel, per i fogli di calcolo o come cazzo si chiamavano. Lui era fatto per la strada, uno operativo, pronto a sporcarsi le mani, a rischiare, mettersi in gioco e alla fine vincere, e se non vinceva… perlomeno ci aveva provato. Le scartoffie erano roba adatta a quel grandissimo pezzo di merda di Corrieri, quel maledetto infame che prima gli aveva fatto credere che erano una squadra, e forse pure amici, e poi se l’era squagliata mollandogli dieci giorni di malattia. Dieci, mica uno. Alla fine la sua indole di imboscato aveva avuto il sopravvento, e proprio quando si era aperta la nuova pista di Genova e avevano la possibilità di rimettersi sulle tracce di Michele Vigilante, anziché farsi trovare pronto per la trasferta aveva mandato un bel certificato medico e se n’era rimasto a casa ad aspettare la pensione.

Chi nasce tondo non può morire quadrato.

Inutile dire che il dottor Taglieri s’era incazzato con lui, manco fosse suo il certificato. Aveva affidato l’incarico a Cozzolino e Disero e sbattuto Lopresti a sbrigare carte e rispondere al telefono. Almeno stavolta i colleghi avevano avuto la cortesia di non prenderlo per il culo, era un passo avanti. O forse uno indietro? Ancora non lo aveva capito. In ogni caso non ci sarebbe stato niente da sfottere: quella che sembrava una pista promettente si era rivelata l’ennesimo buco nell’acqua. Dalla perquisizione e dagli interrogatori del campo rom non era emerso nulla. Nessuna traccia di Michele Tiradritto o del suo amico zingaro. Spariti. Se mai erano stati lì. Ovviamente nessuno aveva visto nulla o sapeva alcunché. Le zingare avevano urlato maledizioni e minacce, giurando sui santi e sulla testa dei loro figli che non c’entravano niente, e i colleghi se ne erano tornati indietro a mani vuote. Anche Annunziati e Morganti, adesso, mantenevano un profilo basso cercando di non bruciarsi la carriera con mosse avventate. Solo Taglieri continuava imperterrito con la solita energia, sempre più magro e pallido, come se quel caso fosse una cosa personale. Un’ossessione.

La verità è che si erano arenati, stavano in un vicolo cieco, e se non ci fosse stata qualche novità non ne sarebbero usciti. Ma il problema era proprio questo: non c’erano novità. Era passata una settimana senza morti ammazzati dal Becchino e la gente cominciava a dimenticarsi delle sette lapidi. Sui quotidiani il caso era scivolato lentamente nelle pagine interne, soppiantato dalle polemiche sull’immigrazione, dai politici che avevano usato i rimborsi elettorali per pagarsi puttane e cocaina… Le solite cose. Ma a loro aveva giovato. Le pressioni delle alte sfere erano diminuite, le telefonate del procuratore capo si erano diradate. Sarebbe stato il momento ideale per dedicarsi a testa bassa alle indagini… se solo ci fosse stato qualcosa su cui lavorare.

Lopresti si ritrovò a fissare il portapenne che aveva scagliato contro il muro. Biro e matite erano rotolate in ogni angolo. Avrebbe dovuto pulire, rimettere a posto. Esattamente come con la sua vita. Valutò l’idea di chiedere un giorno di ferie che non gli avrebbero mai concesso, quando il cellulare prese a suonare. Fissò svogliato il display e represse l’ennesima bestemmia. Era Genny B.

Fece squillare, ma visto che insisteva decise di rispondere.

«Che cazzo vuoi?».

«Ecco, appunto. Buongiorno anche a te».

«Dài, che non ho tempo. Dimmi che vuoi».

«Niente, niente, non t’arrabbiare. Un amico non può telefonare per sapere come vanno le cose?».

«Genna’, non mi prendere per il culo, non è giornata. Non siamo amici, non più, e se mi chiami c’è sicuramente un motivo, e cioè che ti serve qualcosa. La risposta è una sola, sempre la stessa: no. Quindi, se non c’è altro, adesso ti manderei tranquillamente affanculo».

«Lo sai che Palletta sta facendo o’ guapp’?».

Ecco, finalmente era andato al punto.

«E capirai che sorpresa. Ve lo dovevate aspettare. Morto un papa se ne fa un altro».

«Sì ma qua non è morto ancora nessuno. E più che di papi parliamo di cardinali, capisc’ a me».

Lopresti ci pensò su un momento. Altri funerali ancora non ce n’erano stati, ma la cosa cambiava poco. Don Peppe era ancora in coma, “stazionario”, come si dice in ospedale. “Pende e non casca”, come si dice in mezzo alla strada. I medici continuavano a non sciogliere la prognosi, ma il vuoto di potere si era creato comunque e qualcuno cominciava a darsi da fare per riempirlo.

«Io non è che sacc’ niente» continuò Genny, «però si racconta che qualcuno è già sparito, perché ha provato a fare di testa sua».

«Sparito o sparato?» chiese Carmine.

«Fa’ tu. Tanto non cagna niente».

«Dimmi di più».

Genny B si nascose dietro una risatina di circostanza. «E che vuoi che ti dico? Sono solo voci. Chiacchiere in mezzo alla via. Qualcuno che non si trova più, e qualcun altro che si pavoneggia».

«Ovviamente tu non sai mai niente. Giusto?» brontolò Lopresti.

«Ovviamente».

«E allora torniamo alla mia prima domanda. Che cazzo vuoi?».

«Ecco, vedi, io tenevo una specie di accordo con Don Peppe, per certe attività che si svolgevano nel mio locale. Quando serviva un posto tranquillo e discreto per parlare sapevano di poter venire qua. Intendiamoci, niente di illegale o pericoloso, solo un locale per feste, riunioni…».

«E battesimi e matrimoni, certo…».

«In cambio di questa ospitalità» continuò Battiston fingendo di non aver sentito la battuta «non avevo problemi di sicurezza e non mi occorrevano vigilantes, il tutto praticamente a costo zero».

«In poche parole non pagavi il pizzo. Chiaro. Va’ avanti».

