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Protetto dal suo dolore
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Sabato, 23 gennaio 2016,
Sant’Emerenziana, vergine e martire
1.
Il volto della Vergine era un ovale perfetto. Un viso di alabastro lievemente reclinato su un lato che cercava con lo sguardo la rosea figura del figlio. Il Salvatore, contornato di luce divina, alzava il paffuto braccetto di bambino impartendo la benedizione a pastori e viandanti che si inchinavano al suo cospetto. Su entrambi aleggiava la luce, soffusa e mistica, dello Spirito Santo, sotto forma di un’aureola dorata.
Giuseppe Notari, per tutti Peppe ’o Cardinale, non riusciva a staccare gli occhi da quel quadro, ma a incatenarlo non erano i colori vividi e caldi delle pennellate, i folti e morbidi panneggi delle vesti della Vergine o la composta plasticità delle forme, bensì l’assoluta, consapevole devozione di quegli uomini di fronte al divino.
Ed era questo ciò che voleva per sé.
Sottomissione assoluta.
Aveva capito da tempo che forza e violenza erano i guardiani ciechi del potere. Sempre pronti a lasciarselo sfuggire dalle mani. Il potere non poteva essere solo imposto, doveva nutrirsi di consenso, affondare le proprie radici dentro l’anima dei suoi affiliati, dentro la parte più intima e oscura di ciascuno, per guidarli nell’incrollabile convinzione che lui era il capo, l’unico capo. Solo così avrebbe avuto obbedienza.
Diede un ultimo sguardo ai visi adoranti dei pastori, si fece un veloce segno della croce e si alzò dal suo inginocchiatoio personale. Aveva terminato le meditazioni mattutine.
La sala era avvolta dal chiarore tenue delle candele votive. Accese a decine, creavano angoli di luci e ombre, e le loro fiammelle danzavano a ogni minimo spostamento d’aria mutando le forme della stanza. Un forte odore di cera misto a incenso aleggiava ovunque.
Giuseppe si guardò intorno traboccante di orgoglio. Era circondato da una moltitudine di quadri, cornici dorate ricche di dettagli preziosi, colori sfumati dai secoli. Immagini di santi e angeli che lo fissavano muti mentre lui compiaciuto chinava la testa in segno di falsa umiltà. Quella era la sua collezione personale di arte sacra, il suo più grande tesoro, uno scrigno di bellezza. Aveva fatto saccheggiare decine di chiese per poterla mettere insieme. Piccole cappelle sperdute in paesi senza importanza che custodivano meraviglie inattese, senza alcuna misura di sicurezza se non un portone malandato e qualche catenaccio rugginoso. I ragazzi del clan si erano applicati con zelo e avevano battuto a tappeto campagne e periferie alla ricerca dei dipinti, per poi consegnarglieli in atto di doveroso vassallaggio.
Quella Vergine con Bambino era l’ultimo dono dei suoi uomini. Il più bello. Aveva meritato il posto d’onore di fronte all’inginocchiatoio. Giuseppe si avvicinò al dipinto per poterlo ammirare ancora una volta. Alzò il braccio cercando di imitare la posa benedicente del Salvatore e per un attimo fantasticò che i devoti dipinti nel quadro fossero giunti da chissà dove per prostrarsi davanti a lui. Scacciò quella immagine dalla mente e fece un debole sorriso, pensando nondimeno che qualcuno avrebbe presto chinato il capo al suo cospetto. Qualcuno… Michele Tiradritto.
Per Peppe era sempre stato una spina nel fianco. Fin da ragazzi, fin da quando fingeva di essergli amico fedele, fin da quando lui non era ancora consapevole del destino che lo attendeva. Michele era un guappo presuntuoso e per questo meritava di essere sacrificato sull’altare del loro potere, il suo e quello di Giuseppe Rizzo. Insieme avevano acceso il rogo destinato a bruciare per sempre Michele Vigilante, ed era stato magnifico.
Dei tonfi metallici interruppero i suoi pensieri. Qualcuno stava scendendo nel Sancta Sanctorum, il bunker segreto che si estendeva sotto terra ben oltre il perimetro dell’edificio che si poteva vedere dal livello della strada. Un reticolo di sale e cunicoli a cui si accedeva da un garage presidiato da due uomini armati e da un sistema di videosorveglianza. Una parete di cartongesso scorreva su dei binari nascondendo quello che sembrava un semplice sgabuzzino e invece era l’accesso a un rifugio perfetto, inaccessibile e sicuro. Neppure lo Schiattamuorto sarebbe mai riuscito a entrarci.
Nella penombra Peppe vide avanzare Salvatore Cuomo, uno dei suoi uomini più fidati. Tarchiato e con una lucente pelata, si era meritato il poco lusinghiero soprannome di Palletta, ma ’o Cardinale se ne fregava delle apparenze, in lui aveva riconosciuto obbedienza e capacità e aveva voluto premiare entrambe. Col tempo, Palletta aveva smesso di suscitare risate e battute, grazie al boss si era guadagnato il rispetto del quartiere. Il rispetto però doveva continuare a meritarselo ogni giorno.
«’Uaglio’, ma tu non dovresti essere a Milano?» chiese ’o Cardinale.
Salvatore non dubitò che il Don sapesse già, ma doveva essere lui a parlare. Deglutì con forza cercando il coraggio, gli occhi fissi sul pavimento di marmo.
«Sono appena rientrato…».
«E che novità ci sono?».
«Non buone, lo Zì. Non buone».
Salvatore ebbe l’impressione di essere tornato ragazzino, quando di fronte al prete della parrocchia doveva confessare i propri peccati, ma stavolta la penitenza non si sarebbe limitata a quattro Ave Maria e un Padre Nostro.
«Tiradritto se n’è fujite» disse.
Don Giuseppe non ribatté. Immobile al centro del suo regno, aspettava.
«Ho fatto come mi avevi detto tu per telefono. Ho avvertito i Calabresi che stavamo cercando Michele e che sarei salito io a sbrigare la faccenda. Ma quando sono arrivato all’appartamento dell’avvocato l’ho trovato vuoto e sottosopra, con un emissario di Don Aldo che faceva la guardia fuori al portone».
’O Cardinale perse per un attimo l’imperturbabilità. «E che ne sapevano i Calabresi dell’avvocato?».
«Non lo so, lo Zì. Io non gli avevo detto niente. Ma pare che De Marco si fosse rivolto a loro per vendere Tiradritto. Pensava di tenerlo per le palle e se lo voleva fottere con l’aiuto di un tizio dell’Est, ma Michele se n’è scappato ammazzando lo slavo e facendo un gran casino. Intorno al quartiere ci stava polizia da tutte le parti e io non potevo fare niente».
«E l’avvocato?».
«L’hanno preso i Calabresi. Ho provato a dire che ci volevo parlare ma mi hanno fatto capire che non era cosa. E che a quel verme ci rimaneva poco da vivere, e allora…».
«E allora?».
«E allora me ne sono tornato, lo Zì. Michele è sparito, nessuno sa dove si nasconde, neanche i Calabresi. L’avvocato probabilmente sta già sottoterra».
’O Cardinale sentì la rabbia montargli dentro.
«C’è solo una cosa che non capisco, lo Zì» aggiunse Palletta. «Che gliene fotte ai Calabresi di Michele? Perché l’avvocato è andato da loro?».
«’Uaglio’, tu oltre a non aver combinato un cazzo fai troppe domande. E le fai anche stupide, comincio a pensare che forse ti ho sopravvalutato e non meriti la mia amicizia».
Salvatore ebbe un brivido, quelle parole somigliavano tanto a una condanna e si affrettò nel tentativo di recuperare i favori del boss.
«No, scusa, lo Zì, tu tieni ragione, come sempre. Io mi dimentico che devo solo fare quello che mi dici tu».
Giuseppe annuì soddisfatto ripensando ai viandanti inginocchiati. Fece un cenno del braccio vago e distratto, come a scacciare una mosca: era il segno che il colloquio era concluso e Palletta poteva andare. Ma l’uomo era ansioso di scodinzolare davanti al suo padrone.
«Lo Zì, fuori alla porta ci sta il solito ’uagliuncello. Che faccio? Faccio passare?».
«E certo che devi far passare. Non lo sai che quella è la cosa più importante della giornata? Anzi, eri tu che dovevi aspettare fuori e non lui».
Cuomo, facendo sobbalzare la pancia molle, corse verso le scale che conducevano all’appartamento di sopra e aprì la botola nel soffitto. Un ragazzino di neanche dodici anni scese i gradini rapido come un gatto. Aveva i capelli neri e spettinati, un’espressione seria e solenne, gli occhi che brillavano di felicità. Sbrigare le faccende per Don Giuseppe Notari era un grande onore e nel quartiere ormai la voce si era sparsa, anche sua madre adesso lo guardava con orgoglio e aveva preso a trattarlo da uomo.
Il ragazzo teneva le braccia dritte davanti a sé, con le mani chiuse a coppa. Si avvicinò al boss che lo guardava con benevolenza.
«Eccomi, Don Giuseppe. Scusi il ritardo».
«Non ti preoccupare, ’uaglio’, lo so che non è colpa tua. Tutt’a posto, vero?».
«A posto, Don Giuseppe. Per voi sempre tutt’a posto».
Il ragazzo aprì le mani e nel suo palmo comparve una scatolina in metallo, un’antica tabacchiera in oro e smalto, finemente incisa, con un giglio impresso sul dorso. Don Giuseppe la prese e allungò al ragazzino una banconota verde da cento euro, quello la agguantò con riconoscenza ma simulando contegno, si chinò rapido a baciare l’anello del Cardinale e ringraziò. Poi, lesto come era entrato, uscì dal rifugio salendo a due a due le scale in metallo che portavano di sopra.
Giuseppe Notari era rimasto piacevolmente sorpreso dal gesto del ragazzino. Dopo che, parecchi anni prima, durante una breve permanenza in carcere, aveva fatto girare la falsa voce di una sua crisi mistica, il popolino ignorante e credulone gli aveva attribuito il contranomme di ’o Cardinale, sinonimo di rispetto e potere, oltre che di un rapporto privilegiato con il divino. Conscio dei benefici di una simile credenza, aveva fatto di tutto per alimentare le chiacchiere, e così era nata la sua spiccata e appariscente devozione. Non perdeva mai una messa domenicale, seduto in prima fila, faceva donazioni alla Chiesa preoccupandosi che si sapesse in giro, e non c’era processione che non facesse tappa davanti a casa sua per porgere l’inchino.
Si guardò la mano sinistra. Al mignolo spiccava un grosso anello d’oro con un rubino rosso al centro. L’aveva visto in un quadro alla mano di un antico porporato e aveva deciso di procurarsene uno identico. L’orefice gli aveva chiesto una cifra folle e lui, anziché sparargli in faccia per l’affronto, aveva pagato il doppio, affinché le voci sulla sua benevolenza si propagassero fra i vicoli e le case. A ogni buon conto, qualche mese dopo la stessa gioielleria era stata rapinata, l’uomo pestato a sangue e i suoi averi erano finiti in mano a lui.
Giuseppe rifletté che il ragazzino prometteva bene. Era da tenere d’occhio, poteva cominciare ad affidargli qualche lavoretto più importante. E poi chissà… magari un giorno avrebbe preso il posto di Palletta, che se ne stava ancora lì con gli occhi bassi come un cane bastonato. Quei modi dimessi e i suoi fallimenti cominciavano a stufarlo.
«Salvato’, adesso vattene buono buono in un angolo, che tengo da fare. E ricordati, per il futuro, che non voglio più sentire scuse e domande stupide».
Cuomo raggiunse il fondo della sala, restando in piedi, fermo come un mendicante, in attesa che ’o Cardinale finisse quello che aveva cominciato.
Il Don ci teneva che Palletta fosse lì a guardarlo in silenzio. Lui, come anche il ragazzino, era una marionetta del teatrino che si era costruito con tanta fatica, e voleva un testimone pronto a parlare, ad alimentare la sua immagine. Si voltò dirigendosi verso il quadro della Vergine, aprì la tabacchiera d’oro e tirò fuori il dischetto bianco che conteneva.
Era un’ostia. Un’ostia consacrata.
Ogni giorno il ragazzino ne rubava una dalla Chiesa di Don Franco. Quel pezzente di un prete che si era rifiutato di andare a casa sua per impartirgli la comunione solo perché lui era quello che era, dimenticandosi di chi comandava veramente. Per il momento non poteva uscire a causa del Becchino, doveva rimanersene al sicuro e risolvere a modo suo la situazione. Non voleva di certo fare la fine di quei due deficienti dei fratelli Surace, pace all’anima loro. E allora aveva risolto in quel modo la faccenda della devozione, era un segreto solo per il prete, nel resto del quartiere tutti sapevano e apprezzavano. Pensavano che anche di fronte alla morte Don Giuseppe ’o Cardinale non aveva perso fede e devozione. E se non usciva, se rimaneva rintanato come un topo, non era certo per paura, ma perché lui era un capo e teneva delle responsabilità.
Si inginocchiò davanti all’immagine della Vergine, mise in bocca l’ostia e si fece sul petto il segno della croce.
Amen.
Palletta rimase in fondo alla stanza, attento a non fare rumore, a non sbuffare di fronte a chille strunzate, trattenendo a stento una smorfia che condensava anni di disgusto, astio e rancore. Certe arie da principe della Chiesa potevano fare fesse le nuove leve dell’organizzazione o qualche vecchia rincoglionita in paese; lui si ricordava bene com’era Giuseppe Notari da ragazzo, quando non contava un cazzo e se la faceva addosso davanti a Michele Tiradritto e a Gennaro Rizzo. In ogni caso, non erano fatti suoi e si sarebbe ben guardato dal dire o fare qualcosa fuori posto. Non voleva problemi, di certo non con Peppe.
Tornò a guardarlo con gli occhi docili e ubbidienti. Lo osservò piegarsi sull’inginocchiatoio. Sempre di più, sempre di più. E mo’ stava esagerando…
Giuseppe Notari, detto ’o Cardinale, venerato e rispettato, temuto e odiato, cadde a terra. Si afflosciò piegandosi su se stesso, un movimento lento e fluido, come un animale che si rannicchia. Un lamento strozzato e doloroso si alzò nella stanza.
Palletta ebbe un momento di incertezza, frastornato da quello che stava vedendo. Faceva parte dell’ennesima sceneggiata del capo?
Solo quando il corpo cominciò a essere percorso da fremiti incontrollati, corse verso di lui.
«Lo Zì, che t’ha preso? Lo Zì, rispondi!».
Gli sollevò la testa che si muoveva a scatti. Vide il bianco degli occhi ribaltati, la bava mista a sangue che colava dalle mascelle serrate. I denti avevano morso lingua e labbra fino a ferirle in profondità. Il busto era teso e le gambe scalciavano frenetiche.
Palletta rimase in silenzio, affascinato da quello spettacolo. Dentro di sé sentì un’intima soddisfazione mista a paura e pietà. Provò a chiamarlo ancora, provò a scuoterlo, ma era inutile. I lamenti aumentarono di intensità e il sangue gli lordò le mani.
Si alzò di scatto, ricordandosi finalmente il suo dovere di obbedienza. Si precipitò verso le scale, aprì la botola e urlò con quanto fiato aveva in gola.
«’uaglio’, l’ambulanza! Chiamate un’ambulanza! Subito. Subito. Subito. Don Peppe sta male!».
Sentì le voci dei ragazzi di guardia che davano l’allarme, ridiscese nella sala e si voltò preoccupato verso l’inginocchiatoio. Nella penombra di quel sotterraneo, fra le luci danzanti delle candele, il corpo tremante di Giuseppe Notari combatteva una battaglia invisibile. Palletta lo fissò incredulo, alzò lo sguardo verso il dipinto della Vergine e il Bambino che, imperturbabili e muti, continuavano ad accogliere la sincera devozione dei viandanti.
Poi si fece il segno della croce e scappò lungo le scale.
L’uomo se ne stava in silenzio, seduto nell’ultimo banco della Chiesa. Teneva lo sguardo fisso e vuoto davanti a sé, senza guardare l’altare sul fondo della navata, senza sentire le quiete nenie delle donne che recitavano il rosario. Aveva visto il ragazzino dai capelli neri e spettinati che si infilava di soppiatto nella sagrestia e lo aveva seguito con gli occhi mentre, svelto e silenzioso, usciva dalla chiesa per sparire nei vicoli del quartiere.
Adesso aspettava.
Aspettò fin quando non sentì le sirene delle ambulanze strillare in lontananza e farsi sempre più vicine. A quel punto si alzò dalla panca in legno, si avvicinò a una delle piccole cappelle laterali e accese una candela come atto di devozione. Poi a passo lento si diresse verso l’ingresso, e quando fu fuori vide la piccola folla che intanto si era assiepata lungo la strada, davanti alla casa di Don Peppe ’o Cardinale. Ma lui non si voltò, non guardò incuriosito e neppure rallentò. In silenzio sparì in una delle stradine laterali.
2.
Il sonno della ragione genera mostri e la convivenza forzata della prigione genera strane amicizie. Michele e Olban in anni di galera condivisa si erano felicemente ignorati, per disinteresse del primo e timore reverenziale del secondo. Ma il pestaggio di Imed li aveva costretti loro malgrado a prendere coscienza l’uno dell’altro, a guardarsi negli occhi, a sfidarsi.
Le parole cariche di rabbia e odio erano rimbalzate lungo i corridoi della sezione, amplificate dagli sguardi degli altri detenuti, e il vaso di coccio della loro indifferenza si era incrinato, pronto ad andare in pezzi.
Tutti sapevano che l’italiano non avrebbe perdonato. Gli anni dietro le sbarre l’avevano cambiato, forse rasserenato, ma la galera non tollera debolezze e lui era sempre lo Zio Michele. Tutti sapevano e aspettavano la resa dei conti.
Tiradritto era infastidito, stanco di quelle tarantelle fatte di doveri e obblighi, finto onore ed evanescenti certezze, ma sapeva di non potersi tirare indietro. E se proprio doveva, tanto valeva farlo subito e togliersi il pensiero. Era passato solo un giorno dall’aggressione al marocchino ma per lui era già troppo, aveva fretta di tornare alla sua normalità, qualunque fosse. Istintivamente guardò il libro aperto sul comodino, un uomo dallo sguardo deciso lo fissava dalla copertina… a volte la vendetta è cosa necessaria.
Si rifece il letto stando attento a tirare le lenzuola come piaceva a lui, una barba veloce per essere sempre in ordine, e si accese una sigaretta. La prima della giornata, un paio di tiri fissando il solito paesaggio incorniciato dalle sbarre: colline verdi, case in costruzione e vite che non gli appartenevano. Un breve vuoto in contemplazione per decidere cosa fare, poi mise su il caffè.
L’aroma denso e profumato riempì la cella mentre lui non staccava gli occhi dalla macchinetta. Se lo versò in un bicchierino di plastica e lo bevve bollente, nero e amaro. Le voci degli altri detenuti che andavano ai passeggi cominciarono a riempire la sezione. Tornò a scrutare la moka sul fornello ormai spento. Ripensò a Pinochet. Gli mancava la sua serena accettazione dell’esistenza. Gli mancava il suo mentore… ma ormai era troppo tardi. Sapeva che lui non avrebbe approvato, non più. Avrebbe comunque capito. Certe cose si debbono fare, senza giudizi e senza remore. Semplicemente fare.
Prese la macchinetta ancora calda e la raffreddò sotto il getto d’acqua del rubinetto. La svitò gettando la posa. Le diede un’asciugata per renderla meno scivolosa e infilò tre dita nella parte inferiore. Piegò la mano adagiando il fondo di metallo sul palmo.
Andava bene. Come sempre.
Si mise la mano nella larga tasca della tuta e uscì dalla cella. Si diresse verso la scala che portava ai passeggi, sapeva dove trovare quello che cercava. Era l’ultimo della fila, ma gli altri intuirono tutto dal suo passo svelto e dalle spalle contratte, perciò si scansarono.
Michele imboccò la prima rampa facendo i gradini due alla volta. Niente. Scese lungo la seconda. Niente. Doveva sbrigarsi prima che potesse sbucare nel cortile dei passeggi dove c’era la sorveglianza. Prese la terza rampa e lì vide Olban. Gli dava le spalle e stava parlando con il detenuto che lo precedeva. Quello era voltato all’indietro e come lo vide arrivare, si buttò di lato con la faccia terrorizzata. Olban si girò d’istinto. Un grande errore, forse se si fosse lanciato di corsa verso l’uscita ce l’avrebbe fatta. Michele sfilò dalla tasca la mano armata e scagliò il primo colpo verso il viso dello zingaro. Quello però era veloce, oltre che impaurito, scartò di lato e il pugno lo prese di striscio. L’angolo della macchinetta gli aprì un taglio sullo zigomo facendogli sbattere la testa contro il muro del corridoio. Cercò di divincolarsi ma il secondo colpo lo raggiunse alla bocca dello stomaco. Il fiato si spezzò e l’aria sgusciò fuori dai polmoni. Michele aveva vita facile e ne approfittò. Un altro colpo sul fianco mentre lo zingaro tirava pugni a caso. Attorno a loro si era fatto il vuoto. Velocemente e in silenzio erano tutti spariti. Avevano capito cosa stava succedendo e per certe cose non ci vogliono testimoni. Alcuni si infilarono nel cortile dei passeggi accendendosi una sigaretta e aspettando il risultato dello scontro. Altri risalirono in sezione per andarsi a vedere la TV in cella.
Olban sapeva di dover perdere, aveva esagerato con lo Zio Michele e gli altri detenuti Alta Sicurezza non gli avrebbero perdonato un altro sgarro. Cercò di difendersi, colpire e schivare, ma lo fece senza convinzione, solo per mantenere un briciolo di onore. Provò a fare un po’ di scena. Reagire, combattere. Ma era goffo e inutile. Aspettava di essere percosso, di ricevere la giusta punizione.
Michele colpì ancora allo stomaco, Olban si piegò per il dolore. Ginocchio a terra e testa alzata. I due si guardarono negli occhi. L’italiano caricò la botta e lo zingaro aspettò l’impatto. Ma poteva bastare. Avevano messo su l’ennesima sceneggiata di quel loro mondo chiuso e impenetrabile, di quella istituzione totale che li possedeva.
Tiradritto si fermò guardandosi intorno. Non c’era più nessuno. Si voltò verso l’altro, che era a terra. Lo scansò avvicinandosi a uno dei finestroni delle scale. Gettò fuori il fondo della macchinetta sporco di sangue e tornò verso la sua cella.
«E ricordati che mi devi una macchinetta del caffè» disse a Olban che si rialzava incredulo.
I giorni passarono e l’ordine naturale delle cose si ristabilì. Chi doveva essere punito lo era stato, chi doveva dimostrare qualcosa lo aveva fatto, e la vita della sezione poteva tornare a scorrere tranquilla, con gli orari scanditi e le gerarchie immutabili. Nessuno fece parola di nulla. Nessuno si complimentò con Michele, aveva solo fatto quello che doveva. Nessuno prese in giro Olban, si era comportato da uomo… e gli altri detenuti avevano apprezzato.
Michele era steso sulla sua branda. Immerso fra le pagine dei libri si sentiva lontano da quel luogo, libero dalle mura di cemento armato, dai cancelli blu, dalle grate alle finestre, dalle chiavi in ottone. Era in un altro luogo, in un altro tempo, in vite che non gli appartenevano ma riempivano la sua, dando un senso a ciò che forse non ne aveva più.
Sentì dei passi avvicinarsi alla sua cella ma non gli diede peso, erano lontani e indistinti. I passi si fermarono. Istintivamente alzò gli occhi e vide Olban che con la sua mole occupava l’ingresso della cella, le braccia lungo i fianchi. I due si guardarono in silenzio. Lo zingaro avanzò. Michele poggiò il volume pronto a ricominciare da dove si era interrotto. Ma l’uomo davanti a lui alzò una mano mostrando una vecchia caffettiera. Era venuto a pagare il suo debito. La poggiò sul tavolino e si voltò per uscire dalla stanza. Michele fece quello che non si sarebbe mai immaginato.
«Aspetta!».
Olban lo guardò con aria interrogativa.
«Ti va un caffè?» disse Michele scendendo dalla branda.
Lo zingaro aveva un’espressione incerta e guardinga. Non si fidava. Non poteva essere vero.
«Ok».
Michele prese la macchinetta. Non era una di quelle alla napoletana, ma andava bene lo stesso. La svitò dandole una veloce sciacquata sotto il lavandino, prese il barattolo di plastica del caffè e cominciò a caricarla. Olban era entrato e si era seduto su uno degli sgabelli in legno. Non sapeva cosa dire, era stato preso alla sprovvista e si limitava a fissare l’alto finestrone e le sbarre blu.
«Hai un bel paesaggio da qui».
«Sì» ammise Michele accendendo il fornello, «anche se prima era meglio. Fino a cinque o sei anni fa non c’erano tutte quelle case e si vedeva solo il verde della collina. Ma che vuoi, il tempo passa e le cose cambiano».
Lo zingaro vide se stesso seduto nella cella dello Zio Michele che parlava del più e del meno con un boss del suo calibro e dovette ammettere ad alta voce: «È vero, le cose cambiano».
Nessuno dei due riusciva a capire il perché di quella situazione, ma in quel momento nel silenzio della cella si trovarono entrambi a fissare il cielo e le nuvole al di là delle sbarre. Non avevano bisogno di dirsi altro, di inventare discorsi o dare spiegazioni. Delle rispettive vite non gliene fregava niente, erano troppo diversi per fingere di avere qualcosa in comune.
Il bollire del caffè li ridestò dai loro pensieri.