«Con Don Peppe era chiaro. Un accordo fra gentiluomini, una stretta di mano e via. Ma adesso con Palletta le cose sono cambiate. È arrivato qua e si è messo a fare il padrone. Tiene certe pretese che non stanno né in cielo né in terra».

«In poche parole adesso ti tocca pagare. Poverino. Ti continuo a chiedere: che vuoi da me?».

«Ho saputo che all’ospedale avete parlato con Palletta, che lui con voi ha abbassato la testa. Sempre voci, ti ripeto, che se mi chiedi chi me lo ha riferito purtroppo non me lo ricordo. E allora mi domandavo… visto che tu hai questo… diciamo ascendente su di lui, in nome dei vecchi tempi, non potresti metterci una buona parola? Che ne dici, eh?».

Lopresti rimase allibito. Avrebbe voluto mettersi a gridare e sbattere anche il telefono contro il muro. Ma quello era l’unico che aveva e gli serviva, e delle altre urla dal suo minuscolo ufficio avrebbero fatto accorrere mezza questura. Decise di essere maturo e professionale e tirò un lungo sospiro prima di rispondere al suo ex amico.

«Vaffanculo!».

Chiuse la chiamata, con un impercettibile senso di soddisfazione che si faceva strada dentro di lui. Come un nodo che si fosse sciolto togliendogli un peso dal petto. Accennò un sorriso mentre si accendeva un’altra sigaretta.

Il fumo caldo e acre che gli scendeva nei polmoni gli fece accalcare i pensieri nella mente… Genny doveva essere proprio stupido, se pensava di convincerlo a dargli una mano. Ma Genny era tutto fuorché stupido, e il fatto che prestasse il suo locale per le riunione del clan cosa voleva dire? E se a forza di bazzicare certi giri, avesse deciso di fare il grande salto ed entrare nel sistema?

Genny B un affiliato? Non era poi così assurdo.

E allora perché quella telefonata?

Aveva parlato solo di Palletta e del locale, ma prima aveva volutamente accennato a un omicidio, insinuando anche il possibile mandante. Voleva mettergli la pulce nell’orecchio? Aveva gettato un sasso nello stagno aspettando che le onde si propagassero e magari lui cominciasse a indagare?

E se Palletta non fosse l’unico che aspettava la morte di Peppe ’o Cardinale? E con uno al cimitero e l’altro in galera, a chi sarebbe andato il potere?

Si alzò dalla scrivania con un vago senso di stordimento, come se all’improvviso qualcuno avesse acceso la luce in una stanza buia e lui si ritrovasse in un ambiente sconosciuto, invaso da mobili, cianfrusaglie, sospetti, false piste e morti ammazzati. Recuperò cellulare, sigarette, accendino e giubbotto, spense il computer schiacciando con rabbia il pulsante di accensione… e vaffanculo alla tecnologia e al lavoro d’ufficio. Lui era fatto per altre cose, sporcarsi le mani e seguire le piste, e proprio questo si apprestava a fare.

Si voltò verso la porta con la testa imballata di pensieri ma non fece in tempo ad afferrare la maniglia che si spalancò mostrando la faccia soddisfatta e sorridente di Morganti. Evidentemente la tregua era già finita e la figura di merda che gli aveva fatto fare davanti al dirigente non gli bastava più.

«Ehi, dove te ne vai con tutta questa fretta? Ti ho portato un altro fascicolo da controllare, un po’ di immissione dati e qualche altra telefonatina da fare» disse porgendogli una cartellina blu.

«Senti, non ti ci mettere pure tu, che oggi non è giornata e ho altro da fare».

«Ma che vuoi da me? Il lavoro è lavoro. Ognuno deve fare la sua parte».

«Sì, come no? E a me tocca sempre quella di merda. Belle facce da culo tu e Annunziati, a farvi belli davanti a Taglieri sulla mia pelle. Io a sgobbare, a sputare il sangue dietro ai confidenti e…».

«E vedi di non fare la vittima, colle’, che non è proprio il caso» sbottò Morganti. «Se per una volta assaggi il tuo piatto migliore non è poi questa tragedia».

Lopresti parve non afferrare, lo guardò interrogativo.

«E non fingere di non capire. Per anni c’hai fatto fare la figura dei fessi, dei bamboccioni che non sanno compiere il proprio dovere, che non hanno gli informatori giusti. Gli sfaticati che pensano solo a staccare presto per tornarsene dalla famigliola, mentre tu, il grande sbirro, sei sempre qui, giorno e notte, a combattere il crimine a mani nude. Ma vattene un po’ affanculo. Io sono felice di staccare presto e tornarmene a casa, ai cazzi miei. Perché io una vita ce l’ho e non tratto di merda i colleghi. A parte te, ma tu te lo meritavi».

Morganti riprese fiato tirando un sospiro di sollievo. Sputare il rospo gli aveva fatto bene.

Lopresti era in confusione. In quegli ultimi giorni troppe cose, troppe incertezze, troppi ricordi del passato. E adesso Morganti che gli faceva la paternale, sbattendogli in faccia quanto lui fosse stronzo. Tentò una timida difesa, perché in fondo sapeva che era una causa persa e che il collega aveva ragione.

«Non c’entra niente, si doveva lavorare assieme per risolvere il caso, come abbiamo fatto io e Corrieri. Certo, lui adesso ha mandato malattia, ma finora è stato leale e si è fatto il mazzo, e poi è a un passo dalla pensione e se se ne vuole stare con la mogliettina avrà pure il diritto di farlo».

«Questa storia della casa nella prateria con la mogliettina amorevole te l’ha raccontata lui?».

«E chi sennò, Babbo Natale? Tra noi si è creato un rapporto di fiducia, anche di amicizia, parliamo molto» disse Lopresti orgoglioso. Cercava di recuperare punti.

«Ecco, allora sceglili meglio gli amici. Che sennò fai ancora una volta la figura del cretino».

«Che cazzo significa?».

Morganti fece una smorfia scuotendo la testa. Avanzò di un passo buttando il fascicolo sulla scrivania del collega e con l’espressione di chi non vuole combattere una causa persa.