«Quanto zucchero?» chiese Michele.
«Due, grazie».
Lo zingaro bevve il primo sorso con lo sguardo perso in giro per la stanza. «Hai tanti libri» disse.
Michele si limitò ad alzare le spalle, come se fosse una cosa inevitabile a cui non dava peso.
«Adesso stai leggendo quello?» domandò Olban accennando al libro abbandonato aperto sul letto. Sulla copertina era raffigurato un antico dipinto, il volto di un uomo che li fissava con uno sguardo fermo e deciso, lievemente inquietante.
«Sì» si limitò a dire Michele finendo il caffè.
Ma Olban era deciso a non mollare la presa. Non che volesse ingraziarsi lo Zio Michele o farsi i fatti suoi, ma all’improvviso voleva sapere chi era quel viso che li fissava. «Che libro è?».
Michele si girò incuriosito, non si aspettava altre domande.
«Il conte di Montecristo».
«Bello?».
«Molto. Se vuoi, quando l’ho finito te lo presto».
«Non so leggere».
Michele pensò che quello chiudeva definitivamente la conversazione. Si voltò per buttare il bicchierino di plastica ormai vuoto.
«Ma di che parla?».
Era la giornata delle sorprese. Uno zingaro analfabeta che si interessava di letteratura.
«Davvero ti interessa?».
«Sì, quello in copertina ha una faccia strana».
«Allora qui ci vuole un altro caffè. Ti va?».
Olban annuì e tirò fuori un pacchetto di sigarette porgendolo al padrone di casa. Michele ne prese una ricominciando ad armeggiare con il fornelletto a gas.
«È la storia di uno che viene messo in galera da innocente».
«Proprio uguale a noi» commentò Olban.
Michele sorrise. «Ovviamente… Ma lui riesce a fuggire, diventa ricco e decide di vendicarsi».
«Mo’ sì che mi piace. E poi?».
«Più o meno è tutto qui».
«Come “tutto qui”? Ma se è un mattone! Che altro succede? E lui come si chiama?».
Michele ripensò all’avventura, all’odio, all’amore, alla vendetta, al perdono e alla sete di riscatto che trasudavano dalle pagine di Dumas. Si mise l’anima in pace e cominciò.
«Lui si chiama Edmond Dantès, è un marinaio e ama la bella Mercedes…».
«Come la macchina».
«… ma c’è qualcuno che lo odia, Danglars, lo scrivano della nave, che organizza un complotto per farlo incarcerare…».
«Ma che figlio di zoccola».
Michele annuì. Commento quanto mai azzeccato. Porse un nuovo caffè allo zingaro che nel frattempo si era acceso una sigaretta. Bevve il suo, amaro e bollente, e si stese sulla branda accendendosi anche lui una sigaretta. Olban era in attesa, completamente concentrato. Le domande aleggiavano nell’aria stagnante della cella. Perché Danglars ce l’aveva con lui? Come ha fatto Edmond a fuggire? Perché lo chiamano conte di Montecristo? E la bella Mercedes che fine ha fatto? Ma soprattutto la vendetta… quale sarà la vendetta?
Michele sorrise fumando rilassato. Agguantò il libro ricominciando a raccontare.
Nessuno dei due guardò più il paesaggio oltre le sbarre.
3.
Dalla finestra di quell’appartamento non si vedeva niente, nessuna collina verde, nessuna casa in costruzione, nessun cielo azzurro punteggiato dalle nuvole. Solo palazzi tutti uguali e grigi, centinaia di balconi e finestre come tanti occhi spalancati.
Michele non era mai stato prima a Genova, ma qualcosina degli affari di Olban ancora se la ricordava dalle lunghe chiacchierate in cella, era quasi sicuro che fossero dalle parti di Ca’ Nuova, nell’ex Centro di Edilizia Popolare, anzi quasi sicuramente quello doveva essere uno degli appartamenti costruiti dal Comune negli anni Settanta. Comprato o occupato da Giorgio poco importava, insieme alla ragazza, era pur sempre una fonte di reddito.
Doveva essere mattina presto, il cielo restituiva una luce fredda e lattiginosa e Michele si sentiva ancora stordito, confuso, la testa pesante. Ciononostante stava meglio: le cure del medico, quegli strani medicinali cinesi e una notte di sonno profondo avevano fatto il miracolo, il dolore al braccio non era più un pulsare ossessivo ma un quieto e sommesso fastidio. Provò ad aprire e chiudere la mano, a muovere il braccio. Niente di che. Niente che non si potesse sopportare.
Il chiarore del mattino colorava appena la stanza e il soffitto era di un bianco indistinto. Una tela bianca senza passato. Michele decise che non ce la faceva più a stare in quel letto. Era ancora vestito con gli abiti dell’avvocato, la spalla fasciata, le coperte aggrovigliate ai suoi piedi e un odore di sudore e sangue che gli dava il voltastomaco. Si tirò su a sedere. La testa ondeggiava, la camera galleggiava. Chiuse gli occhi cercando di ritrovare se stesso, li riaprì, i mobili erano fermi al loro posto. Fece tre veloci sospiri, come prima di un grande sforzo, e si mise in piedi. Appoggiò velocemente la mano alla parete per sorreggersi. Una precauzione inutile. Le gambe tenevano e lui aveva solo una gran sete. Arrivò alla porta aprendola e gettando uno sguardo nell’altra stanza.
Una cucina ordinata e pulita, mobili economici. Un tavolo e un paio di sedie, quattro stoviglie ad asciugare sul ripiano. Un solo piatto, un solo bicchiere. Un divano a due posti addossato alla parete davanti a lui; sopra, raggomitolata dentro una coperta e abbracciata a un cuscino, c’era la ragazza.
Michele pensò che dormisse, ma poi vide due occhi inquieti che lo fissavano.
«Acqua» si limitò a dire con la voce roca e impastata.
Lei sgranò ancor di più gli occhi e si alzò scansando le coperte. Non aveva il pesante trucco della sera prima, evidentemente era ancora presto per la sua giornata di lavoro. Niente tacchi vertiginosi né minigonne, ma un paio di ciabatte e un pigiama rosa con qualche buffo pupazzetto disegnato sopra. Sembrava ancora più giovane dei suoi vent’anni.
Aprì di corsa il frigorifero, come se avesse ricevuto uno degli ordini di Olban, tirò fuori una bottiglia e recuperò un bicchiere pulito. Michele rimase sorpreso da tanta premura, lui si sarebbe attaccato al collo della bottiglia scolandosela in un sorso.
Bere fu una benedizione, sentiva il proprio corpo riprendere forza, ripulirsi di quei giorni in mezzo alla strada e di quelle ore di dolore. O almeno per un attimo poté illudersi che fosse davvero così.
La ragazza lo guardava con un misto di curiosità e timore. Aveva i capelli sconvolti che le ricadevano scarmigliati sulle spalle. Erano sempre bellissimi e lui non riusciva a staccare gli occhi da quella massa castana che spalancava ricordi dolorosi. Cercò di distogliere lo sguardo e allontanare il passato. Ma in quel momento la ragazza si smosse i capelli portandoli dietro la testa, ravvivandoli dopo la notte sul divano. Li accarezzò, vi passò veloce le mani con un misto di timidezza e civetteria. Lui cercò di concentrarsi sul bicchiere vuoto.
«Io sono Yleana».
«Michele» rispose poggiando il bicchiere.
«Io vengo dalla Moldavia. Vicino a Romania. Conosci?».
«No» rispose secco. Per lui quei Paesi erano tutti uguali, una fonte pressoché inesauribile di armi e donne.
«Sei amico di Olban. Tu conosci da tanto?».
«Senti, non ho tempo né voglia di fare conversazione. Sono stanco, ho fame, puzzo e mi fa male la spalla. Quindi concentriamoci solo sulle cose da fare. Primo, una doccia. Secondo, abiti puliti. Ok?».
Lei ammutolì. Nella sua vita ne doveva aver passate di tutti i colori, ma per qualche motivo non si aspettava quella risposta, un vero e proprio schiaffo in faccia senza motivo. Abbassò lo sguardo mettendo un broncio da ragazzina, i capelli si mossero mentre annuiva obbediente.
Michele si rendeva conto di avere esagerato, ma era ciò che voleva: se la trattava male, forse la sua mente avrebbe smesso di fantasticare. Lui era Michele Tiradritto, aveva un viaggio da portare a termine e quella era solo una prostituita dell’Est che se la faceva con uno zingaro. Doveva mettere subito le cose in chiaro, soprattutto con se stesso.
«Hai del cellophane?».
La ragazza non rispose. Non aveva capito.
«Del cellophane. La pellicola trasparente. Quella che si mette sugli avanzi della roba da mangiare».
Lei annuì e corse a prenderla da un cassetto della cucina. Faceva le cose senza parlare. Olban l’aveva educata bene, meglio non sapere in che modo, non erano affari suoi.
«Trova qualcosa di pulito da mettermi».
Michele si avviò verso il bagno dando per scontato che lei avrebbe trovato un vestito di Olban, o anche qualcosa lasciato lì da un cliente distratto. Di sicuro ne erano passati a decine fra quelle mura. Decine che si erano stesi su quel corpo giovane, che si erano rotolati fra le lenzuola insieme a quei capelli castani e a quello sguardo impaurito. Giovani, vecchi, grassi, magri, operai, professionisti, buoni e cattivi.
Michele chiuse la porta del bagno e cominciò a spogliarsi. Gettò i vestiti dell’avvocato a terra, come un serpente che muta pelle. Si guardò nello specchio del lavabo: avevo il volto pallido e segnato, più di quando stava in carcere, le occhiaie erano sempre infossate e la pelle del viso tirata e bianca assomigliava a un teschio. Era ovvio che quella ragazza avesse paura di lui. Gli occhi erano rossi, a causa della stanchezza e dei medicinali, ma le pupille… be’, quelle restavano nere e profonde. Michele fece una smorfia, la sua faccia non gli piaceva, aveva un che di malato e sfuggente.
Arrotolò la pellicola trasparente sulla spalla fasciata, la strappò con i denti fissandola con attenzione. Più tardi avrebbe pensato alle bende. Adesso aveva bisogno di acqua. Altra acqua.
Si infilò sotto la doccia. Era fredda, anzi gelata. Fu scosso da una serie di brividi, era ciò di cui aveva bisogno. Quello che aveva visto allo specchio era un morto, un cadavere che camminava, respirava, parlava. Lui invece desiderava sentirsi vivo, almeno un altro po’.
Si prese il suo tempo, facendo scorrere l’acqua sul corpo finché non divenne tiepida, e poi calda, e poi ancora bollente. Se ne stava appoggiato alle piastrelle della doccia con le braccia tese e gli occhi fissi sulle fughe. Concentrato a scacciare qualsiasi dubbio, a non farsi sopraffare dal dolore, dalla stanchezza, da quella ragazza, da se stesso.
Si asciugò gettando a terra l’asciugamano e uscì nudo dal bagno, tanto sapeva già che la ragazza non si sarebbe scandalizzata. Niente che non avesse visto centinaia di volte.
Nel frattempo Yleana si era data da fare, aveva cambiato lenzuola e coperte del letto. Adesso non era più la cuccia di un cane. Su una sedia erano poggiati una tuta, dei jeans e un maglione viola da figlio di papà. C’era anche della biancheria pulita, evidentemente Olban si lasciava un cambio per quando andava a trovare la sua amichetta. Optò per la tuta, aveva voglia di stare comodo, e l’idea di rimettersi a letto non gli dispiaceva per niente. Di sonno arretrato ne aveva in abbondanza.
La ragazza entrò porgendogli un bicchiere d’acqua e una manciata delle pillole lasciate dal medico. Michele non la degnò di uno sguardo. Prese le pillole e lei uscì in silenzio. Obbediente e silenziosa. Perfetto.
Le lenzuola erano fresche e pulite e i medicinali cominciarono a fare effetto. Aveva la spalla dolorante per la coltellata ricevuta e le mani indolenzite per i pugni dati. Sentiva il corpo pesante e intorpidito, ma il contatto con il materasso morbido che lo accoglieva era una sensazione fantastica. Se la stava finalmente gustando. Cercò di snebbiare la mente, di fare pulizia di qualsiasi pensiero, dubbio, rimorso, per godersi finalmente un po’ di meritato riposo. Aveva abbassato le serrande e nella semioscurità della stanza vedeva la sua ombra riflessa nello specchio dell’armadio, disteso immobile sul letto, i piedi in avanti, le mani abbandonate lungo i fianchi. Una salma. Uno splendente esempio di caro estinto, in attesa della sua nuova casa, un’elegante bara in noce con gli interni di seta ricamata, una cosa di gran classe, degna di lui. Attorno a sé mancava solo qualche cero accesso e un nugolo di parenti piangenti, e il quadretto della sua fantasia sarebbe stato completo. Ma lui di parenti non ne aveva più. Era solo. In compenso si immaginava un gran funerale.
Quel funerale che Milena non aveva mai avuto.
Cercò di respingere subito quel pensiero. Era stanco, aveva bisogno di riposare e soprattutto non aveva la forza per ricordare ancora. Il risultato fu che la mente, impregnata da quelle medicine di dubbia provenienza, rimase a galleggiare in un inquieto dormiveglia, in cui le immagini del passato si rincorrevano scomposte e tremolanti come le scene di un film muto.
Aveva programmato tutto. Sapeva cosa fare.
Rivide il vecchio casolare in cui avevano portato Milena dopo averla rapita. Era quasi un rudere, isolato e cadente. Era stata la casa di un poveraccio che sognava di allevare bufale per fare le mozzarelle, ma non voleva pagare il pizzo e così qualcuno gli avevano avvelenato le bestie e bruciato le stalle, e quello, poveraccio era e poveraccio era rimasto, se ne era scappato in Germania a fare l’operaio.
Avevano lasciato la ragazza, legata e bendata, su un vecchio materasso che puzzava di piscio, rinchiusa in una delle stanze del casolare, finestre sprangate e muri scrostati dall’umidità. I fratelli Surace erano gli addetti al controllo. In poche parole passavano le giornate sul divano sfondato del vecchio soggiorno a farsi di coca e a giocare a carte, non erano il massimo dell’efficienza o della professionalità ma Michele non se ne preoccupava. La cosa sarebbe durata poco. Franco, il fidanzato di Milena, avrebbe capito la lezione, sarebbe tornato in ginocchio a chiedere scusa e gli avrebbe restituito quello che era loro. In un impeto di magnanimità e grandezza Michele immaginava il momento in cui avrebbe slegato la ragazza, e con lo sguardo fiero e deciso del capo le avrebbe detto che poteva andare… era libera. Probabilmente dopo avrebbe ucciso Franco, ma questa era un’altra storia. Un impegno a cui non poteva, e in fondo non voleva, sottrarsi. E poi una volta sistemato il traditore, magari poteva tenere per sé la ragazza, poteva farla diventare la sua donna. Aveva qualcosa che lo smuoveva dentro, che gli mandava il sangue alla testa, e non solo. Forse quello sguardo fiero, quel sorriso felice che aveva spezzato, o quei capelli castani. Quei capelli castani…
Michele si rigirò infastidito nel letto, perse la posizione immobile da salma e cominciò a muovere frenetico le gambe. Aveva preso a sudare, sentiva le coperte pesargli addosso come un sudario. Era consapevole di dove si trovasse, di quella stanza, di quel letto, ma non riusciva a tirarsi fuori dal passato.
Le cose non erano andate come aveva previsto.
Franco, quel bastardo traditore, quel vigliacco, chill’omm e merd’, non si era fatto vivo. Era sparito, nascosto chissà dove, aiutato da chissà chi. Di quello che apparteneva loro non c’era più traccia, ed erano rimasti lì come quattro scemi, mentre la gente cominciava a parlare.
Le notizie viaggiano veloci e quelle cattive hanno una corsia preferenziale. Quella che doveva essere la loro affermazione, il loro diventare forti e potenti, si stava trasformando nella loro rovina. Nei bar, nelle strade, nei rioni, la gente, quella che contava qualcosa, bisbigliava, raccontava sottovoce e… rideva. Rideva di loro.
Quattro ’uaglioni che si erano fatti fregare.
Milena rimase dov’era. Su quel vecchio materasso gettato a terra che puzzava di piscio. I giorni passarono e tutto divenne complicato. Aumentava la loro rabbia e la sua cattiveria. Tornando nel vecchio casolare trovò i fratelli Surace con l’aria stranamente soddisfatta, fumavano, bevevano e tiravano coca senza lamentarsi di essere lasciati lì, giorno e notte, a sorvegliare la prigioniera. Lei aveva ancora la benda sugli occhi e le braccia legate dietro la schiena, sul collo il livido bluastro della mano di Michele, sul viso segni profondi di nuove percosse. Sangue secco e raggrumato su bocca e naso. I capelli sconvolti in mille ciocche sporche. Un secchio e una bottiglia d’acqua ai suoi piedi. Aveva i vestiti fuori posto e i pantaloni slacciati. Michele guardò i fratelli Surace formulando con lo sguardo la sua domanda.
I due sorrisero impacciati, assicurandogli che non se l’erano fatta… non ancora. Le avevano solo dato un’occhiata per vedere come stava messa. E doveva credergli, era messa veramente bene. Ecco, magari le avevano fatto anche qualche carezza, così, giusto per tenerla a bada.
Michele indicò il sangue secco sul viso. Era incazzato. Con loro, con quel bastardo di Franco, con quella situazione di merda che non voleva risolversi. Ma non disse nulla. Non era il momento di fare polemiche, dovevano rimanere uniti. E se loro si volevano divertire un po’ con quella poveretta, facessero pure, non erano fatti suoi. Però qualcuno doveva pagarla. Pagarla molto cara.
Michele voleva scacciare quelle immagini. Cominciò a ruotare la testa sul cuscino. Sempre più forte, affondando attimo dopo attimo mentre il respiro si faceva affannoso e un lamento profondo usciva a tratti dalla sua gola. La donna di Olban aprì la porta preoccupata e rimase a fissarlo nella penombra.
Adesso era nei guai.
La notizia era arrivata rapida a destinazione. Senza giri di parole, senza sorrisi a mezza bocca. Solenne e diretta come una condanna a morte. “I Calabresi volevano i soldi”. I loro soldi. Nessuno aveva aggiunto altro, non serviva. Michele e gli altri non ce li avevano quei soldi, e Franco era sparito con il carico di droga. Scomparso nel nulla fregandosene della sua fidanzata. E così il grande Tiradritto si ritrovava fra le mani solo una ragazza picchiata e sottomessa, mentre la scadenza del pagamento si avvicinava. Provò a rivolgersi a chi era più in alto di lui, ma fu inutile. L’intraprendenza e l’arroganza piacciono solo quando vanno a buon fine; un ragazzo presuntuoso che sbaglia non piace a nessuno. Le pacche sulle spalle e i grandi sorrisi di chi vedeva un giovane in ascesa, un nuovo potente boss, si trasformarono di colpo nei silenzi e negli sguardi sfuggenti di chi non voleva avere niente a che fare con lui. Non si poteva rischiare di compromettere gli affari fra le due organizzazioni a causa di un solo uomo. Un uomo era sacrificabile e nessuno se ne sarebbe fatto un problema. Anzi, quella sarebbe stata una lezione per chi si sentiva già grande mentre in realtà era solo un ’uaglione troppo cresciuto. Ma anche in quel caso, anche in quel momento, a Michele nessuno ebbe il coraggio di dirglielo direttamente in faccia… avevano ancora paura di lui. Una bestia ferita azzanna senza pietà.
E questo si sentiva lui, un leone che si dissangua lentamente. Aveva capito fin troppo bene cosa stava succedendo e non vedeva vie d’uscita. Tutto il suo castello di carte, orgoglio e potere, stava cadendo miseramente e lui cercava soddisfazione, cercava qualcuno su chi sfogare la sua rabbia incontrollabile. Trovò una ragazza umiliata e sottomessa stesa su un vecchio materasso maleodorante.
Michele si aggrappava al lenzuolo. Stringeva con forza i pugni, ma neanche il dolore alla spalla lo trascinava via da quelle immagini. I lamenti divennero sempre più profondi e intensi. La stanza intorno a lui era sparita e non si accorse della ragazza sulla soglia che prese a spogliarsi.
Aveva troppa rabbia in corpo.
Rabbia e molto altro. Erano giorni che prendeva anfetamine per rimanere sveglio, per trovare una soluzione che non c’era. Tutti gli avevano voltato le spalle e la cocaina era stata la sua risposta. Tanta. Troppa. Era andato su di giri, e gli altri con lui. Seguivano ciecamente il capo e anche in quel frangente non si erano tirati indietro. Nel vecchio casolare paura e tensione avevano lasciato il posto a euforia e deliri di onnipotenza, frutto della polvere bianca. Persino Peppe ’o Cardinale, che si cacava sotto pure dell’ombra sua, si era fatto spavaldo e urlava rabbia immaginando le possibili torture che avrebbe inflitto a quell’infame di Franco. Gli altri ridevano e annuivano soddisfatti. Quello sì che era parlare. E sempre più veloce si chinavano sul tavolo del soggiorno e facevano sparire una dopo l’altra le strisce di coca che i fratelli Surace avevano allineato come soldatini. Una lunga interminabile fila, perfetta e precisa, come gli aveva insegnato la loro mamma. Anche Giovanni Morra detto Bebè e Vittoriano ’o Maresciallo si erano sentiti forti, anche se non contavano un cazzo e non tenevano diritto di parola. Droga e paura avevano fatto il miracolo e li avevano trasformati in quello che non erano.
Michele, sprofondato sul vecchio divano, rideva divertito. Gli sembrava di essere allo zoo davanti a tante scimmie ammaestrate. Non riusciva a controllarsi, la sua testa era andata e tutto vorticava attorno a lui. Immagini, suoni, colori, amplificati e ossessivi, e lui decise di lasciarsi andare, di rompere gli argini e lasciarsi cadere nel pozzo oscuro della sua incoscienza. Senza freni, senza pensieri, senza trovare soluzioni a quello che era diventato più grande di lui. Vide Gennaro Rizzo che lo fissava divertito. Era l’unico che contasse qualcosa, l’unico vero amico che teneva in mezzo a quei quattro deficienti, il solo che potesse permettersi di dirgli che sbagliava, l’unico che teneva le palle per farlo. Ma Gennaro non disse nulla, rideva con lui e strillava con gli altri. Gennaro rideva, Gennaro applaudiva, Gennaro era con lui. Come sempre.
Yleana era nuda. I vestiti lasciati cadere ai suoi piedi. Guardava Michele che continuava a contorcersi nel letto. Morbida e flessuosa si infilò sotto le coperte avvicinando il suo giovane corpo al tormento di lui.
I Surace avevano ragione. Milena era fatta bene.
Avevano bisogno di sfogarsi. Sfogare la rabbia, l’eccitazione della paura, l’euforia della droga. L’idea era stata dei fratelli che di sicuro avevano già assaggiato il piatto del giorno, ce l’avevano avuto sotto il naso troppo tempo per resistere davvero. Gli altri avevano accolto con entusiasmo la proposta, a Michele non gliene fotteva un cazzo e poi aveva visto Gennaro al suo fianco che annuiva convinto. E che sia. Se proprio doveva finire tutto a puttane, tanto valeva divertirsi. Del resto, di lì non potevano farla uscire viva, avrebbero perso ancora di più la faccia.
Milena urlava disperata. Grida feroci, cattive, di quelle che strappano le corde vocali e bruciano dentro. I Surace la tenevano schiacciata a terra, mentre quel codardo di Peppe le strappava i capelli per il solo gusto di farle male. Giovanni e Vittoriano fecero a pezzi la camicetta esponendo la pelle candida. Gennaro lo incitava… lui era il capo, lui doveva essere il primo. Michele rideva, sentiva la coca salirgli dentro. Sempre più su, fino al cervello, fino all’ultimo barlume di lucidità che si spense nelle grida della ragazza.
Michele sentì le mani di Yleana che lo accarezzavano dolcemente cercando di calmarlo. Calde e morbide percorrevano il suo petto. Udì una voce che gli sussurrava parole incomprensibili in una lingua sconosciuta, si aggrappò con tutta la forza a quella voce che lo trascinava fuori dal ricordo. E gliene fu grato.
Aprì gli occhi e nella penombra di quello squallore vide il viso di Ylenia chino su di lui. E poi gli occhi di Milena che urlavano il suo dolore. I volti delle due ragazze si sovrapposero. Una volta, due, tre. Finché rimase solo il presente e gli occhi tristi e impauriti della ragazza dell’Est. Percepì il calore della sua nudità, il tocco leggero e deciso delle mani, rimase sospeso fra due tempi, fra due luoghi, mentre cercava di tornare padrone di sé.
Lei gli si avvicinò all’orecchio.
«Shhh… regalo di Olban».
Per un attimo Michele vide il viso dello zingaro con il suo sorriso lucente e cattivo che si confondeva e mutava, trasformandosi nella risata sguaiata di Gennaro Rizzo che lo incitava. Che gli urlava che lui era il capo, che doveva essere il primo, e poi tutti loro.
Tiradritto prese a tremare. Dolore, stanchezza, paura. Non voleva dimenticare. Non poteva dimenticare.
Si girò di scatto spezzando quell’abbraccio. Le diede la schiena e non poté vedere lo sguardo di stupore di Yleana.
Non era così che sarebbero dovute andare le cose. Non era mai successo prima. La ragazza, abituata alla squallida routine dei suoi clienti, non sapeva cosa fare. Lo strinse da dietro sentendo quel corpo sconosciuto tremare di fronte ai suoi fantasmi. Lo tenne così mentre lui cercava ancora di divincolarsi. Sino a che il tremore non cessò, sino a che il passato si dileguò nel presente.