«Significa che la moglie di Corrieri è morta cinque anni fa» disse voltandosi per andarsene.

4.

Don Ciro Pinochet era morto.

Impiccato. Le gambe dritte che sfioravano il pavimento.

E Michele era rimasto solo. Ancora una volta.

Nella notte era stato preso a verbale. Aveva risposto alle domande e raccontato la sua versione, stando ben attento a non parlare della loro ultima conversazione. Di sicuro l’avrebbero mandato dallo psicologo per affrontare il trauma della perdita e sarebbe stata dura non spaccargli la faccia. Adesso voleva solo tornare in stanza e dormire, ma la cella doveva essere sigillata. Gli avevano permesso di prendere solo poche cose prima di spostarlo.

Un paio di vestiti. Sigarette. Spazzolino. Un libro.

Quello che stava leggendo Don Ciro.

Si mise sulla branda sfogliandolo distrattamente. Un tascabile consumato dal tempo, con le pagine ingiallite e il dorso che cadeva a pezzi. Lesse un nome femminile scritto a matita sulle prime pagine, una grafia aggraziata, d’altri tempi. La vecchia proprietaria, una vita fa.

Si fissò sulla copertina mettendo a fuoco il titolo: Il treno era in orario di Heinrich Böll. Sì, lo ricordava, Don Ciro gliene aveva parlato. Era la storia di un soldato tedesco che sta su un treno e torna al fronte durante la Seconda guerra mondiale. Nella calca del vagone cerca di pregare, ma è impossibile fra gli odori e i rumori di quella folla indistinta che lo circonda e che lo accompagna verso la battaglia. Andreas è tormentato dalla certezza assoluta che presto dovrà morire, ma la sua non è paura, bensì un’inquietudine profonda, un malessere interiore che lo avvolge e lo soffoca. Come se lo uccidesse lentamente in attesa della vera morte. Una sensazione di incompiuto dolore che lo accompagna come lo sferragliare del treno.

Michele cominciò a leggere. Non cercava risposte sulla morte di Pinochet, sapeva che non ce n’erano, voleva solo dimenticare quella notte che tardava a finire. Scappare da tutto e tutti, da quella stanza, da quei corridoi, da Don Ciro che pendeva dalle sbarre, da se stesso. E ci riuscì. Ci riuscì ancora una volta. Cadde fra quelle pagine, fra il triste avanzare di quel vagone, fra la quieta consapevolezza di Andreas e i tormenti dei suoi compagni di viaggio. Tormenti che si sovrapposero ai suoi. La sua esistenza e il suo volto si mischiarono con quelli di Andreas, e le sterminate pianure dell’Ucraina divennero la sua vita, entrambe monotone, sempre uguali, senza fine.

Continuò a leggere per tutta la notte. Albeggiò con una luce fredda e biancastra. Le voci del carcere ripresero possesso dei corridoi. Passò il carrello del vitto per la colazione, ma il blindo della cella rimase chiuso. Lui disteso immobile, sino all’ultima pagina.

Solo allora chiuse il libro. Si ritrovò a pensare alle parole di Don Ciro, una dopo l’altra, una cantilena ossessiva.

Ripensò a quella ragazza da cui tutto era cominciato.

Milena. Un sorriso appena accennato, lunghi capelli castani che si adagiavano sulle spalle esili. La sua vita che gli sfuggiva fra le dita.

Non prese una decisione risoluta e consapevole. Nessuna epifania interiore, nessun momento epocale che mozza il fiato. Solo il lento fluire di un fiume, che ansa dopo ansa si avvicina al mare per disperdere le acque. E così era stato lo scorrere della sua vita che lo aveva portato dai vicoli della città a un potere fatto di nulla, fino al cadavere impiccato di un uomo che era diventato un padre, fino a quella cella vuota, a quel singolo e preciso momento.

Solo lo scorrere della vita. Nulla di più e nulla di meno.

Si alzò dal letto avvicinandosi al blindo.

«Superio’!» strillò dalle sbarre.

Nessuna risposta.

«Superio’!». Ancora una voce lungo il corridoio.

Dei passi pesanti si avvicinarono.

«Vigilante, sei tu?» chiese il poliziotto penitenziario raggiungendo la cella.

«Sì, superio’, sono io. Tengo da chiedere una cortesia».

«Dimmi».

«Mi servirebbero una penna e un foglio di carta».

«Miche’, ma con tutto il casino che è successo, mo’ te n’esci co’ ’ste cazzate? Ma statti tranquillo e cerca di riposarti, che pure tu hai passato una nottataccia».

«Superio’, mi servono veramente».

Il poliziotto ci pensò un attimo. Conosceva Vigilante da più di dieci anni e non era il tipo da chiamare se non era importante. «Tu come stai?» gli chiese.

Michele si limitò ad annuire, e l’uomo con la divisa parve soddisfatto di quella risposta. Si allontanò verso il box agenti, nella rotonda che divideva le due semisezioni di quel piano detentivo. Pochi minuti e tornò. Senza dire una parola lasciò fra le sbarre del cancello della cella di Michele un foglio a quadretti, una penna e una sigaretta.

Tiradritto ringraziò con un cenno del capo mentre l’uomo andava via. Li prese andando a sedersi al tavolo vicino alla finestra. Accese la sigaretta e si mise a fissare il profilo lontano delle colline. Cercava parole che non sapeva di possedere, ma lentamente arrivarono e si accalcarono dentro di lui. Provò a convincersi che avrebbe sempre potuto strappare quella lettera, ma aveva, sopra ogni cosa, la fiera consapevolezza che non lo avrebbe fatto.

Così doveva essere. Così avrebbe sempre dovuto essere. Fin dall’inizio.

Chinò la testa sul foglio e cominciò a scrivere.

“Tu non mi conosci, ma è arrivato il momento di dirti chi sono…”.

5.

Il freddo era aumentato e sulla città di Linz aveva ripreso a nevicare.

Asfalto grigio che si copriva di bianco. Due ragazzini con una birra in mano per sentirsi grandi. Una risata che fuggiva dalla porta scorrevole di un negozio di abbigliamento. Una mattinata come tante.

Michele camminava a passo spedito, senza perdersi in inutili occhiate. Il paesano era stato gentile e cordiale, come solo gli emigrati sanno essere. Indicazioni chiare accompagnate da sorrisi e pacche sulle spalle, e poco male se avrebbe riconosciuto la sua faccia. Era un prezzo che sapeva di dover pagare.

Si era lasciato alle spalle la piazza del Duomo per avventurarsi fra le strade ordinate e pulite della città vecchia. Vide l’insegna da lontano. Un tripudio di bianco, rosso e verde. Un pugno nell’occhio. PIZZERIA VESUVIO.

Gesù. Era troppo persino per lui.

Si sentì trasportato in un film di Mario Merola. C’era anche un’immagine stilizzata di un vulcano che sbuffava fumo. Una ragazza bionda, con un grembiule bianco e le cuffiette nelle orecchie, spazzava svogliata l’ingresso del locale. Le luci erano spente e la saracinesca abbassata per metà.

Si avvicinò ignorando l’incomprensibile saluto della ragazza, che continuava a far finta di lavorare.

Il cartello sulla porta indicava che il locale apriva a mezzogiorno. Ancora mezz’ora e sarebbero arrivati i primi clienti. L’ideale per lui.

Si abbassò oltre la saracinesca ed entrò. Una serie di tavolini con imbarazzanti tovaglie a scacchi bianchi e rossi, trecce d’aglio, fiaschi impagliati e mandolini appesi alle pareti di fianco a foto incorniciate della Loren e altre cafonate adatte ai crucchi.

La sala era in penombra, i tavoli già apparecchiati e un uomo si muoveva indaffarato fra le sedie. Si voltò distrattamente verso di lui dicendo qualcosa di incomprensibile, ma con un chiaro accento napoletano. Michele non rispose rimanendo seminascosto da una finta pianta di limoni che impreziosiva l’ingresso. L’uomo ripeté il suo messaggio, ma stavolta si fermò a fissare la figura sconosciuta. Decise di abbandonare il tedesco e passare all’italiano.

«Siamo chiusi. Apriamo tra mezz’ora».

Michele sorrise nell’ombra. Adesso sì che riconosceva quella voce. L’uomo era diverso. Ingrassato, consumato, stempiato. Il passo appesantito dagli anni.

Evidentemente la libertà faceva male.

Ma la voce no. La voce non era cambiata, era sempre la stessa di tanti anni prima.

Michele fece un passo avanti uscendo dall’ombra. Avanzò verso il centro della sala affinché la luce malata che filtrava dalle finestre potesse abbracciarlo.

«Grazie. Ma nun teng’ appetit’».

L’uomo spalancò la bocca e Michele sorrise soddisfatto.

Era un vero piacere ritrovare il suo vecchio amico Gennaro Rizzo.

6.

Gennaro rimase immobile. Una voce lontana ma limpida, che arrivava da un altro tempo, incrinava il vetro lucente della sua nuova vita. Sentì un lieve formicolio alla base della nuca.

«Miche’, ma si proprie tu?».

Parole impastate e incerte.

Michele annuì avanzando di un passo.

«Ma che gioia… E io ca pensav’ che ti fossi scurdate ’e me».

Gennaro riprese possesso del suo volto stupito e regalò il più falso dei sorrisi. Aprì le braccia come una delle statuine di Padre Pio che teneva sul comodino e si preparò alla recita.

Michele fu rapido. Una mano dietro la schiena. Le dita che si stringevano sul calcio della pistola. Il braccio che scattava in avanti. Colpo in canna. Il mirino che fissava la grassa testa pelata di Gennaro Rizzo.

«Statt’ tranquill’, Genna’, nun m’agg’ scurdate ’e nient’!».

Rizzo sorrideva ancora ma gli occhi erano freddi e determinati. Fissavano il vecchio boss e l’infinito buco nero della pistola che non si spostava dalla sua faccia.

«E mo’ che t’ha preso? Io song’ o’ frate tuo. E così mi tratti dopo tanti anni? Miche’, abbass’ o’ fierr’!».

Le parole erano concilianti ma Rizzo sapeva chi aveva di fronte e rimaneva immobile, senza neanche provare ad avvicinarsi.

«Ma quale frate e frate. Ormai sape tutt’ e cos’».

«E cosa sapresti? Nun ce sta nient’ da sapere!». La voce di Rizzo era tornata decisa. Cattiva come Michele se l’era sempre ricordata.

«Sape ca ve siete futtuti a vita mia! Tu e quell’altro omm’ e merda ’e Peppe ’o Cardinale».

«’Uaglio’, tu la vita tua te la sei fottuta con le mani tue. E mo’ che vuoi da me?».

«E no, Genna’! Mo tu devi di’ la verità».

«Ti ripeto che non so di che stai a parlare. Abbassa ’o fierr’ e beviamoci una cosa insieme. Per me sei sempre un fratello, pure se mo’ stai a fa ’o pazz’. Questa casa… Casa mia è pure casa tua. La tua parte degli affari nostri è sempre pronta per te».

Ancora un po’ e Gennaro Rizzo gli avrebbe dato pure il culo. Quello era il segnale definitivo che Michele aveva ragione.

«Genna’, guarda che ho parlato con Don Ciro Pinochet».

Quel nome riempì la stanza e zittì per un secondo Rizzo. La situazione stava velocemente scivolando verso un placido mare di merda.

«E allora? Don Ciro, pace all’anima sua, dopo che gli hanno sparato il figlio non ci stava più con la testa, e qualsiasi cosa t’ha raccontato è di sicuro tutta ’na strunzat’».

Michele si trattenne a stento dallo sparargli subito in faccia e vaffanculo. Ma non era il momento. Non ancora. Le cose dovevano andare esattamente come voleva lui. Come le aveva immaginate migliaia di volte negli ultimi anni.

«Genna’, non mi trattare da ’uaglioncello. Non tengo voglia né tempo. Voglio solo sentire la storia dalla voce tua. Parola per parola».

«E poi?» chiese Rizzo con la voce dura.

«E poi ti ammazzo e me ne vado».