Allora Michele lentamente si voltò, il calore di quel corpo innocente stava sciogliendo il suo gelo. Incerto e confuso ricambiò l’abbraccio e rimasero lì, in un triste appartamento illuminato dalla luce tenue del giorno. Cercando di sconfiggere le loro solitudini.
Immobili. Avvolti l’uno nell’altra.
4.
Lopresti guidava come un automa, movimenti meccanici e sguardo fisso oltre il parabrezza. Solo una vaga percezione di quello che lo circondava. Il traffico congestionato della tangenziale, la luce fredda del cielo nuvoloso e le parole ovattate del collega al suo fianco. Ma quelle ormai non gli davano più fastidio, erano diventate un piacevole sottofondo. Qualsiasi fosse stavolta l’argomento della conversazione: la pensione, la moglie, i colleghi, la pesca, lui si limitava ad annuire con il senso del discorso che continuava a scivolargli addosso come pioggia su un impermeabile. Non che non apprezzasse la compagnia di Corrieri, anzi, al contrario di quanto avrebbe mai potuto immaginare all’inizio di quella storiaccia, si trovava bene con lui. La sua pacatezza, il suo essere un grigio e metodico burocrate, la sua immutabile quotidianità fatta di orari ben scanditi, telefonate a casa, preoccupazioni semplici, avevano fatto da contraltare alla sua irruenza, a una vita sregolata fatta di rimpianti e rimorsi, e lo avevano aiutato ad avere una prospettiva diversa, una visione nuova di sé, del passato e, perché no, del futuro. Con lui si sentiva stranamente calmo, in qualche modo rasserenato anche in un’indagine come quella che non li stava portando da nessuna parte.
L’ispettore annuì ancora una volta a qualcosa che non aveva ascoltato e si calò sul naso gli occhiali da sole, modello figo da telefilm, ma non era per darsi un tono come in procura davanti alle impiegate prossime alla pensione. Era per colpa di quella luce bianca e malata, un mare lattiginoso che filtrava attraverso le nuvole e gli feriva gli occhi e la testa. Quella mattina si era svegliato con un dolore sordo che gli pulsava in un angolo indefinito del cervello, si era messo a sedere sul letto disfatto, con la testa fra le mani e davanti agli occhi il vago ricordo, l’impalpabile immagine, del viso di Martina.
Sorridente e felice, come forse non era stata mai con lui.
Si era sentito prendere da un’amarezza sconosciuta, dolorosa ma al tempo stesso bellissima, a cui però non poteva abbandonarsi. Dietro la facciata fiera e sicura che ostentava con tutti stava cercando di ricostruire la sua vita passo dopo passo. Un fragile castello di carte che poteva crollare da un momento all’altro, per cui quegli occhi luminosi potevano essere un terremoto che lo avrebbe trascinato di nuovo fra droga e alcol, e allora, ancora una volta, doveva separarsi da lei. Si era passato una mano sul viso, nel vano tentativo di scacciare l’ultima immagine di quel sogno che continuava a sfuggirgli, si era infilato sotto la doccia, con un feroce mal di testa. Neanche la continua nenia delle parole del collega riuscivano a lenire quel dolore, né i suoi onnipresenti riferimenti all’amata moglie potevano fargli passare quel sordo martellare di tempie. Anzi, la ricomparsa dal passato del ricordo di Martina era dovuto proprio a Corrieri e alla sua idilliaca vita familiare. A quell’amore incondizionato che durava da quasi cinquant’anni, e che lui, adesso era pronto ad ammetterlo, invidiava.
Decise che fra luce fastidiosa, collega logorroico ed emicrania, una sigaretta era un premio che si era meritato. Abbassò un po’ il finestrino mentre faceva scattare l’accendino.
«Ma che fai, apri?» scattò Corrieri.
«Sì, certo, per il fumo. Perché?».
«Io sono cagionevole. Un colpo d’aria e mi prendo una bronchite».
«Perfetto, così ti metti in malattia e te ne stai qualche giorno a casa con la mogliettina».
Corrieri parve rifletterci, come se la battuta fosse una valida opzione alla quale non aveva mai pensato.
«Anzi, esageriamo con il rischio. Ne vuoi una?» chiese Lopresti porgendo il pacchetto al collega.
«Ma che dici… Sono vent’anni che ho smesso. Sai com’è, a mia moglie dava fastidio e alla fine… be’, in ogni caso fa male».
«Ma tu stai sempre a sentire tutto quello che ti dice?» chiese l’ispettore senza malizia. Era solo curioso delle loro dinamiche familiari, ma dal silenzio si accorse che l’altro aveva interpretato male. «Lascia stare, domanda stupida. Torniamo a noi, che mi stavi dicendo prima che mettessi a repentaglio la tua vita abbassando il finestrino?». Accompagnò le parole con un sorriso sincero.
«Riflettevo ad alta voce sul fatto che Annunziati e Morganti sono due stronzi».
«Ecco, vedi che quando ti applichi le cose giuste le dici».
Corrieri si fece una sana risata e continuò il discorso: «Non so perché, e neanche mi interessa, ma ce l’hanno con te. Altrimenti non si spiega quell’uscita davanti a Taglieri per farci fare la figura dei cretini».
«Scusa, ma perché proprio con me? Non potrebbero avercela con te?». Lopresti sapeva perfettamente che era impossibile.
«Ma quando mai! Sei tu il golden boy della questura, io sono solo l’imboscato, il raccomandato che ha fatto carriera regalando mozzarelle di bufala, e che fra un po’ se ne va in pensione senza infamia e senza lode. Io non conto e non accuso».
Lopresti rimase in silenzio, tanta onestà l’aveva spiazzato.
«Che pensavi» continuò Corrieri con amarezza, «che non sapessi quello che si dice di me? O che non avessi mai notato i sorrisi a mezza bocca o gli occhi alzati al cielo dei colleghi quando mi incontrano? Fidati, io posso pure essere un codardo, ma non sono uno stupido».
«Questo l’ho capito». L’ammissione sfuggì rapida dalle labbra di Lopresti. Corrieri apprezzò.
«Ho fatto solo una scelta diversa da quella di tanti altri. Una scelta che mette al primo posto la famiglia. Per me la famiglia è tutto».
«Ti capisco». Carmine era sincero. Sorpreso da se stesso, ma sincero.
Corrieri annuì sfregandosi le mani, cominciava ad avere freddo, ciononostante evitò di protestare. L’ispettore aveva il diritto di fumarsi la sua sigaretta e a lui un po’ d’aria fresca non avrebbe fatto male.
L’auto uscì dalla tangenziale infilandosi nel caotico traffico cittadino, fra parcheggi in tripla fila e motorini in tre senza casco. Tutto nella norma. A parte il silenzio che era sceso nell’abitacolo. Corrieri era ammutolito, come se stesse riflettendo sulle sue stesse parole, e anche Lopresti decise di non rompere quella tranquillità, quella strana intesa che assomigliava tanto a un’amicizia.
Si fermarono al primo di una lunga serie di semafori. Lopresti gettò la sigaretta dal finestrino, la brace era arrivata al filtro e cominciava a scottargli le dita. Fece per chiudere.
«Lascia aperto, che un po’ d’aria è gradevole».
«Ueilà, siamo diventati spericolati…».
Corrieri fece una smorfia. «No, è che mi aiuta a pensare meglio. Mi snebbia la testa e mi fa riflettere sulle cose strane».
«Tipo?».
«Tipo che Annunziati e Morganti c’hanno chiamato per l’intercettazione di Peppe ’o Cardinale e c’hanno fatto prendere in carico la pista dei Surace giusto in tempo per farci piombare addosso due morti ammazzati. Noi abbiamo rimediato una figura di merda e loro avevano fretta di andarsene a Milano a cercare Michele Vigilante».
«E quindi?».
«E quindi non lo so, ma le coincidenze non mi hanno mai convinto e la tempistica non mi piace. Il caso diventa nostro e subito lo Schiattamuorto entra in azione. Guarda un po’ che strano».
Lopresti si voltò a fissare il collega con gli occhi sbarrati e la voce tesa. «Pensi alla talpa in questura?».
Corrieri parve rifletterci. «Non credo. Non ce li vedo a fare una cosa del genere. Sarebbe troppo anche per loro. Ma, in ogni caso, non si può mai dire. E se fosse, spiegherebbe perché siamo sempre un passo indietro rispetto al Becchino».
«E allora che proponi? Ne parliamo col dottor Taglieri?».
«E che gli diciamo? Che siamo due sfigati che appena ci passano da trovare qualcuno, ce li ammazzano subito? No, non possiamo andare dal capo. Non ancora, non abbiamo nulla di concreto».
«Non ancora? In che senso?». Lopresti rallentò l’andatura e si accese un’altra sigaretta, la questione cominciava a farsi interessante.
«Da bravo imboscato negli uffici conosco un po’ di gente. Sai com’è, a forza di regalare mozzarelle… E conosco anche l’addetto all’ufficio paghe e contributi della questura, e per caso mi è capitato di dare un’occhiata alla pratica di Morganti, e sempre per caso mi è caduto l’occhio sulla filiale del Credito Cooperativo su cui gli accreditano lo stipendio, e…».
«Sempre per caso…?».
«Esatto. Sempre per caso…». Corrieri sorrise. «Conosco qualcuno in quella banca che potrebbe darci un’idea sulla situazione economica del caro collega. In via informale, giusto pour parler, almeno per sapere come sta messo a soldi, debiti, mutui, eventuali versamenti anomali e altro. Senza indagare, giusto per chiarirci le idee».
«Giusto, per chiarirci le idee» ripeté pensieroso Lopresti.
«Sì. Che ne dici?». Corrieri lo fissava speranzoso, con il volto teso, non sapeva se si era spinto troppo oltre.
«Dico che mi piaci sempre di più. Tua moglie permettendo, ovviamente».
Il viso di Corrieri si rilassò e si aprì in un largo sorriso.
«Tranquillo, non è gelosa. E adesso chiudi il finestrino».
«Gli acciacchi dell’età si fanno sentire, eh».
«No, è che siamo arrivati».
«Oh cazz…».
Lopresti sterzò all’improvviso scalando le marce e fermando l’auto davanti a uno degli ingressi dell’ospedale.
La facciata era solenne. Bianca e rossa con grandi colonne che davano una sensazione di potenza e controllo. Evitarono l’ingresso del Pronto soccorso, anche se da lì c’era un accesso diretto ai padiglioni, perché l’idea di rimanere intrappolati in quella baraonda di lettini abbandonati, flebo pendenti e vecchi dimenticati non faceva per loro.
Avevano poco tempo e dovevano darsi una mossa.
La notizia del ricovero d’urgenza di Peppe ’o Cardinale era arrivata in procura attraverso una valanga di voci, confidenze e indiscrezioni, lo stesso Lopresti aveva ricevuto una telefonata di un premuroso Genny B che ci teneva in maniera particolare a dimostrare che non si era dimenticato della promessa di riferirgli le novità. Anche se, come in quel caso, si trattava di una notizia che cinque minuti dopo la partenza dell’ambulanza da casa di Peppe ormai sapevano tutti. Ma tant’è, Genny la telefonata l’aveva fatta e lui a malincuore l’aveva ringraziato, facendo bene attenzione a usare un tono di voce freddo.
Si infilarono nell’ingresso principale facendo finta di non riconoscere un agente della Digos che ricambiò il favore continuando a leggere il giornale sportivo ma senza mai perdere di vista le grandi porte di accesso.
I corridoi dell’ospedale erano di uno smunto azzurrino che faceva molto anni Settanta, e l’intricato dedalo di padiglioni vecchi e nuovi non li aiutava a trovare quello che cercavano, vale a dire il reparto di Anestesia e Rianimazione e Terapia intensiva. Lopresti era sul punto di chiedere informazioni a una guardia giurata dall’aria stanca e annoiata quando Corrieri gli afferrò l’avambraccio e con un cenno della testa gli indicò il veloce corteo di fattorini carichi di fiori che avanzavano spediti lungo il corridoio alla loro destra.
Si capirono in un attimo e si accodarono a quella profumata processione.
L’atrio della Terapia intensiva era uno spettacolo surreale. Una decina di vecchiette radunate in un angolo su sedie spaiate recitavano un lamentoso rosario, occhi bassi e coroncine bene in evidenza. Uomini di mezza età a capo chino stringevano fazzoletti bianchi e si scambiavano reciproche pacche di consolazione, scuotendo la testa circonfusi di sacro dolore. I galoppini si accalcavano alla porta chiusa del reparto solo per essere respinti da inflessibili infermiere che ribadivano che oltre quella soglia potevano passare solo i familiari, in orario di visite e due alla volta. I fattorini sconsolati appoggiavano a terra i fiori, accanto alla porta, in quella che si stava trasformando un’aiuola posticcia, carica di un profumo intenso e dolciastro. Qualcuno aveva acceso fra i fiori un paio di lumini rossi, e una foto incorniciata di Peppe ’o Cardinale spiccava in mezzo a un fascio di rose.