Gennaro non si scompose. Sapeva che quella di Michele non era una minaccia: stava semplicemente dicendo quello che sarebbe successo.

«E se tanto devo morire lo stesso, che cazzo di differenza fa se ti racconto la verità oppure no?».

«La differenza la fa come ti ammazzo». Si avvicinò a uno dei tavoli apparecchiati e afferrò un coltello da bistecca, dalla lama lunga, seghettata e lucente. Lo alzò, per essere sicuro che l’altro capisse bene.

Gennaro valutò in silenzio le opportunità di vita e di morte, e decise per il meglio.

«L’idea la conosci. Era la tua» cominciò. «Fare il grande salto. Diventare grandi, importanti. Scavalcare gli altri clan e comprare la roba direttamente dai Calabresi, e poi un giorno, perché no, dai colombiani. Distribuire noi la droga alle altre famiglie, quelli che aprono e chiudono i rubinetti, quelli che fanno il prezzo della merce. Niente più piccolo spaccio, niente più vedette sui tetti e tossici nei palazzi, ma solo grandi carichi. Camion, aerei, container e bella vita. Tenevi una sola idea… essere i migliori. E ti eri dato da fare. Ti eri mosso bene. L’aggancio coi Calabresi l’avevi trovato, e la roba pure. Un carico grosso, uno di quelli che se andava bene c’avrebbero portato rispetto. Mancavano solo i soldi. Tanti soldi. Più di quanti ne avevamo mai visti. Ma in fondo neanche quello era un problema, bastava aspettare che il compratore cominciasse a piazzare la roba e restituire la somma ai Calabresi con gli interessi. D’altronde noi eravamo solo, come dicevi tu, degli intermediari: garantivamo le consegne, di soldi e di roba. E i Calabresi t’hanno voluto credere, d’altronde chi sarebbe stato così pazzo da fregarli? E poi tu eri Michele Tiradritto, il nuovo boss emergente, quello che non teneva mai paura né pietà. Una garanzia per gli affari. Il cavallo vincente, quello giusto su cui puntare».

Le ultime parole erano state gettate via con ironia e disprezzo, ma Michele non disse nulla, voleva solo che Gennaro andasse avanti. Fino alla fine.

«Ma poi qualcosa è andato storto». Il viso di Rizzo si contrasse in un ghigno. «Il corriere è sparito e con lui la roba. L’altro clan non ha pagato e noi ce lo siamo presi in culo. Più tu che noi, a essere sinceri. Perché in fondo, su questa storia c’eri sempre tu e solo tu. Michele il grand’uomo. E quando Franco ’o Svizzero, la persona che avrebbe dovuto chiudere la consegna, se n’è fujte coi soldi e la roba, non hai avuto idea migliore che rapirgli la ragazza. ’Na ’uagliona che nun c’entrava niente e che niente sapeva, ma comunque ’na bella femmena» aggiunse divertito.

«Milena. Si chiamava Milena» stavolta Michele lo interruppe. Fu più forte di lui. Dare un volto e un nome al suo passato.

Rizzo scrollò le spalle, in un gesto chiaro: non gliene fregava un cazzo di come si chiamava la ragazza.

«Ma ’o Svizzero nun s’è visto uguale e noi ci siamo ritrovati in mezzo alla merda, senza droga, senza soldi, con una femmena che non sapevamo che farci, i Calabresi che volevano soddisfazione e gli altri clan che ridevano di noi. La vita nostra non valeva più niente. Complimenti, Miche’, veramente un grande piano». Rizzo accennò un applauso. «Invece che diventare grandi e importanti, eravamo diventati la barzelletta di Napoli. E tu, il grande Michele Tiradritto, eri il capo buffone».

Rizzo tacque fissandolo dritto negli occhi. Michele tenne il suo sguardo stringendo ancor più forte la pistola, mentre la mano con il coltello era inerme lungo il fianco.

«Vai avanti» lo incitò.

«Ma qua’ avanti e avanti… La storia è finita, e comunque la conoscevi già. Quello che c’abbiamo fatto con la ragazza sono sicuro che te lo ricordi bene». Rizzo accompagnò quella frase con un viscido sorrisetto di complicità.

Michele sollevò il braccio e conficcò il coltello su una di quelle orribili tovaglie a quadretti. Poi abbassò la pistola puntandola a una delle grasse gambe di Rizzo. Un messaggio fra amici, semplice e chiaro. Gli avrebbe sparato a una gamba e poi avrebbe infierito sul suo corpo con il coltello fino a fargli sputare la verità.

Quello capì e subito si arrese.

«Aspe’, aspe’, aspe’… Ti dico quello che vuoi sapere!». Il molle doppio mento sobbalzava a ogni parola.

Michele mantenne la pistola puntata, il dito sul grilletto pronto a fare fuoco.

«Mi posso fumare una sigaretta?» chiese Rizzo. E molto lentamente recuperò un pacchetto dalle tasche dei pantaloni. Accendino, il ballare di una fiamma e uno sbuffo di fumo nel locale. Sospirò con forza, ancora fumo, ancora il tremolio del suo doppio mento. La frase uscì di getto: «Franco ’o Svizzero aveva pagato».

Michele sbarrò gli occhi. Lo sapeva. Lo sapeva da quando Don Ciro gli aveva raccontato la verità, ma sentirlo dalla bocca di Rizzo era un’altra cosa. La conferma che tutta la sua vita era stata una corsa nel buio, un inutile viaggio senza senso. E lui, prima orgoglioso e tenace, poi inquieto e ingenuo, aveva continuato a correre nell’oscurità, a salire e scendere dalla sua personalissima giostra fatta di nulla. Alla fine, occhi negli occhi con Pinochet, ogni cosa aveva perso senso, un senso che non era mai esistito. Tutto era diventato limpido e brillante, ogni ricordo, ogni pensiero, ogni immagine. Un sentiero luminoso nelle tenebre. La vendetta.

«In ritardo, ma aveva pagato» aggiunse Rizzo con un nuovo sbuffo di fumo.

«P-perché?». Stavolta era stato Michele a tradire un’esitazione.

Il suo vecchio amico lo guardò stralunato. «Proprio non l’hai capito?».

«Lo voglio sapere da te».

Gennaro sorrise. Lui non si confessava nemmeno dal prete e farlo così, alla luce del giorno, cominciava a dargli una strana soddisfazione.

«Davvero credevi che nessuno degli altri clan avesse capito quello che stava succedendo? Ma che pensavi, di essere l’unico genio in un mondo di coglioni? Sapevano già tutto prima ancora che arrivasse la roba dalla Colombia, ma sono stati a guardare per capire cosa volevi fare, per vedere se c’era qualcuno abbastanza stupido da rovinarsi assieme a te. Alla fine l’hanno trovato: Franco ’o Svizzero e tutti quelli della zona sua. E così hanno approfittato per prendere due piccioni con una fava».

«Come? Perché?».

«’Uaglio’, ma allora si stupid’ veramente? È bastato far sparire Franco con la roba e tu eri nella merda. ’Nu ’uaglione che voleva crescere troppo rimesso al posto suo, e il clan di Franco che non voleva rispettare le regole del gioco è stato eliminato».

«Eliminato?».

«E certo! E che se li potevano tenere accussì come se nulla fosse, dopo che avevano fatto credere ai Calabresi che si erano fottuti la roba loro? Sono stati ammazzati, uno dopo l’altro, come volevano i soci di giù, senza clamore che sennò si rovinano gli affari. Ovviamente, dopo aver dato soddisfazione ai Calabresi, soldi, roba, territorio, armi e piazze di spaccio di Franco e degli altri sono stati equamente suddivisi fra tutti noi».

«Noi?».

«E certo, Miche’, e che pensavi, che ti tradivo a gratis? Mi sono fatto dare i trenta denari di Giuda, come è giusto che sia. Io e Peppe ’o Cardinale abbiamo ammazzato Franco e ci siamo tenuti metà dei soldi, gli altri clan si sono tenuti la roba, e una volta tolto di mezzo un giovane troppo intraprendente e aver fatto spazio eliminando un clan da poco, anche noi abbiamo avuto la nostra ricompensa. Una carriera veloce, incarichi e potere, ma tutto secondo la via giusta, all’interno delle famiglie, rispettando i ruoli e le anzianità. Rispettando le regole, Miche’».

«Gli altri?».

«Chi, quei quattro scemi che ti portavi appresso per sentirti importante? I Surace, Vittorio ’o Maresciallo e Giovanni Bebè? No, statti tranquillo, quelli non sapevano un cazzo, e quando Franco non pagava se la stavano facendo sotto dalla paura. Certo, poi con il passare degli anni hanno intuito qualcosa, ma che vuoi? Le voci piano piano girano e anche gli scemi capiscono. Ma la cosa non fu un problema, tu eri in galera e a loro fu dato un contentino, poca roba, affari senza importanza. Un osso da rosicchiare, tanto cani erano e cani sarebbero rimasti, sempre pronti a scodinzolare dietro al nuovo padrone».

Michele sentì il braccio che reggeva la pistola farsi pesante, un lieve formicolio alle dita, un sapore di sangue e metallo in bocca. Abbassò il braccio continuando a tenere Rizzo sotto tiro.

«Ma non te la devi prendere, Miche’. Non è stata una cosa personale, non solo, era anche una questione politica. Occorreva una scusa per attaccare il clan di Franco, un pretesto qualsiasi, anche stupido, che facesse pensare che se la fossero cercata, che era tutta colpa loro e che si ristabilivano ordine e giustizia. Così nessuno avrebbe fatto domande, nessuno sarebbe intervenuto, e tutti ci avrebbero guadagnato salvando le apparenze. Erano affari più grandi di me e di te, Miche’. E noi in mezzo a quegli ingranaggi eravamo solo dei granelli di sabbia che rischiavano di far inceppare il sistema. Io l’ho capito in tempo e mi sono scansato, sono diventato anch’io un ingranaggio, ma tu non ci sei arrivato, hai continuato a credere di essere più importante del sistema. In realtà tu eri solo un soldatino buono a combattere. Tutto cuore e palle, ma senza cervello».

Michele ripensò a quel treno che in perfetto orario attraversava le sterminate pianure ucraine diretto verso il fronte, e ripensò anche ad Andreas diretto verso la morte. Dolente e impotente. L’ironia della situazione, l’inspiegabile vicinanza con quell’uomo inesistente, con quel destino inconsistente ma così reale, lo fece sorridere nella penombra di quella sala. Un sorriso che Rizzo non colse, immerso nel fiume impetuoso delle sue parole.

«Occorreva dare l’esempio. E che succede se ogni ’uagliuncello si mette in testa che può farsi le regole a modo suo? Fra i clan e le zone di casa nostra ci sta un equilibrio. Un equilibrio che fa funzionare le cose, che fa andare avanti il sistema e gli affari. E tutto quello che minaccia di rompere l’equilibrio deve essere eliminato. Anche se si chiama Michele Tiradritto».

«Ingranaggi, equilibrio, ordine e giustizia? Giova’, da quando ti sei fatto filosofo?» rispose sprezzante.

«No, Miche’, non sono diventato filosofo. Io sono rimasto sempre uguale. E pure tu non sei cambiato. Tanto cuore e tante palle, ma ancora poco cervello». Rizzo sorrise tirando fuori dal pacchetto un’altra sigaretta, stavolta senza chiedere il permesso. L’accese con disinvoltura e buttò l’accendino sul tavolo. Guardò dritto davanti a sé. «Be’, mo’ m’agg’ scassat’ ’o cazz di ’sta tarantella. Che dobbiamo fare?».

Michele rimase sorpreso da tanto coraggio ma non si fece impressionare. Alzò di nuovo il braccio allineando il mirino con la faccia sorridente del suo vecchio amico. Non aveva intenzione di cambiare i piani. Non aveva intenzione di fermarsi. Ma soprattutto, non aveva capito che le parole di Rizzo non erano rivolte a lui.

Sentì il freddo della canna di una pistola posarsi sulla sua nuca. Un movimento lento, silenzioso. La canna premette per rivendicare la propria presenza e una voce calma e profonda arrivò da dietro le sue spalle.