L’altarino pagano era pronto e la liturgia era iniziata. Tutti volevano farsi vedere, gareggiavano per dimostrare dolore e cordoglio, alla ricerca della benevolenza dello Zio.
Lopresti ne aveva viste tante nella sua carriera: processioni pilotate davanti alla casa dei boss, vasi lanciati dai balconi durante gli arresti, baci e abbracci all’affiliato portato via in manette, selfie con il latitante, gente picchiata a sangue che si ostinava a dire che era stato un incidente. Ma quella sceneggiata di sofferenza collettiva gli mancava proprio. Per un attimo ebbe l’impulso di lasciarsi andare, strillare come un pazzo, prendere a calci quei fiori puzzolenti e cacciare via tutti. Ma il suo collega, che in pochi giorni aveva imparato a conoscerlo, gli mise una mano sulla spalla. Un tocco forte e deciso, necessario per farlo tornare a ragionare. Erano lì per un motivo preciso.
Avanzarono al centro dell’atrio. Si sentivano osservati. Non ci voleva molto a capire che erano due poliziotti. Percepirono il mormorio delle donne fra un Ave Maria e l’altro.
Corrieri fissò il ritratto di Peppe attorniato da rose e lumini, lo vide sorridente e benevolo, con lo sguardo compassionevole a mo’ di santino e pensò a tutta la gente che aveva ucciso con le sue mani, a quella a cui aveva ordinato di sparare, a quella a cui aveva fornito una siringa piena, a quella che aveva ridotto alla disperazione, a quella che aveva fatto sparire nel silenzio più assordante.
Stavolta fu il turno di Lopresti di richiamarlo all’ordine, un leggero colpetto di gomito per fargli capire che avevano trovato il loro uomo.
Salvatore Cuomo, detto Palletta, li fissava da un angolo del grande atrio, era in piedi a fianco a un ragazzo palestrato con il collo da toro e lo sguardo da stupido bove. Si diressero verso di lui, il ragazzo fece un passo avanti minaccioso ma Palletta lo trattenne. Non era il caso di fare casini in quel momento.
Lopresti si guardò attorno e notò altri ragazzotti di belle speranze del clan di Peppe che controllavano gli angoli dell’atrio e l’accesso dei vari corridoi del reparto. Un servizio di sorveglianza attento e discreto, che consentiva anche di portare avanti quella pagliacciata. Nessun medico o infermiere avrebbe avuto il coraggio di farli sbaraccare.
Palletta andò loro incontro, il viso atteggiato a un composto, profondo dolore. Con aria contrita sussurrò: «Buongiorno. Scusate se mi permetto, ma questo è un momento di raccoglimento per parenti e amici».
Lopresti sorrise, chinò il capo sussurrando anche lui: «Palle’, questo è un ospedale pubblico e se non vuoi che vi facciamo cacciare in mezzo alla strada a calci in culo è meglio che non fai troppo il signore».
Palletta annuì mantenendo l’espressione solenne. Gli altri avevano continuato le loro attività di pianto e preghiera, e anche se non capivano cosa si stessero dicendo non perdevano un istante di quell’incontro.
«Forse è opportuno che troviamo un posto tranquillo in cui parlare» intervenne Corrieri.
«Mi sembra un’ottima idea. Da questa parte». Salvatore Cuomo li precedette come il più scafato e formale dei padroni di casa. Era consapevole di avere tutti gli occhi addosso e soprattutto che atteggiarsi a capo, soprattutto in quel momento, era fondamentale. Aprì senza bussare la porta della sala infermieri, all’interno c’erano due donne che bevevano un caffè e cercavano un attimo di tranquillità dal marasma del loro lavoro. Palletta fece un cenno perentorio con la testa e le due se ne uscirono senza dire una parola, portandosi dietro il caffè.
Salvatore chiuse la porta e si voltò verso i due poliziotti. «E mo’ se può sape’ che cazz vulit’?».
Lopresti sorrise. «Oh, adesso sì che ti riconosco, Palle’».
«Chi è che ha avvelenato Peppe ’o Cardinale?» intervenne perentorio Corrieri che ne cominciava ad avere abbastanza di quelle sceneggiate, e voleva tornare a casa presto.
«Ma quale veleno e veleno… Don Peppe ha avuto un mancamento. Una cosa da niente. Ma la gente gli vuole bene e si è radunata una piccola folla».
«Sì, vabbe’. E Cicciolina è vergine! Palle’, non ci prendere per il culo sappiamo che ’o Cardinale tiene il posto riservato al cimitero. Mo’ se l’è scampata per un pelo, ma se vuoi che continua a restare vivo ci devi dire quello che ci serve».
Salvatore Cuomo non rispose. Fissava un punto imprecisato oltre la spalla di Lopresti.
«Sempre se vuoi che rimane vivo» puntualizzò Corrieri con voce suadente.
L’uomo del clan scosse la testa come se avesse ricevuto uno schiaffo in faccia, come se qualcuno gli avesse letto dentro.
«Certo che voglio che rimane vivo. Io sono affezionato a Don Peppe, gli devo tutto, è un grande uomo». La difesa d’ufficio fu pronunciata con voce debole.
«Noi ne siamo sicuri» continuò Corrieri, «ma se in giro si sapesse che tu hai fatto di tutto per salvarlo, per fermare ’o Schiattamuorto, persino parlare con gli sbirri, allora la gente saprebbe che anche tu sei un grande uomo, e comunque vada a finire questa storia ne usciresti vincitore. Se Peppe si salva, ti sarà debitore. Se invece Peppe, Dio non voglia, va a prendere il suo posto al cimitero, chi più di te, l’uomo fedele e devoto, l’amico sincero e onesto, potrebbe prendere il suo posto? Palle’, mi devi capire, qui non si tratta di fare l’infame e parlare con gli sbirri, si tratta di volere il bene del tuo capo. E fidati, tutti sapranno del tuo sacrificio».
Lopresti era esterrefatto, si trattenne a stento dall’applaudire il suo collega. In quel momento capì finalmente le parole del dottor Taglieri quando gli aveva imposto la collaborazione con Corrieri, e si sentì, ancora una volta, uno stupido.
Palletta, dal canto suo, dapprima ostile e perplesso, aveva annuito con decisione alla fine del discorso. Chillu sbirr sapev i cos’. O sapev fa’ o mestier suo. Sospirò, come chi si prepara a un grande ma inevitabile sacrificio.
«Che volete sapere?».
«Dove sta Michele Tiradritto? E che rapporti ci stanno tra lui e Peppe ’o Cardinale?» chiese rapido Lopresti.
«Mo’ che c’azzecca Michele?».
«Palle’, che fa, ricominciamo da capo? ’Sta storia è cominciata poco prima che Michele uscisse dal carcere. Sappiamo che se n’è scappato a Milano e tu sei appena tornato da lì. Quindi comincia a parlare senza fare altre storie. E poi ricordati: come dice il collega, lo fai per Don Peppe».
Salvatore era soddisfatto. Adesso tutti e due i poliziotti gli avevano dato le rassicurazioni che voleva.
«Se sapevo dove stava Michele Tiradritto sicuramente non stavo qua a parlare con voi, ma stavo a riconsegnare l’anima sua al Padreterno». Accompagnò la frase con un veloce segno della croce con bacio finale.
I due poliziotti si guardarono, il ragionamento non faceva una piega, e onestamente non ci speravano molto sull’avere informazioni in quel senso, ma un tentativo andava comunque fatto.
«Tiradritto e ’o Cardinale?» chiese calmo Corrieri.
«Don Peppe e Michele sono cresciuti insieme da guaglioni. Hanno cominciato con i primi lavoretti nel quartiere. Prima sciolti e poi sono entrati nel sistema, nel clan. E hanno fatto carriera veloce, in particolare Michele».
«E insieme a loro ci stavano anche Vittoriano Esposito, Giovanni Morra, i fratelli Surace e Gennaro Rizzo. Tutti quelli delle lapidi».
«Esatto. Erano venuti su da San Giuliano Campano e si erano fatti strada insieme. E anche quando non erano più solo dei guaglioni, avevano continuato a fare affari insieme».
«Che genere di affari?».
«All’inizio un po’ di tutto. Avevano risolto qualche problema, regalato le scarpe a qualcuno che se le meritava, convinto qualcun altro a non alzare la voce. Poi avevano cominciato con la droga, ma non robetta di piccolo spaccio, quella lo lasciavano agli altri, a gente come me. Loro avevano puntato in grande, non tenevano pacienza e volevano salire in fretta».
Lopresti e Corrieri sapevano che con “regalare le scarpe” Palletta intendeva omicidi su commissione, esecuzioni mirate per ristabilire le gerarchie fra i clan e mantenere l’ordine, ma si lasciarono scivolare addosso quell’informazione, erano concentrati sugli altri traffici del gruppo e non volevano interrompere l’interessante chiacchierata.
«Avevano provato a fare di testa loro e avevano garantito per un grosso carico di cocaina. Una cosa in grande, direttamente del Sudamerica. Tenevano un accordo con un altro clan, gente che come loro stava facendo carriera in fretta. Loro fornivano la droga a prezzo conveniente, gli altri avrebbero provveduto allo spaccio pagando una cifra enorme e cedente un paio di piazze di spaccio. In poche parole si stavano facendo un clan loro, soldi, territorio, droga e armi, avrebbero avuto tutto. Ma poi le cose si sono complicate».
«In che senso?».
«Nel senso che la droga è arrivata, ma non i soldi. L’altro clan non ha pagato la merce e loro si sono trovati senza droga e senza soldi e i Calabresi non hanno gradito».
«E mo’ che c’entrano adesso i Calabresi?» chiese Lopresti.
Palletta lo guardò come se avesse appena detto la più grande delle cazzate. «Ispetto’, ma voi che lavoro fate? Non lo sapete che senza l’appoggio dei Calabresi, certi carichi di droga non si muovono? I colombiani vogliono che ci sia sempre almeno un calabrese a fare da garante. Unico responsabile della faccenda».
«E come hanno fatto quattro ’uaglioni a farsi aiutare dalla ’ndrangheta?».
«Michele. È stato lui. Conosceva qualcuno dall’altra parte che si fidava. Qualcuno che credeva che quel ragazzetto sarebbe diventato un capo e avrebbero potuto fare grandi affari insieme. E che poi è rimasto fregato come tutti».
«E cosa è successo dopo?».
«E che voleva succedere? Un quarantotto. Quando si sono accorti che la droga era sparita e che soldi non ce n’erano, Michele, Don Peppe e gli altri sono andati nel panico. Qualcuno se l’è cantata, raccontando l’affare e l’idea di crearsi un loro territorio e la cosa non è stata presa bene dagli altri clan. I Calabresi hanno minacciato di interrompere qualsiasi carico se non avessero avuto soddisfazione. E alla fine l’hanno avuta».
«Cosa è successo?».
«Il piccolo clan che si era fottuto la droga è stato sterminato».
«E perché non si è venuto a sapere nulla?».
«Perché fu fatto con discrezione. I Calabresi volevano così: soddisfazione, ma non schiamazzi, che non fanno bene agli affari. Gli altri clan si coalizzarono per risolvere il problema. Una cosa fatta in fretta, una decina di omicidi in una settimana. Ognuno di loro fu preso, portato in un posto tranquillo e sistemato. I corpi furono fatti sparire, ma prima scattarono delle foto ai cadaveri. Delle polaroid che furono inviate ai Calabresi per assicurare che si stavano ristabilendo le regole».
I due poliziotti cominciavano a vedere una luce in quell’oscurità.
«E a Michele e gli altri?».
«Loro si erano fatti fregare. Volevano fare carriera, ma non si erano rubati la roba degli altri. Tutto il gruppo disse che era un’idea di Michele. Sua e solo sua. E così i Calabresi sapevano con chi prendersela, ma proprio quando erano pronte le scarpe per Michele, qualcuno se la cantò con gli sbirri su una questione di qualche tempo prima: un guaglione stupido a cui Michele aveva sparato in una discarica abbandonata. Così fu arrestato e incarcerato, e fu pure fortunato. A ogni modo, visto che lui non era più a disposizione se la presero col fratello, gli ficcarono una siringa nel braccio e lo buttarono in una fogna a morire. Non che fosse una grande perdita, quello era già un tossico senza speranza e prima o poi s’ammazzava da solo».
«E quindi dietro questa storia, dietro le lapidi al cimitero, ci sono i Calabresi che vogliono finire il lavoro che non hanno potuto fare vent’anni fa?» chiese Lopresti.
«Questo non lo so. Anche se mi sembra strano. Va be’ che loro portano rancore, ma è passato troppo tempo… e dopo il fattaccio sono stati ripagati dagli altri clan che avevano preso il controllo delle piazze di spaccio degli infami uccisi. E poi questo casino, le lapidi, le sceneggiate, i giornali che parlano… non sono nel loro stile. Sono tarantelle che non fanno bene agli affari».