«Ciao, Michele».

7.

Michele lo riconobbe al volo. Era una parte del suo passato. Rispose senza neanche voltarsi.

«Giovanni Treccape. E io che pensavo che te ne stavi scannato in qualche fogna».

«No, Miche’, quello sei tu che ti sei fatto vent’anni di galera. E adesso abbassa la pistola, sennò Gennaro si inquieta, e noi agli amici ci vogliamo bene. Giusto? Poggiala sul tavolino. Piano, altrimenti ti sparo in testa e quel poco di cervello che ti ritrovi lo dobbiamo scrostare dalle pareti della pizzeria».

Vigilante fece come gli era stato detto. Posò la pistola a fianco del coltello da bistecca, che se ne stava ancora appuntato al centro del tavolino, con la lama lucente e seghettata. Un bagliore affascinante nella luce smorta del locale. Michele guardava dritto davanti a sé, il sorriso divertito di Rizzo che fumava con soddisfazione.

«Che succede, Miche’? Ti vedo sorpreso. Anche stavolta non ci hai capito un cazzo. Vedi» spiegò, «anche se Giovanni Treccape era il tuo contatto coi Calabresi, anche lui ha capito subito da che parte stare. Sapeva che era sbagliato mettersi in mezzo agli ingranaggi, perché si rimane schiacciati. Ti è piaciuta questa? Sono diventato abbastanza filosofo per te?».

Michele tacque.

«Io e Peppe ’o Cardinale, come t’ho detto, ci siamo presi metà dei soldi di Franco, ma l’altra metà è andata al nostro amico calabrese. Anche lui s’è fottuto i trenta denari e tu hai fatto solo la figura del povero cristo. Ma vedi, il problema è che chi sta sopra non sa esattamente come sono andate le cose. Per loro è stato sempre Franco a fottersi roba e soldi, e per questo hanno avuto soddisfazione, e il dettaglio che Giovanni s’è preso metà dei soldi potrebbe metterlo in difficoltà. E noi non vogliamo che gli amici c’hanno problemi, vero Miche’? Per questo, da quando sei uscito c’è chi ha pensato a te. Per paura che tutta la merda che stava sul fondo se ne salisse a galla. Che poi la puzza si sente da lontano e dà fastidio. Quindi lo capisci perché ti dobbiamo ammazzare? Senza rancore, ma ’sta storia è durata pure troppo e mi sto a rompere il cazzo. La domanda che ti faccio è una sola, e fidati che mi devi rispondere altrimenti prendo io quel coltello e ti apro come un porco. Chi cazzo è ’sto Schiattamuorto che sta facendo tutt’ ’stu burdell’?».

Michele rimase ancora in silenzio, perfettamente concentrato su quello che lo circondava. Rizzo davanti a sé, Giovanni Treccape che lo teneva sotto tiro da dietro, la sua pistola abbandonata sul tavolino di fianco.

«Lo so che non sei tu. Quando hanno ammazzato ’o Maresciallo te ne stavi ancora in galera, ma da quando sei uscito tutto sembra girare intorno a te e a ’sta vecchia storia. Degli altri non me ne frega un cazzo, sono anni che me ne sto qua a coltivare gli affari insieme a qualche amico fidato». Rizzo fece un cenno di assenso verso l’ombra alle spalle di Michele. «Ma che vuoi farci, mi sono abituato a dormire tranquillo e voglio continuare così. Tu eri l’unico che poteva trovarmi, l’unico a cui avevo confidato che non sono nato a San Giuliano, ma proprio a Linz, quando quel morto di fame di mio padre era emigrato qua a farsi prendere a calci in culo per quattro soldi. E doveva pure dire grazie a ogni calcio che gli davano. E quindi che vuoi? Nella mia ingenuità di ragazzo avevo parlato troppo, ti avevo raccontato del mio desiderio di tornare un giorno qui a fare il signore. Ah, comunque, per la cronaca… oltre a questo ristorante possiedo un albergo, metà di un centro commerciale e una ventina di appartamenti affittati a immigrati tunisini. Vedi, Miche’, adesso sono io a prendere la gente a calci in culo, e mi ringraziano pure. Quindi adesso capirai che ho bisogno di sapere tutto sullo Schiattamuorto e se hai parlato a qualcun altro di questo posto…».

Michele non aveva aperto bocca. Rifletteva su quella situazione. La presenza di Giovanni Treccape era un regalo inatteso. Meglio di quanto avrebbe mai potuto sperare in tutti i film che la sua immaginazione aveva proiettato sul soffitto della cella. Si sentiva stranamente tranquillo. Percepiva il lento fluire del suo respiro, calmo, regolare. Un lontano formicolio alla base della nuca, forse dovuto al freddo contatto della pistola, o forse a una vaga euforia che gli stava crescendo dentro. Finalmente tutto scorreva nella direzione giusta. Doveva solo andare avanti. Un passo dopo l’altro. Ancora uno.

«Hai mai la sensazione di affogare?» disse.

Rizzo lo guardò stralunato.

«La sensazione che l’aria diventi pesante, densa, cattiva. Che ti riempia la gola, i polmoni, lo stomaco, schiacciandoti lentamente. Tirandoti giù, sempre più giù. E allora cerchi di risalire, di tornare in superficie per respirare, ma in realtà sei sempre lì, senza acqua in cui nuotare, senza alcun pozzo da risalire. Immobile, cerchi di capire cosa ti succede, ma non lo sai perché quello che vedi allo specchio ogni mattina non sei più tu. Non ti riconosci e non vuoi più farlo. Sei un’altra persona che si muove, parla, respira, e non sai cosa rimane di te, il bene o il male. La parte migliore che piange e soffre, o la peggiore che gode del dolore e cerca la vendetta. O forse restano entrambe, ma stavolta confuse, abbracciate, mischiate. Senza possibilità di capire. Capire se sei un uomo migliore o no. Senza la possibilità di comprendere se sei ancora un uomo. E nel frattempo continui ad affogare, a scendere nell’acqua densa che ti riempie e sbatte a terra. Sul fondo, su di un fondo buio e freddo. Sei fermo in mezzo alla tua vita, al centro di una stanza di cemento armato, che sprofonda inesorabile e tu con lei».

Michele sentì allentarsi la pressione della pistola sulla sua nuca. Treccape si spostò di lato continuando a tenerlo sotto tiro e disse: «Ma che cazzo sta dicendo?».

«E che ne so, a questo la galera gli ha fatto male. Che t’è successo, Miche’, hai parlato troppo col prete del carcere?». Rizzo sorrideva ancora, ma una vaga inquietudine increspava il suo viso. Quel discorso era troppo strano.

«Hai mai la sensazione di affogare?» chiese di nuovo Michele, con un tono di voce piatto e impersonale.

«Ancora co’ ’sta stronzata? No a me non mi pare di affogare, sto benissimo e…».

«Sono felice per te» lo interruppe Michele sorridendo.

«Oh, mo’ basta, m’hai stufato! Non fare tanto lo splendido che tu sei peggio di me. Sei tu che hai voluto ammazzare la ragazza, sei tu che hai deciso come farlo, sei tu che l’hai lasciata in mano a quei due squilibrati dei fratelli Surace, e quando hai deciso di violentarla eri così fulminato che non ti sei nemmeno accorto del sangue e dei lividi che le avevano regalato. E poi te lo ricordi il tuo colpo di genio? Com’è che dicevi? “Nessun corpo, nessun omicidio. Nessun omicidio, nessuna indagine”. Te la sei goduta mentre la violentavi, vero? Ti ricordi come gridava? Se non ci pensavo io a spararle in bocca, quella puttana avrebbe continuato a gridare per giorni e giorni. Mi dovresti ringraziare anziché rompermi le palle co’ tutte ’ste stronzate».

Michele si sentì rabbrividire. Sì, non aveva dimenticato. Cocaina e paura gli avevano fatto impazzire il cervello, ma i ricordi erano ancora vividi e splendenti. La pelle candida di Milena che diventava rossa sotto i suoi colpi, i vestiti strappati e lei che cercava di proteggersi, gli occhi che chiedevano pietà, vecchie e nuove ferite. Le urla di paura. Le urla di dolore. Il colpo di pistola che risuonava nella stanza mentre i Surace ridevano scansando gli schizzi di sangue. L’odore di cordite e polvere da sparo. La sua soddisfazione nel goderle dentro. La sensazione di potere che aveva provato nel vederla morire.

Ricordava tutto. Lo aveva portato con sé per vent’anni. E adesso finalmente era lì davanti ai suoi occhi.

«Cazzo, se vi siete divertiti… Mi sarebbe piaciuto esserci».

Michele si voltò verso Treccape. Il calabrese sorrideva. Michele ricambiò il sorriso e Treccape ebbe paura, la pistola tremò per un istante.

Fu un fulmine. Afferrò il coltello piantato sul tavolo, con la mano libera colpì il braccio armato del calabrese scansando la pistola. Lo abbracciò e gli conficcò il coltello nell’occhio sinistro. La lama entrò facile, a fondo. Il calabrese, colto di sorpresa, provò inutilmente a divincolarsi, partì uno sparò. Inconscio desiderio di vendetta di chi sta morendo. Il boato si mischiò alle urla e riempì la stanza. Odore di bruciato. Michele sentì una vampata di calore lungo il fianco. La sua carne era tornata ancora una volta a lacerarsi, e il sangue a scorrere.

Piantò il coltello sino al manico e il corpo del calabrese cadde a terra, pesante e scomposto. Si afflosciò con l’arma che spuntava dalla cavità oculare, la bocca spalancata da cui non uscivano più grida ma solo un incomprensibile lamento. Un gorgoglio profondo e cavernoso fatto di sangue e bava. Stava morendo e le sue gambe furono prese da un tremito. La punta del coltello era arrivata al cervello.

Michele si voltò senza pensare. Prese la pistola e sparò a Rizzo. Un colpo all’altezza del ginocchio. Il suo vecchio amico non riuscì a capire cosa stesse succedendo. Tutto troppo veloce. Tutto troppo inatteso. La gamba cedette, lui provò a mantenere l’equilibrio, un passo all’indietro, ancora un altro e infine cadde contro il muro alle sue spalle. Gridò di dolore e paura portandosi le mani alla ferita. Spostò lo sguardo allucinato dal corpo del calabrese che moriva a Tiradritto, che in piedi davanti a lui continuava a sorridere. Un sorriso folle, malato. Un sorriso dedicato a Milena.

«Miche’, ti do tutto quello che vuoi. Me ne vado per sempre, non mi vedrai mai più!». Rizzo cercava di salvarsi la vita piagnucolando ma le sue parole erano un’eco lontana e indistinta che non raggiunsero la bestia che aveva di fronte. Come non lo raggiunse il dolore sotto la chiazza bruna che gli si stava aprendo sulla camicia.

«Miche’, ti prego. Tengo famiglia… Ho una compagna di qua e un figlio di dieci anni. Si chiama Davide».

L’altro si chinò su di lui e gli infilò con forza la canna della pistola in bocca. Sentì il rumore secco di un incisivo che si spezzava.

«T… pr… non l f…».

Una lacrima rigò il suo viso.

Michele gli fece un’ultima premurosa carezza.

Sorrise.

Poi gli sparò in bocca.

Il boato attutito riempì la stanza. Sangue e cervello esplosero sul muro in un dipinto accecante.

Ripulì la pistola usando una di quelle orribili tovaglie a quadri. Senza prestare la minima attenzione ai due cadaveri, si guardò intorno.

Quella stanza continuava a non piacergli. Troppo pacchiana. Troppo da crucchi.

Si avviò verso l’uscita. Passò sotto la serranda semiabbassata. La luce del mattino gli fece strizzare gli occhi. La giornata era diventata più luminosa. Un sottile e piacevole brivido gli risalì lungo la schiena. La ragazzina con le cuffie che continuava a spazzare alzò la testa e gli rivolse un cenno di saluto.

Rispose con la mano e si avviò per la strada.

Adesso poteva tornare a casa.