«E tu come le sai queste cose?» chiese Corrieri secco.
Palletta parve irritato dalla domanda. «Le so perché io non sono l’ultimo arrivato. Non sono l’ultimo dei coglioni. E le so perché quei due deficienti dei fratelli Surace, pace all’anima loro, non si sapevano tenere un cecio in bocca e perché…».
«Perché?».
«Si vantavano di essere stati loro a mettere la siringa nel braccio del fratello di Michele, per conto dei Calabresi».
Lopresti cercò di metabolizzare quella nuova informazione, di incastrare l’ennesimo pezzo di un mosaico che non si voleva comporre. Forse Michele aveva saputo chi aveva ucciso suo fratello? Forse cercava vendetta verso i vecchi compagni? Forse i Calabresi avevano deciso di chiudere un cerchio? Forse dietro al Becchino c’era ancora qualcosa da scoprire, qualcosa che continuava a muoversi fra passato e presente, verità e menzogna?
«Che fine ha fatto Gennaro Rizzo?» chiese con la mente che andava appresso a mille considerazioni.
«E chi lo sa. Sono dieci anni che non lo vede più nessuno. Forse è morto, forse se n’è andato all’America. Di sicuro io non lo so. Ma forse l’unica persona che può saperlo è proprio Don Peppe, che il Signore lo protegga». Palletta si esibì in un altro segno della croce con bacio finale. Ormai stava diventando un professionista.
«Cos’altro ti hanno detto i Surace di questa faccenda?» insisté Corrieri fregandosene della sorte di Gennaro Rizzo, che con un po’ di fortuna magari l’avevano già ammazzato da dieci anni.
«Niente di importante».
«Come sarebbe a dire niente di importante? Ci deve essere qualcos’altro». Corrieri stava perdendo la pazienza.
«No, niente. Punto e basta. È tutto quello che so. Di chi è lo Schiattamuorto non ne ho la minima idea, e onestamente manco lo voglio sapere, sono solo contento che il mio nome non ci sta’ su chill cazz’ ’e lapidi. Ma se proprio lo volete pigliare, lo dovete cercare in mezzo a questa storia di vent’anni fa. Io di più non so, e qui ho finito quello che tenevo da dirvi».
Corrieri era nervoso. La sua perenne calma tanta apprezzata dal collega Lopresti era andata a farsi benedire. Il vecchio imboscato da ufficio era un fascio di nervi, la faccia di un pericoloso rosso fuoco. Non si accorse nemmeno della telefonata ricevuta dal collega, era troppo concentrato su Salvatore Palletta. Occhi negli occhi, a vedere chi abbassava prima lo sguardo.
Lopresti si rintanò in un angolo della stanza per rispondere alla chiamata. Mentre gli altri due si fissavano in cagnesco, lui aprì bene le orecchie a quanto gli veniva detto, mormorò un paio di veloci monosillabi e chiuse la comunicazione. Si girò verso gli altri e… «Palle’… Vattene affanculo dagli amici tuoi. Abbiamo finito».
«Ma come?» disse Corrieri.
«Dobbiamo andare» si scusò Lopresti.
«Be’ allora, tante belle cose. E mi raccomando, su quella questione che ho fatto di tutto per Don Peppe siamo d’accordo?».
«Stai senza pensieri, Palle’».
L’uomo lo squadrò con lo sguardo torvo. «Ispetto’, voi guardate troppa televisione». Si voltò e uscì rapido dalla stanza per tornare al suo carnevale di devozione fatto di fiori marci e lumini da cimitero.
«Ma che t’ha preso?» chiese Corrieri mentre le vene del collo tornavano alla normalità.
«No, a te che t’ha preso? Mi sembravi un matto. Prima fai il diplomatico che con le chiacchiere te lo giri come vuoi, poi ti metti a fare il duro, che a momenti vi prendevate a cazzotti. Amico mio, qua bisogna che ci mettiamo d’accordo su chi fa il poliziotto cattivo e chi fa il poliziotto buono, perché comincio a non capirci più un cazzo».
Corrieri sbuffò con un mezzo sorriso e si passò una mano sul viso sudato. «Hai ragione, scusami. È che ho capito che non ci aveva raccontato tutto, e a me di essere preso per il culo da uno così non mi cala, mi sono ingrippato di nervi».
«“Ingrippato di nervi”? Collega caro, tu guadagni punti a ogni momento che passo con te. Comunque quello che c’ha detto è abbastanza, dobbiamo riferire al capo e darci anche una mossa. Abbiamo altro da fare».
«La telefonata?».
«Abbiamo una pista!».
Corrieri rimase a bocca aperta aspettando spiegazioni.
«Il dottor Taglieri aveva mandato una subdelega di indagini al comandante del carcere per sapere con chi faceva socialità in cella il nostro Tiradritto negli ultimi periodi, e dai registri delle sezioni detentive è venuto fuori che passava molto tempo con uno zingaro, un certo Olban. Uno che sta in un campo nomadi dalle parti di Genova».
«E allora?».
«E allora ce ne andiamo a Genova, colle’. La pista di Milano è bruciata e Annunziati e Morganti se lo pigliano nel culo».
Corrieri era pensieroso. La rabbia e la tensione di qualche attimo prima erano sfumate e adesso sembrava un sacco vuoto pronto ad afflosciarsi.
«Be’, mo’ che t’ha preso?».
«Niente, pensavo a mia moglie. Devo avvertire a casa. Così su due piedi, non lo so se posso».
«Niente se e niente ma. Adesso è il momento nostro!».
Corrieri annuì malvolentieri. Cercò di abbozzare un sorriso ma ne venne fuori solo una smorfia penosa. Lopresti non sapeva che fare, era combattuto fra il compatirlo e il mandarlo a quel paese. Cercò di cambiare discorso.
«E con la promessa fatta a Palletta di spargere la voce in giro come la mettiamo?».
Corrieri si irrigidì come se avesse ricevuto un colpo di frusta. «La mettiamo che a questo stronzo lo arrestiamo il prima possibile».
Domenica, 24 gennaio 2016,
San Francesco
5.
Michele aveva fame. Dolore e stanchezza si erano dileguati lasciandolo confuso e vuoto. Si alzò dal letto sgusciando fuori dalle lenzuola stropicciate. Sentì il pavimento gelido sotto i piedi. Una scossa elettrica che lo fece sospirare. Voleva il freddo, voleva la pelle d’oca che gli saliva lungo il corpo. Qualsiasi cosa pur di riscoprirsi vivo.
Andò in cucina aprendo a caso cassetti e pensili. Fette biscottate integrali, biscotti integrali, pane integrale… tutto integrale. Ma che cazzo, mangiava meglio in galera. Si arrese e addentò una fetta di pane dall’aria gommosa. Boccone dopo boccone capì quanta fame avesse. In quel viaggio mangiare non era stata una priorità e il suo corpo, fra ferite e privazioni, era stato sul punto di crollare. Ma alla fine aveva resistito, era ancora vivo. Sentì un moto di orgoglio farsi strada dentro di sé, fra un morso e l’altro. Finì la prima fetta e addentò subito la seconda. Guardò l’orologio appeso sulla parete, il quadrante era un’immagine stilizzata dello skyline di New York, mille luci e grattacieli, su cui si muovevano le lancette ricordandogli che il tempo passava e lui si doveva dare una mossa. Era quasi l’ora di pranzo e doveva ancora…
«Ma che fai mezzo nudo? Così prendi freddo» disse Yleana con voce acuta.
Era comparsa sulla soglia della cucina e si massaggiava i lunghi capelli castani. Si era infilata di nuovo il pigiama con quegli strambi pupazzetti e le ciabatte azzurre. Michele ebbe una fugace visione del suo corpo, di quell’abbraccio prolungato e dolce che lo aveva strappato al dolore. Di quella notte trascorsa come non avrebbe mai immaginato, dormendo fra le sue braccia, aggrappati l’uno all’altra come naufraghi. Come relitti delle loro stesse vite.
La fissò con lo sguardo stralunato, non capendo se fosse reale o no. Lei non ci fece caso e si avvicinò allegra.
«Vai a metterti qualcosa, io intanto preparo caffè».
Si accostò al suo fianco, più bassa di almeno venti centimetri, e cominciò ad armeggiare con la caffettiera e il rubinetto, ostentando una falsa indifferenza per quello sconosciuto che la stava scrutando. Michele si raddrizzò gettando in un angolo il tozzo di pane avanzato, fece per tornare nella stanza ma lei fu più rapida. Si accostò schiacciandosi a lui, le mani aggrappate ai suoi fianchi, e alzandosi sulle punte gli diede un bacio sulle labbra. Rapido, immediato. Una cosa da ragazzini, un lieve sapore di pesca. Poi sorrise e tornò a riempire la macchinetta del caffè.
Michele non reagì, non sapeva che dire, era tutto troppo distante dalla sua vita perché potesse essere vero. Troppo lontano dagli ultimi vent’anni, dalle perquisizioni, dalla distribuzione del vitto, dalle ore d’aria nel cortile di passeggio. Troppo diverso dal quel futuro che aveva immaginato steso sulla branda perdendosi fra le chiazze di muffa del soffitto.
Entrò nella stanza per vestirsi e, mentre lo faceva, tornò a guardarsi nel grande specchio dell’armadio. Un uomo come tanti che la domenica mattina si veste con calma dopo aver dormito con la sua compagna, intanto che sale il caffè e arriva l’ora del pranzo. E poi le chiacchiere, la partita in TV, il cane da portare a spasso, le rate del mutuo, la macchina da lavare…
Fece una smorfia. Lui non era un uomo normale, non lo era mai stato e di certo non lo sarebbe diventato adesso. E quella che preparava il caffè canticchiando non era la sua compagna, ma solo la puttana di Olban. Si infilò il maglione con rabbia e si passò le mani sulla testa rasata.
Era incazzato. Il dubbio porta debolezza e lui doveva restare forte. Niente incertezze.
Tornò in cucina con piglio deciso e faccia dura. Yleana fece finta di non accorgersene, aveva versato il caffè in due tazzine bianche e verdi, con motivi geometrici e una porcellana immacolata. Doveva essere il servizio per le grandi occasioni, quello da tirare fuori per i clienti più generosi. Michele si sedette al tavolo e bevve con foga.
«Attento, ti scotti».
Lei si era protesa sul tavolo per bloccargli il braccio. I loro volti erano vicini e Michele vide che era realmente preoccupata per lui.
«Ti sei fatto male? Vuoi un po’ d’acqua fresca?».
Tiradritto si sentì vacillare, la realtà andò in pezzi ancora una volta. Il caffè bollente lo aveva scottato ma non se ne rese conto, all’improvviso si sentiva fragile come quella tazzina di porcellana.
Scosse la testa, mentre una voce nella sua mente gli faceva notare che quando lui era entrato in galera lei non era ancora nata.
«Cosa vuoi per pranzo? Ti va bene la pasta con i funghi e le olive?».
Lui alzò le spalle.
«Lo sai che da quando ci siamo alzati non hai detto una parola? Non è bello…». Lo guardava con le braccia conserte facendo finta di essere arrabbiata, ma era evidente che le veniva da sorridere fra una smorfia e l’altra.
Michele era confuso, per la prima volta da tanti anni non sapeva come agire. Il suo mondo fatto di regole e orari era stato sostituito da una realtà fluida e tremendamente imprevedibile. Era convinto di aver messo le cose in chiaro con quella ragazza, l’aveva trattata male, umiliata e offesa. Le aveva fatto chinare la testa davanti a lui. Davanti al boss. Ma poi c’era stata quella notte fra sudore e medicine. C’erano state le urla di Milena che continuavano a risuonargli in un angolo remoto della mente. E c’era stata Yleana a trascinarlo fuori dai ricordi.
Decise di spegnere i pensieri e lasciar perdere quell’inutile parte di sé.
«I funghi non mi piacciono» si limitò a ringhiare.
«Evviva! Tu parli! Parli». Sorrise, divertita. «Se non li vuoi possiamo cambiare. Ti piace la pancetta?».
«Ma come, hai tutto integrale, pane, pasta, biscotti… e poi mi proponi la pancetta?».
«Sììì!!! Ma noi non diciamo nessuno. Segreto di Michele e Yleana!». Adesso rideva.
«Comunque sì. Mi piace la pancetta, anche se dipende tutto da come fai il sugo».
«Bene, allora mi darai una mano».
Michele si alzò lento dal tavolo, come se non fosse sicuro di cosa stesse facendo. Lei intanto si muoveva agile in cucina, aprendo e chiudendo gli stipetti, tirando fuori pentole e padelle, mestoli e coltelli. Agguantò un grembiule verde che era appeso al muro e lo infilò a Michele dalla testa, poi rimase con le braccia al suo collo e lo baciò di nuovo. Stavolta lui la trattenne e ricambiò il bacio. Denso, profondo, profumato. Quando si staccarono lei gli accarezzò la guancia segnata dal tempo e da una barba dura e grigia.
«Dài, cuciniamo che sto morendo di fame».
Si misero ai fornelli, spalla a spalla, ridendo e scherzando. Parlando di tutto quello che gli passava per la testa.
L’orologio alla parete continuava a segnare lo scorrere del tempo.
Lei aveva fatto scuocere la pasta. E lui aveva preparato un sugo eccezionale. Com’era giusto che fosse. Avevano mangiato uno di fronte all’altra, con Yleana che non la smetteva di parlare e sorridere, e Michele che si sentiva galleggiare. Lontano dal passato e dal futuro, rinchiuso e protetto in una bolla di sapone, bellissima, leggera, luccicante, ma fragile e pronta a scoppiare al minimo contatto con la realtà. Ma lì, in quel luogo, in quel momento, la realtà sembrava essersi dileguata e lui non voleva rompere la bolla.
Dopo pranzo lei lo portò in camera facendolo sedere sul letto e sfilandogli il maglione. Gli sciolse delicatamente la fasciatura della spalla stando attenta a non fargli male. Recuperò le medicine lasciate dal dottore, le garze pulite, ovatta e una boccetta di disinfettante. Espose la ferita, i punti incrostati di sangue spiccavano sulla carne martoriata, ma l’aspetto era decisamente migliore del giorno prima. Lei si inginocchiò e cominciò a pulirla. Lui chiuse gli occhi, abbandonandosi alle sue cure. Nonostante il lieve dolore era una sensazione piacevole. Rimasero in silenzio per dei minuti che sembrarono lunghissimi. L’uno di fronte all’altro, con le teste che ondeggiavano, avvicinandosi fino a sfiorarsi. Michele sentiva il suo odore e le mani morbide che passavano sulla pelle. Le parole della ragazza si confusero nella mente e lei dovette ripeterle ancora una volta.
«Dove andrai quando sarai guarito?».
Michele aprì gli occhi fissandola. La ragazza teneva la testa bassa, fra la paura e la vergogna di avere rivolto quella domanda.
«Devo fare delle cose» rispose senza neanche rendersene conto.
«Cosa?».
«Meglio che tu non lo sappia. È meglio per tutti e due».
«Portami via con te!».
La ragazza alzò la testa fissandolo. Michele la guardò e vide nei suoi occhi dolcezza, tristezza, rassegnazione. E un disperato bisogno di trovare qualcuno. Di fuggire, di vivere, di dimenticare e infine abbandonarsi.
«Olban è cattivo, non aiuta mai nessuno. Se ha aiutato te, vuol dire che sei importante, vuol dire che ha paura di te… Se andiamo via insieme, lui ci lascerà andare».
Michele Tiradritto sentì il mondo vacillare un’altra volta. La sua ferrea ossessione, il suo indelebile destino, stavano tremando. Guardò Yleana e capì che si erano incontrati per chissà quale assurdo caso della vita, e si stavano aggrappando l’uno all’altra per sottrarsi alle macerie delle loro vite.
Erano veramente due naufraghi spersi in acque oscure.
Ma il mare e la vita non conoscono sentimenti. La marea sale, le onde si ingrossano e si viene inghiottiti. E alla fine, una lieve increspatura sul pelo dell’acqua è tutto quel che rimane.
Michele si sentì trascinare. Non pensò a nulla ma si lasciò guidare dalla corrente. Stavolta fu lui ad avvicinarsi a Yleana. La baciò lieve. Una carezza, senza passione e senza desiderio. Lei rimase con gli occhi spalancati chiedendosi il senso di quel bacio. Mentre la bolla di sapone che li aveva avvolti svaniva nella realtà.
Il campanello suonò con forza. Un suono prolungato e insistente. E poi due colpi rapidi in successione.
Yleana si irrigidì, gli occhi speranzosi di pochi istanti prima divennero freddi e lontani. Sapeva chi era. Aveva le chiavi, ma suonava sempre per evitare di disturbarla mentre era con qualche cliente.
Si alzò di scatto e si schiacciò in un angolo della stanza come un animale impaurito. La porta dell’appartamento si aprì, passi rapidi in cucina e poi il figlio di Olban si affacciò nella camera. Il ragazzo sorrise maligno vedendo Michele a petto nudo e fissò Yleana che cercava di farsi ancor più piccola contro il muro. A Tiradritto non sfuggì quello sguardo carico di eccitazione e capì che lei non era il divertimento esclusivo di Olban, ma anche del figlio. Vide gli occhi di lei fissarsi sulle grandi mani del ragazzo, che si agitavano nervose. Evidentemente picchiarla era un piacere a cui era difficile rinunciare, e trattenersi non era di certo una delle qualità del giovane zingaro.
L’italiano sentì una vampata dell’antica cattiveria, del vero Michele Tiradritto, salirgli dentro e spazzare via quella giornata assurda fatta di falsa intimità e irrealizzabili fantasie. Percepì l’aria fredda sulla pelle accaldata, lo squallore di quell’appartamento e la paura. La paura di Yleana.
Si tirò su dal letto. Ostentò il proprio corpo ferito, la mascella serrata e le parole dure.
«Che cazzo ci fai qui? I due giorni non sono passati e io non vi ho chiamati».
Il ragazzo fece finta di non sentirlo. Continuava a fissare la moldava, immaginando con gioia la punizione che le avrebbe inflitto.
«Ti ho chiesto che cazzo ci fai qui» ripeté Michele.
Olban junior si voltò spavaldo, pronto a rispondere a tono, ma rimase senza fiato perché la percezione di pericolo fu immediata. Quell’uomo rasato a zero, a petto nudo, con una spalla martoriata e ricucita era pronto a ucciderlo. I suoi occhi erano pozzi neri che non lasciavano adito a dubbi. Adesso la paura di Yleana era diventata la sua paura.
«Mio padre mi ha detto di venirti a prendere» disse docile.
«Perché?».
«Perché hanno telefonato».
«Cazzo significa?».
«Qualcuno ha chiamato mio padre e gli ha detto che la polizia sta per fare una perquisizione al campo, e lì ti hanno visto troppe persone. Qualcuno potrebbe parlare, e potrebbero arrivare fin qui. Devi andare via. Subito».
«Chi ha chiamato?».
«Non lo so e nemmeno mio padre. Ma sapevano che stavi da noi. Lui è già partito e adesso devi partire tu».
Michele si prese un istante per soppesare quelle parole. Un istante per rimettere ogni cosa nella giusta prospettiva, e far tornare la sua vita sui binari che lui aveva deciso.
«Fuori di qui. Tutti e due, mi devo vestire».
Ci fu un attimo di indecisione dello zingaro e di Yleana che non si rendeva conto di cosa stesse accadendo.
«Fuori! Subito!» strillò Michele rabbioso.
I due uscirono in silenzio. Lui si vestì stando attento a non far saltare i punti alla spalla. Recuperò dai vecchi indumenti insanguinati i soldi presi nell’appartamento dell’avvocato, tenne per sé un migliaio di euro, gli altri li infilò dentro la scatola lasciata dal dottore, prese i blister e infilò la scatola nel cassetto del comodino. Tolse la federa a uno dei cuscini e ci ficcò dentro una maglia pulita, le medicine e le bende. Si sciacquò la faccia in bagno, tirò un lungo sospiro e uscì dalla camera.
Il giovane Olban lo aspettava composto vicino alla porta, tenendosi a debita distanza da Yleana. Quel ragazzo era meno stupido del previsto, pensò Michele. La moldava era seduta al tavolino della cucina, lì dove avevano pranzato assieme poco prima. Intrecciava nervosa le dita. Il suo piccolo sogno di libertà era già morto e non le rimaneva altro che rassegnarsi alle botte degli Olban e a inginocchiarsi davanti alla solita schiera di clienti.
Michele non aveva voglia di perdere tempo, certe cose vanno fatte in fretta e per bene.
«Possiamo andare» disse allo zingaro che aprì il portone controllando il pianerottolo.
Lui si avvicinò rapido a Yleana che, con il volto paonazzo e gli occhi rossi, si alzò per salutarlo.
«Grazie per avermi curato e per le medicine che mi hai dato» disse a voce alta in modo che lo zingaro sentisse.
Poi abbracciò la ragazza dandole un bacio fraterno sulla guancia e le sussurrò all’orecchio: «Penso che anche tu dovresti prendere le mie stesse medicine. Sono nel cassetto del comodino».
Lei era confusa.
«Mi hai capito?».
La ragazza annuì con la bocca contratta, stando ben attenta a non scoppiare a piangere o gridare.
Michele raggiunse lo zingaro alla porta, lanciò un veloce sguardo oltre le sue spalle per fissare quell’esile figura e quella massa di capelli castani e infine se ne andò.
Salirono su un’altra macchina. Non la solita Mercedes ma una più discreta. Era una comune Yaris grigia, anche se dal rumore si capiva che il motore era truccato. Uscirono da Genova diretti verso Savona, in pochi istanti Michele perse l’orientamento e onestamente non gliene fregava niente di capire dove si trovasse esattamente. Presero l’autostrada e una sequenza infinita di gallerie illuminò di luci tremolanti l’interno dell’abitacolo.
Tiradritto si lasciò andare sul sedile chiudendo gli occhi, aveva bisogno di non pensare a nulla. Anche solo per cinque minuti, che fossero cinque minuti di nulla assoluto.
«Ti porto fino al confine con la Francia» disse il figlio di Olban.
Michele riaprì gli occhi rassegnato a non avere pace, si rese conto di non conoscere il nome del ragazzo ma decise di non chiederglielo. Non era necessario saperlo. E lui doveva limitarsi solo al necessario. Tagliare i rami secchi e tutto quello che lo rallentava, appesantiva o distraeva dal suo obiettivo. Tutto. Ogni maledetta cosa.
«Quanto ci mettiamo ad arrivare?».
«Due ore per il posto che dico io. Superiamo il confine, tu scendi e io torno indietro, ché come minimo la polizia adesso sta già devastando il mio campo per cercarti».
C’era dell’astio nelle parole del ragazzo, ma a Michele non gliene fregava niente e tantomeno si sentiva in colpa. Anzi il desiderio di picchiare quello stronzetto che si divertiva a spaventare Yleana tornò a farsi strada prepotente dentro di lui.
«Tuo padre ti ha dato qualcosa per me?».
«Nel cruscotto».
Michele aprì. Era avvolta in uno strofinaccio da cucina. Una pistola, calibro 9, matricola abrasa, calcio consumato e rigato. Dava l’impressione che invece che per sparare l’avessero usata per piantare chiodi. Una merda, ma si doveva accontentare. Con il pollice schiacciò il pulsante sul calcio, proprio sotto la sicura, e tirò fuori il caricatore. Un rapido sguardo di traverso. Pieno. Quindici pallottole. Ottimo. Almeno questo andava bene.
Andò oltre. Insieme al ferro c’era una bustina di plastica trasparente con un portadocumenti di finta pelle. Dentro c’era una carta d’identità consumata e lisa, intestata a tale Lorenzo Bacchi, impiegato di Avellino. Altezza, occhi e capelli corrispondevano, ma Lorenzo Bacchi non aveva un volto.
«E con questa che cazzo ci dovrei fare?».
«La foto dovevamo farla domani quando non avresti più avuto quella faccia da cadavere, ma non c’è stato tempo. Tranquillo, non è niente di grave. La carta è buona, originale, ti fai una fototessera in Francia alle macchinette automatiche. Nel portadocumenti ci sono anche i bulloncini di rame che usano i Comuni per fissare le immagini alla carta. E c’è pure la pellicola adesiva da mettere sulla foto. Se ti impegni fai un bel lavoretto artigianale anche da solo. Non è il massimo, ma per girare in Francia basta e avanza. Mi raccomando, stropicciala un po’, sennò sembra troppo nuova».
Michele non era per nulla convinto ma non aveva scelta. D’altra parte, mica gli serviva per imbarcarsi su un aereo. Quella del volo per la Spagna era solo una stronzata che si era inventato a beneficio dell’avvocato e delle sue troppe chiacchiere. Il suo obiettivo era sempre stato un altro e adesso si stava avvicinando.
Avvolse di nuovo pistola e documenti nello strofinaccio da cucina e lo infilò nella federa che aveva preso da Yleana.
Una volta in Francia doveva cercare di darsi una ripulita, se non voleva essere scambiato dalla polizia per un barbone e farsi fermare ogni cinque minuti. Doveva darsi un tono in attesa del gran finale.
Si lasciò andare tirando un lungo sospiro e finalmente si rilassò. Il buio avvolgeva ogni cosa e aveva un che di rasserenante, come se il non poter vedere troppo in là fosse un vantaggio. Un’impalpabile protezione in attesa del futuro. Il ragazzo accese la radio e senza dirselo i due passeggeri decisero che non si sarebbero più parlati sino all’arrivo.
La macchina procedeva spedita verso il confine.